Chi vive in questo momento storico ha il privilegio di assistere  al crollo della civiltà occidentale. Un fatto rarissimo, paragonabile  alla fine dell’Impero romano. Con la differenza che questo si è svolto  in un arco temporale di settecento anni, mentre il crollo della nostra  civiltà si compierà in meno di trenta.
 Dal momento che un cambiamento radicale, di fronte a quel crollo e alle  sue conseguenze, è una necessità assoluta, la scelta di una società  della «decrescita» rappresenta una sfida che vale la pena di cogliere  per evitare una brutale e drammatica catastrofe. Decrescita è uno slogan  che raccoglie gruppi e individui che maturano una critica profonda  dello sviluppo e sono interessati a individuare gli elementi di un  progetto alternativo per una politica del doposviluppo. Il progetto  della società della decrescita ha cominciato a essere formulato negli  anni settanta (anche se il termine decrescita è stato introdotto solo di  recente all’interno del dibattito economico, politico e sociale), da  teorici come Ivan Illich, André Gorz, François Partant e Cornelius  Castoriadis. Le sue radici si perdono nel primo socialismo e nella  tradizione anarchica rinnovata dal situazionismo.
 L’utopia della decrescita è un progetto articolabile sul circolo  virtuoso delle cosiddette otto «R», otto parole d’ordine: rivalutare  (prima di tutto la sobrietà), ridefinire (la scarsità e l’abbondanza, il  pubblico e il privato, le idee e le pratiche educative), ristrutturare  (il sistema produttivo, costruendo cose più utili e non nocive),  ridistribuire (l’Occidente rappresenta il 20 per cento della popolazione  mondiale ma consuma l’86 per cento delle risorse naturali, occorre  dunque ridistribuire la terra, il lavoro, il reddito di cittadinanza…),  rilocalizzare (la produzione e quindi i trasporti, ma per farlo occorre  prima di tutto pensare globalmente e agire localmente), ridurre (la  nostra «impronta ecologica», gli orari di lavoro, gli sprechi, i consumi  di energia), riutilizzare (per risparmiare risorse naturali e creare  posti di lavoro), riciclare (ciò che non è possibile riutilizzare). Se  condividiamo l’intuizione di Cornelius Castoriadis, secondo il quale la  «rivoluzione è volontà deliberata di trasformazione della società, è  partecipazione», allora, il progetto di società della decrescita e delle  otto «R» è realmente rivoluzionario.
 La decrescita, dunque, è una sfida globale, ma il posto dove possiamo  agire fin da ora è il locale. Questo implica due aspetti: inventare la  democrazia ecologica locale, cioè organizzare la città in entità  spaziali nelle quali le persone si sentono legate da un sentimento di  appartenenza (un villaggio, una città, una provincia, una regione), e  ritrovare l’autonomia economica locale (le otto «R»), che non significa  certo autarchia.
 Quando si parla di localismo scatta sempre il timore che il locale sia  un luogo chiuso, arretrato che favorisce una forma di idealismo  dell’identità. Ma con internet e la tv viviamo in un villaggio globale,  l’identità come era intesa un tempo non esiste più. Oggi abbiamo perfino  la possibilità di scegliere l’«identità»: io ad esempio sono bretone,  ma al tempo stesso francese, italiano d’adozione, un po’ africano,  cittadino del mondo. I bretoni per altro sono probabilmente celtici,  ma  la mia cultura è più latina, mediterranea. Abbiamo tutti delle identità  plurali e mai definitive. Per questo bisogna pensare alla sostituzione  del sogno «universalistico», con un «pluriversalismo», come lo chiama il  filosofo indiano Raimon Pannikkar, necessariamente relativo.
Nella prospettiva del «pluriversalismo», la realizzazione di  iniziative locali democratiche è un’ipotesi più realistica di quella di  una democrazia mondiale. Se è escluso che non si possa rovesciare  frontalmente la dominazione del capitale delle potenze economiche, resta  infatti la possibilità di scegliere la dissidenza. È, ad esempio, la  strategia adottata dagli zapatisti e dal subcomandante Marcos: la  riconquista o la reinvenzione dei commons e l’autorganizzazione della  bioregione del Chiapas, secondo l’analisi di Gustavo Esteva,  rappresentano un possibile esempio di strategia locale dissidente.
 Anche in molte città europee si assiste al fiorire di una miriade di  reti e organizzazioni dissidenti, a cominciare dalle associazioni senza  scopo di luco, o almeno non esclusivamente a scopo di lucro: imprese  cooperative in autogestione, comunità neorurali, Lets (Local exchange  trading system), Sel (Système d’éxchange local), banche del tempo,  Gruppi di acquisto solidale (Gas), comitati di quartiere, banche etiche,  movimenti per il commercio equo e solidale… Si tratta di università  popolari che mirano a questo obiettivo: armarsi per resistere e  decolonizzare l’immaginario. Fanno parte di quella che il filosofo e  pedagogista statunitense, John Dewey, definisce democrazia creativa.
 Insomma la situazione attuale, nonostante tutto, può essere l’occasione  per la fioritura di tante iniziative «decrescenti» e solidali, come  quelle della città di Roma segnalate in questa guida: Gas, sistemi di  scambio locali, organizzazioni che favoriscono il riciclo e  l’autoproduzione, associazioni culturali, ecc.
 Istituzionalizzare invece i programmi di decrescita attraverso  l’esistenza di un partito politico, come suggeriscono alcuni,  rischierebbe di farci cadere nella trappola della politica politicante,  quella che comporta l’abbandono, da parte degli attori politici, della  realtà sociale, e la chiusura nel gioco politico. La decrescita è invece  un progetto politico nel senso forte del termine, quello della  costruzione, nel Nord come nel Sud del mondo, di società conviviali  autonome e sobrie. Ma il lavoro di auto-trasformazione in profondità  della società e dei cittadini a noi sembra più importante delle scadenze  elettorali. Del resto nel migliore dei casi, i governi non possono che  frenare, rallentare, addolcire i processi sui quali non hanno più  controllo, se vogliono andare controcorrente. Esiste una «cosmocrazia»  mondiale che, senza decisioni esplicite, svuota la politica della sua  sostanza e impone le «sue» volontà. Tutti i governi sono, volenti o no, i  «funzionari» del capitale. E i politici, anche dell’opposizione, non  possono sfuggire alle trappole della politica-spettacolo.
Ovunque gli obiettori della crescita oppongono al terrorismo della  cosmocrazia e dell’oligarchia politica ed economica dei mezzi pacifici:  nonviolenza, disobbedienza civile, boicottaggio e, naturalmente, le armi  della critica. La grande sfida del movimento del commercio equo e  solidale, ad esempio, è mirare alla propria distruzione, nel senso che  dovrebbe contribuire prima di tutto alla ricostruzione delle socialità  distrutte del Sud del mondo e incoraggiare la riconversione delle  colture speculative destinate al commercio mondiale in colture  alimentari necessarie all’alimentazione delle popolazioni locali  affamate. Allo stesso modo, dovrebbe incitare l’artigiano a rispondere  ai bisogni di clientela del vicinato piuttosto che esportare  paccottiglia per occidentali presi dall’esotismo.
 La fioritura di numerose iniziative più o meno «decrescenti» e solidali,  di certo aiuta a rimettere in discussione il dominio dell’economia sul  resto della vita, ma soprattutto nelle nostre teste. Ciò deve comportare  un’aufhebung (rinuncia, abolizione e superamento) della proprietà  privata dei mezzi di produzione e dell’accumulazione illimitata di  capitale, ma anche a un abbandono dello sviluppo e dei suoi miti  fondatori. Tuttavia questa trasformazione non passa per delle  nazionalizzazioni né per una pianificazione centralizzata, ma appunto  per azioni, magari contraddittorie, ma «decrescenti» e solidali.
 Marcel Mauss, anni fa, vedeva nelle esperienze alternative o dissidenti  di cooperative, mutue e sindacati, i laboratori pedagogici per costruire  «l’uomo nuovo» richiesto dall’altro mondo possibile. La gamma si è oggi  allargata, come dimostra e racconta questo libro/guida. D’altronde il  tempo libero, la salute, l’educazione, l’ambiente, la casa, i servizi  alla persona si gestiscono a livello microterritoriale. Questa gestione  del quotidiano dà luogo sempre più spesso, da parte di una frazione  della popolazione esclusa, contestataria o solidale, a iniziative di  cittadinanza che favoriscono un controllo del vissuto. In Europa, ma  anche negli Stati uniti, in Canada e in Australia si assiste a fenomeni  nuovi: la nascita di quelli che sono stati definiti neoagricoltori e  neoartigiani. Come indicato da Andrè Gorz, oggi è davvero necessaria  «una politica del tempo che inglobi l’organizzazione del quadro di vita,  la politica culturale, la formazione e l’educazione, e rifondi i  servizi sociali e le strutture collettive in modo da dare maggiore  spazio alle attività autogestite, all’aiuto reciproco, di cooperazione e  di autoproduzione volontarie». Ecco, le organizzazioni sociali  («decrescenti» e solidali) intercettate da questa interessante guida  alludono sempre di più all’autogestione e alla cooperazione nella  società civile.
Filosofo ed economista, docente all’università di Paris XI. Autore, tra l’altro, de «Il pianeta dei naufraghi» (1993), «La megamacchina» (1995) per Bollati Boringhieri, «La fine del sogno occidentale» (Elèuthera 2002), «La scommessa della decrescita» (Feltrinelli 2006).
