Raghada al-Wafi cammina spedita per le vie del quartiere Karrada, sulla sponda del Tigri che guarda il cuore corazzato di Baghdad, la Green Zone. L’accompagna suo marito, è contenta, sorride. E’ il 31 ottobre e sono sposati da poco più di un mese, ma hanno già una notizia da portare a padre Thair Abdallah, il prete trentenne che li ha uniti in matrimonio: Raghada aspetta un bambino. Vanno verso Nostra Signora del Perpetuo soccorso, la grande chiesa del quartiere, sul cui ingresso veglia un’enorme croce coperta giusto da un velo di cemento che poi si allarga lungo i fianchi dell’edificio.
Alla messa della domenica pomeriggio ci sono duecento fedeli, comprese una famiglia caldea e una ortodossa. Padre Wasim confessa vicino all’ingresso, all’ombra delle massicce porte di legno. Il confratello, l’anziano padre Rafael Qusaimi, sta dando le ultime istruzioni al coro prima della celebrazione.
Inizia il canto e padre Thair sbuca alla destra dell’abside, diretto a passi svelti verso l’altare. E’ la prima domenica dell’anno liturgico, la giornata per la santificazione della chiesa. Benedice i fedeli col segno della croce e scandisce le formule del rito siro-cattolico. Una voce fa risuonare le letture nella sala lunga e quasi spoglia. Lettera agli Ebrei 8, 1-12: “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele e con la casa di Giuda un’alleanza nuova; (…) porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”. Matteo 16, 13-20: “‘Voi chi dite che io sia?’. Rispose Simon Pietro: ‘Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente’. E Gesù: ‘Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa’”.
Sono le cinque e un quarto e padre Thair sta per finire la predica, quando fuori dalla chiesa una raffica di mitra rompe il silenzio. Il sacerdote prova a tranquillizzare i fedeli, gli spari non possono che essere rivolti a qualcun altro, non c’è nulla da temere. La sparatoria continua, ma lui vorrebbe farla passare per una cosa ordinaria; normale amministrazione per un paese che da anni non ha orecchie che per i rumori della guerra. Una forte esplosione, vicino al portone. I fedeli sono terrorizzati, vorrebbero scappare ma non c’è via di fuga. “Alziamoci, preghiamo insieme”, urla padre Thair che fatica a credere alle sue rassicurazioni. Non può saperlo, ma vicino alle porte della chiesa c’è un commando armato che sta assaltando la sede della Borsa di Baghdad. Una bomba a mano ha ucciso due delle guardie che sorvegliano il palazzo, che era rimasto chiuso e deserto per tutta la giornata. Le altre guardie rispondono al fuoco, ferendo uno degli assalitori, che è trascinato via dai compagni lungo il sagrato della chiesa. Indietreggiano coi mitra spianati e le spalle alla facciata, uno di loro innesca l’esplosivo con cui hanno riempito la Jeep Cherokee nera parcheggiata davanti alla chiesa. L’auto scoppia in una nuvola di polvere e le guardie di sicurezza sono disorientate. Credono di avere appena respinto un attacco alla Borsa e invece sono soltanto esche usate per richiamare l’attenzione: il trampolino verso un azzardo di scala maggiore.
Padre Wasim tenta di tenere serrato il portone di legno all’ingresso, ma è sbattuto indietro dal commando di uomini armati, che entra nella chiesa a volto scoperto, con l’uniforme dell’esercito iracheno – un inganno classico del repertorio jihadista: nella regione di Arab Jabour, fuori Baghdad, giusto lo scorso 3 aprile un gruppo di finti militari ha sterminato 25 membri dei Consigli del risveglio che si erano fidati di loro. Dalla parte opposta, dietro all’altare, i confratelli di Wasim stanno spingendo più fedeli possibile verso la sacrestia per salvarli dall’attacco. “Lasciate stare loro, prendete me!”, urla padre Wasim, che riceve subito una pallottola nel petto. Quello che lo ferisce non sa nemmeno a chi spara. Il sacerdote accusa il colpo portando le mani giunte al petto e l’uomo si gira verso un compagno che gli sta al fianco: “Questo chi è?”. “E’ un prete”, risponde l’altro, e scarica una raffica sull’agonizzante padre Wasim.
“Lasciateli stare, prendete me!”, grida anche padre Thair dall’altare mentre corre verso il fondo della chiesa. Vuole proteggere la sua gente, forse – dicono i testimoni – vuole convincere gli uomini armati a pregare assieme, scongiurando il massacro. Si sa soltanto che anche lui è finito in un istante e che muore tra le braccia incredule di sua madre.
Padre Rafael strepita indicando le porte della sacrestia, alla destra dell’altare. Si dibatte e riesce a portare con sé una settantina di fedeli prima che il pugno di terroristi si scagli rabbioso contro le porte. Ma le porte resistono e gli assalitori respinti trovano un’alternativa: lo stanzino ha una finestra senza vetro, in alto, che dà sull’esterno e lanciarci attraverso qualche bomba a mano è quasi divertente per i giovani carnefici. La scheggia di una granata colpisce padre Rafael, ferendolo gravemente all’addome. Altri vengono colpiti dai proiettili che filtrano attraverso la porta. Una donna chiude il figlio di cinque mesi in un cassetto, salvandolo dall’attacco. La madre di padre Thair non può saperlo, ma sta per perdere anche l’altro figlio, che l’aveva accompagnata a messa. I terroristi fanno sdraiare tutti a terra, presto, a parte i maschi giovani: devono restare in piedi. Poi li uccidono, uno ad uno.
Se non fosse per il loro colore sabbiato, le architetture pulite di Nostra Signora del Perpetuo soccorso sembrerebbero installazioni aliene rispetto ai palazzi squadrati attorno. La croce imponente sopra la facciata svetta con facilità tra le case basse, ricordo di un tempo in cui Baghdad era una città multiculturale che accoglieva la gente di tutto l’Iraq. Il Tigri accarezza il quartiere di Karrada su tre lati, facendolo diventare una penisola sciita a forte presenza cristiana nel cuore della città. Per arrivare alla Green Zone basta attraversare il fiume, ma le forze speciali irachene non hanno raggiunto la chiesa prima delle sei di sera, quarantacinque minuti dopo l’attacco. Nel frattempo, dentro, il commando armato tiene in ostaggio i sopravvissuti e impone il silenzio sparando al primo segno di movimento. Tra i jihadisti almeno tre sono ragazzini, tra i quattordici e i quindici anni. Ognuno veste una cintura esplosiva – con sfere di metallo per aumentare il potenziale letale – e dispone di mitra e bombe a mano. Il governo dirà che erano cinque, non iracheni, e che sono morti durante l’attacco. La prova schiacciante della loro provenienza da fuori sarebbero i cinque passaporti (tre yemeniti e due egiziani) trovati tra le macerie, ripulite il giorno dopo in tutta fretta mentre l’esercito blindava l’ingresso delle chiesa perché nessuno potesse vedere lo scempio. I testimoni confermano che non tutti gli assalitori erano iracheni, perché quasi tutti parlavano l’arabo classico che si usa tra arabi di nazionalità diverse e non nel dialetto nazionale. Dalla parlata sicuramente c’erano egiziani e anche un siriano. E’ un particolare rilevante, visto che la strategia irachena di al Qaida è comandata dalle zone a cavallo del confine siriano, dove operano i vertici della rete terroristica come Abu Khalaf, il comandante militare ora ucciso, e il gran ideologo, lo “sceicco” settantenne Issa al Masri. Issa, che in arabo è: Gesù.
I racconti, però, parlano di otto persone e di almeno un’altra che dirige le operazioni dalla terrazza che circonda il tetto della chiesa. Forse sono ancora di più, a giudicare dall’operazione con cui, quasi un mese dopo (sabato 27 novembre), le forze di sicurezza irachene arresteranno una cellula di al Qaida nel quartiere di al Mansour, a Baghdad (sono dodici, hanno materiale tossico, sei tonnellate di esplosivo e confessano di essere coinvolti nell’attentato del 31 ottobre). Il piano iniziale doveva essere diverso: nella sua irruzione, il commando jihadista ha portato con sé quattro valigie di esplosivo, che avrebbero dovuto mettere attorno alle fondamenta della chiesa, per farla esplodere uccidendo tutti i duecento fedeli accorsi alla messa domenicale. Perché le cose non sono andate come previsto è un segreto che i cinque terroristi si sono portati nella tomba, o forse è sepolto nella mente dell’estraneo vestito in abiti civili che un guardiano giura di aver visto uscire dalla scuola adiacente alla chiesa. I sopravvissuti raccontano che verso la metà dell’assedio uno dei terroristi ha chiamato qualcuno all’esterno con un walkie talkie. “Abbiamo finito i proiettili, cosa facciamo?”. Un aggiornamento veloce, con un esito sinistro: “Va bene, allora da adesso usiamo le bombe”.
I terroristi si sentono al sicuro all’interno della chiesa, nonostante l’assedio dell’esercito iracheno e il ronzio sordo degli elicotteri americani che controllano la situazione dall’alto, impotenti. Sono talmente a loro agio da concedersi prima il maghrib, la preghiera del pomeriggio, e poi l’‘ishà, quella della sera, in mezzo alla chiesa e ai corpi delle loro vittime.
Le Forze armate all’esterno aspettano non si sa che cosa, perché è chiaro a tutti che non ci sarà alcun tentativo di mediazione da nessuna delle due parti. Un dipendente (laico) della curia di Baghdad che si era precipitato sul luogo dell’assedio appena aveva saputo cerca di rendersi utile. E’ determinato, vuole fare fruttare la sua conoscenza dettagliata della pianta dell’edificio per sbloccare la situazione. Ma è poco fortunato e, quando prova a offrirsi come aiuto per i militari, ottiene soltanto un secco “questo è affar nostro, non ci serve il tuo aiuto, vattene via”. Un trattamento simile a quello ricevuto poco prima da un uomo che aveva implorato i militari di fare qualcosa per salvare sua moglie e i suoi due figli, un ragazzo e una ragazza, chiusi dentro la chiesa. I soldati lo respingono con forza, per poi restare immobili, in un’attesa di quasi tre ore.
Cala la sera. I muri di Nostra Signora del Perpetuo soccorso si arrossano, per poi sfumare delicatamente verso il nero. L’assedio è sospeso in un tramonto irreale e reso torbido dalla foschia, per tutto il tempo che corre dall’arrivo dell’esercito iracheno al blitz finale per provare a liberare gli ostaggi. Spari episodici rompono il silenzio, scandendo il ritmo del confronto a distanza. Nessuna delle due parti studia l’altra, perché non serve: si attende, finché non sarà il momento giusto per recitare il finale già scritto. I terroristi sparano a chiunque si avvicini a un cellulare, come dimostrano le ferite di due ragazze, colpite alla mano e al braccio quando i telefonini vicino a loro avevano iniziato a squillare. Sparano al primo rumore sospetto e i bambini che non si decidono a tenere per sé le lacrime sono finiti all’istante. Gli arredi scarni della chiesa sono crollati e, tra i corpi stesi, i morti restano accatastati con i vivi. Una ragazza raggiunta dall’agenzia Agi ha raccontato: “Un lampadario mi era crollato addosso, bloccandomi il fianco. Avevo le schegge di vetro conficcate nella pelle, un piede di un uomo sulla testa e il corpo di una ragazza che mi premeva il petto, inondandomi col sangue che colava dalle sue ferite”. Mentre sentiva i proiettili sfiorarla radenti, è riuscita a chiamare la sua famiglia che la aspettava a casa: “Ero certa di morire e volevo salutarli, dire loro per l’ultima volta ‘vi voglio bene’”. Qualcuno del commando spara sulle stufette dell’aria condizionata, per asfissiare con il loro gas chi è sdraiato nelle vicinanze.
Il crocifisso diventa un bersaglio per i proiettili: i terroristi lo crivellano di colpi, raccontano i sopravvissuti, urlando sprezzanti: “Su, ditegli di salvarvi!”. “Siete infedeli – infieriscono i jihadisti – siamo qui per vendicare il rogo dei corani e le donne musulmane messe in carcere in Egitto”. Si riferiscono alla notizia, smentita persino dai Fratelli musulmani ma usata come pretesto da al Qaida per l’offensiva contro i cristiani, secondo cui la chiesa copta egiziana avrebbe rinchiuso in un convento Camilia Chehata e Wafa Constantine, mogli di due sacerdoti copti, come punizione per la loro conversione all’islam.
Quando finiscono le pallottole, la granata di un terrorista mette fine per sempre anche alla vita di Raghada e del bambino che porta in grembo. Secondo la versione di alcuni testimoni, la donna avrebbe trovato la morte nell’abbraccio letale di uno dei terroristi, che l’avrebbe presa con sé per poi farsi esplodere. Neanche il marito vedrà l’irruzione dell’esercito iracheno, che comincia a caricare compatto dall’ingresso principale, ennesima dimostrazione della debolezza strategica di militari impreparati e mal guidati (volutamente, aggiungono velenosi i sopravvissuti). “I marine sono più intelligenti”, fa notare padre Giorgio Jahola, un sacerdote di Mosul che sta curando l’assistenza dei feriti che sono stati affidati al Policlinico Gemelli, a Roma, “tutto il perimetro della chiesa è circondato da finestre, a cui si può facilmente accedere dalle terrazze. Gli ingressi laterali erano solitamente ostruiti dai T-wall in cemento (le barriere prefabbricate per ripararsi dalle esplosioni, nda). Ma, stranamente, le autorità le avevano fatte togliere proprio nei due giorni precedenti all’attacco, quindi c’erano altri passaggi disponibili”.
I terroristi erano pronti: avevano già recitato la preghiera del martirio (“Allah Akbar, Allah Akbar, la ilaha illallah”, “Allah è il più grande, Allah è il più grande, non c’è Dio eccetto Allah”) ed erano decisi a farsi esplodere. Due ci sono riusciti, un terzo è stato bloccato dai militari iracheni quando, alle 21.05, hanno staccato la corrente elettrica e una voce ha urlato: “Siamo le forze irachene, alzatevi e state tranquilli: vi salveremo”. Il blitz non sarà ricordato tra i più fulminei della storia: uno scambio di proiettili durato venti minuti, fino alle 21.25, per liberare lo spazio della chiesa e dello stanzino annesso usato come sacrestia. Alcuni sopravvissuti raccontano di avere visto soldati americani sul posto ma non è un testimonianza del tutto affidabile: anche le forze speciali irachene agiscono a volto celato e hanno equipaggiamenti lasciati dall’esercito degli Stati Uniti dopo il ritiro, è molto facile confonderli. L’accesso alla chiesa è stato subito bloccato e, nel disordine dei soccorsi, i parenti hanno iniziato a dividersi freneticamente tra gli ospedali, sperando di trovare i loro cari ancora in vita in qualche pronto soccorso. Dentro e attorno alla chiesa ci sono 58 morti, esclusi gli attentatori.
Il martedì successivo le donne vestite di nero accompagnano sette bare avvolte con orgoglio nella bandiera irachena. Il ministro dei Diritti umani, il cristiano Wijdan Mikheil, è alla cerimonia assieme con il leader politico sciita Ammar al Hakim, che ha il viso rigato dalle lacrime. Il fumo dell’incenso impregna l’aria, mentre oltre settecento persone salutano per l’ultima volta i feretri coperti di fiori che dondolano avanzando lentamente verso l’altare. Due di loro custodiscono i corpi di padre Thair e padre Wasim. Ancora qualche istante e saranno sepolti insieme per sempre nel cimitero che sta sotto la loro chiesa, povera e straziata.
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