Che l’Italia sia un paese dalle forti disuguaglianze è un dato ormai consolidato. Nell’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite (cf Sett. N.43/2011, p.7) proprio questo elemento è tra quelli che pongono il nostro paese in una posizione più bassa rispetto ad altri che hanno gli stessi indicatori di benessere. Ora anche la Banca d'Italia ha confermato il dato, non più di un mese fa,collocando l'Italia tra i paesi a maggiore disuguaglianza in ambito Ocse insieme a Stati Uniti e Regno Unito.
Si tratta di un elemento connotante l'attuale società italiana e che contribuisce a spiegare un fenomeno in crescita e destinato a incrementarsi ulteriormente con la crisi economica, quello dei working poor, coloro cioè che, nonostante abbiano un lavoro, non percepiscono una retribuzione sufficiente per garantire a se stessi e alle loro famiglie una dignitosa sussistenza. Ne deriva che vanno ad alimentare quella fascia di popolazione che vive in condizioni di povertà relativa, quel parametro che esprime la difficoltà nella fruizione di beni e di servizi in rapporto al livello economico medio di vita.
Si stima che nel nostro paese siano tra il 15 e il 20% i lavoratori in questa condizione, vale a dire un lavoratore, uomo o donna che sia, su cinque. Prima della crisi, dunque nel biennio 2008-2009, erano già il 10% dell'intera popolazione lavorativa, pari a oltre un milione di persone. Il dato, questo certo, lo aveva rilevato nel 2010 il Rapporto sulle politiche contro la povertà e l'esclusione sociale presentato lo scorso anno all'incirca in questo periodo dalla commissione governativa di indagine sull'esclusione sociale presieduta dal sociologo Marco Revelli. Un rapporto che aveva il merito di non fondarsi solo su dati statistici ma di entrare "in presa diretta" con situazioni reali essendo stato elaborato attraverso audizioni e interlocuzioni sul territorio.
Secondo l'indagine, infatti, con il 10% dei lavoratori occupati al di sotto della soglia di povertà, il nostro paese si trova alla pari di Lettonia e Portogallo, migliore solo della Polonia, della Grecia e della Romania.
Poveri, nonostante un reddito entri in casa; poveri, nonostante facciano l'impossibile per non darlo a vedere; poveri, ma non abituati a chiedere assistenza ai servizi sociali preposti, così da rimanere al di fuori anche dalle reti assistenziali. Se, in queste condizioni, vivevano un paio di anni fa oltre un milione di lavoratori italiani, oggi, con la crisi che sta colpendo duro specie su chi vive di redditi da lavoro salariato, il numero è certamente cresciuto.
La crisi economica spiega solo in parte il fenomeno, che ha radici più profonde e che è frutto della disuguaglianza. In Italia la disuguaglianza del reddito ha registrato un andamento a U: in diminuzione dalla metà degli anni 70 alla fine degli anni 80, in aumento negli anni 90 e con un andamento stazionario dal 2000 in avanti.
Il mercato del lavoro. Se per gli Stati Uniti, dove il fenomeno è nato a metà degli anni 90 come conseguenza della globalizzazione liberista, sono vari gli elementi che entrano in gioco, tra cui fondamentale quello di un progresso tecnologico che ha premiato i più istruiti lasciando gli altri lavoratori, quelli con una qualifica professionale più bassa, i cosiddetti lavoratori unskilled, senza competenze, nel gradino più basso delle remunerazioni salariali, per l'Italia le dinamiche sono diverse. Il premio all'istruzione, infatti, è molto basso, se non inesistente, così che tra i woorking poor sono sempre di più diplomati e laureati che percepiscono salari bassissimi, come i ricercatori che vivono con 7-800 euro al mese, o i lavoratori di call center, spesso plurilaureati, che guadagnano 4-500 euro al mese.
Inoltre, ci sono elementi strutturali che risultano peculiari del nostro paese: la quota del reddito nazionale che va al lavoro è tra le più basse nei paesi Ocse, la diminuzione della quota dei redditi da lavoro dipende in misura maggioritaria dalla negativa evoluzione del salario reale che è diminuito del 16% tra il 1988 e il 2006, e il fatto che, se si confrontano i redditi mediani, quelli del decile della popolazione più povero e quelli del decile della popolazione più ricco, emerge la gravità della situazione italiana.
Mentre, infatti sia per il decile più povero che mediano ci collochiamo all'ultimo posto tra i paesi considerati con redditi che sono i più bassi in ambito Ocse, il reddito del 10% di popolazione più ricca risulta essere invece il più alto in ambito dei paesi Ocse, confermando così il profondo e radicato squilibrio che il paese vive con conseguenze rilevanti sul piano sociale ed economico.
Il fenomeno, dunque, si presenta complesso, inserito com'è nelle dinamiche della globalizzazione liberista che tuttavia acquisisce caratteristiche peculiari di paese in paese. In Italia, molto più che altrove, l'ineguaglianza è un dato ormai strutturale così come la bassissima mobilità sociale: la probabilità, infatti, di cambiare classe sociale è modesta e i percorsi di carriera per la stessa generazione risultano molto lenti. Il lavoro che si trova a 25-30 anni per integrare lo studio universitario o per cominciare a lavorare appena finiti gli studi, anche se non corrisponde al percorso formativo intrapreso e se produce un reddito basso, finisce per trasformarsi in un'occupazione che si prolunga nel tempo, senza che ci siano le opportunità per cambiarlo.
È dunque il mercato del lavoro a far da ago della bilancia. «La disoccupazione è diventata, nella società occidentale, un dato strutturale, frutto di politiche di deregolamentazione e di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno proceduto di pari passo con il dominio della finanza sull'industria, o, più precisamente, del capitale speculativo su quello produttivo - scrive Stefano Giusti, sociologo e consigliere dell'associazione Adtal over 40 che si occupa della disoccupazione in età matura e autore del primo rapporto in Italia sui disoccupati over 40-. La società del lavoro si è trasformata e il lavoro stesso in alcuni casi tende a scomparire o, quantomeno, a riguardare la vita di sempre meno persone. In Italia, più che altrove, la precarizzazione e il sottomansionamento, che sono tra le trasformazioni sociali introdotte negli ultimi anni nel "nuovo" mercato del lavoro, sono tra i motivi principali che hanno portato a un allargamento della fascia dei lavoratori che, pur in condizioni di occupazione, non sono in grado di garantirsi un'autonoma sussistenza».
Reddito minimo di cittadinanza. Tutto questo accade, dunque, perché il lavoro non ha più la valenza sociale ed economica che gli era riconosciuta prima dell'avvento della globalizzazione liberista, fondata sulla speculazione finanziaria, ma anche perché in Italia non esiste un reddito minimo per coloro che non lavorano o per coloro che, pur lavorando, non riescono comunque a mantenersi. «Di fronte a questo quadro di abbandono - scrive ancora Stefano Giusti - bisogna prendere atto che siamo di fronte a una situazione sociologicamente nuova e che la corrispondenza salario-tenore di vita non ha più region d'essere, almeno in molti casi. Per questo bisogna cominciare a ragionare in termini di introduzione di un reddito di cittadinanza che sganci le prospettive di vita dei singoli cittadini dall'avere o meno un lavoro».
Il ragionamento è semplice: se oggi il lavoro non garantisce più nemmeno il minimo per vivere in una società avanzata dove tutto si paga, allora occorre pensare a una misura, come quelle già presenti in Francia, in Germania e nei paesi scandinavi, che garantisca un minimo in virtù dell'essere cittadino in difficoltà. Mentre in molti paesi europei il dato è acquisito e la condizione di disoccupazione o di sottoccupazione non porta, nella maggior parte dei casi, alla povertà, in Italia un simile ragionamento è sempre stato fortemente osteggiato, adducendo, oltre al motivo economico (costa troppo) che una simile iniziativa favorirebbe un "atteggiamento assistenzialista" nei confronti delle persone, che non sarebbero invogliate a impegnarsi per cercare un lavoro o per cercare di modificare la loro condizione lavorativa esistente, favorendo una sorta di "parassitismo sociale".
Per quanto riguarda i costi, in Francia tale misura costa 13 miliardi di euro: se si pensa che in Italia la corruzione ci costa 50 miliardi di euro l'anno e l'evasione fiscale 250 miliardi di euro l'anno, la risposta su dove trovare le risorse è presto data. Riguardo, invece, ai timori di "parassitismo", i fautori della proposta sostengono che un reddito minimo complementare andrebbe integrato da misure per il ricollocamento e la qualificazione professionale.
In tempi di "tagli lineari" e di necessità di porre il bilancio statale in pareggio, certamente una simile proposta è destinata a non essere presa in considerazione. Se lo fosse, mostrerebbe che anche in Italia siamo maturi per una politica lungimirante, capace di incidere strutturalmente e andare oltre l'emergenza.
Sabrina Magnani
Settimana, anno 2011, n. 44, pg. 7