Ma cosa vuol dire abbandonare un sistema fiscale assistenzialista verso la famiglia, per abbracciare un modello sostenibile? Il cambiamento consiste nel passare da un trattamento fiscale basato sul principio redistributivo a un trattamento basato sul principio di sussidiarietà, che può realizzare una maggiore (e migliore) equità verso la famiglia2.
Per chiarire il concetto
Da anni si parla di equità fiscale verso la famiglia. Cerchiamo di capire: cosa si intende con questa espressione; quali motivi la rendano più che mai necessaria, oggi e nel prossimo futuro; come si possa realizzare in pratica. Il tema dell'equità fiscale verso la famiglia riguarda il fatto che la famiglia sostiene i costì della riproduzione della popolazione, ossia del ricambio fra le generazioni, e dovrebbe essere riconosciuta in questo suo ruolo sociale. I costi non sono solo economici, ma riguardano tutto ciò che serve a generare e rigenerare il capitale umano e sociale prodotto dalle famiglie in quanto sfera di mediazione fra i sessi e le generazioni. Lo Stato italiano, invece, non solo non riconosce questo ruolo, ma penalizza la famiglia che ha figli rispetto a quella senza, e la penalizza quanti più figli ha. Nell'impostazione tradizionale, l'equità fiscale è intesa come una sorta di "compensazione", più o meno generosa (a discrezione del Governo), per l'assolvimento di queste funzioni sociali. Compensare non è esattamente come essere equi, cioè seguire criteri di giustizia. Ma cosa significa che il sistema tributario deve essere equo verso la famiglia?
Questa domanda può avere diverse risposte a seconda dell'etica della giustizia che si mette in campo. Tuttavia una cosa è chiara per tutti: equo è un modo di trattare in modo "adeguato" — quindi "disuguale", nel senso di proporzionale alle loro possibilità contributive — i soggetti che sono "disuguali" per il livello di reddito. Nel caso degli individui ciò sembra chiaro, ma in realtà non è così, perché gli individui sono disuguali per il loro reddito individuale, e soprattutto perché hanno diverse responsabilità familiari. C'è chi non ne ha, e c'è chi ne ha molte e varie, verso i figli, il coniuge, eventuali anziani o altri membri non autosufficienti presenti in famiglia. Il reddito tassabile va quindi calcolato tenendo conto delle responsabilità familiari degli individui. Per non frammentare le titolarità e riconoscere veramente i diritti della famiglia (non degli individui nella famiglia, come recita l'art. 29 della Costituzione) , occorrerebbe adottare un concetto di soggettività tributaria della famiglia come tale, cioè come soggetto sociale (non gli individui o i loro aggregati casuali), il cui reddito effettivamente spendibile varia a seconda del cosiddetto "carico familiare". Ma questo riconoscimento viene impedito dall'assetto hobbesiano dello Stato moderno, che riconosce i diritti di cittadinanza solo agli individui.
Fin qui siamo ancora dentro l'impostazione del welfare state del Novecento, di cui è un riflesso anche la nostra Costituzione del 1948, che parla genericamente dell'equità come criterio di progressione nella contribuzione di "tutti" alle spese pubbliche (art. 53). Si deve notare che questa formulazione è Stato-centrica, ossia vede l'imposizione tributaria dei soggetti dal punto di vista dello Stato e non in una logica più ampia di costruzione del bene comune. Una sua revisione è opportuna in relazione all'introduzione del principio di sussidiarietà nella Costituzione con la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che ha riformato il Titolo V. Un principio che si sta affermando in tutta Europa, dopo che è stato inserito nei Trattati internazionali, a partire da quello di Maastricht. L'equità può e deve essere ora considerata in un quadro più ampio. Per farla breve, ci rendiamo conto che il concetto di equità fiscale è stato sinora concepito in Italia utilizzando un solo criterio equitativo: quello della redistribuzione, che consiste in un Centro che raccoglie da tutti i cittadini per fornire solidarietà a chi è in stato di particolare bisogno. Si tratta di un'equità per far fronte alla povertà, non alle funzioni sociali della famiglia. Di qui il suo carattere assistenzialistico.
Esistono altri criteri di equità? Certamente. Si tratta innanzitutto del criterio della giustizia commutativa, quella che impone di scambiare secondo degli equivalenti (non necessariamente monetari). In base a tale criterio, gli individui e le famiglie dovrebbero pagare i tributi conoscendo quale corrispettivo "adeguato" ricevono dallo Stato, centrale o locale, in termini di beni e servizi pubblici. Poi c'è il criterio della giustizia distributiva, che consiste nel trattare ciascun soggetto in modo adeguato ai compiti che gli sono riconosciuti come propri e specifici {la dottrina li chiama munera, e sono stabiliti secondo criteri di attribuzione: nel caso della famiglia, gli articoli 29, 30, 31 della Costituzione) . Quest'ultimo criterio è fondamentale per dire se un sistema fiscale è equo oppure no a fronte dei costi sostenuti dai genitori per far fronte ai propri diritti-doveri dì solidarietà interna e in particolare in ordine al mantenimento e all'educazione figli.
Si ricordi che il costo di mantenimento del figlio si riferisce ai bisogni di base, ed è oggi misurato attraverso le scale di equivalenza, mentre il costo di accrescimento di un figlio comprende, oltre al costo di mantenimento, anche il costo del tempo che i genitori dedicano alla cura dei figli e il costo di quei beni e servizi che dipende dalla propensione dei genitori a investire sulla qualità dei figli. Il costo di mantenimento del bambino serve per operare confronti interfamiliari, necessari per garantire un trattamento fiscale equo, mentre il costo di accrescimento del bambino è appropriato per spiegare le scelte procreative3. Questi due ultimi criteri di equità sono quelli verso cui la riforma fiscale e del welfare dovrebbero indirizzarsi per superare i limiti del criterio puramente redistributivo ed evitare i molti danni che ha provocato in passato.
Quali motivi rendono necessaria questa nuova configurazione dell'equità fiscale verso la famiglia? Essenzialmente il fatto che il criterio puramente re distributivo incide sulle condizioni di vita delle famiglie, ma produce un impoverimento delle lo-
ro capacità di vita. I sistemi fiscali dell'ultimo Novecento hanno prodotto un grande indebolimento delle famiglie sotto il profilo delle loro potenzialità di partecipazione sociale, di sviluppo economico, di valorizzazione umana delle persone: i sistemi fiscali che abbiamo ereditato dal passato erodono il capitale umano e sociale delle famiglie. Questi motivi sono di per sé sufficienti per giustificare l'adozione di nuovi criteri di equità fiscale verso la famiglia. Anche se tante altre considerazioni potrebbero essere tirate in ballo, per esempio il fatto che lo Stato redistributivo trattiene per sé una percentuale molto alta del prelievo fiscale che dovrebbe restituire alle famiglie in base ai loro bisogni e che invece destina a colmare il bilancio passivo di altre Casse dello Stato.
Discutere i modelli
Cosa fare allora? La giustizia commutativa viene oggi considerata nella riforma che va sotto il nome di "federalismo fiscale". Portare il fisco a livello locale significa rendere più visibile e controllabile da parte delle famiglie il nesso fra contribuzione fiscale e beni/servizi ricevuti dalle amministrazioni pubbliche locali. L'introduzione di un criterio di giustizia distributiva è l'altra grande novità. Essa consiste nel ripensare lo strumento equitativo denominato "quoziente familiare" che è stato al centro del dibattito degli ultimi anni, e che ha generato anche alcune confusioni (per esempio viene denominato "quoziente familiare Parma" una semplice revisione dell'Isee più favorevole alle famiglie numerose, senza assumere la filosofia del quoziente alla francese). E così che è nata l'idea del FattoreFamiglia. Vediamo di spiegarci. Esistono due grandi modelli di equità fiscale verso la famiglia: quello per via redistributiva e quello per via distributiva. Il quoziente familiare nasce in Francia e consiste nel tassare il reddito familiare diviso per un fattore che misura il numero dei componenti della famiglia, tenendo conto dell'età e dello stato di salute di ciascuno. In questo modo l'imposizione tributaria tiene conto dei "carichi familiari" e tassa l'effettiva capacità contributiva della famiglia come aggregato domestico. Viene applicato un criterio di equità redi-stributiva, per cui, in poche parole, chi ha più figli (e altre persone a carico) viene tassato di meno. Ma il sistema del quoziente familiare alla francese ha alcuni gravi inconvenienti. Primo, richiede un sistema fiscale pubblico assai efficiente, e che trattiene l'indispensabile, per dare sostegni economici rilevanti alle famiglie. Un requisito che l'Italia non ha. Secondo, se non ben ponderato, ridistribuisce le risorse "verso l'alto", ossia dalle famiglie a basso reddito verso quelle a reddito più alto.
Il secondo inconveniente sarebbe superabile con un'opportuna correzione (pesando i fattori e modificando gli scaglioni di reddito), ma questa operazione richiede un sistema fiscale centrale molto efficiente, cioè capace di forti innovazioni nelle procedure burocratiche, cosa che non tutti i Paesi, fra cui l'Italia, possiedono. Terzo, prelevare reddito dalle famiglie significa non riconoscere che quel reddito serve per far fronte alle funzioni sociali che le famiglie hanno come diritto-dovere proprio e originario, e quindi significa sottoporre la famiglia e il suo reddito alla legittimazione dello Stato Leviatano (di derivazione hobbesiana, in Francia chiamato Giacobino). Proprio quest'ultima caratteristica viene oggi messa in causa, perché in essa sta l'origine delle distorsioni di quello Stato paternalistico e assistenzialistico che non risulta più sostenibile, e neppure auspicabile nell'epoca (società delle reti e dell'economia relazionale) in cui stiamo entrando. Ecco allora farsi strada l'idea che, ferme restando le esigenze di solidarietà verso chi ha più bisogno, possiamo modificare i sistemi fiscali introducendo un criterio di equità distributiva che riconosca i compiti propri e originari della famiglia (artt. 29,30,31 della Costituzione) e di conseguenza non tocchi le risorse minime dì cui essa ha bisogno per far fronte a quei compiti. Queste risorse corrispondono al livello di reddito non imponibile (la no tax area). Vengono tassati solo i redditi da quel livello in su, con un criterio progressivo, e viene evitata la povertà perché il nuovo sistema equitativo integra il reddito che manca alle famiglie per arrivare alla soglia ritenuta di minimo vitale con una "tassa negativa" (cioè come debito del sistema fiscale alle famiglie) e altri assegni specifici.
A queste esigenze sembra corrispondere il Fattore Famiglia, che presenta una serie di vantaggi rispetto alle ipotesi di quoziente familiare alla francese: a) è relativamente più semplice, perché si può calcolare mediante uno strumento già esistente che è quello delle scale di equivalenza (in sostanza, l'Isee, che necessita di una revisione perché pensato per gli individui e le loro aggregazioni quantitative, non qualitative: risulta iniquo verso le famiglie numerose e quelle meridionali) ; b) evita di complicare ulteriormente la macchina fiscale; c) non richiede modifiche costituzionali e legislative circa l'esistenza di una soggettività tributaria della famiglia; d) e soprattutto risponde all'esigenza di lasciare alla famiglia quanto le è necessario per adempiere i suoi compiti, in base al principio di sussidiarietà.
Strumento fondamentale
Va ricordato che questo principio si sta affermando nell'area del Centro Europa, da quando la Corte costituzionale della Germania lo ha affermato in una sua sentenza fondamentale, in base alla quale non è lecito togliere alle famiglie le risorse che esse guadagnano per far fronte alle loro funzioni essenziali, per farne oggetto di una redistribuzione gestita dallo Stato. Solo se non ce la fanno, entrano in gioco altri principi di equità, come quello redistributivo. Questa impostazione riflette il principio più generale di sussidiarietà che deve regolare i rapporti fra i soggetti di società civile e lo Stato, in base al quale quest'ultimo interviene solo quando le comunità di ordine inferiore non riescano a far fronte ai loro compiti. In qualche modo, il Fattore Famiglia ricorda e attualizza la proposta del Bif (Basicfamily income) fatta circa dieci anni fa dal compianto economista Marco Martini*.
Va sottolineato che quell'idea non era, come non è anche oggi, la stessa di un reddito minimo di cittadinanza dato per via politica redistributiva. Essa contiene un principio di uguaglianza, perché adotta un sistema di riconoscimenti di carichi familiari egualitario: a ciascun contribuente non viene consentito di dedurre dall'imponibile il lusso, ma quello che è considerato necessario per una vita familiare minimamente dignitosa. Mentre il quoziente familiare alla francese si ispira a un assetto di Stato che si ispira a una filosofia "giacobina", il Fattore Famiglia risponde assai di più a un principio di sussidiarietà alla tedesca. Sia il primo sia il secondo sono strumenti di lotta alla povertà, ma il secondo, più del primo, considera la lotta alla povertà in funzione del riconoscimento della famiglia come soggetto sociale. Vale comunque la pena di avvertire che nessun sistema fiscale può risolvere i problemi dell'equità verso la famiglia con un solo strumento.
Il Fattore Famiglia, come il quoziente familiare, è uno strumento fondamentale, ma i bisogni e le vicissitudini delle famiglie sono talmente variegati e complessi che richiedono sempre altri smanienti per andare incontro a situazioni particolari che cadono fuori dei parametri standardizzati (le scale di equivalenza, i Lea o livelli essenziali di assistenza). Queste situazioni variabili si riferiscono sempre più a dinamiche familiari locali che possono essere meglio gestite a livello territoriale, dalle Regioni in giù. Pensiamo alle esigenze delle famiglie con lavoro stagionale o intermittente, alle famiglie fragili per motivi legati alla mancanza di sostegni informali o a carenze di servizi pubblici, o per conflitti o patologie interne per le quali non basta un'equità fiscale parametrata su un modello statistico di famiglia. Anche coloro che hanno sinora sostenuto il modello liberal-socialista (Ub-lab) di welfare e di politiche familiari, come per esempio Maurizio Ferrera, si rendono oggi conto di aver abbracciato una prospettiva insostenibile. In ogni caso devono prendere atto che l'assetto di Stato fiscale che abbiamo ereditato non è più riproducibile, non solo a causa delle condizioni al contorno (crisi economica su scala globale e sue conseguenze), ma anche perché seguire quel modello ha significato commettere gravi ingiustizie verso la famiglia, la qual cosa ha provocato una serie di disastri sociali (bassa natalità, depressione-demografica, iniquità verso le nuove generazioni, precarietà della condizione giovanile, continua erosione del capitale sociale familiare e delle risorse umane e sociali che rendono prospera una società).
Un welfare relazionale
Solo chi resta attaccato a ideologie utopiche del passato, come Gosta Esping-Andersen, può oggi sostenere che si dovrebbe tassare anche il lavoro casalingo o tassare diversamente il lavoro di donne e uomini, per affermare il primato dello Stato o del Mercato. Abbiamo invece bisogno di un sistema fiscale che sia equo verso le famiglie e i soggetti della società civile, se vogliamo davvero far fronte ai disastri di un modello distorto di sviluppo. Tutti ormai ammettono che la famiglia rimane la grande risorsa di ogni Paese, particolarmente dell'Italia in cui sono le famiglie a fare risparmio e investimento, mentre lo Stato sperpera denaro e crea disuguaglianze. Ciò non significa però dare ragione al liberismo ( lib) contro la regolazione pubblica (lab). Significa invece cambiare piano di discorso e adottare criteri di sussidiarietà solidale. Dobbiamo trarne tutte le dovute conseguenze. Non già facendo tagli lineari alla spesa pubblica, ma introducendo criteri dì equità nel sistema fiscale e nelle politiche sociali. Si tratta di dare maggiore libertà e responsabilità alla società civile, a fronte di mercati finanziari irresponsabili e a burocrazie statali inefficienti. Attenzione, però: non si tratta di dar corso a un laissez-faire sregolato, perché l'equità fiscale verso la famiglia non si realizza con le libertà del liberalismo individualista.
Lo scenario non è quello delle privatizzazioni, dell'uso strumentale della famiglia come ammortizzatore sociale, e via dicendo. Non si tratta di immaginare una Big Society che dovrebbe emergere dai tagli della spesa sociale. Si tratta invece di promuovere il nesso fra libertà e responsabilità delle famiglie come soggetti sociali. Se il welfare state è stato una conquista nel Novecento, esso deve essere profondamente ridisegnato tenendo conto del fatto che, se all'inizio è stato un sostegno per la famiglia, negli ultimi decenni è cresciuto a spese delle famiglie, provocando grandi danni sociali. Primo fra tutti quello di rischiare di portare alla rovina i nostri figli.
Dobbiamo tenere presenti gli errori del passato per disegnare il nuovo welfare, che dovrà essere delle famiglie e dei figli, non dei mercati e delle burocrazie. Cioè un welfare relazionale, parallelo alla cosiddetta "economia delle relazioni", per uno sviluppo sostenibile basato sul ruolo attivo delle famiglie come soggetti che svolgono funzioni sociali non sostituibili e come interlocutori attivi anziché come destinatari passivi di meccanismi puramente redistributivi, centrali o locali che siano.
Pier Paolo Donati