Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Abramo nel Nuovo Testamento


di Pier Luigi Ferrari



 


La prima generazione cristiana ha riletto la figura di Abramo alla luce di Cristo. Varie e ricche sono le riflessioni che ne sono scaturite e che percorrono il Nuovo Testamento: il patriarca è qualificato come l'antenato del popolo d'Israele, ma di fronte alla novità portata da Gesù si fa sempre più strada un interrogativo critico circa l'autentica appartenenza alla discendenza di Abramo; le promesse a lui fatte si illuminano e si ampliano in senso universale; egli diventa il tipo del credente cristiano, colui che ha addirittura anticipato la fede in Gesù Cristo.

L’uomo nuovo nell'epistolario paolino


 


di Ettore Franco




In un'epoca di transizione molte sono le proposte di cambiamento, ma spesso la delusione succede all'illusione quando le speranze riposte in «novità» risolutrici e decisive rivelano poi la loro fallacia nella contingenza storica e mostrano il limite ineliminabile di ogni progetto umano, sempre inadeguato e mai definitivo.
Sabato, 06 Settembre 2008 20:05

XXIII. Chiesa Ortodossa del Sinai

Le Chiese dell'oriente cristiano

Chiesa Ortodossa del Sinai






Essendo il sito dove secondo il Libro dell’Esodo Mosè ricevette la Legge da Dio, fin dai primi secoli il Sinai è stato frequentato dai pellegrini cristiani. Col sec. III gli anacoreti cristiani hanno cominciato a viverci e dal sec. IV vi si stabilirono una o più comunità di monaci.

Poiché la zona divenne critica e i monaci vulnerabili ad attacchi, nel 528 l’imperatore Giustiniano decise di fortificare il monastero. Vi trasferì inoltre 200 famiglie dall’Egitto e da Trebisonda perché proteggessero e servissero la comunità monastica.

In principio il monastero ebbe un carattere fortemente internazionale con monaci slavi, arabi, latini, armeni, etiopi, siriani e greci. Il monaco forse più famoso del monastero fu S. Giovanni Climaco, che fu abate nel sec. VII. In quel tempo la zona fu conquistata dai musulmani arabi. I governi islamici erano sostanzialmente tolleranti, ma in più occasioni tribù selvagge assaltarono il monastero obbligando i monaci a chiuderlo temporaneamente e a rifugiarsi al Cairo o ad Alessandria. Durante questo periodo, i monaci di altre nazionalità lasciarono il monastero ai Greci.

Il monastero di Santa Caterina, conosciuto fin dal sec. IX, faceva parte del Patriarcato di Gerusalemme, con la diocesi di Pharan. Dopo che il vescovo di Pharan venne deposto, nel 681, con l’accusa di monotelismo, la sede episcopale fu trasferita nel monastero stesso e l’Abate divenne quindi il vescovo di Pharan. Con la conseguente unione della diocesi di Raitho al monastero, tutti i cristiani della penisola sinaitica finirono sotto la giurisdizione dell’Abate-arcivescovo.

Nel 1575 il Patriarcato di Costantinopoli concesse al Monte Sinai l’autonomia, riaffermata nel 1782. Il solo legame con il Patriarcato di Gerusalemme era che l’Abate, eletto in un’assemblea di monaci seniori, doveva essere ordinato vescovo dal Patriarca di Gerusalemme, il quale era commemorato anche nella liturgia del monastero.

La biblioteca del monastero è rinomata per la sua antichità e per i suoi manoscritti. E’ qui che nel 1859 Tischendorf trovò il Codex Sinaiticus della Bibbia. Oggi la biblioteca vanta 4.000 manoscritti. Alcune delle più antiche icone sono custodite nel monastero, che era già fuori dall’impero bizantino durante la controversia iconoclasta quando molte delle icone imperiali andarono distrutte.



Attualmente il monastero, oltre alla biblioteca, possiede una casa per ospiti e un ospedale per la popolazione locale. I monaci, inoltre, dirigono una scuola in Cairo. Dal monastero dipendevano molte chiese e monasteri (metochia ) sparsi in altri paesi. Oggi ne ha uno in Cairo (dove spesso risiede l’Abate), sette in Grecia, tre in Cipro, uno in Libano e uno in Istanbul.

Oggi, oltre ai circa 20 monaci formanti la comunità monastica, questa chiesa include qualche centinaio di beduini e pescatori che vivono al Sinai. Nel 1984 è stato stipulato un accordo tra i governi greco ed egiziano che concede al monastero di ricevere fino a 50 nuovi monaci greci.

Dall’invasione d’Israele del 1967, il problema più grave che la comunità ha dovuto affrontare è il mantenimento di un autentico stile monastico nonostante il massiccio flusso dei turisti. Il problema persiste dopo che la zona è tornata sotto l’amministrazione egiziana.

Nel contesto di quanto abbiamo detto finora del protestantesimo italiano non rientra certamente la corrente di pensiero che si è sviluppata sulla direttiva del Prof. Vittorio Subilia docente della Facoltà Valdese di teologia. Le più forti contestazioni ai rapporti ecumenici con Roma trovano, nei suoi scritti, la loro motivazione e il loro orientamento.

Domenica, 24 Agosto 2008 19:58

L’uomo salvato da Gesù (Gianluigi Corti)

L’uomo salvato da Gesù
di Gianluigi Corti






In queste pagine ci accosteremo ad alcune scene evangeliche che ci permetteranno di osservare il dinamismo del processo salvifico, il passaggio ad una condizione opposta a quella di partenza grazie all'intervento di Gesù, alla sua potenza vittoriosa su ogni male, e alla preghiera, lamento, protesta, fede degli uomini coinvolti in situazioni limite.

Dalla letteratura evangelica si potrebbero raccogliere anche altri brani idonei a questo scopo ad esempio: Pietro salvato dall'affogamento (Mt 14,22-33); la guarigione di un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6); il cieco di Gerico (Mc 10,46-52 e uso anche in Lc 18,35- 3); la peccatrice perdonata (Lc 7,36-5Q); l'indemoniata di Gerasa (Lc 8,26-39); i dieci lebbrosi guariti (Lc 17,11-19); la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44)... Ci limiteremo qui a questi racconti: la tempesta sedata (Mt 8,23-47); la guarigione della emorroissa e la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-43).

La tempesta sedata ( Mt 8,23-27)

Coerente con il suo stile Matteo ci ha lasciato un racconto essenziale nella forma, che va affrontato su un duplice piano di lettura.

Gesù sta lasciando Cafarnao (8,5) per dirigersi sulla sponda sudorientale del lago di Genezaret, verso la regione dei Gadareni (8,28). Prende congedo dalla folla dialogando in forma enigmatica con due candidati alla sequela (8,19-22). Si noti come Gesù sia il primo a salire sulla barca, i discepoli non sono già pronti ai lavori necessari alla partenza e al viaggio; essi salgono solo dopo che Gesù si è imbarcato e viene usato per essi il verbo tecnico per la sequela akolouthéō (= seguire).

Il lago di Galilea sprofondato tra le colline ha l'abitudine di ribollire improvvisamente sfogandosi in tempeste violente. Coloro che sono imbarcati con Gesù fanno l'esperienza di questa consuetudine ambientale. Anche se nel gruppo vi sono pescatori di professione (4,18-22) è impossibile controllare l'imbarcazione e contrastare la prepotenza dell'acqua.

Tutti sono sommersi dai flutti e dall'angoscia della morte. Il sonno di Gesù (v. 24) è un elemento narrativo che serve a creare maggior tensione sulla situazione dei discepoli e più vivacità nel dialogo tra loro e Gesù, ma è anche uno degli elementi anticotestamentari ricuperati nel racconto. L 'invocazione rivolta a Gesù con I 'impiego del verbo sōzein (=salvare) è di sapore liturgico (v. 25). L 'intervento di Gesù (v. 26) trova due interlocutori: dapprima i discepoli vengono posti di fronte alla loro immotivata paura frutto solo della mancanza di fede, quindi l'energico rimprovero agli elementi della natura ristabilisce la calma. La vita dei discepoli è salva, ma fermarsi a questo punto sarebbe lasciare Il cammino a metà strada.

Il messaggio di Matteo non consiste solo nel presentare la salvezza fisica dei discepoli dovuta alla potenza di Gesù superiore alle minacce della natura. In effetti questa potrebbe essere già una lettura interessante: la natura non sempre è favorevole all'uomo, anzi a volte gli mostra un'ostilità che lo sopprime; Cristo però è in grado di salvare anche da questo pericolo immane. C'è di più.

Il messaggio cristologico è assai nitido. L 'uso del verbo epitimáō (= minacciare) viene impiegato nella versione dei LXX per i salmi 65,8; 106,9; 107,29. Così l'accaduto riletto alla luce del salterio permette di vedere in Gesù la stessa forza del Dio della creazione e dell'esodo, i grandi fatti della storia biblica a cui alludono i salmi citati.

Già si è ricordato Giona. Il primo episodio del libro profetico (Gio 1,1-16) è pure chiamato in causa. Giona prefigura il destino di Gesù in riferimento al mistero pasquale ed è Gesù stesso a rifarsi alle pagine di quel piccolo libro parlando di sé: Mt 12,38-41. Giona restò tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, Gesù rimarrà tre giorni e tre notti nel ventre della terra. Gesù conclude il paragone con questa dichiarazione: «Ecco, ora qui c'è più di Giona!» (18,41). La tempesta sedata anticipa la superiorità di Gesù rispetto a Giona, il quale dovette essere buttato in acqua per placare Dio e il mare, la sua preghiera non bastò (Gio 1,6.12.15).

L'ordine di Gesù invece basta a placare le acque grazie alla sua perfetta sintonia col Padre del quale condivide i poteri.

La superiorità di Gesù poi risplenderà definitivamente quando il terzo giorno emergerà dai flutti della morte, nella quale volontariamente si era immerso. La vittoria pasquale sarà germe di riconciliazione anche per il creato (cf Rm 8,19-21).

Si può ora accedere al piano simbolico del racconto. La scoperta dell'identità di Gesù «salva» dalle difficoltà della sequela. Questo tema è fondamentale nel brano in questione. Abbiamo già detto sopra come il verbo «seguire» venga immediatamente fornito come chiave di accesso al racconto (v. 23). Esso era già stato impiegato nei vv. 19 e 22, pertanto il rapporto tra i due episodi delle esigenze della vocazione apostolica (vv. 18-22) e della tempesta sedata (vv. 23-27) è assai stretta. Nel secondo episodio si mostra come nel seguire Gesù la vita è posta in pericolo a causa della persecuzione che la sequela porta con se.

La reazione dei discepoli di fronte al pericolo e l'intervento di Gesù smascherano l’immaturità della fede. Il discepolato è cammino di salvezza nella crescente accoglienza del mistero del Cristo che rimuove ogni paura. Questo superamento della paura è una tappa essenziale nel processo salvifico. Esso è dovuto alla presenza di Gesù che fa approdare alla maturità della fede.

Guarigione della emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo ( Mc 5,21-43)

I vangeli sinottici sono concordi nell’impiego del verbo sōzein (= salvare) per il racconto in questione. Matteo lo usa solo per la donna affetta da emorragia (Mt 9,21-22); Marco e Luca lo adoperano sia per la bambina che per la donna (Mc 5,23.28.34; Lc 8,48.50). Si noti che la guarigione dell’emorroissa viene conclusa da tutti e tre gli evangelisti con la significativa espressione «la tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22; Mc 8,34; Lc 8,48). Marco è l'evangelista che impiega più volte il verbo «salvare» (Mc 5,23.28.34) ed è l'autore del racconto più antico e più dettagliato.

La prima scena (vv. 21-24a) ci presenta il ritorno di Gesù dalla riva orientale del lago di Genezaret dove si era recato nel territorio dei Geraseni e dove aveva operato l'esorcismo dell'indemoniato (Mc 5,1-20). Sulla sponda occidentale, in località non specificata la folla reagisce entusiasta al suo ritorno cingendolo d'assedio. Gesù sembra trattenersi volentieri con loro. In questo scenario fa la sua comparsa un uomo di classe distinta, un dirigente della sinagoga. È spinto da una tragedia familiare: la sua bambina è malata in modo gravissimo, anzi è agli estremi, versa in condizioni tali che l'unica via d'uscita che le rimane è la morte, non vi sono alternative. Giairo è consapevole che umanamente la situazione è insolubile, solo un intervento soprannaturale può riportare alla «salute» sua figlia. Per questo lo vediamo cadere ai piedi di Gesù, nonostante la sua dignità, e supplicarlo con insistenza. Si tratta di una scena assai drammatica in cui i presupposti del gesto salvifico sono brevemente, ma efficacemente presentati: situazione disperata e preghiera.

La partenza di Gesù con Giairo segna un tornante nella vicenda e nel racconto. Un altro personaggio entra ora in scena: la donna affetta da emorragia. L'episodio che la riguarda si divide in due parti. Nella prima (vv. 24b-29) viene descritta la situazione della donna e la miracolosa guarigione.

Per il lettore contemporaneo non è facile percepire il tormento della donna in tutta la sua portata. Il racconto evangelico ha steso sulla condizione della malata un velo di pudore e

di discrezione che è necessario sollevare per raggiungere la profondità della difficoltà nella quale essa si trova.

Il testo evangelico recupera una «terminologia tecnica» (en rhýsei haímatos v.25) reperibile nella versione dei LXX di Lv 15,19-30 in cui viene descritta I 'impurità contratta nel periodo mestruale e nelle sue anomalie, impurità contagiosa per le cose e le persone. La donna in questo stato non poteva neppure partecipare al culto dal momento che la sua impurità non l'abilitava né al contatto con gli altri né al contatto con Dio. L'emorroissa non è una semplice malata, ma una recisa dal tessuto sociale. La sua situazione è incredibilmente disturbata sia per il risvolto fisiologico e psicologico, sia per le implicanze religiose e sociali della sua disfunzione. È una donna umiliata nella sua femminilità che tra la gente si sente clandestina.

Anche questa donna umanamente non ha via d'uscita, tutti i tentativi fatti non hanno prodotto che ripetuti fallimenti e il tracollo economico. Anche per lei l'unico sbocco per la sua disperazione è l'intervento di Gesù.

Marco è stato abile nella narrazione: tutta l'anamnesi riguardante la donna è fatta da participi aoristi che creano un riuscito contrasto con l' aoristo di háptomai (= toccare) che esprime l'azione puntuale e culminante della sequenza e che prepara ottimamente la descrizione dell'istantaneità della guarigione (v. 29). Il tocco quasi furtivo, alle spalle, da parte della donna viene dalla sua consapevolezza di contagiare chi entra in contatto

con lei e prepara la seconda parte del racconto (vv. 30-34). L 'avverbio euthýs (= subito) ripetuto ai versetti 29 e 30 crea una contemporaneità tra la guarigione della donna e la reazione di Gesù.

Gesù reagisce perche ha percepito la differente qualità del tocco ricevuto dalla donna; si è reso conto che non era uno dei casuali urti ricevuti dalla calca di gente, ma di un'azione voluta dalla fede. Ora vuole manifestare quanto nel segreto di quel corpo era accaduto.

Si potrebbe pensare che l'intenzione di Gesù non sia tanto quella di costringere la donna ad una imbarazzante confessione circa il suo passato o il suo stato fisico, ma piuttosto quello di rilevare e accreditare la sua nuova condizione di purificata e liberata, e partecipe a pieno titolo della vita collettiva. Le parole di Gesù che chiudono il racconto di questo miracolo sciolgono la donna dalla sua clandestinità e le ridonano la pace travolta dal flusso sanguigno.

Questa malata senza nome, ma con fede, ha ricevuto più di quanto si aspettasse quando pensava tra se che toccando Gesù si sarebbe salvata (v. 28). Oltre alla guarigione fisica ha ricevuto in dono il ripristino pieno della sua di dignità. La risposta di Dio al bisogno e alla fede dell’uomo e sempre sovrabbondante.

Ora riprende il racconto interrotto del viaggio alla casa di Giairo. È l'ultima scena della nostra pericope (vv. 35-43). La situazione è precipitata: la fanciulla è morta. Gli ambasciatori provenienti dalla casa di Giairo ritengono ormai inutile l'intervento di Gesù. Di fronte alla morte non rimane che il dolore e la rassegnazione. Ma Gesù invita Giairo a non associarsi al loro pensiero. Anche di fronte alla morte si può e si deve mantenere fiducia in lui: «Non avere paura, solamente credi» (v. 38). Così il cammino prosegue. Gesù non viene congedato, ma la folla sì. Comincia a stringersi il cerchio intorno a Gesù fino a ridursi all'essenziale al v. 40. Solo Pietro, Giacomo e Giovanni possono seguirlo, come avverrà successivamente per la trasfigurazione (9,2-8) e l'agonia al Getsemani (14,32-42). Questi discepoli testimoni della caparra della gloria e del dolore di Gesù sono ora coinvolti in un altro «segno pasquale».

Il contorno tipico della morte in oriente confusione, pianti, urli è già in atto nella casa di Giairo; ma Gesù lo trova fuori luogo: «La fanciulla non è morta, ma dorme» (v. 39). I presenti non raccolgono la sfida di Gesù, non accettano la rivelazione di quanto è la morte a partire dalla presenza del Cristo vale a dire non più una situazione irreversibile, senza ritorno, bensì uno stato reversibile proprio come il sonno dal quale si può essere svegliati. La denominazione che Gesù dà alla morte entrerà subito nel vocabolario cristiano (At 7,60; 13,16; 1 Cor 7,38; 11,30 ecc.).

La derisione dei presenti esplode spontanea dalle loro bocche come prima le grida. Tuttavia Gesù smantella l'apparato del lutto cacciando via tutti. La sua intenzione non è solo quella di avvolgere il miracolo nella discrezione, ma anche quella di eliminare un contesto decisamente in contrasto con l'imminente rifiorire della vita. In un clima intimo e affettuoso abitato solo dai genitori della ragazza e dagli amici di Gesù il prodigio si compie. Il vangelo riporta il gesto di Gesù e soprattutto la forza e freschezza della sua parola conservata nella fragranza del linguaggio originale e per nulla imparentata o allusiva a formule magiche: «Talità Kúm - fanciulla alzati!» (v. 41).

La ragazza si alza e fa dei giri attorno è la prova del pieno recupero della vita e delle forze. La ragazza non ha bisogno di convalescenza, ma di cibo ed anche questo ordine di Gesù ci dimostra la sua grandezza. Fino all'ultimo egli è preoccupato per gli altri e dimentico di se. Non ha importanza per lui il riconoscimento che gli è dovuto, anzi in modo quasi assurdo impone il silenzio sull'accaduto.

Giairo ha chiesto una guarigione, gli è stata donata una risurrezione. Il dinamismo è costante: nella difficoltà l'uomo si apre alla preghiera e alla fede per accogliere il dono di Dio sempre superiore alle sue aspettative. Il punto di partenza della preghiera evangelica poteva essere un asserto di questo tipo: Gesù è in grado sia di guarire i malati, sia di risuscitare i morti. Marco ha proclamato questa verità narrando e intrecciando due episodi

dell'opera salvifica di Gesù che libera l'uomo da due coercizioni da cui nessun altro gli può dare scampo: la malattia e la morte.

Così è attuato il lieto annuncio del salterio: «Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte» (Sal 68,21 ).

Nota bibliografica

Mt 8,23-27:


L. SABOURIN, Il Vangelo di Matteo , Roma 1977, voI. Il, 528-531.
R. FABRIS, Matteo , Città di Castello 1982, 206-208.
l. GHILKA, Il Vangelo di Matteo , Brescia 1990,464-469.

Mc 5, 21-43:


M. l. LAGRANGE, Evangile selon Saint Marc , Paris 1966, 138-146.
V. TAYLOR, The gospel according to St. Mark , London 21966, 289-298.
R. PESCH, Il Vangelo di Marco , Brescia 1980, voI. 1,467-496.
R. SCHNACKENBURG, Vangelo secondo Marco , Roma 1983, voI. 1,133-140.
l. GNILKA, Marco , Assisi 1987, 283-301.

La maggioranza degli europei che vengono a conoscenza del Buddhismo, pensa che il Buddhismo sia soltanto una dottrina che insegna che la vita è vanità, futilità ed illusione. Ho sentito alcuni studiosi cristiani che hanno studiato il Buddhismo insegnare che il Buddhismo è una ricerca individualistica, e che insegna alle persone a pensare alla propria salvezza senza interessarsi dei prossimi.

Coscienza e libertà (1Cor. 10, 23-33)
di Vladimir Zelinskij






Le parole che abbiamo ascoltato vengono ripetute già due volte nella stessa Lettera ai Corinzi, cosa che è rara in Paolo, famoso per l’eccezionale densità del suo messaggio. L’Apostolo dice ed insiste con un tono quasi solenne: Tutto è lecito. Ma non tutto è utile. Tutto è lecito! Ma non tutto edifica . Come mai un accento tanto forte è posto sull’opposizione fra queste due alternative della libertà umana? Per rispondere possiamo intraprendere strade che hanno prospettive diverse: quella storica, che riguarda soltanto l’epoca in cui la legge ebraica viene seguita dalla comunità giudeo-cristiana; oppure l’interpretazione umanistica e laica dei giorni nostri; o ancora, per ultima, una visione cristologica e spirituale. Il contenuto immediato del testo paolino è la proclamazione univoca e quasi trionfante della libertà di coscienza, direi anche del primato della coscienza nei confronti delle prescrizioni della legge in vigore. La mia coscienza, afferma Paolo, è autorevole per decidere da sola cosa si possa mangiare o meno. La mia coscienza ha diritto alla priorità davanti alle prescrizioni rituali che riguardano il cibo. Il cristiano è libero: Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo senza fare questioni per motivi di coscienza. Perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene .


  Già con quel versetto del salmo 23, conosciuto a memoria da quelli a cui si rivolge, l’Apostolo vuole dispensare la loro coscienza dagli scrupoli: Se la tua coscienza non è caricata dalla conoscenza della partecipazione al culto pagano - che è abominio per il Signore (Deut. 17,15) -, sei ormai libero! Se partecipo ad un culto pagano a mia insaputa, sono senza colpa e la mia coscienza è innocente; ma se il venditore mi dice che la carne in vendita è quella del sacrificio ad un altro dio, la mia coscienza è legata dal secondo comandamento. La coscienza è il giudizio interiore che funziona solo se la legge è conosciuta perché la sua vera ed autentica vocazione è rendere la grazia e fare tutto per la gloria di Dio. Questo è il senso immediato del testo che abbiamo ascoltato.


Ogni epoca, però, ascolta le parole della Scrittura con l’orecchio accordato dalla propria tonalità dominante. Il secolo in cui viviamo è più predisposto, almeno in Occidente, a sentire la prima parte dell’affermazione dell’Apostolo: la mia coscienza è la principale, se non l’unica padrona delle mie decisioni. Su tutto ciò che faccio decido solo io e le altre istanze devono rispettare le mie scelte! Tutto mi è lecito , scriviamo questa prima parte dell’affermazione paolina sulla magna carta della legge morale e religiosa. Non facciamo, però, una domanda semplice: “l’io” nel cui nome parla Paolo, chi è? E quell’io che noi siamo pronti a porre come unico padrone dei nostri atti cosa significa, nella bocca dell’Apostolo, cosa contiene? E la mia coscienza, nel contesto del suo discorso, cos’è?


Come concetto teologico la coscienza appare solo nel Nuovo Testamento. Certo, non si può dire che la coscienza sia stata scoperta solo con il cristianesimo. Credo che prima questo concetto fosse implicitamente incluso in quel centro corporale e spirituale dell’esistenza umana che la Bibbia chiama “cuore”. La coscienza è il cuore che pensa, che giudica – saggezza interiore, strumento della conoscenza di Dio, canale della Sua volontà, organo della glorificazione e del pentimento, luogo segreto della Sua legge. La Tua legge è nel profondo del mio cuore , dice il Salmo (40,9). Porrò la Mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora Io sarò il loro Dio ed essi il Mio popolo , professa Geremia (31,33). Ed io, credente, sono chiamato da Dio a conoscere questa legge nuova e personale, scritta nella profondità dello spirito umano, a conoscerla per viverla, e questa vita inizia con la coscienza, - la coscienza di cui parla San Paolo. La coscienza è la nuova lettura della legge nascosta nel mio cuore, messaggera del Signore che abita in me.


Incontriamo la parola coscienza già in alcune versioni greche del Vangelo di San Giovanni. Nel racconto sulla donna adultera, quando si dice che gli accusatori di quella moglie infedele se ne andarono uno per uno, in alcuni manoscritti leggiamo denunciati dalla propria coscienza . Proprio questa versione è inclusa anche nella traduzione russa alla quale sono abituato. Questo significa: la legge che prescrive la lapidazione deve essere sottomessa alla coscienza, al tribunale del cuore e davanti al suo giudizio, infatti, nessuno è innocente. Tale tribunale, con la voce di Dio all’interno, diventa il criterio più alto della fede stessa. La fede può essere falsa, incatenata dalla lettera che uccide, anzi piegata ad idolatria; la voce del giudizio che ascolta direttamente lo Spirito di Dio porta e manifesta la volontà del Signore. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali del messaggio paolino, nato dalla sua storia personale, dal suo incontro fulminante con Cristo.


Sembra che quel fulmine abbia acceso non soltanto la fede del futuro Apostolo dei popoli, ma che abbia anche risvegliato o gettato la luce su tanti nuovi concetti teologici. Tutto o quasi tutto il messaggio di Paolo nasce dalla sua illuminazione, riflettuta ed intellettualmente sviluppata. Paolo predica Cristo raccontando anche di se stesso, della sua anima, e predicando crea o scopre l’universalità dell’incredibile avventura della propria anima. Ognuno di noi in qualche modo si può riconoscere, anche se in un grado infinitamente più debole, nella sua anima, nella sua coscienza, nella sua fede. Servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio : così Paolo si presenta nella lettera ai Romani (1,1). In ogni sua lettera, in ogni riga, manifesta l’intimità della sua conoscenza personale del Dio incarnato e da lui incontrato nella persona di Gesù. Il centro del suo essere, il cuore è pieno di questo incontro e porta Cristo in sé. Se negli scritti dei Profeti il cuore è il luogo della presenza del Signore, la coscienza è il cuore che giudica e che pensa e confessa la propria fede.


Il cuore di San Paolo è “cristocentrico” e dal quel cuore nasce anche la sua teologia triadologica. L’incontro con Cristo dura tutta la sua vita e noi vediamo come in ogni sua lettera apostolica la scoperta di Cristo si riveste di un pensiero nuovo e sempre inaspettato. Ogni volta sembra che il pensiero paolino partorisca un Cristo nuovo. Ricordiamo questa famosa esclamazione dalla lettera ai Galati: Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! (4,19). Ma la forma Christi è l’icona della nostra coscienza, l’immagine della nostra libertà e s’identifica con la libertà di Gesù. L’io di Paolo e di un qualsiasi cristiano è chiamato ad agire seconda la Sua volontà, a pensare e a conoscere le cose con il pensiero del Figlio di Dio.


Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, san Paolo risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo ” (1 Cor. 2,16), “Nos autem sensum Christi habemus ”, secondo la Vulgata. Proprio il pensiero di Cristo (νουν Χριστου), si trova anche alla base della nostra coscienza e della libertà umana. Ma il cuore che pensa e la coscienza, non sono forse la stessa cosa? Il “pensiero di Cristo ”, secondo Paolo, è il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso. La ragione che decide ciò che è lecito e ciò che è illecito, e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori ” (Ef. 3,17) hanno in comune la sostanza e questa sostanza può essere chiamata “coscienza aperta allo Spirito Santo”, poiché è solo lo Spirito che ci dà la grazia di conoscere Dio.


Questo vuol dire che lo Spirito crede in noi, pensa in noi, giudica in noi: in altre parole, rappresenta Cristo in noi. Troviamo un’interpretazione interessante del concetto paolino della presenza di Cristo, in particolare del pensiero di Cristo, nella teologia di San Massimo il Confessore. Il “pensiero di Cristo che ricevono i santi” (cito dai suoi “Capitoli gnostici”) si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).


“Il pensiero di Cristo..., dice il Confessore, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole, i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos. In altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o la sua “struttura interiore”. Ma il simile, come diciamo spesso, è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé la sua immagine - immagine capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo ”: in questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica. Siamo chiamati ad entrare in questo pensiero, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.


“Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice San Massimo, ha la fede, forza di tutti i segreti, e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili ”(I, 66).


Proprio il mistero dell’Incarnazione, inteso nel senso espresso dal Confessore, lo troviamo nel concetto paolino della coscienza, il quale non può essere capito a fondo o interpretato in termini astratti o solo puramente umani. La coscienza conosce dall’interno il logos delle cose, perché il pensiero di Cristo si nasconde dietro qualsiasi opera creata. Perciò Paolo può esclamare nella Lettera ai Galati, non solo in senso mistico o spirituale, ma anche intellettuale e teologico: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (2.20). Anzi Cristo agisce nella mia coscienza, pensa con il mio pensiero. Tutto è lecito a Cristo, ma non tutto è utile al peccatore che coabita con Cristo. Tutto è lecito, ma non tutto ciò che è lecito mi porta a Dio. Il mio pensiero è libero, ma esso trova la sua autentica libertà solo nella sua sottomissione al Signore che abita nel mio cuore. La libertà non esiste come una cosa in sé, come concetto astratto. La libertà è un’espressione della persona umana, del pensiero umano, del peccato umano, della fede e dei sentimenti umani. Così Paolo nella lettera ai Filippesi esorta:


"Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio; ma spogliò di se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil. 2,5-8).


Cosa vuol dire spogliarsi di se stesso ? Rinunciare alla propria superbia - che si trova alla radice della nostra personalità, del nostro "io" e che cerca sempre la migliore posizione nel mondo, in quelli che hanno "come dio il loro ventre" (Fil. 3,19): il denaro, il potere, la sessualità, il successo, ma anche la stima degli altri, la buona reputazione, ecc., ed anche la libertà di cercare e di godere di questi beni terrestri. L'uomo è chiamato a "spogliarsi" di tutto questo, "assumendo la condizione di servo" di Dio - che porta all’estremo la nostra assimilazione al Cristo.


"Spogliarsi di se stesso" vuol dire sacrificare una parte di noi stessi, quella parte che forma, cimenta e salvaguarda la nostra identità in questo mondo decaduto e che ci "protegge" contro Dio e contro l’amore. "L'etica cristiana", se possiamo parlarne nella sua essenza, non è l'etica della legge ("tu devi comportarti così, tu non deve mangiare questa carne, ecc"), ma piuttosto l'etica della vocazione compresa dalla propria coscienza (tu sei chiamato all'amore che si manifesta nella tua vittoria su te stesso), - l’etica e la libertà della formazione di Cristo dentro di noi.


Nel nostro brano non si sta trattando soltanto della sovranità di un qualsiasi “io” laico o religioso, che può scegliere solo fra il lecito e l’illecito, ma della cosa più essenziale. Del legame più profondo dell’essere umano con il proprio Creatore, che chiama nella coscienza. Forse, è una cosa ovvia o banale nel discorso cristiano? Non è così semplice! Il problema del senso della libertà e la scelta della giusta libertà rimangono ancora una linea di demarcazione fra le diverse confessioni cristiane, divise sulla morale, sulla bioetica, sull’eutanasia, sulla tradizione, sulla pratica religiosa quotidiana della fede. Siamo divisi, dobbiamo ammetterlo, proprio sul concetto della libertà. Ciò che per noi non corrisponde al pensiero di Cristo è assolutamente lecito e legittimo per altri. Il brano paolino è davvero piccolo, ma è da questa radice che si dirama l’intero cespuglio dei problemi ecumenici di oggi. Per proseguire il nostro dialogo, bisogna conoscere non soltanto la formula della fede di un altro, ma anche il contenuto umano ed esistenziale dei fondamenti di questa fede, della sua coscienza, del suo pensiero di Cristo.


Ma c’è un pensiero in cui possiamo capirci, in cui siamo già uniti. Questo pensiero è l’appello paolino - così chiaro, così univoco - alla gratitudine. Il motivo del rendere grazie è all’origine dell’insegnamento di Paolo e dovrebbe essere anche l’origine della nostra ricerca comune, a volte ottimistica, ma a volte disperata, dell’unità. Ma l’unità stessa non è il dono di poter riunirsi per glorificare Dio con una sola voce, una sola coscienza, un solo pensiero ed unica libertà?
Sabato, 23 Agosto 2008 22:30

Ignazio di Loyola

Ignazio di Loyola
(1491-1556)

 

I. ABBOZZO BIOGRAFICO

Iñigo Lopez de Oñaz y Loyola, che soltanto più tardi, durante il suo periodo di studi a Parigi, si chiamerà Ignazio, nacque nel 1491 al castello di Loyola, nella provincia basca di Guipùzcoa. Crebbe, insieme a cinque sorelle e sette fratelli, in una famiglia nobile e cattolica, orgogliosa del proprio passato guerriero e della fedeltà alla corona. L’idea della «reconquista» della penisola iberica ad opera della Spagna cristiana, influenzò i processi sociali. Nel 1492 cadde l’ultima fortezza moresca, Granada. Nello stesso anno Colombo, al servizio della regina Isabella, scopri il nuovo mondo. Le ampiezze dei mari divennero accessibili; terre lontane entrarono in prospettiva.

Sabato, 23 Agosto 2008 22:15

Perdonare le offese (Luciano Manicardi)

Una lucida analisi di ciò che si sviluppa nell’io della persona “vittima” diviene il primo passo per una crescita spirituale ed un cammino di fede adulto che consentirà al soggetto di attuare il Vangelo dell’amore. “..Rimetti a noi i nostri debiti; come noi li rimettiamo ai nostri debitori...” Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato, al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla assicura che l’offensore cesserà di fare male.

Voci discordi sul sito di al-Qaradhawi: “La mossa più saggia possibile”; “No, è una resa a chi vuole convertirci”.

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