Quelli che mandano in default interi paesi, condannando alla povertà milioni di persone. Ma nei movimenti di protesta serpeggia una nuova parola d'ordine: il diritto all'insolvenza. Un sistema per salvare il welfare.
La bancarotta morale dei nostri governanti accompagna sinistramente il rischio di bancarotta, o default che dir si voglia, dell'economia nazionale. Potrebbe, infatti, rivelarsi insopportabile, già in un prossimo futuro, l'obbligo di pagare interessi crescenti sul nostro enorme debito pubblico, che ha superato la cifra astronomica di 1.900 miliardi di euro.
Come già in Grecia, e prima ancora nella piccola Islanda, cominciano a porsi domande radicali, pensieri sovversivi: a chi li paghiamo questi interessi? A chi deve essere intestato questo debito? E’ giusto che lo paghino, in buona misura, le classi meno abbienti e i giovani che lo subiscono senza averne tratto vantaggi?
Sono domande scandalose, che infrangono i dogmi della religione universale degli economisti. Eppure circolano. Serpeggia nei movimenti di protesta contro i sacrifici, imposti con nuove tasse e con tagli dei servizi sociali, perfino una nuova parola d'ordine: il diritto all'insolvenza. L'idea, cioè, che la politica dovrebbe imporsi fino a condizionare le leggi dell'economia, sino a ieri considerate inviolabili, sospendendo il pagamento degli interessi sul debito, pur di preservare il welfare e investire risorse in un piano keynesiano d'investimenti per l'occupazione.
Facile a dirsi, molto meno a realizzarsi. Perché a risentirne, per prime, sarebbero le banche in cui sono custoditi i nostri risparmi (assieme a quote elevatissime del debito sovrano) e da cui dipende l'esistenza stessa di molte aziende. E poi perché la speculazione finanziaria si è ormai concentrata in un numero ristretto di hedge funds e banche d'affari che hanno assunto le caratteristiche di una vera e propria superpotenza mondiale, in grado di tenere in scacco gli stessi governi che nel 2008 avevano provveduto alloro salvataggio con fondi pubblici. Cioè di noi tutti.
Tale superpotenza mondiale è tuttora fedele alla sua religione, secondo cui le leggi dell'economia sono immodificabili. Ci può essere una recessione che provoca sofferenze sociali acute. Ci può essere perfino una nuova Grande Depressione, più grave di quella durata un decennio a partire dal 1929 e sfociata in una guerra mondiale. Ma nonostante questo scenario da incubo, i sacerdoti di questa religione restano convinti che, alla fine, se ne uscirà con le stesse regole, o, se preferite, con la stessa assenza di regole.
E’ proprio questa ostinazione nel considerare impensabile un'altra dimensione dell'economia - meno competitiva, vigile contro l'acuirsi delle disuguaglianze di reddito, capace di imporre un limite verso l’alto oltre che verso il basso agli stipendi - a suscitare il nostro dispetto. Pare quasi che gli economisti abbiano rinunciato a considerare la giustizia sociale come una delle finalità della loro disciplina, subordinandola alla funzionalità del sistema. Ma se davvero i sacerdoti del libero mercato danno per scontato che dalla crisi attuale non si possa uscire con più giustizia sociale, il minimo che possono aspettarsi in risposta è la rivendicazione del diritto all'insolvenza.
Gad Lerner
Nigrizia, anno 2011, n. 10, pag.82