Era stato Paolo VI a firmare  il primo messaggio sulla Giornata internazionale della pace, l'8 dicembre 1967.  Due anni dopo la fine del Vaticano II, a Montini era parso opportuno dedicare  il primo giorno dell'anno civile a quel tema tanto fondamentale quanto di  delicata attuazione, rivolgendosi apertamente «a tutti gli uomini di buona  volontà» e auspicando che ne nascesse una tradizione, da ripetersi ogni anno  «come augurio e come promessa».
 Scriveva il papa in  quell'occasione: «La proposta di dedicare alla pace il primo giorno dell'anno  nuovo non intende qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa cioè  cattolica; essa vorrebbe incontrare l'adesione di tutti i veri amici della  pace, come fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme,  congeniali all'indole particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto  importante sia la consonanza d'ogni voce nel mondo per l'esaltazione di questo  bene primario, che è la pace, nel vario concerto della moderna umanità». Ben sapendo  che «la pace si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare  la convivenza dei popoli, una nuova mentalità circa l'uomo e i suoi doveri e i  suoi destini».
Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II
Considerazioni che, al netto  del linguaggio dell'epoca, è impossibile non sentire ancora come cruciali per i  cristiani, in una fase in cui, se ovviamente da allora molto è mutato nello  scenario internazionale, soprattutto nell'identificazione del nemico, non è  cambiata la tentazione di far prevalere su ogni altra le logiche della guerra e  della morte (si pensi, ad esempio, alla teoria così diffusa dello scontro di  civiltà). E che, inevitabilmente, risentono del magistero roncalliano al  riguardo, della svolta epocale rappresentata dall'enciclica Pacem in terris,  pubblicata nel '63.
 Con Giovanni Paolo II il  quadro teologico conosce da un lato una ripresa e una conferma di alcune  acquisizioni e, d'altro lato, una nuova, vigorosa accelerazione. Tutti gli interventi del magistero papale del novecento,  da Benedetto XV a Pio XII, sono costantemente citati negli interventi di questo  papa che visse sulla propria pelle la tragica esperienza del secondo conflitto  mondiale. È in questo orizzonte che il pontefice polacco citò a più riprese il  versetto di Isaia 32,17 Opus iustitiae, pax: «opera della giustizia sarà  la pace», un versetto con il quale egli affermava con forza che la pace  equivale allo stabilire nel mondo un ordine fondato sulla giustizia e il pieno  rispetto dei diritti umani.
 L'apice teologico del  pensiero sulla pace di Karol Wojtyla fu raggiunto, verosimilmente, con il  messaggio per la Giornata  mondiale della pace del 1° gennaio 2002. Un messaggio che, si badi, giungeva  all'indomani della data spartiacque dell'11 settembre 2001, che ha provocato un  ripensamento della stessa concezione del termine guerra e che ha in un  colpo solo messo a nudo l'impotenza delle tradizionali vie di composizione  diplomatica o istituzionale delle crisi internazionali o intranazionali.  Ebbene, in quel documento Giovanni Paolo II si spinse ben oltre la convinzione  che opera della giustizia è la pace: egli infatti non solo vi  ribadiva che, quando la giustizia è violata e ferita, dev'essere ristabilita  affinché possa farsi strada la pace, ma affermava che nella giustizia da cui  dipende la pace, dev'essere inscritto il principio del perdono.
 Si trattava di una novità  assoluta, e il papa era consapevole dell'audacia di quanto sosteneva,  soprattutto in considerazione del momento storico e delle circostanze  particolari in cui il suo messaggio arrivava al mondo. Anche perché non si  trattava del consueto invito all'esercizio di una virtù personale, eroica finché si vuole, ma di una via proposta con forza all'intero consesso civile:  «Solo nella misura in cui si affermano un'etica e una cultura del perdono, si  può anche sperare in una politica del perdono, espressa in atteggiamenti  sociali e istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto  più umano». Etica, cultura, politica, atteggiamenti sociali, istituti giuridici:  è la risposta globale alla nuova tipologia di guerra creatasi con il terrorismo  internazionale.
La svolta della "Dignitatis humanae"
«In alcune regioni del mondo  non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria fede religiosa,  se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono  forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i  credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo  religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria  fede».
 Quarantatrè anni dopo  l'intuizione montiniana, così esordisce Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata del 1° gennaio  2011, che avrà per tema Libertà religiosa, via per la pace. Tema coraggioso  e delicato per molti motivi, soprattutto se si ricorda che la libertà  religiosa è divenuta ufficialmente un valore per i cattolici solo con la Dignitatis humanae del Vaticano II. Il concilio, infatti,  propose, al riguardo, un autentico cambio di paradigma, affermando il nesso fra  la dignità dell'uomo e le libertà nelle quali tale dignità non può fare a meno  di concretizzarsi; abbandonando la prospettiva tradizionale dei diritti della  verità (dominante fino ad allora) e riconoscendo come titolare del diritto alla  libertà religiosa il soggetto individuale nel suo esistere. Perché la libertà  religiosa «si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale  l'hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione» (DH n.  2).
 Il testo papale arriva dopo un  anno «segnato dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di  violenza e d'intolleranza religiosa»: tra gli altri, si fa riferimento agli  attacchi a Baghdad contro la cattedrale siro-cattolica e contro i cristiani  nelle loro case, agli atti di violenza e intolleranza in Asia, in Africa, nel  Medio Oriente e specialmente in Terra Santa.
 Negare o limitare in maniera  arbitraria la libertà religiosa e oscurare il ruolo pubblico della religione -  secondo Benedetto XVI - significa coltivare una visione parziale della persona  umana, rendere impossibile l'affermazione di una pace autentica e duratura,  poiché «l'essere umano non è qualcosa, ma è qualcuno, possiede  una naturale vocazione a realizzarsi nella relazione con l'altro e con Dio», e  «la dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza  giudaico-cristiana, ma anche condiviso da grandi civiltà e religioni del mondo,  perché, grazie alla ragione, è accessibile a tutti».
 Il messaggio, riprendendo la  linea di pensiero espressa dal pontefice all'inizio del viaggio apostolico in  Portogallo, lo scorso maggio, evidenzia l'importanza della dimensione religiosa  non solo per l'Europa, ma per il mondo globalizzato e le diverse culture e  civiltà: «L'illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una  pacifica convivenza è in realtà l'origine della divisione e della negazione  della dignità degli esseri umani». Ratzinger, al riguardo, cita il suo discorso  all'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2008: è inconcepibile che i  credenti «debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere  cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter  godere dei propri diritti».
 Il documento tocca anche le  difficoltà che la libertà religiosa incontra oggi in Iraq, in Medio Oriente, in  numerosi paesi africani e asiatici; sottolinea i pericoli della  strumentalizzazione della libertà religiosa «per mascherare interessi occulti,  come ad esempio il sovvertimento dell'ordine costituito, l'accaparramento di  risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo». Tutto ciò -  aggiunge - può provocare danni ingentissimi alle società, ed è contrario alla  natura della religione: «la professione di una religione non può venire  impiegata per fini che le sono estranei e nemmeno può essere imposta con la  forza».
 Il papa si sofferma inoltre  su altre limitazioni alla libertà religiosa: «La stessa determinazione con la  quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo  religioso deve animare anche l'opposizione a tutte le forme di ostilità contro  la religione, che limitano il ruolo dei credenti nella vita civile e politica».  E «l'ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale, regionale e  internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o  antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e  nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno».
Lo spirito di Assisi
Un richiamo specifico viene  rivolto ai credenti, «chiamati non solo con un responsabile impegno civile,  economico e politico, ma anche, con la testimonianza della propria carità e  fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la  giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà  umane».
 Primo passo per promuovere la  libertà religiosa come via per la pace è il dialogo tra istituzioni civili e  religiose, dal momento che «esse non sono concorrenti ma interlocutrici, perché  sono tutte a servizio dello sviluppo integrale della persona umana e  dell'armonia della società». Il papa fa appello alla verità morale nella  politica e nella diplomazia, rivolgendosi particolarmente ai paesi occidentali  segnati dall'ostilità contro la religione fino al «rinnegamento della storia e  dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l'identità e la cultura della  maggioranza dei cittadini».
 Da ultimo, Benedetto XVI  rivolge un appello al dialogo interreligioso per collaborare in vista  del bene comune; tanto più che «nel 2011 ricorre il 25° anniversario della  Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal  venerabile Giovanni Paolo II. In quell'occasione i leader delle grandi  religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di  unione e di pace, e non di divisione e di conflitto.
 Il ricordo di  quell'esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti  si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace». Un  richiamo davvero strategico, in una stagione certo non facile per chi opera nel  campo del dialogo, che nell'icona dello spirito dell'incontro Assisi - che  secondo il cardinal Willebrands fu «l'evento ecumenico più incisivo dopo il  concilio Vaticano II»- ha sempre rinvenuto un invito a non scoraggiarsi e a  proseguire nel suo cammino.
di  Brunetto Salvarani
 Settimana n. 1 anno 2011
