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Domenica, 25 Novembre 2012 18:29

Uomini che aggrediscono le donne

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Se mi lasci ti cancello. Dalla tua vita, dal tuo futuro, dalle persone che ti vogliono bene. In Italia, troppe volte, le donne muoiono così.

Cancellate dagli uomini che pretendevano d’amarle. Come se si potesse coniugare il verbo amare al singolare, senza rispetto per l’amata. Settanta volte su cento, quando la vittima di un omicidio è donna, alla mano che uccide corrisponde la faccia di un uomo conosciuto: un familiare, un partner, un ex che ha confuso l’amore e il possesso. Muoiono come Carmela, che si è messa in mezzo per difendere sua sorella Lucia dalla furia di Samuele. Come Melania, come le oltre cento che dall’inizio dell’anno ne hanno condiviso la malasorte.

In questi casi alcuni esperti sostengono che sia più preciso parlare di “femminicidio”. Provare a spiegarne l’assurdità è dipanare un groviglio di eredità culturali, ma sarebbe meglio dire anticulturali, che toccano un modo arcaico, e ìmpari, di concepire i rapporti tra uomini e donne: un modo che resiste alla civiltà che fa progressi. I giovani maschi che oggi si armano, maltrattano, aggrediscono perché non accettano un rifiuto o nella convinzione di essere stati traditi, nulla sanno dei «delitti a causa di onore » contemplati dal Codice penale fino al 1981, che attenuavano la pena per chi uccideva credendo di salvare l’onore proprio o della famiglia. Non erano nati o quasi. Eppure agiscono come se quell’idea distorta di onore, evidentemente respirata vivendo, li legittimasse ancora.

Non è neppure lontanissimo il tempo in cui il Codice civile non riconosceva, come accade invece oggi, alle donne nel matrimonio pari diritti e pari doveri rispetto ai mariti: fino al 1975 la legge assegnava al marito il ruolo di capofamiglia, garantendogli maggiore potere decisionale rispetto alla moglie, che era obbligata ad assumerne il cognome e ad accompagnarlo dovunque egli ritenesse opportuno fissare la residenza. Anche la possibilità per una donna sposata di avere un lavoro fuori casa era considerata subordinata alle esigenze della famiglia, stabilite comunque dal marito.

Carmela, Lucia, Melania e le altre, figlie degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, non avevano ragione di porsi il problema di quelle leggi, cassate da altre più eque e rispettose della pari dignità. Ma purtroppo quel codice, troppe volte, sopravvive a sé stesso nella mentalità in cui le persone vivono immerse. Tutte le persone: uomini e donne. Secondo una statistica Istat del 2007, solo il 18% delle donne che riconosceva di aver subìto maltrattamenti o violenze, riteneva quella condotta «un reato», anche se il 44% arrivava alla consapevolezza che quel comportamento fosse «sbagliato» e non semplicemente (come un altro 36%), «qualcosa che accade»: una fatalità da tollerare in silenzio.

Spesso il femminicidio è l’ultima tappa di una serie di vessazioni e violenze consumate all’interno delle mura domestiche o comunque di una relazione, tutte cose che configurano reati che vanno dai maltrattamenti allo stalking, introdotto nel 2009 per punire l’aggressione psicologica fatta di continue telefonate, tentativi di controllo, pedinamenti che minano la tranquillità della vittima. Molte volte comincia così la deriva che porta al peggio. A comportarsi in questo modo, spesso, sono uomini che non accettano il no di una donna, figli di una tradizione da cui per secoli si sono sentiti legittimati a pretendere con la forza quello che veniva loro negato con la ragione.

Basti pensare che fino al 1968 l’adulterio, illegale, era punito solo se a tradire era la moglie. E la violenza sessuale in Italia è considerata «un delitto contro la persona » da appena 16 anni: fino al 1996 era un reato contro «moralità pubblica e il buon costume », contro concetti astratti anziché contro la donna che la subiva, come se la vittima non esistesse, come se fosse trasparente. Tornano in mente le parole di Leonardo Sciascia che, in 1912+1, racconta quanto facilmente scattasse negli avvocati del primo Novecento «la convinzione che, nei casi di vio-lenza carnale, la donna avesse sempre torto, coscientemente o incoscientemente, che rappresentasse una provocazione».

Un secolo dopo molte cose sono cambiate, il diritto non è più un affare per soli uomini, ma le aggressioni di partner e familiari si denunciano ancora pochissimo. Per vergogna, per paura, per pregiudizio. «Spesso», racconta Paola Di Nicola, giudice a Roma, «le donne dichiarano in aula di aver sbagliato a denunciare i maltrattamenti subiti perché il marito, talvolta anche il figlio, è solo possessivo, solo geloso, solo attaccato alla famiglia, solo nervoso». In quel “solo” c’è un’idea di mondo. Un’idea che, anche quando non fa a pezzi i loro corpi, distrugge la vita di moltissime donne.

da Famiglia Cristiana
di Elisa Chiari

Letto 2887 volte Ultima modifica il Martedì, 11 Dicembre 2012 17:07

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