«Perché tanta intolleranza religiosa? Forse si identifica il  cristianesimo con il mondo occidentale?». È quanto si è chiesto l'arcivescovo  di Genova e presidente della Cei Angelo Bagnasco nell'omelia tenuta in  occasione della celebrazione dell'epifania ricordando la strage di Capodanno  dei copti egiziani che, con 23 cristiani uccisi durante la messa, è stata la  più sanguinosa nella storia recente dell'Egitto, paese dove le comunità copte,  circa il 10% della popolazione, vivono da secoli vantando di essere, insieme a  quella di Gerusalemme, la chiesa più antica, discendente direttamente  dall'apostolato di san Marco.
 La loro autonomia dalla chiesa di Roma non ha ostacolato il  loro sviluppo e la loro sopravvivenza, anzi, ne ha determinato una forte  connotazione identitaria che tuttavia non è sufficiente a spiegare i motivi  della violenza contro di esse. Quella dei copti è solo l'ultima strage, in  ordine cronologico, di cristiani in terra mediorientale, dopo quelle in Iraq e  in Pakistan, un crescendo di violenze da parte del fondamentalismo islamico e  induista che è stato più volte condannato da Benedetto XVI come inaccettabile e  per le quali ha usato il termine di "cristianofobia" .
 Si tratta di una escalation che pare vanificare ciò che il  recente sinodo delle chiese del Medio Oriente aveva ribadito, e cioè la necessità  di dialogo con i musulmani come mezzo principale per tutelare la sopravvivenza.
Il dialogo interreligioso
E il dialogo è stato infatti ribadito dal papa all'indomani  della strage come strumento essenziale che sarà al centro dell'anniversario  dell'incontro dei rappresentanti di tutte le religioni ad Assisi, il prossimo  ottobre, per celebrare i 25 anni dal primo incontro voluto dal suo predecessore  Giovanni Paolo II. Ma di dialogo hanno parlato anche vari esponenti del mondo  islamico. Tra questi, quello che ha fatto più discutere è stato il capo  spirituale della moschea di Al Azhar, la più prestigiosa istituzione dell'islam  sannita, l'imam Ahmed Al Tayyeb. In un'intervista al Corriere della sera,  infatti, pubblicata il 7 gennaio, ha ribadito il concetto che l'attacco non è  stato solo contro i cristiani ma contro l'intero Egitto, contro la sua storica  convivenza tra musulmani e minoranze religiose, e che solo mantenendo e  cementando il dialogo tra le religioni si potrà tutelarle tutte quante. «Io credo  profondamente che la libertà religiosa, etnica e culturale sia una legge divina  - ha dichiarato -. Di conseguenza non sta a noi, creature di Dio, imporre ai  nostri fratelli una sola religione o un solo modo di vivere. Dobbiamo quindi  approfondire la mutua comprensione ed eliminare ogni pregiudizio o malinteso.  Il rispetto dell'altro e del suo diritto alla diversità è una condizione  indispensabile per quel dialogo costruttivo che possa riavvicinarci».
 Nonostante sia stata criticata la sua richiesta al pontefice  di un messaggio ai musulmani «che possa ristabilire i ponti della fiducia e  dissipi le origini dei malintesi» in risposta alla richiesta del papa di  difendere i cristiani in Egitto, in quanto essa evidenzia - scrive Luigi  Ippolito sempre sulla stessa pagina del Corriere - il non aver preso  consapevolezza che al centro delle violenze ci sono i cristiani e non i  mussulmani, le sue parole sono di grande stimolo per tutta la comunità islamica  egiziana a perseverare in quella unità che finora è stato il suo modello di  convivenza.
 Tuttavia, non è mancato chi ritiene il dialogo  indispensabile ma non sufficiente, come il vescovo copto-ortodosso di Torino  Anba Barbaba El Soriani che, in un'intervista all'agenzia stampa cattolica Sir,  ha affermato che «il dialogo da solo non basta, le parole non bastano. A queste  devono seguire i fatti. Ci sono moschee in Egitto dove si predica l'odio contro  i cristiani, ci sono media che non fanno altro che dire che le chiese sono  piene di armi e nelle scuole si insegna ai bambini a odiare i cristiani».  Chiamato in causa, qui, è il governo egiziano di Mubarak che non avrebbe fatto  abbastanza per difendere le comunità cristiane nonostante episodi di violenza  fossero già accaduti nei mesi e negli anni scorsi. Che di fatto esista una  discriminazione strisciante verso i cristiani nel paese è risaputo. Ma la  speranza, coltivata dai copti, è che quanto accaduto abbia indotto il governo  ad accorgersi della loro condizione e ad agire di conseguenza.
 Un paese, invece, in cui non c'è alcuna capacità e volontà  di tutelare i cristiani è l'Iraq, dove, a seguito di una escalation di violenza  che ha visto tra gli episodi più cruenti quello dello scorso novembre con la  morte di decine di cristiani, si è incrementato a livelli esponenziali il numero  di persone di fede cristiana che fuggono, dando luogo a una vera e propria  emergenza profughi e riducendo la comunità cristiana a poche centinaia di  migliaia di persone.
 «Non può sfuggire che il vangelo si incarna in ogni cultura  senza identificarsi con nessuna», ha ricordato il card. Bagnasco nella sua  omelia, una verità che tuttavia non è percepita come tale da chi alimenta la  cristianofobia. La visione che viene diffusa da un certo integralismo islamico  è quella che identifica il cristianesimo con l'Occidente tout-court, una sorta  di unicum senza differenze al suo interno e che, soprattutto, appare, almeno ai  loro occhi, subordinato agli interessi occidentali.
 Al riguardo Guido Dotti, della comunità di Bose, ha  affermato, nel corso del programma radiofonico di Rai3 Uomini e profeti dell'8  gennaio, che «l'ostilità contro i cristiani viene condotta come fosse un'unica  realtà. È come se non ci fossero differenze tra la diverse confessioni, e viene  fatto passare dai media l'identificazione tra cristianesimo e Occidente, viene  percepito un cristianesimo ricco e dominatore che anche la storia della  missione ha contribuito a far percepire come tale».
Il ritorno del martirio
È di questo parere anche il vaticanista ed editorialista  Giancarlo Zizola. In un lungo e articolato fondo pubblicato su Repubblica  mercoledì 5 gennaio afferma che «l'attacco alla chiesa non le viene, oggi, mai  dal potere politico dominante ma dal fondamentalismo, islamico o induista,  interessato a rinserrare la religione cristiana nel recinto identitario  dell'Occidente a supporto ideologico dei suoi interessi». L'obiettivo maggiore  di tale fondamentalismo è quello di «ripulire le terre islamiche dalle  minoranze cristiane inducendole all'esilio, poiché vede un pericolo  dell'universalismo cristiano che raggiunge i massimi apici di espansione  proprio in Africa e in Asia, con tassi di battesimi sconosciuti nel Nord del  mondo». Il disegno finale è dunque di «occidentalizzare il cristianesimo  precludendogli uno status di religione del Sud del mondo» dove, evidenzia il  giornalista, vive il 64% dei fedeli della sola chiesa cattolica.
 Per Zizola questa situazione è anche una sfida per la Santa Sede, indotta ad  accentuare alcune sue intenzioni. Per non stare al gioco degli intenti dei  fondamentalisti, «il Vaticano sarà obbligato a differenziare con maggior  circospezione che in passato, l'indiscutibile ruolo culturale avuto dalla  chiesa nella formazione dell'identità occidentale, da discorsi politici  subalterni alle tesi di una circolarità assoluta, infrangibile e insuperabile  tra la missione della chiesa e gli interessi strategici dell'Occidente». Il  ritorno dei martiri, continua l'editorialista, è anche uno dei segnali che «la  chiesa protetta dai privilegi concordatari è in via di esaurimento e che essa è  obbligata a cercare altrove, sul piano delle coscienze, garanzie meno inquinate  e più solide. Significa che la partita del destino del cristianesimo non si  gioca più in casa, con schemi europocentrici, ma fuori casa, nel confronto con  altre concezioni del mondo, altre tradizioni spirituali e culturali, altre  grandi religioni mondiali».
 A conclusione del suo articolo, il giornalista apprezza la  risposta di Benedetto XVI in quanto «è sembrata immune dalla mistica del  martirio nella misura in cui si è basata sulla convinzione che il martirio più  che evento storico eccezionale è intrinseco nella condizione cristiana  ordinaria. Ed è questa esperienze che rende più sensibile la chiesa alla  rivendicazione della libertà religiosa per tutte le fedi, sul terreno del diritto  internazionale», tema che è stato posto al centro del messaggio per la giornata  mondiale della pace che, ironia del destino, cade proprio a Capodanno.
Per il futuro del cristianesimo
La scelta di «non cedere alla rassegnazione» mantenendo la  linea della nonviolenza evangelica, preferendo essere uccisi che uccidere come  insegnano i martiri di ogni epoca, fa la differenza con il martirio dei  kamikaze fatto "per uccidere", mentre la consapevolezza che non  esiste alternativa al dialogo, sapendo che l'errore peggiore sarebbe arroccarsi  in difesa, fa della risposta ecclesiale data finora un segno della sua vitalità  evangelica da sostenere e tutelare con i mezzi del diritto laddove sia  possibile farlo.
 Interessante è anche il commento di Enzo Bianchi, priore  della comunità di Bose, che su La   Stampa dello stesso giorno evidenzia come ad essere nel  mirino dei fondamentalisti non sono tanto i cristiani presi singolarmente, ma  comunitariamente, nelle loro assemblee domenicali. «Se da parte dei terroristi  questo può essere un calcolo assassino per mietere un maggior numero di vittime  - scrive Bianchi -, non dobbiamo trascurare la valenza simbolica e la sua  centralità nel discorso della libertà religiosa. Garantire a ogni cittadino di  professare in privato e in pubblico la propria fede è ciò di cui ogni stato di  diritto dovrebbe farsi carico, ma per i cristiani l'eucarestia domenicale è ben  più di un gesto pubblico, è l'evento comunitario per eccellenza».
 È su questa consapevolezza, dunque, del profondo legame tra  fede personale ed espressione comunitaria del culto che si radica il  cristianesimo, «non su identità culturali o immaginarie, non su astratte  convergenze di idee, ma sul vissuto quotidiano nella comunità dei credenti,  sulla trasparenza di una testimonianza di fratellanza e di amore universale».
 Anche per Bianchi ne deriva che, di fronte alla sfida delle  diverse visioni culturali e religiose, così come a quella di un  anticristianesimo culturale in certe aree del Nord del mondo, veri segni dei  tempi, decisivi per il destino del cristianesimo sulla Terra, occorre «una  risposta trasparente, evangelica, magari scandalosa per il pensiero omologato  di tante nostre società».
di Sabrina Magnani
 Settimana n. 2 anno 2011

 
                