Vita nello Spirito

Domenica, 11 Gennaio 2009 19:31

Come San Benedetto concepisce l’uomo e lo forma alla luce del capitolo 7 della “Regola” - quarta parte (P. Giorgio)

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Visione e formazione dell'uomo
nel capitolo VII della Regola di S. Benedetto

Come San Benedetto concepisce l’uomo
e lo forma alla luce del capitolo 7 della “Regola”


Riflessioni di P. Giorgio, monaco trappista



1. Genere letterario di RB 7



I cc 4-7 vengono chiamati generalmente “sezione spirituale” della RB, in opposizione - se così si può dire - agli altri cc della R che parlano dell’ordinamento del monastero, delle varie osservanze.


Ma se si guardano bene questi cc non sono un trattato di spiritualità e nemmeno una disquisizione sulle virtù dell’obbedienza, del silenzio o dell’umiltà’, anche se essi sono fondati su una dottrina e una concezione della vita che ha le sue radici nel Vangelo. San Benedetto alla fine della sua R - che lui considera un abbozzo elementare in vista d’un tenore di vita che si possa chiamare monastico - dice chiaramente che chi vuole approfondire la dottrina o la vita spirituale ci sono tanti libri adatti, a cominciare dalla Scrittura stessa.


Dunque i cc 4-7 fan parte d’una “politeia”, d’una "conversatio” che tocca un po’ tutti gli aspetti della vita d’un monaco in un monastero: preghiera, lectio, lavoro, servizi vari, accoglienza degli ospiti, relazioni con i parenti, dei monaci tra loro, cibo e bevanda, vari compiti in comunità, i compiti e la funzione dell’abate. Così questi cc non si presentano come una sezione spirituale, ma piuttosto come una prassi concreta di vita, in vista di una “purezza di cuore” o come dice San Benedetto nel prologo “in vista della correzione dei vizi e del mantenimento della carità” (v 47). In particolare il nostro c 7 non è un trattato sulle virtù dell’umiltà, in cui la si definisce e la si illustra nei suoi veri aspetti - come per esempio fa Sant’Agostino nel suo “De virginitate”, in cui viene a parlare dell’umiltà alle vergini. In RB 7 ci troviamo solo davanti ad indicazioni di una prassi concreta che ha il suo sbocco per il monaco nella pienezza dell’amore di Cristo; ma come questa avvenga san Benedetto non lo dice: si tratta di provare per poi capire dopo ... se tutto va bene! In questo san Benedetto è in linea con la tradizione monastica se ben capisco io


Se si vuol precisare meglio, si può dire che questo c 7 è un insieme di indicazioni pratiche di vita in vista di un cammino di verità alla sequela del Cristo Signore, cammino che deve sboccare in una pienezza di amore. E questo è per persone che vivono in un preciso contesto di vita che viene abbozzato nel resto della RB. Basti per questo ricordare la finale del c 4 in cui san Benedetto dice espressamente che tutti gli strumenti da lui, elencati - e che per la maggior parte vanno bene per ogni cristiano - vanno appunto usati nell’officina del monastero, nella stabilità della comunità monastica a cui si appartiene.



Cristocentrismo di San Benedetto



Già si è scritto e detto molto su questo argomento. Qui vorrei solo ricordare che lo scopo di ogni prescrizione della regola è quello di aiutare la persona e la comunità a vivere sotto gli imperativi del Vangelo (Pr 21).


1-2; 72, 11). In questo stesso c 7 c’è una aggiunta propria di san Benedetto rispetto al Maestro che ci fa pensare come egli pensi esplicitamente a Cristo in questo contesto dell’umiltà: in 7, 69 aggiunge “amore Christi che non si trova nel parallelo di RM 10, 87-91. Inoltre è bene ricordare quel “pro Dei amore” del 3°gradino circa l’obbedienza del monaco ad imitazione del Cristo che si “spoglia” delle sue prerogative divine e si umilia sino alla morte di croce (cf Filip 2, 5-11). Questo ci permette di dire che per San Benedetto la vita del monaco è imperniata su Cristo e lo imita in una prassi di vita che riproduce la sua “kenosi”. In questa spogliazione è all’opera lo Spirito Santo che alla fine sarà libero di manifestarsi in una pienezza di amore (cf RB 7, 69-70).

San Benedetto e la Bibbia



Per i Padri la bibbia è una e il Cristo è presente in ogni sua pagina e in ogni sua parola che è pregna di lui, dice di lui e la dice lui. Spesso usano l’allegoria in modo da provare con un testo ciò che in realtà esso non prova, come per es., in RB 7. 41: hai posto uomini sopra il nostro capo. E’ chiaro che il testo del salmo non intendeva parlare affatto di superiori!

Io vorrei arrischiare qui una distinzione circa i testi biblici usati da san Benedetto in questo capitolo sull’umiltà



· serie di testi come prova scritturale di una affermazione fatta, come, per es., quelli citati per dimostrare Dio presente al pensare, volere e agire dell’uomo (Cf 1° gradino di umiltà).


· serie di testi-base, se così posso dirli, in quanto esprimono una concezione della vita cristiana e monastica, una spiritualità e reggono per così dire la costruzione e ne determinano il significato.



Testi-prova di una affermazione


In un certo senso, tutti i testi citati da san Benedetto nella Regola sono dati come prova di una affermazione fatta, o sono considerati come il punto di partenza per trarre alcune conclusioni. Ma è chiaro che non tutti sono da considerare come base portante o chiave di lettura e di interpretazione come vorrei far notare.


Ora qui non val certo la pena di riportare tutti i testi-prova di questo c 7. Tra esse ce ne sono che sono probanti anche per noi, come diverse citazioni sulla presenza di Dio: “Rifletta l’uomo che sempre Dio e senza tregua, lo guarda dal cielo (... ) E’ appunto ciò che ci dimostra il Profeta (...) dicendo: Dio scruta i cuori e le reni. E similmente: Il Signore conosce i pensieri degli uomini “ (cf RB 7, 13-15n con citazioni di Sl 7, 10; 93, 11). Altri testi provano una verità o una affermazione per san Benedetto, ma non per noi, come il già citato testo di 7, 41 che cita il Sl 65. 10-11: Hai posto uomini sul nostro capo. Possiamo dire che tutto questo c 7 è costruito con degli enunciati che vengono confermati dalla Parola di Dio, molte volte presa in senso allegorico, o accomodatizio. Questo ci può portare a domandarci se in molti casi San Benedetto o anche altri autori antichi in realtà non si servano della Parola di Dio per provare idee loro o di altri, che di per sé non scaturiscono dalla Parola di Dio stessa. In questo caso della vita monastica e delle realtà che la compongono la domanda potrebbe essere anche questa: san Benedetto, come altri autori non ha “colorato” con la parola di Dio una realtà di vita che ha le sue scaturigini al di fuori di essa? O veramente questa esperienza di vita che si chiama monachesimo, pur non essendo una realtà esclusivamente cristiana, in san Benedetto e in altri prima e dopo di lui, è stata assunta in modo nuovo ed è divenuta un camminare nelle vie del Signore alla luce del Vangelo (cf RB Pr 21)?


Testi-base o chiavi di lettura e di interpretazione


testo iniziale: per san Benedetto la Scrittura “clamat”, grida ben forte, strilla questa verità: “chiunque si esalta sarà umiliato e chiunque si umilia verrà esaltato”. Il fatto che per san Benedetto sia un grido penso sia da attribuire al fatto che questo versetto torna tre volte nei Vangeli in contesti diversi e che sono illuminanti sul significato delle realtà che compongono l’esperienza monastica, sulle osservanze:



· Lc 14, 11 - Gesù osserva che gli invitati ad un pranzo scelgono i primi posti e dà una lezione che è conclusa appunto da questo versetto.


· Lc 18, 14 - Gesù disse una parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. E’ la famosa parabola del pubblicano e del fariseo anch’essa conclusa dallo stesso v. Forse bisognerebbe dire che san Benedetto pensava a questo contesto del versetto più che agli altri dato che alla fine del c 7 emerge proprio la figura del pubblicano come esemplare per il monaco (cf 7. 65).


· Mt 23, 12 - Gesù ammonisce le folle e i suoi discepoli di guardarsi da scribi e farisei. accusandoli di ipocrisia, di essere gente che dice e non fa, che carica pesi insopportabili sulle spalle degli altri, ma loro non li toccano nemmeno con un dito, di fare praticamente di se stessi il centro della loro vita religiosa, strumentalizzando Dio e le cose di Dio per una esaltazione di se stessi, una auto-giustificazione. Gesù dice che tra coloro che lo seguono non deve essere così: il più grande deve essere il servo di tutti. E poi viene il nostro versetto come conclusione.



A me sembra che questo versetto del Vangelo che san Benedetto colloca così all’inizio di questo c 7 e con tanta solennità sia molto significativo se lo si legge alla luce dei contesti evangelici in cui viene collocato e che penso San Benedetto conosceva bene. Sintetizzando io direi così: la vita monastica non è un cercare i primi posti nella Chiesa di Dio, ma un andare a mettersi all’ultimo posto; non è un andare tronfi di una propria giustizia basata su delle minuziose prescrizioni della legge, ma un esporsi alla misericordia di Dio nella propria nudità; non è qualcosa che ci fa sentire diversi o meglio al di sopra degli altri, come “padri” e “maestri”, come gente che fa cose eccezionali per farsi ammirare. E’ invece una condizione di umiltà di uno che rimane “discipulus” per tutta la vita, come suggerisce San Benedetto alla fine del Prologo (cf Pr 50).

La scala di Giacobbe e la kénosi del Cristo


Nei vv 5-9 del c 7 San Benedetto parla della scala di Giacobbe e ne dà una interpretazione che non ha niente a che vedere con il significato del testo di Gen 28, 12. La terminologia che san Benedetto usa a me richiama il testo di Filp 2, 5-11; infatti san Benedetto parla di una “celeste esaltazione” a cui si accede attraverso l’abbassamento della vita presente. Il testo dice esattamente: “... et ad exaltationem illam caelestem, ad quasi per presentis vitae humilitatem ascenditur”(v 5), Ricordando quanto si è detto prima circa la centralità di Cristo nella spiritualità di Benedetto, l’immagine della scala è solo un supporto illustrativo della vita monastica alla luce del testo di Filp 2, che viene citato in 7, 34 (III gr).


A dire il vero, leggendo il testo di Benedetto mi è venuto di pensare che questa scala sia un pò come una altalena con al centro un perno, che è proprio il Cristo. Se va giù da una parte si alza dall’altra: “scala... vita nostra est in saeculo, quae humiliato corde a Domino erigatur in coelum” (v 8) .Se il mio cuore si innalza con superbia la scala punta verso il basso, gli inferi; se il cuore si abbassa punta verso il cielo. Quindi i gradini che seguono sono gesti concreti di una umile disciplina, di una umile ascesi, che, uniti a tutto l’insieme della vita e disciplina monastiche, aiutano il monaco, sorretto dalla grazia dello Spirito, in questo “scendere” del cuore per far sì che la sua vita punti alla celeste esaltazione, in cui lo attende il Cristo che per primo ha percorso tale via.


Certo la mia non è una dimostrazione apodittica e penso che andrebbe approfondità e spiegata meglio. Si può dire che in questo c 7 appare una visione della vita monastica come di una condizione di umiltà”, quella cantata da Maria nel Magnificat; il monaco, attraverso una prassi concreta si colloca in questa situazione, scende con e come il suo Signore. Discesa indispensabile per giungere alla “celeste esaltazione” del Cristo. E’ la legge della kénosi: si sale discendendo.


APPENDICE


Vorrei qui brevemente far notare come il pensiero che mi sembra di leggere in San Benedetto circa la vita monastica come “condizione di umiltà”, non è un qualcosa che san Benedetto ha in esclusiva - a parte la sua dipendenza dal M-ma è qualcosa che troviamo facilmente in altri autori monastici. Qui mi permetto solo qualche accenno su alcunio autori.


PADRI DEL DESERTO


Dai loro detti: se li si studia un pò si vede come dall’insieme di essi emerge una concezione della vita monastica che potrebbe proprio essere riassunta con la parola UMILTA’ nel senso di una “umile condizione” in cui vien tolto tutto ciò che “brilla”, ciò dietro a cui l’uomo abitualmente si nasconde per non far vedere la propria indigenza di creatura peccatrice; vien tolto l’avere , cioè titoli onorifici, ricchezze, denaro, potere, prestigio intellettuale, ecc. La vita monastica appare come fuga da tutto ciò e quindi una vita fatta di cose umili e semplici, una vita frugale, penitente, povera, senza cose che appaiono e brillano agli occhi degli uomini. Per realizzare concretamente questo ci sono elementi atti allo scopo, come la rinuncia a tutto ciò che si possiede, il vivere del proprio lavoro manuale umile e faticoso, una grande frugalità per tutte le esigenze del corpo e in ciò che serve al mantenimento della vita e delle cose a proprio uso; tutto questo va unito allo spazio relativamente grande dato all’ascolto della Parola di Dio, alla preghiera personale e comunitaria; inoltre c’è la sottomissione in tutto ad un Padre nello Spirito, il vivere alla pari, senza privilegi di sorta o distinzioni, con gli altri fratelli di qualsiasi condizione siano, la fuga da tutto ciò che brilla o crea prestigio o permette il dominio su gli altri.


CASSIANO


In questa linea dei Padri si trova anche lui. Egli insiste molto sull’aspetto di rinuncia come base e premessa indispensabile per una autentica vita monastica. Rinuncia che porta alla “nuditas” che è la madre dell’umiltà: “De nuditate humilitas procreatur” (Ist Coen IV, 43).La rinunzia (in particolare, usando la terminologia di Cassiano, la prima rinunzia ) è un far uscire la persona umana dalla sua terra, cioè dal proprio personaggio, per metterlo dinanzi alla propria verità, al proprio destino, a ciò che veramente conta ed è essenziale nella vita questa “nuditas”, secondo Cassiano, è creata, realizzata attraverso vari elementi che la configurano come “umile condizione”:



- rinunzia a tutti i beni, a tutto ciò che si possiede, alla propria posizione


- rinunzia a disporre di sé come pare e piace;


- totale apertura ad un anziano provato nelle vie di Dio, senza nascondere nulla;


- accontentarsi di ciò che vien dato in fatto di cibo, vestiti, evitando tutto ciò che è solo per soddisfare voglie egoistiche, ciò che fa brillare;


- lavoro manuale umile e faticoso;


- fuga da tutto ciò che è segno di grandezza e potere, fa essere qualcuno agli occhi della gente;


- preghiera incessante, ricordo di Dio, della sua volontà, delle cose ultime;


- meditazione e “ruminatioT incessante della Parola di Dio;


- solitudine, silenzio, veglie, digiuni, poche relazioni, specie con persone influenti o di prestigio.



Come si vede, tutti mezzi per aiutare la persona a vivere nella verità e per fare sì che Dio sia l’unico necessario, il centro vitale di essa. Tutti questi, con altri che possono essere trovati in questa linea, sono mezzi in vista di una piena espansione del regno di Dio nel cuore della persona. Ma questo non avviene automaticamente; una persona può vivere tutto ciò come autogiustificazione. come un fare diverso dagli altri perché ci sente superiori a loro, perché ci si crede dei privilegiati ….

DOROTEO DI GAZA


Ha tutta una Istruzione sull’umiltà. E’ qui che ho trovato lo spunto, lo confesso per l’interpretazione del c 7 della RB, anche se è certo che San Benedetto e ancor meno il Maestro han potuto conoscerlo. Doroteo, cita un Padre del deserto a cui era stata posta la domanda su cosa era l’umiltà; questi risponde che l’umiltà “nessuno sa dire cosa sia; è una realtà grande e divina, ma la via all’umiltà sono i lavori corporali compiuti con “gnosi”, è tenersi al di sotto di tutti, è pregare Dio senza interruzione”. Tutto questo conduce alla vera umiltà di cuore a cui ci invita il nostro Signore e Salvatore. Doroteo dice che si capisce bene che il tenersi al di sotto di tutti e la preghiera siano atti a tale scopo, ma non si capisce per i lavori corporali. La sua spiegazione è quella da cui, ho preso spunto per capire il c 7 di RB. Dice Doroteo che un uomo vestito splendidamente carico di cose preziose, seduto su un trono è difficile che nutra in sé pensieri di umiltà e diventi umile. Ma se questo stesso uomo si trova rivestito di stracci su un letamaio è facile che prenda coscienza della sua povertà. Cioè la situazione concreta in cui la persona vive influisce su di lui e ben lo sanno oggi tutti i “manipolatori” dell’uomo ...


UN AUTORE MODERNO


Mi ha fatto piacere leggere nel commento alla regola di P. Wathen che un monaco americano - Colman Grabert - per la sua tesi di laurea, applicando i principi ermeneutici derivati da Ricoeur, arriva a dire più o meno le stesse cose che a me sembra di aver intuito alla luce di questi autori antichi:


1. La RB, e il c 7 in particolare, non è un trattato di spiritualità, ma una norma di vita pratica, un disegno di vita, una esperienza concreta di gesti e di azioni. E’ proprio in questi gesti che possiamo scoprire il significato della vita monastica: Colman interpreta i dodici gradini della scala di San Benedetto, come dodici gesti di vita, vari momenti del processo di conversione;


2. RB 7, 67-68 riassume il processo: è il movimento dal timore all’amore, dal lavoro pesante alla spontaneità; il processo procede però attraverso gradini di umiltà, implica cioè una rinuncia a se stesso, una nudità della persona davanti a Dio, se stesso e gli altri. E’ la legge della nudità della “kenosis”: si sale discendendo. Questa legge non può essere capita astrattamente, ma deve essere vissuta e sperimentata concretamente; questo avviene nel quadro della regola, cioè nel contesto di vita da essa abbozzato, delineato, e più specificatamente, attraverso la prassi delineata nei gradini dell’umiltà.

Letto 4367 volte Ultima modifica il Giovedì, 03 Settembre 2009 19:04
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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