Se in un remoto futuro qualche storico si cimenterà in un improbabile stesura di una storia della società dello spettacolo, è verosimile che il capitolo relativo a questi ultimi vent’anni tratterà innanzitutto della diffusione e della divulgazione di concetti, saperi e analisi che nei decenni precedenti erano arcani riservati a piccoli gruppi di militanti o a pochi uomini di potere. Naturalmente come in ogni processo divulgativo si sono persi dettagli e sfumature, che spesso sono la sostanza stessa della tesi, a vantaggio di semplificazioni e discorsi più grossolani, ma sono davvero molti gli esempi negli ultimi anni che attestano una percezione sempre più diffusa del ruolo dei media e in particolare della televisione nella gestione del potere. Per restare all’orticello italiano innanzitutto, è evidente che in questi diciassette anni si sia sviluppata una sensibilità di massa, anche se non maggioritaria, verso il legame tra potere politico e televisivo, tra monopolio delle immagini e della comunicazione e affermazione carismatica di un leader. Si tratta forse di una percezione monca, che tende magari a vedere solo l’immediatezza di certe scelte legate alla cronaca politica, ignorando l’aspetto più subliminale della strategia mediatica che trasforma la vita artificiale delle merci in una seconda natura dell’uomo, ma è innegabile che numerose persone, sprovviste talvolta anche di strumenti culturali e politici, non identifichino più la tv come il luogo della verità e anzi addirittura lo avvertano come sede della manipolazione. Questo atteggiamento, per quanto ingenuo, è certamente un disturbo per quel lavorio di costruzione della seconda natura, che consiste in un continuo e inavvertito ritocco del paesaggio sullo sfondo.
Anche in altri paesi non sono mancati episodi significativi, come per esempio in Spagna nel 2004 la rivelazione di massa delle menzogne del governo sulla responsabilità degli attentati di Madrid alla vigilia delle elezioni, anche se per la verità quella fu una falsificazione alquanto grossolana. Forse il dato più significativo è però che negli ultimi due decenni l’industria cinematografica americana, quello che si sarebbe detto un tempo uno dei centri del dominio spettacolare, abbia sfornato film, il più famoso dei quali è The Truman show (1998), incentrati sul tema della manipolazione mediatica e televisiva con forti accenti critici.
Eppure, che la videocrazia costituisca uno degli elementi essenziali della logica di dominio delle società postmoderne, quella che è stata chiamata lo spettacolare integrato, è ancora uno dei punti cardine del nostro presente. Anzi, alcuni episodi di scoperta di palesi menzogne come la gestione del dossier sulle armi di distruzione di massa di Saddam con le scuse finali dell’amministrazione statunitense per l’errore hanno prodotto conseguenze alquanto limitate, finendo con il diventare tutt’al più versioni sempre più sofisticate di situazioni che rendono ragione del noto principio debordiano secondo il quale il vero non è che un momento necessario dell’instaurazione del falso.
Sembra allora che le pratiche di disvelamento e il discorso critico siano privi di efficacia nel portare a una consapevolezza complessiva sui sistemi di governo tramite video, addirittura secondo taluni pessimisti diventando questi stessi elementi di quel vero che è un momento del falso. D’altra parte queste pratiche critiche hanno luogo in una società attuale radicalmente depoliticizzata e radicalmente estetizzata e perciò i loro effetti sono più simili al dubbio che talvolta nutre il consumatore sulla veridicità della pubblicità di un prodotto che alla denuncia fatta da un cittadino di pratiche che ledano i suoi diritti. Il consumatore cambierà modello o marca sicuro che nella cornucopia delle offerte troverà la più adatta a lui, il cittadino cercherà di prendere la parola per generalizzare il suo caso, cioè per renderlo politico. Solo in una prospettiva politicizzata può essere compreso profondamente l’uso della televisione e degli altri media come forma di dominio. Quale sia l’arretramento della coscienza politica di questo nostro tempo rispetto ad anni in cui comunque erano già operanti tecniche di dominazione spettacolare attraverso la televisione può essere indicato da una constatazione banale e tutto sommato secondaria: alcuni degli elementi del programma contenuto nel celebre Piano di Rinascita Democratica sono oggi tranquillamente dibattuti nell’attualità politica sotto il nome di riforme. Ciò che negli anni Settanta poteva circolare solo sotto forma di piano clandestino e azione parallela nel nebbioso mondo degli agenti segreti e dei cospiratori professionali, oggi è oggetto del normale dibattito pubblico ed è obiettivo auspicato di numerosi attori della scena politica e ciò non per effetto di macchinazioni occulte ma per l’incremento della depoliticizzazione di massa.
C’è inoltre un problema di difficoltà di linguaggio o di stile: spesso la critica della videocrazia è condotta in modalità del tutto omogenee a quelle mediatiche di ciò che si denuncia. Tale omogeneità comunicativa finisce perciò con il confermare implicitamente un orizzonte o, se si preferisce, un paesaggio che i contenuti contestano o criticano. Tutto ciò non è frutto di errori o di false coscienze individuali, ma è la conseguenza tangibile di un dissesto della comunicazione umana dovuta all’«alienazione del linguaggio stesso, della natura linguistica e comunicativa dell’uomo, di quel logos in cui un frammento di Eraclito identifica il Comune» (Giorgio Agamben Mezzi senza fine, 1996) prodotta dalle pratiche spettacolari.
Eppure due novità, anche se non automaticamente positive, sembrano incrinare il dominio assoluto del video come strumento di controllo: innanzitutto l’affacciarsi di una generazione, quella dei diciottenni di oggi, che non vede nella televisione l’unica fonte autorevole di formazione essendo cresciuta su internet e sui nuovi media. Certo anche essi sono parte e in qualche misura espressione della società che ha creato la videocrazia, ma la loro natura interattiva pone oggettivamente delle alterità laddove prima c’era omogeneità. In secondo luogo la precarizzazione di una quota crescente della popolazione introduce brutalmente un principio di realtà all’esposizione del sogno televisivo di un mondo estetizzato dalla pienezza di merci acquistabili, che è la base su cui regge ogni videocrazia. Nulla garantisce che questi elementi svolgano effettivamente un ruolo liberatorio o che si traducano in nuove forme di politicizzazione, ma in questo frangente sembrano garantire uno spazio impregiudicato, che non è poca cosa per chi ormai credeva di vivere in un mondo senza via d’uscita possibili.
di Giorgio Mascitelli
da Fondazione Roberto Franceschi onlus