Le grandi opere non le vuole più nessuno, salvo chi le costruisce e la  politica bipartisan che le sponsorizza con pubblico denaro.  Dell’inutilità del Ponte sullo Stretto non vale più la pena di parlare, e  dell’affaruccio miliardario delle centrali nucleari ci siamo forse  sbarazzati con il referendum. Prendiamo invece il caso Tav Val di Susa.
 Per i promotori si tratterebbe di un progetto “strategico”, del quale  l’Italia non può fare a meno, sembra che senza quel supertunnel  ferroviario di oltre 50 km di lunghezza sotto le Alpi, l’Italia sia  destinata a un declino epocale, tagliata fuori dall’Europa. Chiacchiere  senza un solo numero a supporto, è da vent’anni che le ripetono e mai  abbiamo visto supermercati vuoti perché mancava quel buco. I numeri  invece li hanno ben chiari i cittadini della Valsusa che costituiscono  un modello di democrazia partecipata operante da decenni, decine di  migliaia di persone, lavoratori, pubblici amministratori, imprenditori,  docenti, studenti e pensionati, in una parola il movimento “No Tav”,  spesso dipinto come minoranza facinorosa, retrograda e nemica del  progresso. Numeri che l’Osservatorio tecnico sul Tav presieduto  dall’architetto Mario Virano si rifiuta tenacemente di discutere. Proviamo qui a metterne in luce qualcuno.
 Il primo assunto secondo il quale le merci dovrebbero spostarsi dalla  gomma alla rotaia è di natura ambientale: il trasporto ferroviario, pur  meno versatile di quello stradale, inquina meno. Il che è vero solo  allorché si utilizza e si migliora una rete esistente. Se invece si  progetta un’opera colossale, con oltre 70 chilometri di gallerie, dieci  anni di cantiere, decine di migliaia di viaggi di camion, materiali di  scavo da smaltire, talpe perforatrici, migliaia di tonnellate di ferro e  calcestruzzo, oltre all’energia necessaria per farla poi funzionare, si  scopre che il consumo di materie prime ed energia, nonché relative  emissioni, è così elevato da vanificare l’ipotetico guadagno del  parziale trasferimento merci da gomma a rotaia. I calcoli sono stati  fatti dall’Università di Siena e dall’Università della California. In  sostanza la cura è peggio del male.
 Veniamo ora all’essere tagliati fuori dall’Europa: detto così sembra che  la Val di Susa sia un’insuperabile barriera orografica, invece è già  percorsa dalla linea ferroviaria internazionale a doppio binario che  utilizza il tunnel del Frejus, ancora perfettamente operativo dopo 140  anni, affiancato peraltro al tunnel autostradale. Questa ferrovia è  attualmente molto sottoutilizzata rispetto alle sue capacità di  trasporto merci e passeggeri, sarebbe dunque logico prima di progettare  opere faraoniche, utilizzare al meglio l’infrastruttura esistente.  Lyon-Turin Ferroviarie a sostegno della proposta di nuova linea ipotizza  che il volume dell’interscambio di merci e persone attraverso la  frontiera cresca senza limiti nei prossimi decenni. Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino dimostra che “assunzioni e conclusioni di  questo tipo sono del tutto infondate”. I dati degli ultimi anni lungo  l’asse Francia-Italia smentiscono infatti questo scenario: il transito  merci è in calo e non ha ragione di esplodere in futuro.
 Un rapporto della Direction des Ponts et Chaussées francese predisposto  per un audit all’Assemblea Nazionale nel 2003 afferma che riguardo al  trasferimento modale tra gomma e rotaia, la Lione-Torino sarà  ininfluente. E ora i costi di realizzazione a carico del governo  italiano: 12-13 miliardi di euro, che considerando gli interessi sul  decennio di cantiere portano il costo totale prima dell’entrata in  servizio dell’opera a 16-17 miliardi di euro. Ma il bello è che anche  quando funzionerà, la linea non sarà assolutamente in grado di ripagarsi  e diventerà fonte di continua passività, trasformandosi per i cittadini  in un cappio fiscale.
 Ecco, allora, sintetizzata solo una minima parte dei dati che riempiono  decine di studi rigorosi, incluse le recenti 140 pagine di osservazioni   della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone, dati sui quali si  rifiuta sempre il confronto, adducendo banalità da comizio tipo “i  cantieri porteranno lavoro”. Eppure il lavoro potrebbe arrivare anche da  quelle piccole opere capillari di manutenzione delle infrastrutture  italiane esistenti, ferrovie, acquedotti, ospedali, protezione  idrogeologica, riqualificazione energetica degli edifici, energie  rinnovabili.
 Seguendo lo stesso criterio, anche l’Expo 2015 di Milano sarebbe  semplicemente da non fare, chiuso il discorso. Sono eventi che andavano  bene cent’anni fa. Se oggi in Italia tanti comitati si stanno  organizzando per dire “no” alle grandi opere e per difendere i beni  comuni e gli interessi del Paese, non è per sindrome Nimby (non nel mio  cortile), bensì perché, come ho scritto nel mio “Prepariamoci”  (Chiarelettere), per troppo tempo si sono detti dei “sì” che hanno  devastato il paesaggio e minato la nostra salute fisica e mentale.
