Intervista a Marco Garzonio
L’educazione sentimentale e affettiva dei sacerdoti: un argomento importante e difficile. A esso è dedicato il libro curato da Marco Garzonio per le Edizioni San Paolo: Il cuore dei preti (2010, pp. 128, E 11,00), una raccolta di interventi coordinata da Garzonio, psicoanalista e psicoterapeuta. Accanto a un suo saggio troviamo quelli di Giovanni Barbareschi, Romano Martinelli, Gino Rigoldi, Ermes Ronchi e Fulvio Scaparro. La prefazione è firmata dal cardinale Carlo Maria Martini.
L'idea di scrivere questo volume nasce dalla constatazione di un problema. Nell'introduzione Garzonio sottolinea ilt suo disagio di fedele laico, che nel frequentare la chiesa e nella pratica religiosa ha avuto più di un'occasione «di riscontrare negli uomini di Dio una lontananza emotiva, una difesa. Buona collaborazione, anche, ma modalità ingessate nel porsi e nell'accogliere, un muoversi con il freno a mano tirato». Un atteggiamento di fondo che è il sintomo di un disagio spesso profondo, fatto di solitudine, di isolamento, dell'incapacità di lavorare insieme di tanti preti. Il libro vuole dunque essere una riflessione su questa complessa tematica.
Dottor Garzonio, qual è il primo problema che emerge nei preti sulla sfera dell'affettività e della relazione interpersonale?
«L'atteggiamento spesso prevalente è un tenere le distanze, un aver paura di esprimere apertamente i propri sentimenti. II timore che l'espressione di un affetto o anche un contatto fisico nella quotidianità della vita di parrocchia possa essere male interpretato. Cioè un atteggiamento caratterizzato da un porsi sulla difensiva. C'e il pregiudizio che amare qualcuno più di qualcun altro possa ledere un atteggiamento di equidistanza. Ma per poter amare tutti, bisogna amare in maniera più forte alcuni, le persone della propria cerchia più stretta, come spiega bene don Gino Rigoldi nel suo intervento. Ad amare si impara nella concretezza di situazioni determinate, non in astratto. Le amicizie sono una necessità per le persone, non un lusso. Invece l'ossessione dell'equidistanza genera freddezza emotiva».
Il problema sta forse a monte? In altre parole: nei seminari e nelle case di formazione si da sufficiente rilievo alle problematiche della dimensione relazionale e affettiva?
«Nella Chiesa è insufficiente la formazione affettiva. L'atteggiamento di fondo su questo tema è di tipo difensivo. Magari si proclama a parole la bellezza dell'amore, ma a vivere l'amore nella quotidianità le persone non vengono adeguatamente preparate».
C'è ancora diffidenza nei confronti del sesso femminile?
«Quella della donna e una presenza provocante, nel senso che provoca una risposta. Se non siamo preparati, non riusciamo a dare una risposta matura. Ma questo non riguarda soltanto i seminaristi o i preti, bensì anche molti giovani e molti uomini che non hanno nulla a che fare con
Qual è la soluzione?
«Si tratta, per usare una formula sintetica, di "erotizzare i rapporti". Cioè: mettere calore nello stare con se stessi e con gli altri; costellare l'esperienza quotidiana con i nomi dell'affettività, del sentimento, del cuore, dell'ascolto, dell'affidamento, della naturalezza. Riconciliarsi, insomma, con il "femminile", cioè con quella parte psichica che non è componente esclusiva delle donne, ma è patrimonio dell'essere umano, maschi compresi».
Ma concretamente come si fa?
«Un'ipotesi, già sperimentata con successo (purtroppo ancora in pochi casi), è quella di creare delle piccole comunità magari composte non solo di sacerdoti ma allargate anche a nuclei familiari con bambini e giovani. Questo può dare una mano nel coltivare la naturalezza dei rapporti quotidiani e nel semplificarli. Perché a stare troppo soli si finisce con il rattrappirsi. Vivere l'amore non comporta di necessità entrare nell'attrazione del sesso, e magari praticarlo. La purezza, lo stato psichico cui porta la purificazione, è figlia di una relazione, non dell'astinenza. Si è puri per amore, non a causa di privazioni».
Lei ha toccato un altro tema importante: la solitudine dei preti.
«La situazione di solitudine è un problema sociologico degli ultimi decenni. In passato i preti erano più numerosi, nella stessa parrocchia erano in molti, poi accanto al singolo prete c'era la perpetua, magari c'era la mamma. Oggi su un solo sacerdote grava la responsabilità anche di più parrocchie. Le giornate sono costellate di impegni, il tempo che avanza per se stessi è scarso. Ed è poco anche il tempo per coltivare delle sane relazioni di amicizia. Questa pressione lavorativa genera stress: fare tante cose, in luoghi diversi, con tempi contigentati. Preti sempre più manager e sempre meno curatori di anime. In tale situazione il peso della solitudine diventa insopportabile».
La rimozione, nella legge canonica, del vincolo del celibato per i sacerdoti potrebbe essere un'altra soluzione?
«Non porrei la questione in termini assoluti. Il celibato liberamente scelto è una grande ricchezza che andrebbe comunque mantenuta come opzione, anzi come l'Opzione con l'iniziale maiuscola. Personalmente, vedrei bene che si approfondisse la ricerca intorno a un'ipotesi come quella praticata nell'ambito della Chiesa ortodossa, in cui i futuri sacerdoti scelgono se sposarsi o se rimanere celibi. La cosa positiva è che negli ultimi anni la discussione di questo argomento nella Chiesa cattolica non sembra più essere un tabù com'era fino a non molto tempo fa».
Prima lei accennava ai comportamenti devianti. Le cronache degli ultimi mesi hanno messo in luce, e anche enfatizzato, il problema della pedofilia di alcuni sacerdoti. Eliminare il celibato ecclesiastico potrebbe aiutare a evitare questi casi?
«Qualcuno lo ha ipotizzato, ma è una pura follia. La pedofilia è una perversione, che tra l'altro riguarda spesso persone "insospettabili", anche padri di famiglia, come le cronache evidenziano. Non di rado si tratta di persone che operano violenze a loro volta subite da bambini. Vere tragedie umane. L'idea di "curare" la pedofilia con il matrimonio è assurda. Va ribadito ancora una volta: non c'ê relazione tra celibato e comportamenti devianti di questo tipo».
L'altro tema oggi molto dibattuto e quello dell'omosessualità. Negli ultimi anni sono state fissate regole più restrittive per l'ammissione al sacerdozio di candidati omosessuali. L'omosessualità può essere un problema che impedisce di vivere in maniera serena ed equilibrata l'essere prete?
«Non direi l'omosessualità in sé. Perché qui poco cambia: il problema del celibato resta tale sia nel caso di un candidato sacerdote eterosessuale che in quello di un omosessuale. Il problema che forse l'ambiente della formazione al sacerdozio non aiuta il discernimento in questo senso. Se un ragazzo ha un'omosessualità latente non trova in seminario il contesto migliore per farla emergere, elaborarla e gestirla. Anzi, magari si crea una rimozione che esploderà in futuro in modi inaspettati».
«Non lo fa in maniera adeguata. C'e ancora diffidenza. Certo, ci sono state aperture nei confronti di queste discipline, ma l'atteggiamento è ancora profondamente ambivalente. Perché sia la religione che la psicoanalisi si interessano alla stessa cosa: l'anima. E al lavoro sull'anima è legato anche, diciamo cosi, un problema di potere. In tal modo si rischia di andare su un terreno conflittuale, laddove invece è molto utile e proficua una collaborazione e, in taluni casi, un'intesa. Anche per il mestiere che faccio non posso non invocare un ricorso maggiore alle competenze di carattere psicologico nell'educazione dei giovani preti e nella formazione permanente di chi ha preso gli ordini sacri».
di Roberto Carnero
Vita Pastorale n. 7/2010