Padre Vittorio Albertini, veronese di 95 anni, è il veterano dei missionari comboniani in Uganda. Vi giunse nel 1951. L'ultima volta che è tornato in patria fu nel 1989. «Da allora, non mi sono più mosso di qui. Neppure per le vacanze». Commenta: «Le vacanze uno se le prende da un luogo in cui non sta del tutto bene, o da cui sente di doversi allontanare per breve tempo. Io non ho mai sentito questo bisogno». Con la scusa che ormai è anziano, dal 1990 non si è più recato neppure a Kampala, la capitale. «Il mio posto è qui. La mia gente è qui. E qui sono anche tutti i miei ricordi. Perché andare altrove?».
Quelli che lui definisce "ricordi" sono memorie ancora lucide nella sua mente. Vanno dal suo arrivo, già 36enne, a Gulu, al 17 aprile 2009, quando i confratelli, il "suo" vescovo, mons. Baptist Odama, e la "sua" gente hanno deciso di festeggiare i suoi 70 anni di sacerdozio, e al 20 marzo scorso, giorno della grande celebrazione del centenario della presenza comboniana in Nord Uganda. «Quel giorno, a Pakwach, oltre a una folla immensa, c'erano numerosi sacerdoti e religiosi, il nunzio apostolico, mons. Paul Tschang In-Nam, mons. Martin Lulaga, vescovo di Nebbi, mons. John Baptist Odama, di Gulu, mons. Henry Ssentongo, di Moroto, mons. Giuseppe Franzelli, di Lira, mons. Frederick Drandua, vescovo emerito di Arua, mons. Sabino Ocan Odoki, amministratore apostolico di Arua, il presidente Yoweri Museveni, il primo ministro Fred Jachan Omach e molte altre personalità politiche. Celebrazione bellissima e anche molto significativa: ha costituito un importante rito di passaggio verso una chiesa locale veramente matura, adulta e pienamente responsabile del proprio destino».
Il sogno di Comboni
P. Vittorio serba ancora viva la memoria di molti dei primi comboniani che giunsero in queste regioni. Conosce la storia dell'Uganda come pochi altri e gli piace raccontarla.
«La chiesa cattolica era giunta in Uganda 30 anni prima che arrivassimo noi. I Padri Bianchi del card. Lavigerie erano giunti alla corte del re Mutesa I nel 1879, sulla collina di Rubaga, poco lontano da dove sarebbe sorta Kampala. Un inizio molto sofferto, segnato da divisioni tra musulmani, protestanti e cattolici. Divisioni che re Mwanga, figlio di Mutesa, avrebbe manovrato astutamente secondo la convenienza politica. Nel 1886 scatenò una vera persecuzione, che si tinse del sangue di 22 martiri ugandesi».
Il nord del paese, tuttavia, rimase a lungo senza evangelizzazione. «Sono convinto che Dio l'aveva destinato a noi comboniani. Del resto, Comboni aveva pensato all'Uganda ancora prima di essere nominato provicario apostolico della Missione dell'Africa Centrale. Già nel 1871, scrivendo a un amico, gli aveva preannunciato il suo programma: "Spingermi fino alle sorgenti del Nilo". L'anno successivo, la Santa Sede gli affidava il vicariato, con una precisa ingiunzione: "Lo visiti tutto, fino alle sorgenti del Nilo"».
Grande entusiasmo aveva suscitato in Europa l'appello di Henry Stanley, noto giornalista ed esploratore statunitense, ma gallese di nascita, pubblicato sul Daily Telegraph di Londra nel 1875, per avere missionari in Uganda. Due anni dopo, Comboni - consacrato vescovo e nominato vicario apostolico dell'Africa Centrale - s'incontrò con Stanley al Cairo ed ebbe da lui dirette informazioni sull'Uganda. E prese consistenza il progetto di una missione comboniana in quello che allora si chiamava Nyanza.
Arrivato a Khartoum, Comboni si abboccò con l'amico Charles Gordon, allora governatore del Sudan, e gli fece presenti i suoi progetti per l'Uganda. Il governatore gli assicurò il suo appoggio. L'idea di Comboni era di stabilire una missione sul lago Vittoria, nel regno del Buganda, e una seconda sul lago Alberto, nel regno del Bunyoro. «Quello che Comboni non sapeva era che, se fosse entrato in Uganda dal nord, sarebbe stato facilmente confuso con gli emissari dell'Egitto e coinvolto nella politica espansionistica egiziana. I re del Buganda e del Bunyoro non volevano saperne della dominazione egiziana».
Nel frattempo, mons. Comboni venne a sapere che la Santa Sede aveva eretto una nuova missione presso i Grandi Laghi, affidandola ai Missionari d'Africa, o Padri Bianchi, del card. Lavigerie. «Propaganda Fide esortò Comboni a sospendere la spedizione nel Nyanza. Fu per lui un colpo duro, ma lo ricevette con fede, dichiarando: "Sarei beato se i missionari di Algeri riuscissero splendidamente nella loro impresa". In verità, quella notifica gli causò, come lui stesso ebbe a scrivere, "un forte mal di testa che non gli sarebbe passato per tutta la vita". Si adoperò anche per impedire che il suo vicariato subisse quel drastico taglio: considerava l'Uganda come "sua" e la voleva per sé. Ovviamente, anche i santi soffrono di quel maledetto vizio che è la gelosia apostolica. Ma s'inchinò alla volontà del Vaticano. L'Uganda, tuttavia, gli rimase nel cuore. Nove giorni prima di morire a Khartoum nel 1881, scriveva a due suoi missionari, p. Martini e p. Bouchard, invitandoli a fare con lui un viaggio in Uganda, al lago Alberto, fino a Patiko».
Verso sud
Assorbiti com'erano nel lavoro di evangelizzazione in un territorio vastissimo, per un trentennio i Padri Bianchi si limitarono a operare nel sud del paese, presso le popolazioni bantu. Il nord, abitato da popoli nilotici, non lo raggiunsero mai. Nel 1894, la Santa Sede rettificò i confini tra i due vicariati e restituì alla Missione dell'Africa Centrale, assegnata ai comboniani, il Nord Uganda.
«Ma anche i comboniani, impegnati nella ricostruzione delle comunità cristiane del Sudan, devastate dalla rivolta del Madhi, non poterono dare subito inizio all'evangelizzazione dei nilotici ugandesi. Passarono altri 16 anni prima che potessero realizzare il sogno di Comboni».
Fu merito di mons. Antonio Roveggio, secondo successore di Comboni, l'aver tentato di portarsi in Equatoria, in direzione dell'Uganda. A bordo del vaporetto Redemptor, nel dicembre 1901, raggiunse l'antica missione di Santa Croce. Nel gennaio successivo, approdava a Gondokoro, termine della navigazione fluviale da Khartoum.
«L'Uganda, allora, si estendeva fin là. Meldon, l'ufficiale che vi rappresentava il governo ugandese, gli avrebbe certamente consentito di stabilirsi a Gondokoro. Ma quando Roveggio gli espose il progetto di stabilirsi ancora più a sud, gli fu risposto che per questo bisognava ottenere l'autorizzazione del governatore britannico dell'Uganda. La scusa era buona: non essendo i gruppi etnici di quelle zone ancora del tutto sottomessi all'autorità britannica, non si era in grado di garantire incolumità e sicurezza ai missionari. La richiesta, tuttavia, fu trasmessa a Kampala per mezzo di corrieri. Ci vollero due lunghi mesi per ottenere risposta. Nel frattempo, il Redemptor divenne un piccolo ospedale: tormentati dalle zanzare, i missionari si ammalarono tutti. La risposta del governo ugandese confermava quanto aveva detto Melton. Ai missionari non rimase che fare ritorno alla base. Mons. Roveggio morì proprio durante quel viaggio di ritorno».
Solo nel marzo 1906, il ministero degli esteri di Londra faceva sapere a mons. Franz Xavier Geyer, tedesco, nato a Regen, succeduto a Roveggio nel 1903, che non c'erano difficoltà per stabilire missioni cattoliche nel nord Uganda, purché si scegliessero postazioni vicine ad avamposti governativi per ragioni di sicurezza. «Perciò, quando nell'agosto 1909 i Padri Bianchi richiesero ai comboniani se intendevano fondare missioni nel Nord Uganda - altrimenti le avrebbero fondate loro - mons. Geyer rispose che la spedizione era imminente».
La croce a Omach
Date le cattive condizioni economiche in cui versavano le missioni in Sudan, la direzione generale s'impegnò a finanziare l'impresa, alla quale prepose padre Albino Colombaroli, da qualche anno impegnato nell'evangelizzazione tra i jur del Bahr el-Ghazal. Sempre a bordo del Redemptor, mons. Geyer, fratel Augusto Cagol e padre Colombaroli arrivarono a Gondokoro il 18 gennaio 1910, dove trovarono ancora una piccola comunità cristiana di 24 battezzati e 12 catecumeni. «Perfino il rappresentante del governo d'Uganda, un goanese di nome Diaz, era cattolico. Costui aiutò molto i missionari, in particolare nel procurare loro una sessantina di portatori. Il tratto tra Gondokoro e Nimule doveva essere percorso attraversando la foresta. Partirono il 28 gennaio. La domenica 29 sostarono a Lokko-Lega, per celebrare la messa. Fu certamente la prima Eucaristia celebrata in tutto il nord Uganda».
Il 2 febbraio raggiunsero Nimule. Era da poco arrivato il nuovo commissario britannico e quello uscente non era ancora partito. Mons. Geyer, nella sua relazione storica del viaggio, annotò che non fu salutato con entusiasmo dai due. Anche quando esibì loro le lettere commendatizie da parte del governatore generale di Khartoum, non vi diedero molto peso. Gli dissero che, se intendeva aprire una missione cattolica, avrebbe dovuto munirsi di un permesso del governatore d'Uganda. Il vescovo, sapendo che Londra, in via di massima, non era contraria, accettò di ricorrere al governo di Entebbe. E dato che era stato da poco installato il telegrafo fra Nimule ed Entebbe, in soli quattro giorni si ebbe la risposta.
«Nel frattempo, giunse a Nimule una spedizione turistica americana, guidata dall'ex presidente degli Stati Uniti, con 600 portatori, diretta a Khartoum. L'illustre visitatore si accampò vicino ai missionari e offrì loro un rinfresco. Erano presenti anche i due ufficiali britannici e, davanti a loro, Roosvelt fece i più alti elogi delle missioni cattoliche. Ciò servi a rasserenare i due commissari che, a giustificare il loro poco entusiasmo, addussero il pretesto che i missionari avrebbero insegnato ai neri che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio, inducendoli a ribellarsi all'autorità coloniale».
Il governo di Entebbe autorizzò mons. Geyer a fondare una missione lungo il Nilo Alberto. Fu scelto Koba, sul lago Alberto. A quel tempo esisteva già un servizio regolare di battelli tra Nimule e il lago. Trenta dei portatori proseguirono a piedi per Koba. Gli altri, assieme ai tre missionari, s'imbarcarono sul battello governativo e il 17 febbraio approdavano a Koba.
«L'ufficiale britannico che li accolse era Paul Hannington, figlio del vescovo anglicano James, che nel 1885 aveva tentato di entrare in Uganda per erigervi una diocesi. Purtroppo, invece di percorrere la tradizionale via carovaniera, il vescovo aveva scelto di attraversare il lago Vittoria e di raggiungere Entebbe provenendo dal Busoga. Questa via, però, era interdetta agli stranieri. Da tempi immemorabili, era stato tramandato che un giorno i conquistatori del regno del Buganda sarebbero venuti dall'est attraverso il Busoga. Vera o no, il re Mwanga credeva alla profezia e fece arrestare e uccidere mons. James assieme al suo seguito».
Hannington offrì un alloggio temporaneo ai suoi ospiti, mettendo a loro disposizione una casa del governo. Nei giorni seguenti, d'accordo con il vescovo, radunò a convegno 8 capi acholi e 8 alur. Il vescovo, per mezzo di interpreti, spiegò il motivo della venuta dei missionari cattolici. I capi alur si dissero disposti ad accoglierli. Si scelse di fondare la prima missione a Omach, su una piccola altura a breve distanza del fiume. Il 30 marzo giunsero da Khartoum altri 4 missionari: p. Pasquale Crazzolara, p. Luigi Cordone, fr. Clemente Shroer e fr. Benedetto Sighele. Mons. Geyer, salutati i confratelli, approfittò del battello governativo che proseguiva per il sud per fare una visita alle missioni dei Padri Bianchi e andare poi in Europa dopo aver raggiunto Mombasa in treno.
Espansione
Da Omach il lavoro di evangelizzazione si sviluppò rapidamente. I primi battesimi arrivarono il 6 giugno 1913: dodici, come gli apostoli, pietre di fondamento della nuova chiesa. Nel 1911 si era già nel distretto di Gulu, fra gli acholi, da dove iniziò una vera epopea missionaria, che tra enormi difficoltà, avrebbe fatto sorgere, a poco a poco, numerose missioni in tutto il Nord Uganda: dal West Nile (1917) al distretto dei lango (1930) a quello del Karamoja (1933).
Nel 1918 arrivarono a Gulu anche le suore comboniane per dedicarsi in particolare alle donne. «Il lavoro di prima evangelizzazione e sviluppo si svolse in un intreccio che vedeva collaborare fianco a fianco i due istituti fondati da Comboni, ciascuno con i propri doni e caratteristiche, nel campo della pastorale, della catechesi, dell'assistenza sanitaria, della scuola e della promozione integrale della gente e del suo territorio. È impossibile anche solo enumerare le cappelle, le chiese, le scuole di ogni tipo e grado (asili, elementari, secondarie, magistrali, agrarie e tecniche) costruite e dirette dai comboniani in tutto il nord. Come è impossibile elencare gli studi da essi scritti su lingue, culture e costumi. P. Crazzolara fu un gigante nel campo etnografico e linguistico: compilò grammatiche e dizionari di numerose lingue del Nord Uganda. Il suo studio sugli acholi rimane ancora oggi il più importante lavoro sui popoli della valle del Nilo, anche secondo le moderne scienze accademiche».
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, tutti i comboniani d'Uganda furono internati per 18 mesi a Katigongo, vicono a Masaka, nel sud del paese. «Ma fu solo una pausa. Gli anni Cinquanta segnarono l'apice dell'impegno nel settore della scuola. Il periodo che precedette l'indipendenza (1962) fu marcato da un particolare impegno nella formazione sociale e politica di leader cristiani. Volevamo gente che sapesse assumersi la responsabilità di guidare il proprio paese. Per fare questo, creammo una rivista, Leadership, stampata nella nostra tipografia di Gulu. Cominciammo anche la pubblicazione di un giornale, Lobo Mewa, molto seguito in tutti i distretti del nord. Per non parlare dei numerosi sussidi per la formazione religiosa, liturgica, morale e civica delle comunità cristiane».
Dopo la nazionalizzazione delle scuole voluta dal presidente Milton Obote, i missionari furono più liberi di impegnarsi nel lavoro pastorale. L'espulsione in massa dei comboniani dal Sud Sudan (1964) diede l'occasione di aprire nuove presenze anche nel sud dell'Uganda - nelle diocesi di Kampala, di Hoima e Kabale - e per inserire la presenza comboniana nel tessuto ecclesiale del resto del paese.
Le vicende politiche, che dai tempi di Idi Amin fino alla presa del potere da parte dell'attuale presidente, Museveni, hanno sconvolto il paese anche attraverso la lotta armata, hanno reso più difficile, ma non impedito, il lavoro missionario. «La testimonianza più importante data dai comboniani durante quegli anni oscuri è stata la capacità e volontà di restare al fianco della gente, anche in situazioni di grave pericolo. Questa decisione è costata la vita a 14 padri e una suora. Sono i nostri "martiri". E ne siamo fieri».
Buona semente
È mons. Giuseppe Franzelli, comboniano, vescovo di Lira, a offrire un giudizio globale della presenza comboniana in Uganda. «La storia della nostra missione in questi territori non è certo esente da lentezze, incapacità e sbagli. Ma ha al suo attivo tante realtà suscitate dalla grazia di Dio. Prima tra tutte, il martirio di Jildo Irwa e Daudi Okelo, uccisi a colpi di lancia a Paimol, diocesi di Arua, nel 1918, e beatificati da Giovanni Paolo II nel 2002. E poi la fioritura di varie congregazioni religiose locali, maschili e femminili: fondati o accompagnati da comboniani e comboniane, questi istituti guardano a Comboni come a un loro antenato nella fede, la roccia che li ha generati attraverso l'opera dei suoi figli e figlie».
Il vescovo continua, non senza una certa emozione: «Dal seme gettato nel lontano 1910 a Omach è nato un albero rigoglioso: dalla prefettura apostolica di Gulu (1923), oggi arcidiocesi, sono nate le diocesi di Arua, Lira e Moroto, che, a loro volta, hanno dato origine a quelle di Nebbi e Kotido. E sono molte le comunità cristiane che conservano nel cuore la memoria di tanti comboniani e comboniane che riposano nei cimiteri delle missioni o che sono ritornati in patria. Al di là di ogni retorica, è sacrosanto dire che sono stati suore, fratelli e sacerdoti che hanno speso la vita per l'Uganda come infermiere, medici, sacerdoti, insegnanti, costruttori, linguisti, antropologi, meccanici, ostetriche... ma soprattutto come madri e padri, fratelli e sorelle degli ugandesi. Mi soffermo su tre nomi, scelti tra i troppi che dovrei citare: suor Gabriella Menegon, viva nel cuore dei lebbrosi di Alito; padre Bernardo Sartori, l'apostolo del West Nile; e Giuseppe Ambrosoli, il medico della carità di Kalongo. Degli ultimi due è iniziato il processo per un'eventuale canonizzazione».
Per molti anni, la presenza comboniana in Uganda è stata massiccia. Le comboniane sono giunte ad avere 42 comunità. I comboniani, nel 1971, toccarono la punta massima di 344 presenze. «Oggi siamo alquanto lontani da quei numeri. C'è stato un progressivo ridimensionamento: le comboniane hanno oggi una quindicina di comunità, con circa 100 suore; i comboniani sono 140, suddivisi in 40 comunità. Siamo ancora molto presenti nei distretti di Gulu e Lira, fortemente provati da una ventennale guerra civile, caratterizzata dalle atrocità commesse dall'Esercito di resistenza del Signore, guidato da Joseph Kony: oltre 100mila morti; 30mila minori rapiti e trasformati in "bambini-soldato"; migliaia di persone mutilate; 2,5 milioni di sfollati... Siamo rimasti per tutto il tempo a fianco della gente. Oggi ci stiamo adoperando per assistere la popolazione a ritornare, lentamente, alla normalità».
C'è un aspetto cui mons. Franzelli tiene molto: «Se i comboniani "stranieri" diminuiscono, cresce il numero di giovani ugandesi che chiedono di entrare nelle nostre famiglie. Venti suore comboniane, 30 sacerdoti e 5 fratelli comboniani lavorano oggi in varie parti del mondo, mentre vari candidati sono ospiti delle nostre case di formazione in Uganda. La nostra presenza oggi è più discreta che in passato, ed è volta ad affiancare la chiesa locale. Con essa intendiamo collaborare nella veste di coadiutori, cercando di suscitare e mantenere vivi in essa lo stesso spirito missionario e la stessa passione per l'evangelizzazione dei poveri che condussero qui i primi comboniani nel lontano 1910».
di Franco Moretti
Nigrizia Maggio 2010