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Sabato, 01 Gennaio 2011 15:52

Vicini ai detenuti

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Parole del sud

Essere missionari significa anche farsi carico dei problemi sociali. Ecco la pastorale carceraria nello stato di Espírito Santo.

Espírito Santo è il nome di uno dei più piccoli stati del sudest del Brasile. Con una superficie grande circa due volte la Lombardia, conta poco più di 3 milioni di abitanti. Fu nel porto della sua capitale, Vitória, che nel 1952 sbarcò il primo gruppo di missionari comboniani, con una precisa missione: difendere i cattolici dall’invasione delle chiese protestanti, che avevano iniziato ad arrivare, numerose e aggressive, dagli Stati Uniti.
Sono trascorsi molti anni da allora. Passato è anche lo spirito di crociata anti-protestante che caratterizzò quei primi tempi. Dopo il Concilio Vaticano II, il vento dello Spirito ha cominciato a spirare – e con forza – in direzione di una missione nuova, più interessata ai problemi sociali, sotto i vessilli della scelta preferenziale dei poveri e della liberazione.
Negli ultimi mesi, lo stato di Espírito Santo ha preso a occupare i titoli delle prime pagine di tutti i giornali del Brasile e di alcuni organi d’informazione internazionali. A destare preoccupazione è la drammatica situazione in cui versano i suoi istituti di pena. Per rispondere al problema del sovraffollamento, il governo di Espírito Santo ha creato carceri fatte con dei container: vere e proprie “galere a microonde”, dove la temperatura raggiunge facilmente i 50 gradi. Chi ha visitato questi luoghi di detenzione, li ha paragonati ai campi di concentramento nazisti. I detenuti, anche minorenni, vi vengono tenuti inscatolati in condizioni insopportabili. Situazioni più o meno analoghe sono rinvenibili in tutto il Brasile, dove il sistema carcerario è totalmente fallimentare.
In seguito a numerose denunce fatte da organismi per la difesa dei diritti umani, la Corte interamericana dei diritti umani ha sollecitato il governo brasiliano a garantire l’integrità fisica di tutti i minori detenuti nelle carceri. In marzo, il caso è stato discusso a Ginevra, presso il Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, con la presentazione di un dossier di 30 pagine e 8 fotografi e che mostravano i corpi dilaniati di 3 carcerati.
Non è stato certo facile arrivare fino a Ginevra. La cosa è stata possibile solo grazie alla dedizione e alla costanza di organizzazioni – locali, nazionali e internazionali – impegnate nella difesa dei diritti umani. Tra queste spicca per il suo impegno il Centro di difesa dei diritti umani di Serra, una cittadina ormai fagocitata dalla Grande Vitória. Il centro è stato fondato decine di anni fa dai comboniani. Oggi vi lavora padre Saverio Paolillo, responsabile della pastorale carceraria e della pastorale dei minori, il cui nome figura nella lista dei minacciati di morte. Dice p. Saverio: «Nelle carceri dello stato di Espírito Santo la situazione è insopportabile, segnata com’è da ripetute violazioni dei diritti umani. Vi regnano sovraffollamento, fame, violenze fisiche e psicologiche indelebili. Si confonde la disciplina – che è necessaria – con la violazione dei diritti, con un trattamento disumano e degradante, e con l’uso di gas lacrimogeni e di proiettili di gomma».
Ho voluto parlare di questo fatto sia per informare su un fatto estremamente grave, sia per sottolineare l’importanza di un certo tipo di pastorale che un istituto missionario come quello dei comboniani è chiamato a portare avanti.
A questo proposito, desidero fare riferimento a una raccomandazione fatta da Benedetto XVI ai vescovi di un gruppo regionale della conferenza episcopale brasiliana, in occasione della loro visita ad limina verso la fine del 2009. Il Papa ha affermato che è solo trasmettendo gioia e speranza che i fedeli sono attratti e le vocazioni sacerdotali fioriscono.
Nessuno mette in dubbio questo. Ma contesto chi ha voluto vedere nelle parole del Papa una critica a chi è impegnato in una pastorale rivolta alla trasformazione della società e alla difesa dei poveri. È completamente falso identificare tale pastorale con la mancanza di gioia e di speranza. Più falso ancora è esaltare il clima festivo delle celebrazioni animate dai preti showmen e cantautori, ritenendolo la più vera espressione della pastorale della gioia e della speranza auspicata dal Pontefice. L’incipit della Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et Spes) del Concilio Vaticano II non lascia dubbi: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo».
Ebbene: le gioie e le speranze tanto allegramente distribuite nelle omelie e nei canti dei preti showmen brasiliani, senza però la testimonianza della condivisione delle tristezze e angosce dei poveri e di coloro che soffrono, altro non sono che illusione e inganno. Questa moda è ormai diffusa e sta sempre più crescendo, in una malcelata concorrenza con le chiese pentecostali, che offrono liturgie come show-spettacolo, con registi geniali, cantanti di talento e ministri che operano “miracoli”.
Per i carcerati dello stato di Espírito Santo la speranza di una vita un po’ meno infelice riposa sulla dedizione dei difensori dei loro diritti, persone immedesimate nel loro ruolo, che non arretrano davanti alla persecuzione e alle minacce di morte, come testimoniano le centinaia di martiri dell’America Latina, tra i quali spicca mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, del quale il 24 di marzo scorso abbiamo celebrato il 30° anniversario del martirio.

di Giampietro Baresi
Nigrizia maggio 2010

Letto 1975 volte Ultima modifica il Lunedì, 03 Gennaio 2011 16:48

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