Una nuova forma di vita, contrassegnata da un numero crescente di strumentazioni elettroniche, visive e sonore, è ormai entrata a far parte dell'esperienza quotidiana. Si può infatti parlare di una i-life, una vita cioè in cui la prima persona singolare è la protagonista assoluta del panorama di una comunicazione che permette sì la connessione con un numero impressionante di persone, ma al cui centro vi è appunto l'individuo, l'io.
La discussione su quanto questi nuovi strumenti di connessione (i-phone, i-pad, i-pod, i vari social network) siano veri mezzi di comunicazione o quanto siano invece testimoni di un bisogno di essere al centro dell'attenzione, in un mondo che ha perduto confini certi e appare fonte di precarietà, è aperta da tempo e coinvolge un vasto gruppo di discipline: sociologi, antropologi, filosofi, neuroscienziati e scrittori cercano di interpretare e prevedere le implicazioni del ruolo che tali strumenti hanno assunto nella nostra vita quotidiana. È una discussione che si amplifica mano a mano che si verifica il peso che questi strumenti hanno nell'esperienza delle persone, il modificarsi dei comportamenti e l'abbassarsi dell'età degli utenti, tanto che si parla di "nativi digitali".
I "nativi digitali"
Le questioni legate a questo elemento caratterizzante dei nostri tempi sono ovviamente complesse e non hanno per ora trovato una definizione compiuta, legate come sono all'esperienza individuale e all'età dei soggetti coinvolti. Ne sono una prova gli articoli usciti in questi mesi su giornali e riviste.
Prenderei come riferimento un pensiero sollecitato dall'ultimo libro di Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione, che può essere accolto anche come una riflessione sul tempo, un invito alla trasmissione del sapere da una generazione all'altra e al dovere di lasciare qualcosa di bello a chi verrà dopo: dalle pagine scritte da Bianchi deriva con forza la centralità delle parole (della Parola) e dei libri (del Libro). Per contrasto, commentando la notizia che un noto attore americano ha voluto nella sua tomba un i-phone, il filosofo Maurizio Ferraris ha rilevato come, in questo modo, egli abbia voluto portare con sé quanto aveva registrato in quel supporto tecnologico, certificando così che telefonini e computer sono il succedaneo per l'immortalità e il luogo in cui riversare la memoria.
«Il telefonino e le sue espansioni - afferma Ferraris - rivela che la nostra non è tanto una società della comunicazione, ma anzitutto una società della registrazione. Non stupisce allora che si sia assistito negli ultimi anni ad un'esplosione delle tecnologie della memoria e che i nuovi oggetti di culto sono prima di tutto degli archivi e non dei veri mezzi di comunicazione».
Già da queste due prime considerazioni si può constatare la divisione tra chi rimane fedele ad una comunicazione basata su una forma scritta e verbale che prevede il faccia a faccia tangibile e chi invece si affida alle nuove tecnologie che privilegiano il virtuale e l'individualità. Un confronto che è anche generazionale. I ragazzi delle nuove generazioni non a caso vengono definiti "nativi digitali", perché sono attrezzati e pronti ad abbandonare il vecchio sapere lineare fondato sulla parola scritta.
Anche nelle nostre scuole (i primi esempi vengono da Bollate e da Reggio Emilia, scuole dell'infanzia e scuole elementari) iniziano ad essere introdotti gli schermi del tablet computer della Apple, al posto delle lavagne tradizionali.
Parallelamente si approfondisce il livello delle riflessioni. Alcune, molto stimolanti vengono dall'antropologo Marino Niola (docente all'università La Sapienza di Roma), che ha parlato del fenomeno della nuova vita digitale come di un «narcisismo di massa» e che ha sottolineato come si sia verificato uno spostamento, forse definitivo, dalla centralità dello strumento informatico - che suscitava fino a qualche anno fa soprattutto la meraviglia per le sue applicazioni in campo produttivo, lavorativo e creativo - alla centralità del suo utilizzatore. Non è un caso infatti che i nomi dei prodotti siano slittati da un carattere impersonale (computer, telefonino) ad uno che porta all'inizio la prima persona singolare: «molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono delle estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell'io».
Mettersi "in rete"
Molto più che semplici cose, ma non ancora persone, questi oggetti occupano lo spazio che separa l'organico dall'inorganico e diventano l'immagine di una metamorfosi che si sta avverando sotto i nostri occhi, proprio come gli ibridi che abbiamo conosciuto nella mitologia (chimere, sirene, centauri), che portavano nella figura stessa ciò che lega e differenzia il mondo umano al regno animale.
Quella natura molteplice contenuta in un solo corpo ne faceva delle creature in grado di affrontare dimensioni sconosciute all'esperienza umana e capaci di prestazioni impensabili nella normalità, compresa la possibilità di incontrare mondi lontani. Ed è singolare che uno dei centauri si chiami Nesso, il cui nome ha una radice che richiama il filo, il legame e dunque la rete.
La rete diventa il tessuto che mette in connessione un universo di frammenti che ha trasformato il famoso motto di Descartes («cogito, ergo sum») in digito, ergo sum: ne sarebbero testimonianza l'esplosione dei social network e dei blog personali nei quali si riversano milioni di testi, immagini e pensieri che diventano, come i tradizionali messaggi nelle bottiglie lanciate nel mare, da un lato, la ricerca di un contatto e, dall'altro, la descrizione di se stessi( vengono messi in rete aspetti privati come i propri desideri o le sensazioni legate a una gravidanza).
L'affermazione di questi strumenti è sottolineata dal fatto che non soltanto l'ultima creatura della Apple, l'i-pad, è stata celebrata con un'enfasi pari alla conquista della Luna e che si è parlato di una «i-pad revolution», ma che, a differenza del passato, diventano immediatamente parte del bagaglio tecnologico delle scuole di ogni ordine, senza lasciar passare il necessario tempo di riflessione e sedimentazione sul reale valore aggiunto che possono assicurare al fruitore (parliamo anche di bambini che hanno un'età che parte dai 3 anni, come avviene nelle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia).
La vita è adesso
Ciò che però studiosi come Niola e Vittorino Andreoli sottolineano è il contenuto "egoistico" della vita nell'i-mondo. Vi è, infatti, evidente la centralità di sé che mentre si mette in connessione con gli altri, in realtà mette soprattutto in vetrina il proprio io. Sono gli slogan utilizzati che indicano il reale stato delle cose: che i-pod sei? (Apple) e la vita è adesso (Vodafone) sottolineano, da un lato, la simbiosi tra strumento e persona (quella creazione di un ibrido come i personaggi della mitologia di cui si diceva sopra) e dall'altro la mancanza di profondità e di progettualità di una vita che rischia di essere schiacciata sul presente. Ciascuno sempre connesso con il proprio io virtuale e sempre sconnesso con gli altri. Facendo il tentativo di imparare a rimanere soli al mondo, anzi per imparare ad essere il centro del i-mondo.
Sono tanti i segnali, i comportamenti che si colgono in relazione a questo elemento e che ormai vengono ritenuti normali: la partecipazione a riti o avvenimenti come matrimoni, funerali, nascite che diventano occasione non tanto di emozione interiore o condivisa con i familiari e gli amici, ma come esibizione della tecnologia e del proprio protagonismo; l'esperienza di un viaggio che prima di essere vissuta come elemento di crescita culturale è accumulazione di dati sul navigatore satellitare per evitare di sbagliare strada; la compilazione di brani musicali che non diventa gusto per la musica o apprezzamento dei testi ma proprio una gara per dimostrare l'abilità nello "scaricare" musica; la corsa a crearsi una biblioteca virtuale quando i dati sulla lettura sono in costante e drammatico calo.
Di fronte a questo scenario le analisi si dividono tra "apocalittici" (questi strumenti ci rendono superficiali, attiverebbero soltanto le parti più primitive del cervello e favorirebbero la perdita della capacità di focalizzare l'attenzione) ed "entusiasti" (la necessità di essere sempre presenti con questi strumenti rende più aperti a sviluppare abilità sempre maggiori, a creare visioni d'insieme utili all'approfondimento del pensiero). La verità, come sempre, dovrebbe essere cercata tra questi due estremi, cercando di governare un processo già in atto e irreversibile.
Un processo al cui interno sono coinvolte delle persone: bisogna quindi avere la pazienza e la saggezza di accompagnare gli adolescenti (ma anche gli adulti/giovani) che, anche a causa di questi strumenti, pensano che il mondo sia iniziato con la loro venuta e che tutto finirà tra un attimo, proprio perché viene meno la percezione del futuro.
Questa sensazione - sottolinea Andreoli - ha come conseguenza un diverso atteggiamento nei confronti dell'impegno, che richiede profondità di orizzonti, di determinazione e di costanza. L'impegno ha bisogno di uno sviluppo nel tempo futuro e della percezione di una dimensione dell'io che non si limiti a ciò che si è in questo momento. Il rischio legato a questi strumenti è di far scomparire la rappresentazione di come si vorrebbe essere "domani": la "generazione digitale" vive in un mondo che c'è quando si accende il computer (o il telefonino) e finisce quando questo viene spento.
Il tempo viene quindi scandito da una serie di "attimi presenti", di impegni che non si prolungano al di fuori di un frammento di tempo: gli studi scolastici - ammonisce Andreoli - diventano sempre più frequentemente uno stimolo ad una risposta e non un reale interesse ad approfondire. Si avverano e approfondiscono quelle implicazioni che costituiscono le basi della "vita liquida": la mente è più adatta a stimoli di breve durata e possibilmente mutevoli.
È per questo motivo che le emozioni, che sono la risposta ad uno stimolo, prevalgono sui sentimenti (lo vediamo nell'ossessione con cui i programmi televisivi puntano alla facile commozione più che sul ragionamento), che i legami affettivi si sfaldano facilmente, che aumentano paura e insicurezza, ma, al tempo stesso, si è smarrito il significato escatologico della morte, ridotta ad un gesto, ad un istante.