Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 17 Ottobre 2007 02:19

Guglielmo di Saint-Thierry (Robert Thomas)

Guglielmo di Saint-Thierry

di Robert Thomas

Guglielmo di Saint-Thierry, nato a Liegi verso il 1085 da nobile famiglia, lascia il suo paese e va a studiare in Francia, probabilmente a Laon. Rinunciando poi, alla vita universitaria entra, nel 1113, nell’abbazia benedettina di St. Nicaise a Reims. Sei anni dopo, è eletto abate di Saint-Thierry, vicino a Reims.

Da quel momento si trova impegnato dai doveri del suo mandato: la direzione dei suoi monaci, l’amministrazione del monastero, le relazioni esterne Mentre egli compone le sue prime opere, fra cui la “Contemplazione di Dio”, è coinvolto nelle controversie teologiche del suo tempo e preso dal desiderio di rinnovamento che animava le abbazie della regione.

Ma Guglielmo non è un uomo d’affari. E’ un appassionato di Dio: egli. aspira al riposo, alla solitudine con Dio,a lunghe ore di preghiera. Fin dal 1116-1118, aveva incontrato a Clairvaux, San Bernardo e, la bellezza della vita cistercense lo aveva affascinato. Nacque così uno stretto legame di amicizia fra i due uomini. E da quel momento Guglielmo viene assorbito da un ideale molto alto che vorrebbe comunicare attorno a lui. Questo ideale è Bernardo e la vita che questi conduce. Nel 1124, desidera raggiungere il suo amico e vivere presso di lui nella solitudine di Clairvaux; ma Bernardo gli si oppone.

Per undici anni Guglielmo lavorerà alla riforma del suo monastero e di quelli della sua provincia, pur continuando la redazione delle sue opere fino, al giorno in cui, nel 1135, non badando ai consigli dì Bernardo, lascia Saint-Thierry per entrare nell’Abbazia cistercense di Signy, nelle Ardenne.

Lontano da tutto, nel mezzo dei ”campi e dei faggi “ può finalmente dedicarsi a Dio, consacrarsi alla contemplazione. Le opere letterarie si succedono a ritmo accelerato. Gli ultimi anni della sua vita sono divisi fra la difesa della fede cattolica contro alcuni innovatori troppo arditi e la composizione di opere spirituali per le anime avide di perfezione - come per esempio l’ammirevole “Lettera ai Certosini del Monte di Dio “ detta anche “Lettera d’Oro “, un vero trattato sulla solitudine e sulla vita monastica, che formò generazioni di monaci e che san Luigi Gonzaga, sapeva quasi a memoria. Contemporaneamente incomincia a scrivere la vita del suo amico Bernardo. Ma muore l’8 settembre 1148, prima di poter completare l’opera.

Lui che aveva tanto anelato all’incontro con Dio, poteva infine entrare in quella vita eterna dove è possibile vedere colui che si ama e amare colui che si vede.

IL VOLTO DI DIO

Guglielmo di Saint-Thierry,è un uomo affascinato da Dio, consumato dal suo desiderio. Una parola sgorgata dal fondo del suo cuore in una delle sue “Meditazioni”, “il petto gonfio del tuo desiderio “, lo dipinge ammirevolmente. Guglielmo è un uomo appassionato del volto di Dio. Anche quest’altra confessione, che in un’altra delle sue “Meditazioni” rivolge a Dio “brucio dal desiderio di vedere il tuo volto“, lo definisce molto bene.

La sua visione di Dio prende forma in questa espressione biblica di volto di Dio. Facendo affidamento alle parole dei salmi, egli cerca il volto di Dio, vi si ripara e vi si nasconde, è inondato dalla sua luce, la consulta per sapere quel che deve fare e come deve giudicare. Il volto di Dio, è Dio nella sua intima natura, Dio visto faccia a faccia : la visione beatifica nell’al di là, e, fin da quaggiù ciò che ci avvicina maggiormente.

La faccia di Dio, è la conoscenza faccia a faccia, quella che l’Apostolo definisce :“ Allora conoscerò come sono conosciuto. Ora vediamo come in uno specchio in maniera confusa, ma più tardi vedremo faccia a faccia: noi lo vedremo così come Egli è. “ ( 1 Co 13-12 )

L’uomo, fatto per Dio

Ricercare il volto di Dio, cioè l’intimità con Dio, ecco la vocazione dell’uomo:

Si cerca di continuo quaggiù questo volto attraverso l’innocenza delle mani e la purezza del cuore, ciò è la pietà Chi non la possiede ha ricevuto invano la sua anima. La sua vita è inutile o addirittura non vive del tutto, dato che è per vivere di questa vita che ha ricevuto la sua anima.

L’uomo è fatto per Dio: soltanto in lui può trovare l’appagamento di tutti i suoi desideri di pienezza e di felicità.

E, dato che l’uomo è fatto per Dio, Dio lo attrae irresistibilmente: questo bisogno di Dio è inscritto nella natura. Guglielmo dichiara tre volte nelle sue opere, prendendo d’altronde quasi parola per parola un testo di sant’Agostino, che Dio “ affascina l’uomo “, lo strappa da se stesso con il desiderio che gli ispira di possederlo un giorno.

E’ per te, per andare verso di te, che siamo stati creati.

Colui che cerca qualcosa al di là o al di sopra di te, preferendolo a te, cerca invano, nulla è migliore di te.

L’uomo è fatto per Dio: questo non soltanto è insito nella sua stessa natura di creatura, ma anche nella sua storia, per ciò che riguarda il passato,il presente e l’avvenire.

L’uomo, immagine di Dio

Guglielmo ricorda la storia dell’umanità di fronte a Dio, un po’ dappertutto nel susseguirsi delle sue opere, ma in modo particolare nel suo trattato “ Natura e dignità dell’amore.”

Dio ha creato l’uomo a sua immagine, a immagine delle tre Persone divine, della Trinità. A immagine di Dio che è Padre, Figlio, e Spirito, l’uomo è memoria, intelligenza,volontà. Ha la capacità e il felice obbligo di ricordare sempre Dio, di pensare a lui, di amarlo. Così l’uomo è stato creato contemplativo, rivolto sempre a Dio col ricordo, il pensiero, l’amore.

Ciò che sopratutto Dio attendeva da lui era l’amore. Come san Agostino, Guglielmo fà osservare che ogni essere ha un “peso” che di solito lo trascina verso il basso, se si lascia un oggetto questo cade per terra. Tuttavia certi esseri, come la fiamma, sono attratti verso l’alto. E’ così per l’amore: emanato da Dio, come una favilla che sfugge dal focolare, ha tendenza a risalire verso Dio.

Ma libero e sottomesso alla tentazione, l’uomo ha peccato. Egli ha voluto “ essere come Dio “ in un modo sregolato. Allora questa anima bella, che risplendeva della bellezza di Dio guardandola con amore, è stata sfigurata : più nessun ricordo, più nessun pensiero, più nessun amore di Dio. Ecco l’uomo rivolto in maniera disordinata verso la creatura. Invece della rassomiglianza divina ha preso quella degli animali senza ragione: “L’uomo, mentre era in onore non ha capito: si è posto al rango degli animali senza regione, è divenuto simile a loro.” Così Guglielmo interpretava il ritornello del salmo 49, nel suo testo latino.

Fortunatamente il Figlio, che nella Trinità è l’immagine del Padre, si è proposto di salvare l’uomo. Si è incarnato, si è messo a parità dell’uomo e gli ha detto; hai voluto essere come Dio; ora io solo, lo sono veramente,immagine perfetta del Padre e suo simile. Ebbene,eccomi! Imitami, diventa la mia immagine e sarai salvato.

Non è un cammino facile,perchè imitare Gesù, vuol dire passare per la croce per raggiungerlo in cielo. Ma infine, grazie a Gesù Cristo, il cammino è ritrovato e la porta del cielo è aperta. Là in cielo l’uomo, acquisterà la perfetta rassomiglianza con Dio. Sarà la sua perfetta immagine: “Noi saremo simili a lui, perchè lo vedremo così come egli è”. ( 1 Gv. 3-2)

Raggiungere Dio

Come è possibile che l’uomo raggiunga Dio? Risalendo,anzitutto dalle creature al Creatore. Ecco, ciò che Guglielmo scrive nel suo libro "Della contemplazione di Dio":

Tutte le tue gentilezze vanno incontro a colui che sospira per te. Dal cielo e dalla terra, e attraverso tutte le tue creature, esse affluiscono verso di me e mi colmano, o Signore adorabile e amabile, in ogni cosa! E più esse ti proclamano e dimostrano la tua amabilità, più attizzano l’ardore del mio amore verso di te...
Questo è l’esercizio continuo della mia anima appoggiandomi con tutte le mie forze sulle tue ricchezze e sulle tue gentilezze, come ci si appoggia sui piedi e sulle mani, cerco di salire sino a te , in te, Amore supremo, sommo Bene!

Questo testo è senz’altro l’unico in cui Guglielmo parla chiaramente della conoscenza delle creature per risalire a quella di Dio.

Più volentieri parla di risalire a Dio, partendo da se stesso. L’uomo non è infatti una creatura, e anzi, un’immagine di Dio ? E l’anima creata ad immagine di Dio, è come il suo specchio. Conoscersi è dunque conoscere Dio attraverso la propria immagine. All’anima che è evasa da se stessa e si è dissipata, il Signore rivolge questo rimprovero:

Sei uscita da te stessa perchè non ti conosci. Impara a conoscerti, o mia immagine. Potrai, così, conoscere me, di cui sei l’immagine. E, in te, mi ritroverai.

Ma è soprattutto per merito dell’incarnazione del Figlio, grazie a quest’uomo che è Dio, che si può conoscere Dio stesso. Dio si è messo alla nostra portata:

Si poteva immaginare migliore sistemazione, più meravigliosa disposizione per facilitare l’uomo in ascesa verso il suo Dio ? Invece di dover giungere all’altare salendo dei gradini, troverebbe il terreno livellato dalla sua rassomiglianza ( la natura umana del Cristo simile alla nostra); potrebbe tranquillamente avvicinarsi ad un uomo simile a lui, che dalla soglia gli direbbe:” Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv. 10—30)”.

Conoscere Dio come egli è

Raggiungere Dio e conoscerlo attraverso le sue creature, anche se si tratta di se stessi,anche se si tratta della santa umanità del Cristo, è ancora e sempre avvicinarlo attraverso una immagine. E’ ben vederlo in un certo qual modo, ma non ancora faccia a faccia. E’ possibile in questo mondo, questo raggiungimento diretto di Dio? Ecco in breve, la risposta di Guglielmo: E’ assolutamente impossibile . Dio ha dichiarato a Mosè : Nessuno può vedermi e continuare a vivere (Es. 33-20). E tuttavia quando, sotto l’azione dello Spirito Santo, l’amore è “illuminato“ esso diventa un vero senso - Guglielmo lo definisce “il senso dell’amore illuminato”, - e percepisce in un certo modo Dio “tale e quale è”.

Per far sì che un senso corporale percepisca un oggetto, è necessario che, subendo un’impressione si trasformi, in un certo qual modo, in ciò che percepisce. Così l’anima percependo la bontà di Dio per mezzo dell’amore, diventa buona, di questa bontà e, in questo modo, percepisce e conosce Dio che è essenzialmente buono. Una tale conoscenza oltrepassa di molto ogni conoscenza intellettuale:

E’ permesso e possibile all’uomo dotato di ragione di pensare a volte a certe perfezioni divine e di scrutarle - come per esempio la delicatezza della sua bontà, la potenza della sua forza... Ma la sua stessa essenza è assolutamente inaccessibile al pensiero. “Soltanto il senso dell’amore illuminato può, in un certo qual modo, raggiungerla “…

Dio è lui stesso la sua propria vita, e questa vita è divinità, eternità, grandezza, bontà e forza. Esiste e sussiste in sé stessa, dilaga in ogni luogo per la sua immensità e, per la sua eternità, da ogni tempo che potrebbe contenere la ragione o l’immaginazione. La sua verità, la sua eccellenza sfidano ogni fatto da qualsiasi fonte esso venga. Pertanto “il senso dell’amore illuminato e umile, lo raggiunge sicuramente più che qualsiasi pensiero della ragione”.

Non è la visione beatifica, ma ciò che può maggiormente avvicinarvisi quaggiù. Queste linee del Commento al Cantico dei Cantici lo affermano senza ambiguità:

Al momento di questa visita divina, saltano il muro di questa vita mortale sembra separare ancora lo Sposo e la sposa dal bacio perfetto (che è l’unione perfetta del cielo).

Alla fine del suo “Enigma sulla fede”, Guglielmo prende da sant’Agostino la preghiera finale del suo trattato “Sulla Trinità” pur cambiandolo un po’. Vi mette il suo tono personale e lo conclude così:

Che mi ricordi sempre di te, che sempre ti ricordi e ti ami. Un giorno infine, o Dio Trinità, a forza di ricordarmi fedelmente di te e amandoti sinceramente, tu mi rifarai a tua immagine a quella immagine alla quale mi avevi creato.

Tale è la visione di Dio in Guglielmo di Saint-Thierry :un Dio che, nel suo amore prepara l’uomo a contemplarlo faccia a faccia, e che suscita in lui il desiderio di possederlo,di vederlo, di amarlo - ciò che per Guglielmo fa tutt’uno. Un Dio che si è avvicinato all’uomo dandogli il proprio Figlio, la propria immagine; ed il suo Spirito, il suo amore.

L’ITINERARIO VERSO DIO

Vedere Dio è lo scopo della vita cristiana. Ma per vedere Dio bisogna essere puri: Cristo lo ha detto nel Vangelo. Guglielmo all’inizio della sua opera “Sulla contemplazione di Dio” esclama:

Signore mostraci il tuo volto e noi saremo salvi! (S. 79) Ma ahimè, ahimè! Signore, com’è temerario, disordinato, presuntuoso, pretendere di vedere Dio con cuore impuro!

Tutta la spiritualità di Guglielmo di Saint-Thierry consiste in un distacco progressivo dalle cose materiali, in una purificazione sempre più grande del cuore, per giungere fin da quaggiù, a vedere Dio in un faccia a faccia che, pur non essendo quello dell’eternità è tuttavia nella stessa linea e lo prepara.

Le tre tappe della vita spirituale

Nella sua “ Lettera ai fratelli del Monte di Dio “, Guglielmo distingue tre “stati” o gradi nel cammino spirituale, e quindi nell’avvicinamento a Dio, che sono altrettanti gradi di purificazione e di spiritualizzazione: lo “ stato sensitivo “ (che chiama animale dal latino anima), lo”stato ragionevole” e lo “stato spirituale”.

Lo stato sensitivo - Il principiante nella vita spirituale ha ancora un animo debole. E’ trattenuto da tutto ciò che colpisce i sensi: è superficiale, e gli manca l’introspezione.

Ha bisogno di un maestro, di un padre spirituale che se ne prenda cura e che gli imponga l’obbedienza e la mortificazione. Tali sono i due rimedi che raccomanda vivamente Guglielmo di Saint-Thierry: poiché quest’uomo non è ancora guidato dalla sua ragione, ma dai suoi sensi è il giudizio del maestro spirituale che lo guiderà: è necessario che gli obbedisca. A questa prima spogliazione se ne aggiungerà un’altra: il maestro gli imporrà anche mortificazioni corporali, farà “digiunare“ tutti i suoi sensi.

Lo stato ragionevole - Così guidato e poco a poco purificato, questo uomo comincia a essere padrone di se stesso. La sua ragione si rafforza: non si lascia più dominare da tutte le sue impressioni. A quest’anima virilizzata Guglielmo da ora il nome di “animus. “ Ma questo “stato ragionevole”’ non è per installarvisi: l’ascesa continua. E’ durante questa tappa che si fortifica l’anima virile, padrona di sé e del suo corpo; che continua la purificazione non solo dalle cattive inclinazioni, ma anche da tutto ciò ch’è troppo solamente sensitivo, che ostacola l’anima e intralcia la visione di Dio.

E’ nel profondo dell’anima e con la grazia di Dio, che si compie questo lavoro di sgombero delle creature e di se stesso, questa morte del “vecchio uomo“. L’anima si sottomette a tutta una disciplina interiore per controllare e regolare i suoi pensieri. E non è cosa da poco: quanti pensieri passano per la testa in un giorno! Così, poco a poco ci si interiorizza.

Lo stato spirituale - A un certo momento lo Spirito Santo interviene in modo speciale. Era già certamente all’opera in tutto questo lavoro di purificazione e nei numerosi sforzi che l’anima compiva per essere tutta a Dio, ma ora agirà secondo il “suo modo” che è il modo divino. L’anima non farà, ma si lascerà fare. Il suo sforzo consisterà piuttosto a lasciarsi fare - e non è così facile come lo si potrebbe pensare! L’anima si controlla con severità per assicurarsi che la sua volontà è consona a quella di Dio. Ma sopratutto lo Spirito Santo, nei momenti che afferra l’anima la rende conforme a Dio in modo speciale. La rassomiglianza con lui si accentua stupendamente: quest’uomo diventa sempre più immagine di Dio. Irradia questa presa di possesso di Dio. E’ diventato spirituale.

Tutto questo lungo itinerario, lo si comprende, è una purificazione progressiva. Da “sensibile“ si è passato al “ragionevole“ e dal ragionevole allo “spirituale“. Il principiante, molto “terrestre”’ si è innalzato poco a poco , con la grazia di Dio, al di sopra di ciò che prima l’attirava con forza. E’ stato portato a riflettere maggiormente, a rientrare in se stesso, cioè a raccogliersi. Si è liberato dal bisogno di vedere e comprendere tutto, di ricercare i propri comodi in tutto. Lo Spirito Santo, vedendo quest’uomo così purificato, l’ha spinto a lasciare le molteplici riflessioni, la mescolanza delle idee per semplificarlo e dargli un po’ della semplicità di Dio. L’unità si è sostituita poco a poco alla molteplicità. Quest’uomo ora, aspira a un’unica cosa: essere con Dio, solo con lui, più che possibile. “Chi ha Dio con sé, dice Guglielmo, non è mai meno solo di quando è solo.”

Disposizioni interne

Le disposizioni interne che raccomanda Guglielmo di Saint-Thierry sono già state esposte nelle pagine precedenti. Diamo qui, soltanto qualche elemento nuovo.

Per prima cosa notiamo l’attitudine di “generosità“. Guglielmo la raccomanda vivamente:

Da tutti voi, si esige la perfezione, ma non la stessa da ognuno. Se cominci, comincia perfettamente bene. Se hai già realizzato qualche progresso, anche in ciò comportati perfettamente. Se in qualcosa hai raggiunto la perfezione misurati con te stesso e dì con l’Apostolo: “ Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo. Questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù.” (Fil. 3,l2-14)

Da notare anche l’attitudine di vigilanza su se stessi: il modo migliore per conoscersi. Certamente bisogna dimenticarsi, superarsi, ma Guglielmo insiste sulla conoscenza di sé stessi, sulla vigilanza da esercitare sui propri pensieri:

Secondo il precetto dell’Apostolo, “bada a te stesso con la più grande cura,”e, per poter avere sempre gli occhi su di te, distoglili da tutto il resto. Occupati di te stesso: hai in te stesso, un motivo considerevole di occupazione.

Questo brano è tratto dalla “Lettera ai Fratelli“. Eccone un altro nella stessa linea :

Impara a dirigerti, a regolare la tua vita, il tuo comportamento, a giudicarti, ad accusarti, a biasimarti spesso, a non lasciarti andare senza punizione...
Al mattino renditi conto della notte passata e stabilisci un programma da realizzare durante il giorno che comincia. Alla sera esigi il resoconto del giorno trascorso e traccia il piano per la notte che arriva. Controllato così rigorosamente non avrai mai del tempo libero per scherzare.

Guglielmo raccomanda anche il distacco assoluto. Questa attitudine non è contraria a quella precedente: il dovere di dimenticare il creato e di dimenticarsi per occuparsi soltanto di Dio si accorda perfettamente con la vigilanza su se stessi. Guglielmo, nel suo trattato “Natura e dignità dell’amore“, descrive in questo modo l’ultima tappa dell’ascesi verso Dio:

Nell’abbandonare il proprio corpo e tutte le preoccupazioni e i tormenti corporali, l’anima dimentica tutto ciò che non è Dio. Essa non si occupa d’altro che di Dio. Ritiene che esista soltanto: Dio e lei, e dice: Il mio diletto è per me ed io per lui (Ct. 2,16) “ Fuori di te nulla brano sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore, ma la roccia del mio cuore è Dio, e Dio la mia sorte per sempre.”(S .72)

Tale è quindi la spiritualità di Guglielmo di Saint-Thierry purificarsi per unirsi a Dio, vederlo e possederlo. E’, possiamo aggiungere, purificare, strofinare, far brillare l’immagine di Dio; rettificare ciò che l’ha danneggiata; modellarsi su Gesù, che è immagine del Padre, e diventare sempre più immagine di Dio, imitandone le sue virtù, le sue attitudini, le sue disposizioni.

TRE FORME DI ORAZIONE

Guglielmo è un uomo di preghiera, si è dedicato all’orazione, come ne danno testimonianza le sue “Meditazioni” e altre preghiere. Ha scritto sull’orazione e non nasconde il suo desiderio di formare i principianti alla preghiera interiore. Vuole loro insegnare il cammino da seguire per giungere “all’orazione spirituale”.

Per quali strade li conduce? Quali consigli dà sul modo di praticare l’orazione e, sormontare le difficoltà?...

Lasciare tutto

Venite, scaliamo la montagna del Signore, saliamo alla dimora del Dio di Giacobbe, e ci insegnerà le sue vie. Intenzioni, desideri, pensieri, sentimenti, tutte le mie intime energie, venite! Scaliamo la montagna, conquistiamo il luogo dove il Signore vede e si lascia vedere! Preoccupazioni, sollecitudini, inquietudini, fatiche, oppressioni penose aspettatemi qui. Dopo aver adorato ritorneremo a voi.

E’ con questa esortazione che inizia il trattato sulla “ Contemplazione di Dio.” Per Guglielmo si tratta di lasciare da parte, quando si vuol fare orazione, tutto ciò che può impegnare il cuore e lo spirito, e di slanciarsi verso Dio. Spesso servirà da trampolino una parola della Scrittura - come questa Venite, scaliamo la montagna del Signore...”

Questo invito insistente di lasciare tutto al momento dell’orazione non ha che uno scopo: permettere a colui che prega di essere totalmente a Dio, attento a lui, unicamente occupato a conoscerlo ed amarlo.

Guglielmo distingue tre forme di orazione, che corrispondono a tre tappe della vita spirituale già menzionate:l’orazione immaginativa, l’orazione meditativa, l’orazione spirituale.

L’orazione immaginativa

Questa prima forma di orazione è quella del principiante nelle vie dell’orazione, dell’uomo che vive a livello di ciò che cade sotto i suoi sensi. Non potendo afferrare Dio in se stesso, lo raggiunge attraverso la vita, la creazione che lo circonda, l’esistenza concreta di Cristo, così come l’immagina.

Durante l’orazione si applica a considerare una scena del Vangelo, a rappresentarsela a viverla come se fosse presente in attore e non in semplice spettatore. Citiamo un brano caratteristico della Xa Meditazione dove Guglielmo entra in scena:

Non avendo ancora oltrepassato la tappa elementare della mia immaginazione propensa al sensibile, tu permetti, tu accetti volentieri che la mia povera anima, ancora debole, segua la propria natura concentrando la sua immaginazione sulle tue umiliazioni. Così abbraccio la mangiatoia che ti ha visto nascere, adoro la tua santa infanzia, bacio i piedi di colui che è sospeso al legno della Croce, metto la mia mano al posto dei chiodi gridando: “ Mio Signore e mio Dio!...Adoro ciò che con l’aiuto dell’immaginazione: vedo, sento, tocco, del Verbo di Vita.

Ogni orazione del principiante è così incentrata sulla persona di Cristo - di Cristo conosciuto, anzitutto nella sua umanità. E’ per questo che Guglielmo domanda di dare al novizio letture, meditazioni, dove egli possa rappresentarsi con l’immaginazione, le azioni del Salvatore.

Al principiante in Cristo, sarà più proficuo e sicuro, proporre, come soggetto di lettura e di meditazione, le azioni del nostro Redentore. Gli si insegnerà a scoprire una lezione di umiltà, uno stimolo all’amore e agli slanci affettuosi…
Bisogna anche, certamente insegnargli a innalzare nell’orazione il suo cuore, a pregare in modo spirituale, a distaccarsi il più possibile dalle immagini materiali e corporali...
Ma ripetiamolo, sarà più proficuo e sicuro proporre a questo principiante, come soggetto di meditazione e di orazione, la umanità del Signore, la sua nascita, la sua passione, la sua risurrezione. Così, questo spirito ancora debole, che sa solo pensare a realtà materiali e corporali, avrà un oggetto dove fissarsi, qualcosa alla sua portata, a cui potrà aderire con uno sguardo affettuoso… Pur rappresentandosi Dio sotto sembianza umana non si allontana abusivamente dalla verità. Purché la sua fede non allontani Dio dall’uomo, potrà un giorno raggiungere Dio attraverso l’uomo. (nell’umanità di Cristo).

Questo metodo di orazione raccomandato da Guglielmo di Saint-Thierry, è una vera iniziazione alla vita divina: è attraverso Cristo, immagine del Dio invisibile che si raggiunge il Padre.

Accade a volte che, partendo da questa rappresentazione umana di Cristo, l’anima si trova illuminata, infiammata: lo Spirito Santo la invade e le concede di provare un’esperienza autentica della bontà di Dio. E’ ben questa una “orazione spirituale” anche se non sia ancora giunta a questo punto.

L’orazione meditativa

Per eccellente che sia questa prima forma di orazione, non è che una tappa. Perchè si tratta di lasciar cadere poco a poco, tutte queste rappresentazioni, e di “slanciarsi nelle cose dello spirito.” In altre parole, far posto alla meditazione,ai pensieri di fede, e all’espressione i sentimenti intimi:

Questo modo di pregare prende di solito, il suo soggetto da una verità di fede, da un articolo del Simbolo (Credo). Allora ciò che si crede fedelmente in conformità alla fede cristiana, lo si ama in piena verità e semplicità, e la rappresentazione immaginativa delle azioni del Signore Gesù, si trasforma in un sentimento profondo.

Si medita su tale disposizione di Cristo, su tale perfezione di Dio, tale verità di fede che si sperimenta interiormente. Si parla a Cristo, lo si ascolta, si cerca di conoscerlo e di amarlo in un modo migliore. Gli si esprimono i sentimenti del proprio cuore gioia, riconoscenza, fiducia, abbandono. . .Questa orazione “ è uno slancio affettuoso dell’uomo che si unisce a Dio, un colloquio semplice e pieno di abbandono.”

Parla, Signore,ogni tanto al cuore del tuo servo e fa si che le tue consolazioni rallegrino la mia anima! Insegnami a parlarti spesso, a confidarti, mio Signore Dio e Padre, tutta la mia miseria ed i miei bisogni. Fa che ti ami più che me stesso, e che non mi preoccupi affatto di ciò che tu potrai fare di me, purché io faccia ciò che è gradito ai tuoi occhi.

E’ sufficiente sfogliare le “Meditazioni” di Guglielmo per capire come meditasse durante le sue orazioni, si meravigliasse, esultasse, si dimenticasse, si perdesse in Dio. Così questa meditazione , che termina con un ardente aspirazione alla vita eterna, in una ammirevole invocazione allo Spirito Santo:

O Amore, o Fuoco, o Carità, vieni in noi! Sii guida e fiaccola, fuoco ardente e purificatore dei nostri peccati! Paracleto, Consolatore, nostro avvocato e sostegno nella nostra causa.
Scoprici ciò che crediamo, infondici ciò che speriamo! Che possiamo ripeterti:” Il mio cuore te l’ha detto: il mio viso ti ha cercato!” (S. 27,8)

Ma, a questo punto della vita di preghiera, essa non è ancora sempre un’espressione interiore. A volte è l’aridità:

Come lo sparviero che tende le ali verso il mezzogiorno, io tendo le mani a te, Signore, e la mia anima è d’innanzi a te, come terra arida.

Qualche volta le distrazioni ci assalgono. Guglielmo le conosce e, più di una volta ne parla. Per ripetere sempre che la preghiera è innanzi tutto una offerta di sé, un sacrificio offerto a Dio, che non è incompatibile con le distrazioni. Evoca Abramo che doveva scacciare gli uccelli rapaci che si abbattevano sulle vittime immolate (cf. Gn. 15,11): è l’immagine della preghiera quando si è talmente presi dalle distrazioni ch’essa diventa soltanto un combattimento.

Bisogna leggere la sua IXa’Meditazione’ dove lotta contro le distrazioni con una tale energia, fino a che la calma non sia tornata:

Ora ogni traccia di fitta nebbia è sparita. Rivolgo a te, o Luce di verità, occhi più chiari.. .Nascosto nel segreto del tuo viso comincio a parlarti con tutta intimità e familiarità, ti svelo tutti i recessi della mia coscienza. Avendomi tolto questa tunica di pelle che tu avevi dato ad Adamo per coprire la sua vergogna, eccomi nudo davanti a te, tale quale mi hai creato. Tu vedi le mie ferite, dalle recenti alle più antiche. Non ti nascondo nulla, ti mostro il bene che è opera tua, e il male che è opera mia.

L’orazione spirituale

Un giorno, Dio interviene più chiaramente e abitualmente. Numerosi sono i testi in cui Guglielmo parla del passaggio dall’orazione meditativa all’ “orazione spirituale”. Si considerava Cristo in Croce, si meditava il suo amore, ed ecco per l’anima una luce stupefacente sull’amore infinito di Dio:

Non è più una comprensione, frutto faticoso del nostro sforzo umano; non si tratta nemmeno di un battito d’occhi dei nostro spirito accecato dalla tua luce, ma di una tranquilla sperimentazione del tuo amore.
L’anima, tutta illuminata, resta immobile per godere della presenza di Dio tanto quanto è permesso.

Più di una volta Guglielmo nota che, in questi momenti, lo Spirito Santo invade, attira l’anima, stimola il suo amore, e ama in lei:

L’anima è invasa da un fiume di gioia così impetuoso che le sembra di vederti “tale quale sei”, mentre con piacere medita il bene che ci hai dimostrato nell’ammirevole mistero della tua passione. Bene tanto grande quanto te. Bene che è te stesso.
L’anima allora, colma di amore afferra e contiene l’Incomprensibile e l’Incontenibile; comprende l’Incomprensibile. In realtà essa è più catturata di quanto catturi, perchè chi cattura in lei, non è lei stessa, ma lo stesso Amore, che è lo Spirito Santo.

Questa irruzione dello Spirito Santo è un felice sconvolgimento interiore; è un’esperienza spirituale completamente nuova, una trasformazione nel più intimo dell’essere, una vita che invade tatto. L’anima diventa una risplendente immagine divina, è come divinizzata.

Senza dubbio, quando questa esperienza sarà finita, la luce non brillerà più, ma l’anima ne resterà segnata. Quando Guglielmo commenta la frase della sposa del Cantico dei Cantici;”Bruna sono ma bella” la interpreta: dopo la grazia dell’unione, dopo l’esperienza di Dio, non sono più illuminata, sono di nuovo senza fulgore;conservo però, la nuova bellezza che mi è stata data.

Guglielmo non tralascia mai di dire che questa preghiera spirituale non dipende da noi; essa è un dono di Dio. Non sempre l’uomo “spirituale” ne fa l’esperienza. Quando allora non ci viene data, umilmente e senza paura di sbagliare, bisogna accettare di ritornare a un’orazione più semplice.

Così come lo stato ragionevole deve normalmente raggiungere lo stato spirituale, altrettanto è impossibile che lo stato spirituale non ritorni, ogni tanto, a quello ragionevole. Essere senza interruzione sotto l’impulso dello Spirito non è di questa vita.

In altre parole, qualche volta si ritornerà a una scena del Vangelo, ci si rappresenterà Cristo nella sua umanità, si mediterà una verità di fede. Ciò che fa spesso Guglielmo che, lungi dal mettersi fra gli “spirituali“, si pone umilmente fra “le anime deboli”.

A Dio non piace del resto che Guglielmo non sia uno Spirituale! Più o meno a sua insaputa, dimostra attraversi i suoi scritti sull’esperienza di Dio, sull’azione e l’irruzione dello Spirito Santo nell’anima, di essere familiare a queste grazie di unione. Testimoni questi due ultimi testi che dimostrano a che altezze s’innalzava Guglielmo. Lo Spirito Santo fa partecipare l’anima a ciò che è lui stesso : legame d’amore del Padre e del Figlio nella Trinità.

Così è la stupefacente condiscendenza del Creatore per la sua creatura: l’uomo si trova messo, in un certo senso, in questo abbraccio e in questo bacio fra il Padre e il Figlio che è lo Spirito Santo. Si vede unito a Dio da questa stessa Carità che fa l’unione del Padre e del Figlio.

Giunta a questo stadio, l’anima vuole solo ciò che Dio vuole. Essa è matura per questa ultima rassomiglianza a Dio, che Guglielmo chiama l’“unità” di spirito.

Si chiama “unità di spirito“ non solamente perchè lo Spirito Santo la realizza o vi dispone lo spirito dell’uomo, ma. perchè è lo Spirito Santo, lui stesso, Dio-Carità.
In effetti, essa si produce, quando Colui che è l’Amore del Padre e del Figlio, la loro unità, la loro soavità, il loro legame, il loro bacio il loro abbraccio... diventa per l’uomo rispetto a Dio, ciò che in virtù dell’unione consustanziale è per il Figlio verso il Padre e per il Padre verso il Figlio. (o meglio il legame vivente dell’amore).
Quando la coscienza fortunata si trova presa nell’abbraccio del Padre e del Figlio, quando in un modo ineffabile, inesprimibile, l’uomo di Dio merita di diventare, non certo Dio, ma ciò che Dio è per natura: ecco ciò che diventa l’uomo per la grazia.

L’ ORAZIONE NELLA VITA

Per Guglielmo di Saint-Thierry, orazione e vita si richiamano mutualmente e si compenetrano. L’orazione impregna la vita cristiana e tende a divenire continua; e poco a poco la vita cristiana viene trasformata dalla preghiera.

Momenti di preghiera nella giornata

Guglielmo, è chiaro, consacra ogni giorno del tempo alla preghiera . Le sue “ Meditazioni “ e altre preghiere che ci ha lasciato non sono composizioni cerebrali: esse sono l’eco della sua anima, vissute prima di essere scritte. Egli ci insegna a fare altrettanto, a riservare dei tempi di preghiera nelle nostre giornate.

In modo speciale raccomanda una pratica ai suoi occhi molto preziosa: la meditazione quotidiana della Passione di Cristo.

Chiunque ha il sentimento del Cristo sa quanto è vantaggioso alla pietà cristiana, conveniente al servitore di Dio, consacrare ogni giorno un po’ di tempo a rivivere attentamente nel proprio cuore i benefici della Passione di Cristo e della Redenzione per “assaporarli deliziosamente nell’intimo della propria anima e fissarle fedelmente nella propria memoria”.

Queste ultime righe possono sorprendere; esse hanno infatti, un enorme importanza nel pensiero di Guglielmo. Questa meditazione sulla morte e risurrezione del Cristo consiste in un ricordo appassionato e pieno di fede di tutto ciò che il Signore ha sofferto nella sua Passione. Per Guglielmo si tratta di una vera “comunione“, di una “comunione spirituale. E’ sicuro, non vi si riceve fisicamente il corpo e il sangue di Cristo, come nell’Eucaristia, ma la “grazia del sacramento”‘ vi è donata.

Questa “celebrazione” intima, Guglielmo la ricollega non al sacerdozio ministeriale, ma al sacerdozio battesimale di tutti i fedeli:

La celebrazione rituale di questa santa e venerabile commemorazione (la messa), in luoghi e tempi stabiliti è riservata ad alcuni uomini rivestiti di questo ministero. Ma ciò che ne costituisce la realtà spirituale è alla portata di tutti i cristiani a cui s’indirizzano queste parole: “ Voi, proprio voi, siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perchè proclami le opere meravigliose di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce.” (IPt. 2,9) E’ possibile quindi a tutti i cristiani di fare questa celebrazione, di servirsene,di appropriarsene per la propria salvezza in tutti i tempi e in tutti i luoghi. L’unica condizione richiesta è uno slancio di amore.

Guglielmo insiste su questa “ comunione spirituale “ con stupefacente vigore - e sa quel che dice, questo teologo sperimentato ed allo stesso tempo mistico eccezionale :

Se lo desideri, si, se lo desideri veramente, è a tua disposizione a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ogni volta che ti ricordi di ciò che Cristo ha sofferto per te, ogni volta che applichi la tua anima a questa considerazione con fede e affetto, tu mangi il suo corpo e bevi Il suo sangue.

Verso un’orazione continua

Chi pratica l’orazione, sente il bisogno di dedicarsi ancora di più all’orazione, di trasformare la sue giornate e le sue azioni, in una preghiera continua.

In un modo molto concreto, Guglielmo, nella sua “Lettera ai fratelli”, dimostra come anche gli esercizi più “corporali” della giornata - il sonno, i pasti, il lavoro manuale, - possono esser vissuti pur continuando il contatto con Dio, pur rimanendo alla sua presenza. E’ una specie di preghiera continua che ingloba anche i più umili dettagli della vita.

Così, al momento di coricarsi, consiglia di portare con se un pensiero di fede e di addormentarsi con lui. Con molto giudizio osserva che ci si addormenterà tranquillamente, che il riposo sarà pacifico e il risveglio facile e piacevole. Col pensiero della fede che è continuato per tutta la notte, al risveglio si ritrova il proprio slancio e si è pronti a “ritornare a ciò da cui non si è completamente usciti”: l’unione con Dio

Quando stai per addormentarti, porta sempre con te nella tua memoria o nel tuo pensiero qualcosa che ti permetterà di addormentarti tranquillamente, che a volte influenzerà persino i tuoi sogni, e che accogliendoti al tuo risveglio ti restituirà lo slancio del giorno prima.

Lo stesso per i pasti. Guglielmo raccomanda di mantenere la presenza di Dio, di nutrire la propria anima così come si nutre il proprio corpo.

Quando mangi non dedicarti esclusivamente al cibo. Ma, mentre il tuo corpo prende il suo cibo, che la punta della tua anima non trascuri il proprio. Che rimuggini e assimili un pensiero attinto al ricordo della bontà infinita di Dio, o una parola della Scrittura : la tua anima ne sarà nutrita mentre la mediterà o, semplicemente se ne ricorderà.

Quanto al lavoro manuale, se è necessario per guadagnarsi da vivere, ha anche il vantaggio di procurare allo spirito un certo riposo. Ma non deve essere occasione di distrazione. Nel pensiero di Guglielmo, il lavoro manuale assicura non solo la continuità, ma anche l’intensificazione della vita di unione con Dio:

Avrà meno lo scopo di ricreare lo spirito che di assicurare agli sforzi spirituali la conservazione, l’aumento della loro gioia. Lo spirito si riposa un momento, ma non si rilassa mai.

I benefici nella vita cristiana

In chi prega l’anima e il corpo sono segnati dall’orazione. Per prima cosa l’anima anela a una grande purezza. La prima cosa che Dio fa a chi si avvicina a lui è quella di aprire il cammino dell’unione con lui. E per questo Dio lo purifica: il più piccolo attaccamento, fosse anche solo un filo, sarebbe un ostacolo a questa unione . Così Dio ispira all’anima che è assidua alla - orazione il desiderio di una grande purezza:

La sposa che aspira alla visione di Dio,desidera avere un cuore puro, una coscienza pura, una sensibilità pura, una intelligenza pura, una purezza totale.

Nello stesso tempo l'anima conosce un accrescimento delle altre virtù. Guglielmo nel suo "Specchio della fede" ci mostra che le tentazioni che assalgono l’uomo sono di due specie: sensualità per la carne, orgoglio per lo spirito. Per vincere le prime è necessario ricorrere alle mortificazioni corporali; per vincere le seconde bisogna cercare “aiuto: nell’orazione, nella lettura, nella meditazione”. Si lotterà così contro l’orgoglio, meditando sull’umiltà del Salvatore chiedendogli la grazia della conversione...

E’ sopratutto nell’esperienza mistica, quando la grazia si impadronisce dell’anima che le virtù acquistano tutta la loro portata. In particolare le virtù della fede, della speranza e della carità , ma anche le altre, come la pazienza e l’umiltà ricevono un forte impulso. Se contempliamo il Verbo fatto carne, umiliato sofferente, non sorprende che l’anima si accenda del più intenso desiderio di assomigliargli :

Impossibile vedere il Bene supremo senza amarlo. Impossibile non amarlo per tutto il tempo che ci è concesso di vederlo. Così vero che poco a poco l’amore dell’uomo perviene a una certa rassomiglianza con un altro Amore: quello che ha indotto Dio a farsi simile all’uomo prendendo l’umiliazione della condizione umana. E questo per stabilire l’uomo in uno stato di somiglianza con Dio, facendolo partecipare alla sua vita divina per mezzo della glorificazione.
A quest’uomo sembra dolce, allora, essere associato all’umiliazione della somma Maestà,diventare povero della povertà del Figlio di Dio, conformarsi alla divina Sapienza, vivere interiormente i comportamenti di nostro Signore Gesù Cristo.

L’orazione non solo favorisce la crescita delle virtù, ma agisce anche sul corpo stesso. Più di una volta Guglielmo constata che quando l’anima ha incontrato Dio in una grazia di unione, in una esperienza intima, il corpo si spiritualizza e irradia qualcosa dell’anima. Parlando dei monaci di Signy o di Clairvaux, Guglielmo scrive;

La luce che brilla nel loro interno, si riflette con tutta naturalezza , sui loro visi. Essa comunica ai loro lineamenti, a ogni loro comportamento una ammirevole semplicità: :e quasi una provocazione del tuo amore... Perfino i loro corpi prendono un aspetto spirituale, i loro visi angelici riflettono una bellezza unica.

Se è vero che Guglielmo di Saint—Thierry è stato un Maestro di vita spirituale, una guida eminente per tutti quei monaci che al XII° secolo, lo hanno conosciuto e amato, hanno gustato le sue opere e “bevuto“ le sue parole, oggi ancora per chi legge assiduamente i suoi scritti e lo prega, può diventare un maestro un padre spirituale, un amico. Una guida nelle vie dell’orazione.


Lo Spirito Santo nella vita della Chiesa

di P. Pelagio Visentin osb

Non è tanto facile parlare dello Spirito Santo: tutti conoscono la definizione del «grande Dimenticato», come si è detto, e da vari anni si sta cercando di rimediare a questa carenza della teologia e della spiritualità occidentale. Tutti sanno infatti che i nostri fratelli separati d’Oriente, in particolare, sono molto sensibili a questo tema e trovano che la nostra teologia e, per conseguenza, anche la nostra spiritualità sono piuttosto povere a questo riguardo.

Già Leone XIII con alcune classiche encicliche sullo Spirito Santo ha tentato di rimediare a questa insufficienza teologica; anche il concilio Vaticano II ha dato preziosi elementi per un approfondimento ed un arricchimento della riflessione cristiana sullo Spirito Santo. Dobbiamo però essere sinceri e dire che c’è ancora molto da indagare e da meditare perché la teologia dello Spirito Santo sia veramente una realtà viva e presente.

1. La «Chiesa di pentecoste» e lo Spinto Santo 

Per nostra fortuna lo Spirito Santo è presente anche quando noi non ci pensiamo, ma è ovvio che una presa di coscienza più immediata potrebbe essere un grande aiuto anche per la Chiesa di oggi. Penso che il rinnovamento della Chiesa, oggi come domani e sempre, non potrà essere ottenuto soltanto aggiornandosi alle esigenze ed ai segni dei tempi, ma tornando ad uno studio, ad una riflessione, ad una meditazione profonda su quello che vuol dire il dono dello Spirito Santo da parte di Gesù, l’ultimo dono che egli ci ha la sciato prima di salire al cielo.

E per questo credo che la Chiesa, di oggi e di sempre, abbia bisogno di pensare al suo primo modello inarrivabile: quella che potremmo definire la «Chiesa di pentecoste», la comunità di pentecoste, dove il dono dello Spirito era ancora un elemento freschissimo, nuovo.

I Vangeli ci hanno narrato prima di tutto la discesa dello Spirito Santo sul Signore Gesù. Già nell’incarnazione l’arcangelo Gabriele diceva alla Madonna: «lo Spirito Santo scenderà su di te e ti riempirà della sua forza divina»; poi lo Spirito Santo scende su Gesù al Giordano.

Dopo i Vangeli, il libro classico, fondamentale a questo riguardo è, come tutti sanno, il libro degli Atti degli Apostoli, dove si narrano le varie discese dello Spirito Santo sopra la Chiesa, sopra la comunità dei discepoli di Gesù. Siamo quindi in continuità con i Vangeli, anzi gli stessi Atti degli Apostoli sono stati definiti «il Vangelo dello Spirito Santo».

Questo libro, scritto da Luca, nel capitolo 2 narra prima di tutto la discesa spettacolare nel mattino di pentecoste; poi, successivamente, ripetute volte, ricorda ua venuta, un dono, una missione dello Spirito Santo: sopra Pietro e Giovanni con la comunità dopo la persecuzione (4, 31); nel caso di Filippo, che aveva battezzato in Samaria, quando gli Apostoli vanno poi a dare lo Spirito Santo (8,17); importantissima è la discesa dello Spirito Santo nella casa di Cornelio, dopo la predicazione di Pietro (10,44); infine su un gruppo di discepoli a Efeso (19,6).

Parecchie volte Luca ritorna su questo dono che è conferito a tutti. E’ stato notato anche che tutte queste discese dello Spirito Santo hanno alcune tematiche fondamentali in comune: per esempio lo Spirito discende là dove una comunità di fratelli è unita, e per accrescere questa unione. La mattina di pentecoste i discepoli erano tutti «congregati in unum», in unità di spirito: lo Spirito discende ed aumenta, intensifica questa unità. Lo Spirito scende volentieri dove trova la Chiesa in preghiera come nel Cenacolo dove è in attesa del dono dello Spirito.

La venuta dello Spirito Santo è messa in connessione col battesimo come un suo completamento, cioè quello che chiamiamo oggi la cresima o la confermazione. Altro nesso con la parola di Dio, che ha una forza irresistibile, un’espansione missionaria proprio per il dono dello Spirito. Infine coi carismi: dove c’è lo Spirito c’è abbondanza di carismi.

Ecco dunque che la Chiesa di pentecoste è tutta permeata, vivificata da questa presenza, da questo dono dello Spirito ed è proprio la sua venuta che inaugura e porta a maturità la nuova comunità messianica. Si può dire che la Chiesa è nata già quando Gesù ha chiamato i discepoli; oppure che la Chiesa è nata, secondo la teologia dei Padri, da Cristo che si offre sulla croce, dal suo costato aperto dalla lancia. Tutto questo rimane vero, però la Chiesa appare come un fatto pubblico e solenne, si presenta davanti al mondo precisamente la mattina di pentecoste.

E avviene veramente qualche cosa di grandioso. questa Chiesa, che era nata prima nel cuore di Gesù ed era limitata ad un piccolo gruppo, diventa la vera comunità della nuova economia ed il discorso di Pietro la mattina di pentecoste spiega precisamente perché essa è la nuova comunità messianica: quel dono dello Spirito Santo che i profeti avevano predetto e promesso tante volte, adesso è disceso con abbondanza su tutti i presenti e questo, Pietro spiega, vuol dire che sono arrivati i tempi messianici, definitivi.

Lo Spirito è la garanzia, ormai, della presenza e dell’azione di Dio, azione permanente. Ireneo riassumerà meravigliosamente questa fede della Chiesa: « Ubi Spiritus, ibi Ecclesia» una bellissima, sintetica definizione della Chiesa. Egli in lotta con gli gnostici, voleva dire che lo Spirito non si comunica per via esoterica, segreta, di certi discepoli che pretendevano di avere rivelazioni attraverso canali particolari, ma piuttosto attraverso la trasmissione ufficiale della Chiesa, quella apostolica, attraverso i successori degli Apostoli in particolare. La Chiesa diventerà d’ora innanzi una dimora stabile dello Spirito Santo, il segno permanente di questa azione divina in mezzo agli uomini.

Del resto questa connessione dello Spirito Santo con la Chiesa la ricordiamo continuamente anche negli articoli del Credo. Purtroppo parecchi fedeli, quando recitano il Credo pensano forse che esso sia una lista, un elenco di verità indipendenti una dall’altra o pensano anche che non vi sia un nesso logico tra i vari articoli del Credo. Lo studio storico più approfondito dimostra invece che il Credo non è un elenco di verità ordinate secondo un principio sistematico, ma piuttosto presenta la storia salvifica, l’opera creatrice del Padre; segue l’opera del Figlio, incarnato, morto e risorto; e finalmente si arriva all’ultima parte del Credo, allo Spirito Santo.

Ora subito dopo il «Credo nello Spirito Santo» si aggiunge «Credo la santa Chiesa cattolica»: non vi è un accostamento soltanto casuale, una giustapposizione, ma un nesso profondo perché per lo Spirito Santo esiste la Chiesa, e la Chiesa è santa proprio per l’azione dello Spirito Santo. Segue la «remissione dei peccati» perché è precisamente lo Spirito Santo, come vedremo più avanti, che santifica e rimette i peccati, purifica la Chiesa.

Si passa poi a «risurrezione della carne», la vita escatologica di cui lo Spirito Santo è la primizia, la caparra. Tutto dunque è articolato secondo la storia salvifica.

Si vuol esprimere una connessione in radice, fondamentale tra la Chiesa e il dono dello Spirito Santo. Proprio allora vediamo che quel piccolo gruppo, quel manipolo di discepoli di Gesù poteva sembrare, ad un osservatore esterno, una piccola setta separatista dal giudaismo ufficiale: diventa invece la Chiesa «cattolica», cioè universale, portatrice di una salvezza universale che abbraccia il mondo intero.

Se leggiamo attentamente i primi capitoli degli Atti degli Apostoli, troviamo narrata una vicenda meravigliosa: nessun giudeo avrebbe avuto il coraggio allora di aprire la Chiesa al torrente impetuoso dei gentili, se non fosse avvenuto quello che è avvenuto la mattina di pentecoste, col dono delle lingue, in cui lo Spirito Santo prendeva possesso di tutte le razze, di tutte le culture.

Ancora più significativo su questo tema specifico, il fatto riferito nei capitoli 10-11 degli Atti degli Apostoli, dove si narra la piccola ma importante pentecoste nella casa di Cornelio, quando Pietro parla e poi «cadde» lo Spirito Santo sui presenti approvando la sua apertura ai gentili, il suo coraggio di ammettere anche i gentili alla pari, nella Chiesa, con tutti i fratelli giudaizzanti.

Osservano molto bene gli specialisti degli Atti che quei capitoli, in cui è narrata in tutti i particolari la vicenda di Pietro che - dopo la visione del lenzuolo a loppe e dopo il battesimo di Cornelio - deve giustificarsi a Gerusalemme davanti ai giudeo-cristiani di quello che aveva fatto, proprio quei capitoli sono estremamente importanti: sono la cerniera tra la prima parte degli Atti in cui il perno è Pietro e la seconda parte, in cui entra in scena Paolo.

Luca, abilissimo, da discepolo di Paolo, indirettamente polemizza contro i giudaizzanti e vuol far capire che non è stato Paolo a portare questa novità, ma è stato Pietro, nella casa di Cornelio, che ha avuto questa rivelazione: lo Spirito Santo stesso ha preso possesso ormai definitivo di tutti i popoli: allora la Chiesa è nata universale, per questo dono dello Spirito Santo.

Nell’economia dell’incarnazione anche Gesù si chiama Paraclito. «Vi manderò un altro Paraclito», egli dice: Gesù era l’assistente a fianco degli Apostoli e quindi interveniva personalmente per tutti i loro bisogni. Egli promette però «un altro Paraclito», un altro assistente: all’economia dell’incarnazione succede ora l’economia dello Spirito Santo, non per antitesi ma per un compimento, da quando Cristo, ormai, è partito per il cielo.

Senza dubbio Gesù non ha abbandonato la Chiesa, è sempre vivo e presente in essa, ma agisce in un altro modo, su un altro piano, in parte servendosi di mezzi visibili, sacramentali, che prolungano la sua umanità, concreta, appartenente al nostro mondo e in parte attraverso il flusso misterioso, segreto dello Spirito Santo: la sua presenza e la sua azione, quindi, sono diverse, ma non meno reali ed efficaci.

ad agire in un altro modo Tertulliano ha scritto una frase mirabile, sempre sintetica e forte come è nel suo stile, ossia che Gesù, partendo, ha lasciato vicariam vim Spiritus sui, ha lasciato la vis vicaria, la forza che doveva agire al posto suo, svolgendo la missione stessa che egli aveva svolto fino allora in mezzo ai fratelli, nella sua Chiesa.

Questa Chiesa di pentecoste, con la sua fisionomia autentica, dovrà essere sempre il punto di riferimento, il paradigma a cui la Chiesa dovrà rifarsi continuamente, ogni volta che vuole rinnovarsi in profondità oggi e sempre.

2. La Chiesa e lo spirito di unità

Vediamo ora più specificatamente che cosa fa lo Spirito Santo nella Chiesa. Sempre in modo molto sintetico, globale, panoramico.

soltanto conquista da parte nostra ma dono, al quale poi dobbiamo adeguarci anche con le nostre virtù e con il nostro sforzo, la nostra collaborazione personale.

Lo stesso identico Spirito che era presente nel Cristo Capo (ricordiamo che la sua umanità era piena di Spirito Santo), si diffonde d’ora innanzi come dono pasquale in tutto il corpo della Chiesa: lo Spirito Santo diventa così precisamente l’anima della Chiesa, come dice la tradizione cristiana, il motore segreto, la molla che muove la Chiesa. Oppure sarà l’Io fondamentale, quello che sant’Agostino ha chiamato una mystica persona: un tema ricco e profondo.

La Chiesa è una “mistica persona” grazie a quest’unica presenza, invisibile e misteriosa ma reale, che unifica tutta la Chiesa: lo Spirito Santo. Un tema che un teologo recente, in un libro edito adesso anche in italiano, ha sviluppato ampiamente.

Del resto la Mystici corporis ha riassunto splendidamente la teologia tradizionale patristica quando ha detto che lo Spirito Santo è «totus in Capite, totus in Corpore, totus in singulis membris». Lo Spirito nella sua pienezza era in Cristo, adesso «totus» è presente nella Chiesa, «tutto» è presente anche in ogni singolo membro. E’ questo che fa «una la Chiesa, perché la sua anima profonda è questa presenza attiva dello Spirito Santo.

Dunque lo Spirito, adesso, dovrà animare e vivificare tutto all’interno della Chiesa. Unifica il singolo uomo sul piano personale e morale, in quanto in noi c’è una componente fisica e una spirituale e ci sentiamo attirati da tante passioni, da tanti interessi. Soltanto lo Spirito riesce a purificarci e a unificarci per farci vivere «secondo lo Spirito», direbbe Paolo, secondo cioè la vita nuova che viene da Dio.

E’ lo Spirito che purifica e ci unifica col dono dell’amore, ma lo Spirito opera anche l’unità sul piano sociale, ecclesiale unifica tutte le membra, col capo che è Cristo e le unifica nei corpo l’una all’altra, sulla linea orizzontale, per dire così. Lo Spirito che nella vita trinitaria è il «nexus amoris» o il «vinculum amoris» tra il Padre e il Figlio, crea anche nella Chiesa un vincolo profondo di ciascuno con il Capo-Cristo e anche tra noi. Ecco l’unità creata in profondità dallo Spirito Santo.

Nel dono di pentecoste vediamo come questo Spirito diventa efficacemente un dono di tutti, un bene di tutti, senza più distinzioni di razza, di sesso, di età, di condizione sociale.

Basta ricordare la profezia di Gioele, che Pietro cita nel giorno di pentecoste: «Sopra i miei servi e le mie serve, sopra i giovani e i vecchi...»: tutti profeteranno, tutti avranno questo dono della profezia dallo Spirito Santo presente. E’ interessante sottolineare che non c’è alcun riguardo al sesso e all’età (due volte si dice: «ancillas meais»: in riferimento alle donne). Quello che prima nell’A. Testamento, era un dono saltuario, di tanto in tanto, di alcuni privilegiati, diventa un bene comune permanente.

Questa verità, però, naturalmente, non toglie che lo Spirito Santo abbia anche un particolare dono, un carisma per i pastori della Chiesa, proprio con la funzione di servire all’unità. Tutti collaborano, tutti devono convergere verso questa unità profonda.

E questa unità, naturalmente, non è soltanto estrinseca, o poggiante su qualche elemento (potrebbe essere il diritto canonico, o la lingua latina come tanti pensavano ritenendo questi elementi quasi essenziali). Non sono i mezzi esterni soltanto a produrre l’unità, ma è questa anima interiore, questa carità questo vincolo di amore, frutto della presenza attiva dello Spirito.

E questa l’unità della Chiesa, in una profondità tale che diventa per noi misteriosa.

Il giorno di pentecoste lo Spirito Santo è sceso su tutti, prima sugli Apostoli, poi su tutto il corpo della Chiesa. Noi cattolici però affermiamo che lo Spirito Santo agisce anche mediante le istituzioni da lui volute: i pastori hanno ricevuto un triplice deposito - della fede, dei sacramenti, dell’autorità - proprio per un dono divino. Gli Atti degli Apostoli ricordano precisamente che accanto al dono comune, di tutta la Chiesa, c’è anche qualche dono e ruolo particolare: per esempio per l’elezione di Mattia, oppure in Atti 1,2 dove si dice che Gesù ha scelto gli Apostoli «per Spiritum Sanctum».

L’azione speciale diventa chiarissima al capo 13, quando lo Spirito Santo dice alla comunità cristiana: «Separatemi, mettetemi da parte Paolo e Barnaba per la missione che io darò loro»; oppure con Giacomo, al capo 6: un’altra volta lo Spirito Santo interviene per illuminare e dirimere una questione particolare. Chi non ricorda poi il discorso di Paolo agli anziani di Efeso, quando dice loro: «Lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a reggere la Chiesa di Dio» (20, 28)? C’è, dunque, un’azione, una presenza, un dono dello Spirito Santo a tutta la Chiesa, senza nessuna distinzione, ma c’è anche una presenza, un dono particolare per alcuni che hanno una funzione, un ministero da svolgere dentro la Chiesa. Toccherà precisamente all’azione segreta ma delicatissima dello Spirito Santo unificare, far servire all’unità tanto il principio dell’autorità quanto i carismi.

E’ vero che nel passato, nella teologia occidentale, i carismi sono stati un po’ dimenticati; tutta l’attenzione era rivolta all’aspetto istituzione, all’aspetto gerarchico: la storia invece dimostra che molti rinnovamenti spirituali della Chiesa sono avvenuti non per una iniziativa dall’alto, ma da un dono suscitato dal basso. Chi non ricorda san Francesco d’Assisi? Anche il movimento monastico è venuto dallo Spirito Santo che spira in tutto il corpo della Chiesa e la rinnova, quando crede opportuno. E’ avvenuto diverse volte questo fenomeno nella storia.

Paolo, però, che è il grande teologo dei carismi, sa anche relativizzarli: di fronte alla carità, per esempio, che è il dono supremo, dice: «Cercate il dono più alto che è la carità» fra le virtù teologali o altre manifestazioni straordinarie (1 Cor 12,31). E sa anche subordinarli al principio dell’autorità apostolica: difatti proprio nella Chiesa di Corinto interviene per regolare il buon uso di questi carismi.

Non è vero, dunque, che la Chiesa, come sembra da un recente libro di Hans Küng, nella comunità di Corinto appaia soltanto carismatica, in quanto Paolo, proprio in quella Chiesa interviene per regolare lo svolgimento della vita carismatica e perciò fa appello alla sua autorità apostolica. La Chiesa ha dunque il compito di vigilare, di esaminare.

Naturalmente Paolo dice anche che non bisogna estinguere il dono dello Spirito, ma saper discernere, accettare tutto quello che di buono spira nel corpo della Chiesa... E proprio perché tanto l’autorità della Chiesa quanto i carismi derivano da uno stesso Spirito, è impossibile, per sé, sul piano obiettivo, un conflitto tra loro; quindi una ribellione, una rottura, la nascita di una setta non sono carismi autentici, non si può dire che ne abbiano la vera fisionomia.

Unità, però, non vuol sempre dire uniformità ed alle volte - anche questo appartiene alla storia della Chiesa - ci sono delle tensioni feconde che aiutano il cammino, l’approfondimento di certe verità nella Chiesa, naturalmente sempre nella carità e nel dialogo. Così possiamo trovare il punto di equilibrio, ma è lo Spirito Santo con la sua presenza che deve salvaguardare l’unità e la più ricca varietà nella vita della Chiesa.

Aggiungiamo tuttavia che la Chiesa non ha mai il monopolio dello Spirito Santo in modo da usarne come vuole, né si identifica totalmente con lo Spirito Santo, perché la Chiesa è fatta anche di uomini e peccatori. Lo Spirito spira sempre dove vuole e sappiamo - anche per una affermazione esplicita del Vaticano II nel decreto sull’ecumenismo, n. 3 - che agisce anche al di là dei confini istituzionali e quindi è presente un’azione, un dono dello Spirito Santo anche presso i nostri fratelli non cattolici, perché lo Spirito Santo conserva sempre la sua libertà sovrana di agire dove vuole. Naturalmente se lo Spirito Santo agisce anche nelle comunità separate, è proprio per stimolarle e stimolarci tutti verso l’unità.

3. La Chiesa e lo spirito di verità

Vediamo ora un altro aspetto: la presenza dello Spirito Santo nell’ambito della verità.

Lo stesso Spirito, che scruta le profondità di Dio, come dice Paolo (1 Cor 2,10) quello che «ha parlato per mezzo dei profeti», si è servito di loro come strumenti (non tanto meccanicamente, ma rispettando il loro stile, la loro personalità), quello Spirito che riempiva l’umanità del Verbo incarnato, è presente anche oggi nella Chiesa, che deve proclamare questo messaggio al mondo, deve portare a tutti la parola di Dio, deve illustrarla, interpretarla.

Certo, è il Verbo la parola totale e definitiva inviata al mondo, ma lo Spirito è dato proprio perché questo dono della parola continui ad agire e lo Spirito Santo agisce tanto in chi predica e propone autorevolmente la parola da parte di Dio, col magistero ufficiale della Chiesa, se volete, quanto in chi ascolta. Anzi, sarebbe inutile che la Chiesa predicasse, portasse questo messaggio, se lo Spirito non agisse nel cuore di quelli che devono accogliere questo messaggio di fede: è lo Spirito che genera la fede nel cuore e quindi lo apre ad accogliere la parola di Dio.

La Dei verbum al n. 12 ha detto molto bene, ispirandosi ai Padri: «Bisogna leggere ed ascoltare la Scrittura con lo stesso Spirito, o sotto l’influsso dello stesso Spirito che ha ispirato la prima volta gli autori sacri». Se non è lui che apre il cuore, che tocca l’intimo dell’anima perché penetri la parola, il seme del Verbum Dei, e perché sia fecondo nell’anima, è inutile la predicazione esterna. Ecco quindi l’azione dello Spirito nella Chiesa dalla parte di chi predica e dalla parte di chi ascolta.

E’ compito speciale dello Spirito Santo inoltre attualizzare la parola di Dio, perché non rimanga un passato ma una forza attiva e presente. Tocca allo stesso Spirito personalizzare quella parola e ciò avviene quando il cristiano si trova sotto l’impressione netta e profonda che questa parola è rivolta a lui personalmente, in quel momento. Così pure lo Spirito Santo aiuta a interiorizzarla, cioè a farne alimento della propria vita, qualche cosa che continua a risuonare, a penetrare dentro, altrimenti «invano - direbbe sant’Agostino - risuona fuori il Verbum”.

La Scrittura presenta il nostro atteggiamento di fronte al messaggio con termini assai significativi, che sarebbero da meditare uno per uno: è un invito, un’offerta, una proposta, una attrazione, una rivelazione interiore, un’unzione dello Spirito. Siamo ben lontani da una trasmissione scolastica di nozioni, quando invece si tratta di una azione molto più intima, profonda e segreta.

Lo Spirito Santo con la grazia «preveniente» agisce nel momento in cui il cuore deve aprirsi al senso della fede, egli produce una mozione interiore all’anima perché aderisca alla verità, inevidente per se stessa, e quindi anche nell’oscurità sappia aderire alla parola di Dio, sull’autorità di Dio che parla. Lo Spirito Santo aiuta anche la crescita, la penetrazione, l’assimilazione interiore e così agisce anche perché ci sia una comprensione e applicazione sempre nuova delle verità eterne lungo tutto il cammino della Chiesa. Vedi le applicazioni concrete del Vangelo di oggi per esempio nel campo sociale.

E’ stato definito molto bene e in base agli stessi testi scritturistici: lo Spirito Santo è una memoria vivente che richiama nella Chiesa le verità che Gesù ha portato, la parola di Dio. Di fatto Gesù ha detto: «suggeret vobis omnia» (Gv 14,26), egli vi richiamerà alla mente quello che vi ho detto, vi annunzierà il futuro e vi farà penetrare dentro la verità. Così egli assisterà il magistero della Chiesa, perché, in certi momenti più solenni non erri, perché custodisca ed interpreti autorevolmente il deposito della rivelazione: «visum est Spiritui Sancto et nobis» (At 15,28) - è la definizione del concilio di Gerusalemme -. Analogamente egli agisce anche nel sensus fidei del popolo cristiano, diffuso in tutto il corpo della Chiesa, per uno sviluppo omogeneo della verità, che deve essere sempre fedele al dato, cioè a ciò che Dio ha consegnato una volta per sempre alla Chiesa.

Ma, mentre è fedele al dato, è anche sempre aperto a una crescita indefinita perché non finiremo mai di penetrare questa verità meravigliosa. Tutto questo intrecciarsi invisibile della causa divina con l’apporto dell’intelligenza umana, aiuta la Chiesa a scoprire sempre nuovi aspetti della verità.

E’ precisamente dono dello Spirito l’equilibrio dove si risolve una antinomia apparente: non l’atteggiamento di coloro che oggi si chiamerebbero i conservatori, i fissisti, i quali ritengono che tutto è stato risolto una volta per sempre, tutto è chiarito e penetrato; ma neanche l’altro atteggiamento antitetico dove tutto è sempre da rifare col relativismo che attende dal progresso storico nuove verità sconosciute. Si tratta invece di conciliare la fedeltà completa, profonda al dato rivelato con la novità imprevedibile della luce divina che si proietta sulle cose umane, e su tutto il cammino della storia. Qui possono affiorare aspetti nuovi della verità che prima sfuggivano: lo Spirito è sempre nuovo e rinnovatore.

4. La Chiesa e lo spirito di santità

Un quarto aspetto: lo Spirito Santo che è santità e amore all’interno della vita trinitaria, deve agire anche sotto questo aspetto nella Chiesa, anzi dipende da lui il fiorire della santità della Chiesa. E’ evidente che qui la santità non è soltanto una santità morale, di virtù, conquista da parte nostra, è una santità ontologica in quanto partecipazione alla vita divina, comunione con Dio, dal momento che Dio ha preso possesso di quest’anima o di questo popolo.

«Eritis mihi populus peculiaris. (cf. Dt 7,6), cioè che io ho messo da parte per santificarvi in particolare. Lo Spirito Santo così sarà presente in ogni santificazione ed in ogni consacrazione. Quando Dio comunica qualche cosa della sua vita divina, della sua santità, ecco che troviamo presente lo Spirito, anche se la nostra teologia scolastica occidentale non ne ha tenuto conto abbastanza. E’ impossibile, per esempio, dal punto di vista della teologia orientale, spiegare la grazia sacramentale di tutti i sacramenti senza un riferimento immediato allo Spirito Santo.

Si potrebbe illustrare questa verità cominciando dal battesimo. Giovanni Battista ha parlato del battesimo «in acqua e Spirito Santo» (cf, Gv 1,33) e nel Giordano scende su Gesù proprio lo Spirito Santo. Nella liturgia del sabato santo diciamo splendidamente: «Discenda nella pienezza su questa fonte la virtus dello Spirito Santo»: dipende da qui la forza rigeneratrice e santificatrice del battesimo. E lui il creatore, lui il rinnovatore. E come nel battesimo tanto più nella cresima che è il tema illustrato da altri.

Il sacramento della penitenza: lo cito subito perché è un prolungamento del battesimo. Anche qui la presenza dello Spirito Santo è presenza necessaria. Ricordiamo che proprio la sera di pasqua Gesù ha detto: «Ricevete lo Spirito Santo; a quelli a cui rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,22-23): ecco lo Spirito per rimettere i peccati, e in positivo farci partecipi della santità divina. E un’orazione pasquale alla fine dice esplicitamente: «Quia ipse est remissio omnium peccatorum”.

I nostri fratelli orientali hanno vivissimo il senso, proprio nella prassi penitenziale, di questa presenza dello Spirito a tal punto che certe volte - e qui forse noi latini non saremmo d’accordo ma bisognerebbe fare un discorso molto più a fondo sulla loro teologia - attribuirono il potere di rimettere i peccati anche a «dei pneumatici o carismatici», per la grazia dello Spirito che riempiva la loro vita anche senza essere sacerdoti.

E’ ovvio il discorso anche per l’eucaristia. Dopo le nuove anafore, tutti sappiamo, per grazia di Dio, come è tornata esplicita la invocazione (epiclesi) dello Spirito Santo prima di consacrare i doni e dopo la consacrazione dei doni, sui presenti che devono partecipare ai frutti dell’eucaristia.

Si può affermare altrettanto a proposito dei sacramenti sociali, per esempio il sacramento dell’ordine. Avviene sempre con l’imposizione delle mani e l’invocazione: «Emitte.Spiritum tuum». Il concilio di Trento ha definito che se qualcuno affermerà che inutilmente, o a vuoto, il vescovo dice: «Ricevi lo Spirito Santo, sia anatema», cioè sia scomunicato. Il sacramento dell’ordine è dunque legato all’azione profonda dello Spirito Santo.

Vale anche per il matrimonio. Se il matrimonio è un vincolo d’amore soprannaturale che lega due battezzati per la vita e per la morte, non ci può essere un nuovo legame d’amore che stringe due battezzati se non viene dallo Spirito Santo che è il nesso, il vincolo profondo anche tra le persone della Trinità.

Tutti i sacramenti dunque hanno questa presenza attiva dello Spirito Santo che nella Chiesa ci rende partecipi della vita divina attraverso questi canali, come è lui che unifica la nostra preghiera con quella del Figlio. La vera preghiera cristiana, nel suo carattere specifico, è una preghiera filiale, in quanto «tutti quanti siamo figli nell’unico Figlio». Perciò è lo Spirito che grida nel nostro cuore: «Abba, Padre» (cf. Gai 4,6).

Noi non sappiamo come pregare, dice Paolo (cf. Rm 8,26), è lo Spirito Santo che prega in noi, profondamente. Quindi è proprio lo Spirito che fa della nostra preghiera una sola preghiera con quella di Cristo, il Figlio che è infallibilmente ascoltato dal Padre. Così pure è lo Spirito Santo che fa della nostra offerta all’altare una sola offerta con quella di Cristo; è lo Spirito Santo che fa del sacrificio della nostra vita un solo sacrificio con quello di Cristo. E’ lui che unifica sempre le membra al Capo, in ogni momento della loro vita, specialmente nel momento della preghiera. Tutta la vita quindi diventa una liturgia, un’offerta continua a Dio, fino direi alle vette mistiche più alte.

C’è un volume delle rivelazioni di santa Maria Maddalena de’ Pazzi ricevute proprio nella settimana di pentecoste. Partendo dai testi liturgici, dallo Spirito Santo, si eleva su su fino alla contemplazione meravigliosa dell’intervento dello Spirito che nell’anima produce quest’intima unione con Dio, questa preghiera più elevata, più pura.

5. La Chiesa e lo spirito dl libertà

Un ultimo elemento. La Chiesa ha ricevuto lo Spirito Santo anche in quanto Spirito di libertà.

Nell’ambiente dove viveva Cristo tutta la salvezza si faceva consistere nella rigida osservanza della legge mosaica. La fedeltà alla legge era come la mediazione salvifica per gli ebrei, mentre nella nuova economia si è salvi per la fede in Cristo che ci dona il suo Spirito e ci restituisce, come direbbe san Paolo, alla libertà dei figli di Dio (cf. Gal 4,31).

La redenzione presentata in termini di liberazione, che oggi desta tanto interesse se è bene intesa, è profonda e Paolo ha affermato: « Ubi Spiritus, ibi libertas»: «dove c’è lo Spirito Santo, lì c’è la libertà» (2 Cor 3,17).

È precisamente lo Spirito che ci svela la vera anima della morale cristiana, per essere come il Cristo. Egli ci assimila a Cristo Gesù, interiormente, profondamente, dal di dentro. E quindi la morale cristiana viene illuminata da una nuova realtà. Noi, sì, osserviamo la legge, ma per piacere al Cristo, per essere simili a lui, per essere trasformati in lui.

Anzi, prima c’è una conformazione ontologica operata dallo Spirito Santo mediante i sacramenti e, in un secondo momento, la nostra vita cristiana diventa una risposta, un adeguarci, uno sforzarci di metterci alla pari col dono di Dio. Questo è il senso della morale cristiana vera e propria, e perciò Paolo presenta le virtù cristiane come frutti dello Spirito Santo, in uno splendido elenco che meriterebbe di essere meditato punto per punto: la carità, la gioia, la pace, la pazienza, ecc. (Gal 4,22-25).

La morale quindi, nell’economia cristiana, rimane, ma non più come riferimento a un codice estrinseco soltanto, bensì in dipendenza dall’azione intima dello Spirito che dal di dentro mi assimila sempre più a Cristo capo: mi libera dal mio io, e mi rende vero membro di Cristo, mi conforma a lui che si è fatto obbediente fino alla morte di croce, facendomi santo non per un formalismo legalistico ma per un processo di assimilazione e di amore, di amore alla volontà del Padre e dei fratelli.

Possiamo costatare veramente la liberazione dell’uomo quando egli scopre in sé questo principio nuovo dell’amore, come il Cristo che si è fatto obbediente fino alla morte ma per amore. Quindi la molla più profonda che ispira, unifica e dà valore a tutta la morale cristiana è precisamente la carità «diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo», come dice Paolo (cf. Rm 5,5).

E ricordiamo tutti, nella 1 Lettera ai Corinti c. 13, il famoso inno alla carità, dove Paolo insiste con un triplice niente: anche se facessi le opere più mirabili, e trasportassi le montagne, sono niente; e se dessi il mio corpo per sacrificarlo nel martirio, ma non avessi la carità, sono niente. Tutto è niente senza l’amore.

La morale non vale, l’osservanza della legge e la condotta esterna non valgono niente se non sono basate sull’amore. E’ invece l’amore che dà valore a tutto. E tutto passa, aggiunge Paolo, anche i carismi: rimane soltanto la carità.

Ecco l’anima profonda, la molla vera e autentica della morale cristiana quando lo Spirito Santo entra in un’anima e crea in lei un atteggiamento interiore, libero, puro, santo come quello del Cristo. Allora può veramente valere l’assioma di sant’Agostino: «Ama, e poi fa’ quello che vuoi».

E sant’Agostino ha pure detto: « Ubi amatur non laboratur, aut ipse labor amatur»: dove si ama non si sente più la fatica, oppure si ama la stessa fatica. Se, quindi, ci lamentiamo che la morale cristiana è troppo pesante, è un giogo troppo duro, vuol dire che non abbiamo scoperto questa molla, non siamo ancora entrati in questa anima profonda della morale e della vita cristiana.

Eppure Gesù ci aveva avvisati molto bene quando ci aveva insegnato a essere fedeli, a compiere sempre la volontà del Padre, aggiungendo però una premessa: «Se uno mi ama, osserva i miei comandamenti; Se mi amerete, osserverete i miei comandamenti» (cf. Gv 14,23-24).

La morale cristiana è possibile e diventa un fatto gioioso quando è viva questa premessa dell’amore. Molte volte invece noi abbiamo presentato la morale cristiana non bene illuminata dal principio interiore che la anima tutta, e quindi è parsa tanto pesante. Certe critiche moderne dimenticano questi principi fondamentali: che la morale evangelica è possibile e diventa perfino un fatto gioioso, quando si è capito il vero punto di partenza, che il cristiano è tale soltanto in quanto possiede lo Spirito Santo, Spirito di amore.

Concludo dicendo che la Chiesa, se vuole rinnovarsi anche oggi, deve diventare una «comunità dell’epiclesi», comunità, cioè, della perenne invocazione, dell’attesa, della implorazione continua allo Spirito Santo. Per una crescita incessante fino alla sua consumazione escatologica essa avrà sempre bisogno di questa presenza e di questa azione segreta dello Spirito.


Mercoledì, 17 Ottobre 2007 01:43

La vita spirituale del battezzato (Enzo Bianchi)

di Enzo Bianchi

I. Premessa

I.1 Tra la spiritualità e le spiritualità

Trentacinque anni fa Louis Bouyer, nel suo libro Introduzione alla vita spirituale, denunciava alcune deviazioni della spiritualità in ambiente cattolico: lo psicologismo, cioè la riduzione della vita spirituale ad alcuni stati di coscienza; poi la tendenza verso il sincretismo, che implica la sostanziale omologazione dell’esperienza religiosa ovunque si manifesti; e infine la frammentazione della spiritualità in spiritualità (al plurale) esageratamente specializzate. Questo terzo depauperamento della spiritualità lo possiamo perciò chiamare la «specializzazione delle spiritualità» 1.

Assonanze e affinità di un'antropologia teologica

La ricerca del «principio»

nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano
e lo stato originario in Hans Urs von Balthasar

di P. Loris Maria Tommasini o.c.s.o.

Introduzione

Per questo mio lavoro mi sono concentrato sul primo ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo II (II Principio) accostandole ad una parte del libro di Hans Urs von Balthasar sugli stati di vita del cristiano. Non sarà un vero e proprio confronto analitico o comparativo: non è questo il luogo adatto e non vi sarebbe spazio per farlo in maniera soddisfacente e completa.

Presento solo delle sintesi del pensiero dei due autori in modo da permettere di scoprire le assonanze, le affinità teologiche e di linguaggio che a mio avviso sono molto evidenti.

Sappiamo che Hans Urs von Balthasar era uno dei teologi preferiti di Giovanni Paolo Il, da lui nominato cardinale per i suoi meriti teologici.

Non sono in grado di mostrare se ci sia una diretta dipendenza tra le due opere, ma è evidente la risonanza della teologia di von Balthasar nei testi del Papa. Mi riferirò in particolare alla «preistoria teologica» (Catechesi 1-1V), che von Balthasar chiama «stato originario».

1. La ricerca del «principio» nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano

Il ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo li sviluppa un insegnamento sull’amore umano nel mistero divino attraverso un’antropologia teologica sull’uomo e la donna e la loro comunione di vita. Come sintesi mi servirò di uno stralcio dell’introduzione scritta dal Cardinale Angelo Scola alla prima parte delle catechesi:

«Lo scopo del primo ciclo del presente volume è la ricerca del principio.

Il principio è individuato anzitutto, mediante il commento a Mt 19,3 ss. (riferisce del dialogo tra Cristo e i farisei sul matrimonio e sulla sua indissolubilità), con i due racconti della creazione contenuti nel Libro della Genesi.

Gen 1,1-2, è il primo racconto detto elohista, posteriore nella redazione al secondo Gen 2,5-25, detto jahvista, più compiutamente comprensibile, tenendo conto anche di Gen 3-4,1.

L’analisi articolata dei due racconti ne mostra l’obiettiva corrispondenza, che si distende per tutta la prima parte del volume. Il secondo racconto, il più antico, possiede un andamento per così dire soggettivo, psicologico, in cui per la prima volta si documenta una certa autocomprensione e coscienza umana. Ad esso corrisponde l’andamento oggettivo del primo racconto, più recente, che ha un impianto teologico, cui si connettono precise implicazioni metafisiche ed etiche.

Il principio coincide allora con la vita dell’uomo, originario dalla creazione fino al peccato originale. Anzi esso si illumina definitivamente proprio in relazione con il peccato originale, come fattore discriminante le due situazioni originarie, tra loro ben distinte, quella di innocenza originaria (status naturae integrae) e quello di peccaminosità originaria (status naturae lapsae). In questa ottica il richiamo di Cristo appare come un invito, carico di conseguenze etiche, a riconoscere l’esistenza di una continuità essenziale tra lo stato storico di peccato, proprio dell’uomo di ogni tempo, e quello, in un certo senso preistorico, di innocenza. Per quanto sia grave la rottura consumatasi nel peccato di origine, è impossibile capire l’uomo storico senza radicarlo nella sua preistoria teologica rivelata.

D’altra parte nel principio cui Cristo fa riferimento è obiettivamente implicata la redenzione. Nel testo jahvista l’uomo, dopo la rottura è collocato nella prospettiva redentiva del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Paolo la esprime nel celebre passaggio di Rm 8,23 in cui coglie l’anelito dell’uomo alla redenzione del proprio corpo».

2. Dallo stato originario allo stato finale in Hans Urs von Balthasar2

Il testo di von Balthasar cui faccio riferimento è la sezione intitolata Dallo stato originario allo stato finale, che costituisce la prima parte del libro in questione intitolata lo sfondo.

La ricerca del «principio» ha delle profonde conseguenze sull’esistenza dell’uomo. Questo è quanto von Balthasar ha ampiamente sviluppato in modo sistematico. Nel suo testo, egli mostra la diversità e complementarietà degli stati di vita all’interno del popolo di Dio, proprio a partire da quanto accaduto nello stato originario.

2.1. Creazione e servizio

Per sapere dove l’uomo ha da stare e dove ottiene stabilità ci si deve chiedere dove Dio lo ha collocato (Cf. Gen 1,26-27: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano su/la terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»; Gen 2, 7: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»).

«Il Signore Dio prese l’uomo e io pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse»3.

Secondo la sua destinazione, l’uomo è ciò che vi è di più alto (immagine e somiglianza di Dio); secondo la sua provenienza è ciò che vi è di più basso (plasmato dalla polvere del suolo). Così l’uomo nel suo primo stato è una doppia distanza: da Dio e dal nulla. Poiché l’uomo origina dal nulla, nella sua pur così grande somiglianza con l’immagine originaria mantiene sempre l’ineliminabile e ancor più grande dissomiglianza rispetto a Dio. L’uomo resta qualcosa di sempre altro rispetto a Dio e non è Dio. Solo rispettando questa distanza creaturale, l’uomo può partecipare all’autonomia, unicità, personalità e libertà del creatore. Se due amanti volessero tentare di possedersi l’un l’altro al punto di fondersi l’un con l’altro, se ciò fosse possibile, l’amore verrebbe annientato. L’amante per poter mettere in atto il movimento dell’amore abbisogna della non rimuovibile stabilità del suo proprio essere.

Immagine e somiglianza significa sottolineatura della distanza, affinché diventando essa ben visibile si evidenzi tanto maggiormente l’unicità dell’immagine originaria.

La creatura è presa e collocata a servizio dell’amore e questo fonda il suo stato originario.

La creatura non è essa stessa l’amore, poiché Dio è l’Amore. Essa è una natura che sta a servizio dell’amore. La destinazione dell’amore acquista per l’uomo la forma di un servizio. Ed è in questo che è alla base del concetto di stato di vita.

2.2. Grazia e missione

Il servizio alla sua vocazione imposta originariamente da Dio, di amare Dio e il prossimo, fonda lo stato umano come stato della grazia, in cui l’uomo è stato da Dio posto e deve rimanere. Un incarico, come un compito da eseguire nell’autonomia dall’archetipo (Dio) e per il quale è stato provvisto di mezzi e poteri.

Occorre guardare al Figlio e alla sua missione. Per capire come amare bisogna guardare al Figlio e alla sua obbedienza d’amore. Solo così l’uomo comprende la sua vocazione.

L’uomo è sostenuto dall’azione e dalla contemplazione. L’azione è la missione, come un compito da portare avanti. La contemplazione è la medesima missione, in quanto l’uomo può comprendere ed eseguire questo incarico tenendo fisso il suo sguardo e il suo pensiero nella volontà di Dio come già il Figlio.

Ciò significa che lo stato originario è uno stato di preghiera. Questo atto di riconoscimento della sovranità di Dio sta alla radice di azione e contemplazione che sono dunque inseparabili. Se l’uomo afferra la sua missione prega sempre, che si trovi nell’azione o nella contemplazione.

La preghiera è vera solo là dove l’uomo svolge la sua missione (Cf. Mt 7, 21: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»). L’essere collocati nella volontà di Dio è la realtà originaria che sta prima di tutto il resto, che lo condiziona e lo fonda.

Missione a gloria di Dio: se gli uomini intraprendono sin da principio la loro vita sotto il punto di vista della missione a gloria di Dio, non ci sarebbe nessun problema esistenziale.

2.3. L’uomo dell’eden

La separazione degli stati di vita non era prevista nella creazione originaria, come non lo era l’ordine visibile della Chiesa. Questa demarcazione è legata con lo stato della redenzione, che presuppone lo stato della caduta, del peccato. Partendo dallo stato originario come stato dell’uomo pensato, voluto e creato originariamente da Dio, deve poter venir dedotto e rischiarato alla fine quello stato posteriore che proviene esso pure da Dio. Gli stati posteriori, ognuno alla sua maniera, devono rispecchiare qualcosa di quella idea che Dio volle sin dall’inizio realizzare con la creazione dell’uomo.

Guardare indietro allo stato di Adamo nella posizione in cui Dio l’aveva posto. Tre caratteristiche:

assenza di pudore (Cf. Gen 2,25: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»);

• esistenza senza morte (Cf. Rm 5,12: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato»); 

• uomo senza conoscenza del bene e del male.

Noi solo difficilmente vediamo in questi tre aspetti qualcosa di positivo, poiché ne abbiamo un’esperienza diversa.

L’uomo in Eden ha la libertà piena su tutta la terra, a patto che questa libertà perseveri nella piena obbedienza a Dio, riferendosi a Lui come il centro di tutte le cose. La conoscenza e la vita l’uomo non deve prenderle da sé, ma riceverle da Dio.

2.3.1

Nell’Eden, l’uomo stava nell’obbedienza a Dio e da questa obbedienza dipendevail fatto che egli regnava libero e sovrano sulla terra intera. Questo non era affatto come un’oppressione data dal divieto di Dio: questa è piuttosto l’insinuazione del serpente (Cf. Gen 3,1-5: «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?’ Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»). La libertà di Adamo ed Eva era protetta dalla loro obbedienza. Era come un rapporto di fede — fiducia totale. Essi conoscevano solo il bene e il male rimaneva loro nascosto. Essi vivevano nel fuoco dell’amore. Non vivevano ancora nella tiepidezza e nell’indifferenza di bene e male, punto in cui diventa possibile la decisione tra questi due.

2.3.2

In questo imprevisto evidenziarsi della loro nudità, nell’attimo in cui essi acquistano la conoscenza del bene e del male sta la chiave per il secondo problema: l’insorgere del pudore.

«Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»4.

Solo quando si infranse l’obbedienza di fede a Dio si accorsero di essere nudi.

Come le forze dell’anima a causa del peccato si emanciparono infelicemente dall’obbedienza di fede amante, così le possibilità del corpo si svincolarono dalla fecondità dell’amore, che a sua volta era stato stravolto dalla disobbedienza, e si impossessarono con violenza dell’amore sessuale. Solo a causa di ciò sorge una differenza tra verginità e fecondità. La verginità di Eva non sarebbe stata minacciata, all’interno dell’Eden, dalla sua maternità. Solo un’immagine può ricondurci dal nostro mondo decaduto verso la forma perduta della fecondità originaria: la Vergine Maria, al contempo vergine e madre.

Adamo ed Eva vivono nella completa verginità al punto che non conoscono nemmeno la concupiscenza. Nell’Eden, verginità non significa rinuncia, ma pienezza dell’amore, forma perfetta di fecondità.

Il peccato manda in frantumi l’ordine originario e gli istinti del corpo fuoriescono nudi e crudi dai velami dell’anima: questo porta alla nascita del pudore. Né l’istinto, né il pudore sono cattivi. È cattivo il disordine che lascia uscire gli istinti e rende necessario il pudore corporale come risposta a ciò. Il pudore c’era soltanto, sinora, nella forma del tutto incosciente dell’innocenza; poiché il peccato ha distrutto l’innocenza dell’anima, esso trapassa nella forma del vergognarsi. Così il rapporto immanente tra corpo e anima resta nell’uomo lo specchio esatto del rapporto trascendente dell’anima con Dio.

2.3.3

L’uomo come creatura è un essere finito: finitezza aperta a Dio. Questa finitezza è segnata dalla morte. Con questa maledizione, che punisce la cupidigia, gli uomini vengono condannati a ciò che si erano presi da sé: alla proprietà personale. Prima del peccato, non si preoccupavano di arraffare per sé, essi vivevano in uno stato che era contemporaneamente perfetta ricchezza e perfetta povertà.

La proprietà privata, la ragione critica, la libertà di scelta, il sentimento del pudore non sono qualcosa di cattivo, ma appartengono all’esistenza tipica del dopo la caduta del peccato.

Nessuno è più libero di colui che obbedisce a Dio; nessuno è più fecondo di colui che è casto; nessuno è più ricco di chi non vuol possedere niente in proprio.

Nello stato originario i tre atteggiamenti d’amore non significano in alcun modo rinuncia; essi sono piuttosto l’espressione di un amore che possiede in sé ogni ricchezza, ogni benedizione, ogni pienezza. Chi invece vuole accaparrarsi la benedizione senza l’atteggiamento di obbedienza, castità e povertà, riceverà in cambio la maledizione.

2.4. Il cielo

Dio non congeda l’uomo dall’Eden gettandolo nella disperazione. Verrà «Una» che muterà in benedizione la maledizione di Eva. Maria, nella perfetta obbedienza del suo si, spegnerà ciò che la bramosa disobbedienza di Eva ha acceso. Poiché l’uomo soggiacque alla tentazione, deve ritrovare per strade più lunghe l’accesso allo stato finale, che partendo dallo stato originario sarebbe stato più vicino e privo di fatica.

L’anticamera del cielo è rinunciare ad ogni volontà propria, ad ogni ricerca di sé e autonomia personale che si contrappone come istanza autosufficiente alla volontà di Dio.

Nel cielo la verginità dell’Eden ritroverà il suo compimento, fecondità primariamente spirituale e solo secondariamente sessuale.

Così il cielo sarà da ultimo anche la perfetta povertà. «Quella fredda parola di mio e tuo» (Giovanni Crisostomo), là non ci sarà più, poiché tutto sarà comune a tutti. Nel cielo si dona e si riceve tutto gratis. Così lo stato finale nel cielo sarà il compimento dello stato originario dell’Eden.

Nel piano originario di Dio gli stati di vita che la Chiesa oggi conosce non avrebbero avuto bisogno di differenziarsi staccandosi dalla sua unità.

Povertà, verginità e obbedienza non sarebbero stati in opposizione alcuna rispetto a ricchezza, fecondità e libertà, ma sarebbero stati invece la loro più valida espressione e nel compimento del cielo la loro definitiva conferma. Così l’uomo avrebbe potuto adempiere la sua prima destinazione: la destinazione all’amore; povertà, verginità e obbedienza sarebbero state solamente le tre forme in cui si sarebbe manifestata la piena figura del suo amore.

3. Conclusioni

3.1

Il contesto e le finalità delle catechesi di Giovanni Paolo Il e quello dell’opera di Hans Urs von Balthasar sono differenti. Cosa li accomuna? Una visione antropologica e teologica fondata a partire dal dato biblico, attraverso una meditazione teologico-sapienziale che va scoprendo nuovi livelli interpretativi.

Comune è la ricerca di un principio teologico fondante che abbia delle ricadute esistenziali e personali sull’ethos della vita del credente.

Il Papa mostra questa continuità essenziale tra stato storico del peccato e stato preistorico di innocenza.

Von Balthasar tratteggia un vero e proprio affresco storico-salvifico completando il quadro in tutte le sue implicazioni che interessano il popolo di Dio (stati di vita del cristiano) fino all’ultima conseguenza del comune destino dello stato finale: il cielo a cui tutti sono chiamati. In questo contesto, ampio spazio è dato alla vita religiosa caratterizzata dai tre voti, Per von Balthasar, l’amore perfetto5 — offerta di sé senza condizione 6 —, a cui tutti sono chiamati, ha la forma interna del voto, mentre il raggiungimento della carità perfetta nello stato di vita dei religiosi7 si esprime istituzionalmente anche attraverso la forma esterna della professione pubblica dei voti8.

La vita religiosa riporta, fin da ora, come anticipazione profetica, allo stato delle origini. Stato delle origini (arkhé) e stato finale (éskhaton) vengono così a ricongiungersi. Il cielo, come stato finale, èla pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. i Cor 5, 28). La vita religiosa è profezia escatologica di ciò a cui tutti sono chiamati nel tempo e per l’eternità come insegna il Concilio Vaticano Il:

«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana»9

«La professione dei consigli evangelici meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna»10

DIO TRINITA’ D’AMORE                                            STATO DEL CIELO

quello finale

CREAZIONE

Progetto originario

Immagine e somiglianza

ADAMO

Chiamato a servire Dio

Obbedendo alla Sua volontà

STATO DELL’EDEN

Obbedienza-povertà-verginità

Libertà-ricchezza-fecondità

PECCATO ORIGINALE

L’uomo deforma

Incapacace di amare

Disobbedienza

Superbia-concupiscenza

autonomia

STATO DELLA CADUTA

Morte-pudore-conoscenza

del bene e del male

REDENZIONE

Cristo riforma

Mistero pasquale

CRISTO

Obbediente-vergine-povero

STATO DELLA REDENZIONE

Figli nel figlio-conformi

all’immagine del Figlio

Battesimo

CHIESA

STATI DI VITA DEL CRISTIANO

Sacramento di salvezza

Comandamento dell’amore perfetto

STATO DEI CONSIGLI EVANGELICI

Castità povertà obbedienza

Dio unico amore-unica ricchezza-unica volontà
valore escatologico, anticipazione
del cielo

RITORNO AL PADRE IN CRISTO E NELLO SPIRITO SANTO

«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana» (AG 18)

« La professione dei consigli meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna» (LO 44).

li cielo, come stato finale, è la pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. 1Cm 15,28).

lo presento questo insegnamento teologico ai giovani professi come introduzione e significato della consacrazione della vita monastico religiosa e dei voti.

Tutto ciò è un forte stimolo dal punto di vista esistenziale e spirituale, perché mostra dove Dio ci ha collocati: la bontà, la bellezza e verità del nostro genere di vita che si fa compito e missione, nella Chiesa e nel mondo, attraverso una luminosa testimonianza dei beni futuri.

Nella mia esperienza di formatore, dal punto di vista pedagogico, posso dire che questa potente visione teologica può aiutare a focalizzare l’identità della nostra vocazione monastica e a nutrire ed accrescere il desiderio della sequela radicale, propria del nostro stato di vita, che deve a Gesù Cristo giungere all’amore perfetto che ci rende sempre somiglianti.

* Monaco dell’ Abbazia Trappista, Frattocchie, Roma

NOTE

lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova — Libreria Editrice Vaticana, Roma — Città del Vaticano 1985, Introduzione al primo ciclo, p. 27

(2) Cf. Hans Urs von Balthasar, Gli stati di vista del cristiano, Jaka Book, Milano 1985, Parte prima: Lo sfondo. B. Dallo stato originario allo stato finale, pp. 61-110.
(3) Gen. 2,15.

(4) Gen 2. 25; Cf. Gen 3, 8-11: «Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”».

(5) Mt 22,34-40: «Allora i farisei, udito che egli avevo chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge? “. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tua come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»; cf. Gv 15, 12-14: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amari. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando». 

(6) IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 231, citato in von BALTHASAR, Op. cit., Parte prima: Lo sfondo, A, La vocazione all’amore, 4. Amore e voti, p. 54. Ne proponiamo la versione tratta dal volume IGNAZIO Dl LOYOLA, Esercizi spirituali, a cura (traduzione, introduzione e note) di P. Pietro Schiavone SJ, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 307-309: «l’amore consiste nella comunicazione reciproca, cioè nel dare e comunicare l’amante all’amato quello che ha, o di quello che ha o può, e cosi, a sua volta l’amato all’amante».

(7) Cf. Perfectae Caritatis, I.

(8) VON BALTHASAR, Op. Cit., Parte Prima: Lo sfondo. A. La vocazione all’amore, pp. 21-59.

(9) Ad Gentes, 18.

(10) Lumen Gentium, 44.

Molta gente nel rapporto con la beata Vergine cerca spesso più il sensazionale e il miracolistico che non un culto della madre di Gesù correttamente fondato sulla Bibbia e la sana tradizione della chiesa. Bisogna rifarsi a queste fonti se si vuole che questo culto si muova sicuro e sia teologicamente fondato.

Un dibattito attuale derivato da un intervento di P. Rinaldo Falsini su
“L’altare verso il popolo è scelta conciliare”

L’altare verso il popolo
di P. Uwe Michael Lang



LA DISCUSSIONE: UNA SCELTA IMPRUDENTE?

Accolgo con piacere l’invito di Rinaldo Falsini a riaprire un dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghiera liturgica (Vita Pastorale 10/2006, pp. 54-55). Questo è un dibattito che, nonostante le apparenze contrarie, non si è mai spento. Già negli anni ‘60 teologi di fama internazionale criticarono l’accoglienza rapida della celebrazione “verso il popolo”: tra di essi Josef Andreas Jungmann, uno degli artefici della costituzione del concilio Vaticano Il sulla sacra liturgia, l’oratoriano Louis Bouyer, uno dei grandi teologi del Concilio, e Joseph Ratzinger, allora professore di teologia a Tübingen e peritus del Concilio. Le osservazioni del giovane Ratzinger non hanno perso nulla della loro rilevanza: «Non possiamo negare più a lungo che, a poco a poco, si sono fatte strada esagerazioni e aberrazioni che sono fastidiose e disdicevoli. Ad esempio tutte le messe vanno celebrate di fronte ai popolo? E di assoluta importanza poter guardare il sacerdote in viso, o non potrebbe spesso essere benefico riflettere che anche lui è un cristiano e che ha ogni ragione per volgersi verso Dio con tutti gli altri confratelli cristiani della congregazione e recitare con loro il Padre Nostro?» (traduzione da J. Ratzinger, “Der Katholizismus nach dem Konzil” in Auf dein Wort hin. 81. Deutscher Katholikentag vom 13. Juli’ bis 17. Juli 1966 in Bamberg, Paderborn 1966,p. 253).

Interpretazione forzata

«Malgrado la loro grande reputazione», questi teologi «in principio non riuscirono a far sentire la loro voce: era troppo forte la tendenza a sottolineare il fattore comunitario della celebrazione liturgica, quindi a considerare assolutamente necessario il fatto che sacerdote e fedeli fossero rivolti l’uno verso gli altri»: sono le parole del cardinale Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, nella sua prefazione al mio libro Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica (ed. Cantagalli 2006, Siena, p. 9). Oggi, il clima intellettuale e spirituale è meno polarizzato ed è stato possibile riprendere la discussione sulla posizione dell’altare e l’orientamento della preghiera; lo dimostrano le recenti opere al riguardo che sono state accolte con notevole attenzione fra gli studiosi di liturgia. Come dice Ratzinger, «la ricerca storica ha reso la controversia meno faziosa, e fra i fedeli cresce sempre più la sensazione dei problemi che riguardano una disposizione che difficilmente mostra come la liturgia sia aperta a ciò che sta sopra di noi e al mondo che verrà» (ibid.).

Purtroppo, non posso essere d’accordo con la tesi di padre Falsini che «l’altare verso il popolo è scelta conciliare». E’ ben conosciuto che i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo. La Sacrosanctum concilium non parla di celebrazione «verso il popolo». Padre Falsini rimanda all’articolo 128 del cap. VII della costituzione: «Si rivedano (…) i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro, specialmente per la costruzione degna e appropriata degli edifici sacri, la forma e la erezione degli altari». Ma la sua interpretazione di questo articolo mi sembra forzata.

L’istruzione Inter oecumenici, preparata dal Concilium per l’applicazione della costituzione sulla sacra liturgia ed emanata il 26 settembre 1964, contiene un capitolo sulla progettazione di nuove (!) chiese e altari che comprende il paragrafo che segue: «Praestat ut altare maius extruatur a parete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit (Nella chiesa vi sia di norma l’altare fisso e dedicato, costruito ad una certa distanza dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo)» (Inter oecumenici, n. 91: AAS 56, 1964, p. 898).

Vi si afferma che sarebbe desiderabile erigere l’altare separato dalla parete di fondo in modo che il sacerdote possa girarvi intorno facilmente e sia così possibile celebrare rivolti verso il popolo. Jungmann ci chiede di considerare quanto segue: «Viene sottolineata solamente la possibilità. E questa [separazione dell’altare dalla parete] non è neppure prescritta, ma solo consigliata, come si può notare osservando il testo latino della direttiva [...]. Nella nuova istruzione la premessa generale di una simile disposizione dell’altare viene sottolineata soltanto in funzione di possibili ostacoli o restrizioni locali» (J. A. Jungmann, “Der neue Altar” ii Der Seelsorger, 37, 1967, p. 375).

In una lettera indirizzata ai capi delle Conferenze episcopali, datata 25 gennaio 1966, il cardinale Giacomo Lercaro, presidente del Concilium, dichiara che, riguardo al rinnovamento degli altari, «la prudenza deve essere la nostra guida». E prosegue spiegando: «Soprattutto perché, per una liturgia vera e partecipe, non è indispensabile che l’altare sia rivolto versus populum: nella messa, l’intera liturgia della parola viene celebrata dal seggio, dall’ambone o dal leggio, quindi rivolti verso l’assemblea; per quanto riguarda la liturgia eucaristica, i sistemi di altoparlanti rendono la partecipazione abbastanza possibile.

In secondo luogo si dovrebbe pensare seriamente ai problemi artistici e architettonici essendo questi elementi protetti in molti Paesi da rigorose leggi civili» (traduzione da G. Lercaro, “L’heureux développement” in Notitiae 2, 1966, p 160). Si deve ricordare in quel contesto anche una proposizione fondamentale delle norme generali sulla riforma della sacra liturgia della Sacrosanctum concilium: «Infine non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti» (cap. III. art. 23). In ogni caso, non ci si può appellare al concilio Vaticano Il per giustificare le radicali alterazioni cui sono state sottoposte le chiese storiche in tempi recenti.

Per quanto riguarda l’esortazione alla prudenza del cardinale Lercaro, Jungmann ci ammonisce a non dare per scontata l’opzione concessa dall’istruzione rendendola una «richiesta assoluta, ed eventualmente una moda, alla quale soccombere senza pensare» (Der neue Alltar, p. 380). L’Inter oecumenici consente quindi di celebrare la messa di fronte al popolo, ma non lo prescrive. Quel documento non suggerisce affatto che la messa celebrata volgendosi verso i fedeli sia sempre la forma preferibile di celebrazione eucaristica. Le rubriche del rinnovato Missale Romanum di papa Paolo VI presuppongono un orientamento comune del sacerdote e del popolo per il momento culminante della liturgia eucaristica.

L’istruzione indica che, al momento dell’orafe fratres, della Pax Domini, dell’Ecce, Agnus Dei e del Ritus conclusionis, il prete debba volgersi verso i fedeli: questo parrebbe implicare che in precedenza sacerdote e popolo fossero rivolti nella stessa direzione, ovvero verso l’altare. Alla comunione del celebrante la rubrica dice ad altare versus, istruzione che sarebbe ridondante se il celebrante fosse già dietro l’altare e di fronte al popolo. Tale lettura viene confermata dalle direttive della Institutio generalis, anche se queste, di tanto in tanto, sono diverse da quelle dell’Ordo Missae. La terza Editio typica del rinnovato Missale Romanum, approvata da papa Giovanni Paolo II il 10 aprile 2000, e pubblicata nella primavera del 2002, mantiene queste rubriche.

Un richiamo caduto nel vuoto

Tale interpretazione dei documenti ufficiali è confermata dalla Congregazione per il culto divino. In un editoriale di Notitiae, il bollettino ufficiale della Congregazione, si chiarisce che la disposizione di un altare che permetta la celebrazione verso il popolo non sia questione sulla quale la liturgia stia in piedi o cada. L’articolo suggerisce inoltre che, in questo problema come in molti altri, il richiamo alla prudenza del cardinale Lercaro è più o meno caduto nel vuoto sull’onda dell’euforia postconciliare. L’editoriale osserva che il cambiamento di orientamento dell’altare e l’uso della lingua corrente sono cose molto più facili che l’entrare nella dimensione teologica e spirituale, della liturgia, studiarne la storia e tener conto delle conseguenze pastorali della riforma (“Editoriale: Pregare ‘ad orientem versus’” in Notitiae 29, 1993, p. 247).

Nell’edizione riveduta dell’Ordinamento generale del Messale romano, pubblicata a scopo di studio nella primavera del 2000, si trova un paragrafo che riguarda la questione dell’altare: «Altare exstruatur a parete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit, quod expedit ubicumque possibile sit [L’altare sia costruito separato dalla parete in modo che si possa girare facilmente intorno e celebrare di fronte al popolo - il che è desiderabile ovunque sia possibile]» (n. 299). La sottile formulazione di questo paragrafo (possit - possibile) indica con chiarezza come la posizione del sacerdote celebrante di fronte al popolo non sia resa obbligatoria: l’istruzione consente semplicemente entrambe le forme di celebrazione.

In ogni modo la frase aggiunta «che è desiderabile ovunque (o comunque) sia possibile (quod expedit ubicumque possibile sit)», si riferisce alla previsione di un altare a sé stante e non al fatto che sia desiderabile una celebrazione versus populum. Eppure diverse recensioni dell’Ordinamento generale riveduto sembrano suggerire che la posizione del celebrante versus orientem o versus absidem sia stata dichiarata indesiderabile o persino proibita. Tale interpretazione è stata tuttavia respinta dalla Congregazione per il culto divino rispondendo a una domanda del cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna (sorprende che sia stata pubblicata non su Notitiae, ma sulla pubblicazione ufficiale del Pontificio consiglio per i testi legislativi, Communicationes 32, 2000, pp. 171-172). Naturalmente il paragrafo in questione dell’Ordinamento generale va letto alla luce di questo chiarimento.

Una breve digressione storica sulle riflessioni del padre Pierre Jounel: il concilio Vaticano I si tenne nel transetto destro di San Pietro e perciò si celebrava la messa all’altare nell’abside del medesimo transetto volgendo “le spalle ai padri” (espressione inadeguata). Invece, le sessioni del concilio Vaticano II furono tenute nella navata centrale. La messa si celebrava “verso l’aula conciliare”, perché San Pietro è una basilica con l’ingresso orientato a est, verso cui il celebrante che stava dietro l’altare si volgeva durante la liturgia eucaristica (vedere cap. Il del mio libro Rivolti al Signore).

In realtà, la questione soggiacente al dibattito liturgico è la ricezione del Concilio. Come Benedetto XVI ha detto nel suo fondamentale discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ci sono due ermeneutiche opposte: l’ermeneutica della discontinuità e della rottura e l’ermeneutica della riforma: «L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare». Al contrario, l’ermeneutica della riforma, «del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato», ci guida a una rilettura dei testi conciliari nel contesto della tradizione ecclesiale. Perciò non possiamo lasciare in disparte la riflessione sulla storia e sulla teologia dell’orientamento liturgico, neanche interpretando il Concilio, come propone Falsini nel suo articolo. Come ho provato a mostrare in Rivolti al Signore, la direzione comune del sacerdote e dei fedeli nella preghiera liturgica appartiene a tutta la tradizione cristiana, d’Oriente e d’Occidente, e ha un significato ancora più attuale per la vita della Chiesa odierna.


(da Vita Pastorale, gennaio 2007)


LA RISPOSTA

Una recezione definitiva e totale

di P. Rinaldo Falsini

Ringrazio Michael Lang per l’attenzione riservata al mio articolo “L’altare verso il popolo è scelta conciliare” (Vita Pastorale, 10/2006, pp. 54-55), non altrettanto per la sua disponibilità «a riaprire un dibattito sulla posizione dell’altare e l’orientamento nella preghiera liturgica», prescindendo dalla “scelta conciliare” anzi rifiutandola pregiudizialmente. Scrivevo infatti che «riconosciuta la piena legittimità conciliare della scelta, si può aprire un nuovo dibattito che prenda sul serio l’esperienza della riforma liturgica compiuta in questi quarant’anni e al tempo stesso le critiche mosse alla medesima per trovare una soluzione concordata».

Dovrei quindi interrompere il dialogo che Lang ha iniziato ripetendo il contenuto del volume Rivolti al Signore, che non interessa direttamente i lettori. Tuttavia non voglio rifiutarmi al confronto, premettendo però due principi fuori discussione che possono guidare con serenità il nostro dialogo.

1 La celebrazione verso il popolo è una posizione prevista e proposta dal Concilio come ho “documentato” nel mio intervento; 2 La recezione della proposta come modalità più adeguata da parte della Chiesa cattolica è stata immediata e “universale” come testimoniano i quarant’anni della riforma liturgica.

Tutto il resto può essere oggetto di discussione, ma restando entro questo ambito.

La volontà del Concilio

Michael Lang ripete quanto scritto dal cardinale Joseph Ratzinger, che la Sacrosanctum concilium cioè non parla di celebrazione «verso il popolo». La costituzione per sua natura non entra nei dettagli, ma il mio intervento, in riferimento al titolo, è la documentazione oggettiva, e non un’interpretazione un po’ forzata, tanto meno una “tesi”, che il problema della celebrazione verso il popolo ha coinvolto i padri conciliari nella discussione sia in aula e sia nella commissione liturgica, quindi nella votazione dell’articolo 128 del cap. VII sull’”Arte sacra e la sacra suppellettile”, al quale era allegata una Declaratio predisposta già nella commissione preparatoria, dalla quale è stata tratta la frase che dispone «la separazione dell’altare dalla parete per occupare un posto centrale fra presbiterio e fedeli, con la possibilità di celebrare rivolti ai fedeli». Su questo fatto indiscutibile, che ho avuto la fortuna di poter raccontare utilizzando il materiale della commissione conciliare di liturgia in quanto addetto alla segreteria, e che ha incontrato vivo apprezzamento in molti studiosi in Italia e oltre le Alpi, Michael Lang tace, sorvola, dopo aver detto che «non può essere d’accordo». Così, ignorandone l’origine conciliare, prosegue il suo sguardo sul testo dell’Inter oecumenici nelle varie vicende per giungere al suo vero obiettivo, l’orientamento nella preghiera liturgica.

Ritornando al Concilio, all’inizio di ogni congregazione generale veniva celebrata nell’aula la santa messa rivolti verso l’assemblea, mentre, commenta Jounel, al concilio Vaticano I, il celebrante voltava le spalle ai Padri. La stessa istruzione fu composta dal Consilium della riforma, utilizzando il materiale della preparatoria, e pubblicata il 26 settembre 1964, in pieno svolgimento del Concilio, per entrare in vigore il 7 marzo 1965, a Concilio ancora aperto. Quindi la celebrazione rivolti al popolo appartiene a pieno titolo al Concilio, dalla discussione all’attuazione, e ha contribuito indubbiamente alla sua convinta e totale adesione.

Accoglienza immediata

La recezione ecclesiale del documento Inter oecumenici, ordinato «a rendere la liturgia rispondente allo spirito del Concilio per promuovere la partecipazione attiva dei fedeli» (n. 4), fu pronta e impegnata, in particolare il capitolo relativo ai luoghi della celebrazione, partendo dall’altare. A questo proposito dobbiamo insistere che la celebrazione rivolti al popolo non è un atteggiamento isolato né tanto meno primario e nemmeno indispensabile, bensì un aspetto della centralità dell’altare rispetto a tutta l’assemblea con il sacerdote.

Lo conferma il n. 91: «E’ bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo. Nell’edificio sacro sia posto in luogo tale da risultare come il centro ideale a cui spontaneamente converga l’attenzione di tutta l’assemblea».

Michael Lang annota tutto questo, ma dopo avere sottolineato due inviti alla misura e alla prudenza, rispettivamente di A. Jungmann e del cardinale Lercaro, contro interpretazioni ed eccessi per l’euforia del momento. Non ho difficoltà a riconoscerlo e a ricordare.

Nel 1970 usciva la prima edizione del Messale romano (ed. italiana 1973) dotata dell’Institutio generalis che al n. 262 riportava letteralmente il testo sopra citato con nuove parole iniziali «L’altare maggiore sia costruito {...]». Nella seconda edizione italiana del 1983 la Cei introdusse alcune precisazioni, di cui il n. 14 riguardava l’altare, con tono più deciso: «L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbiteri, si studi, sempre d’intesa con le competenti commissioni diocesane, l’opportunità di un altare mobile opportunamente progettato e definitivo. Se l’altare retrostante non può essere rimosso o adattato, non si copra la sua mensa con la tovaglia».

Ormai la recezione, in Italia, era definitiva e totale, non lasciata alla libera scelta come Lang asserisce, confrontando le rubriche dell’Ordinano del messale italiano con l’institutio generalis.

Ma il testo autorevole per il nostro problema è rappresentato dall’editoriale “Pregare ‘ad Orientem versus” della rivista della Congregazione per il culto divino, Notitiae n. 322, 1993, pp. 245-249. che Lang cita scegliendo soltanto qualche frase “innocua” alla sua tesi sulla semplice possibilità.

è coerente con l’idea teologica di fondo, riscoperta e provata dal movimento liturgico (…). La teologia del sacerdozio comune e del sacerdozio ministeriale, distinti essentia, non gradu, ordinati l’uno all’altro (LG 10) si esprime certamente meglio con la disposizione dell’altare versus populum. “Non pregavano gli antichi monaci fin dall’antichità gli uni uniti agli altri per cercare la presenza del Signore in mezzo a loro?”».

Convito e sacrificio

Vorrei riportare, sempre dalla stessa pagina, un’osservazione che ritengo risolutiva dell’idea serpeggiante che il sacerdote rivolto al popolo metta meglio in risalto il significato della messa come convito, mentre il sacerdote con il popolo rivolto all’altare metta in rilievo la dimensione sacrificale considerata prevalente. Ecco il testo: «Un motivo figurativo merita ancora di essere sottolineato. La forma simbolica dell’eucaristia è quella di un convito, ripetizione della cena del Signore. Non si dubita che questo convito sia sacrificale, memoriale della morte e risurrezione di Cristo, però dal punto di vista figurativo il suo punto di riferimento è la cena» (pp. 247-248).

L’editoriale propone infine alcuni orientamenti pratici, come: 1) «La celebrazione dell’eucaristia versus populum domanda al sacerdote una maggiore e sincera espressività della sua coscienza ministeriale»; 2) «L’orientamento dell’altare versus populum esige con maggiore rigore un uso più corretto dei diversi luoghi del presbiterio [...]»; 3) «La collocazione dell’altare versus populum è certo qualcosa di desiderato dall’attuale legislazione liturgica». Ma non vanno dimenticate altre osservazioni come: «L’espressione rivolti al popolo non ha un senso teologico, ma topografico-presidenziale. Teologicamente pertanto la Messa è sempre rivolta a Dio e rivolta al popolo ecc.».

Non vorrei esagerare, ma questa valutazione autorevole è la riprova che l’altare verso il popolo è da considerarsi ormai “recepito” a pieno titolo dalla Chiesa cattolica. Gli interventi successivi confermano il fatto. La terza edizione del Messale romano del 2000 aggiunge al n. 299, dopo le parole «celebrare rivolti verso il popolo», l’inciso «la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile», che va attribuito all’intero periodo. In particolare introduce il nuovo n. 303 relativo alle nuove chiese per l’unicità dell’altare e a quelle con il vecchio, altare suggerendone uno nuovo, senza danneggiarne il valore artistico.

Un altro episodio degno di menzione è il volume L’altare, mistero di presenza, opera dell’arte, a cura di Goffredo Boselli del monastero di Bose, che raccoglie gli Atti del secondo convegno internazionale (31 ottobre-2 novembre 2004), di cui il secondo ambito di ricerca è dedicato alla presentazione e valutazione di alcune realizzazioni di altare dal Vaticano Il ad oggi in Europa, una panoramica iconografica altamente significativa. Sempre in tema di pubblicazioni in rapporto alla recezione molto positiva sul piano pastorale è l’articolo del teologo e parroco Severino Dianich su “La posizione del prete all’altare” in Vita Pastorale, 7/2006, pp. 66-67.

Vengo all’ultimo paragrafo. All’accusa della nostra rilettura del testo conciliare; «lasciando in disparte la riflessione sulla storia e sulla teologia dell’orientamento liturgico», mi limito a rispondere che nei precedenti interventi su queste stesse pagine ho scritto che non esiste una tradizione comune d’Oriente e d’Occidente circa l’orientamento della preghiera liturgica: alla citazione iniziale dell’articolo posso aggiungere Vita Pastorale 6/1993, pp. 8-9; 10/1993, pp. 60-61; 4/2001, pp. 50-51.

Sulla stessa mia posizione si collocano l’editoriale citato di Notitiae pp. 246-247 e in particolare P. Gy, che proprio sul piano storico documenta contro L. Bouyer e J. Ratzinger che la celebrazione verso il popolo è attestata a Roma e in Africa e la questione verso oriente risale alla liturgia papale di Avignone (cf. Maison-Dieu, 229,2002/1, p. 174). Infine, come suggerito, spostando l’interpretazione conciliare alla luce del discorso di Benedetto XVI, seguendo come proposta il volume Rivolti al Signore, che io ritengo “unilaterale”, il problema viene ad assumere aspetti che per ora esulano dal nostro dibattito. Mi auguro di intervenire sull’orientamento nella liturgia eucaristica.


(da Vita Pastorale, gennaio 2007)


LE ALTRE TRADIZIONI

La prassi delle Chiese orientali

di Stefano Parenti *

Nel dibattito che di recente si è riacceso nella Chiesa romano- cattolica intorno alla posizione del celebrante all’altare non mancano riferimenti alla prassi delle Chiese ortodosse,e in genere orientali, che nella celebrazione dell’eucaristia hanno conservato fino ad oggi la tradizione della preghiera orientata, per la quale presidente e assemblea sono insieme rivolti verso l’altare nell’abside che si suppone sia edificata a est, mentre l’ingresso della chiesa si colloca a ovest. L’informazione è esatta ma tutt’altro che completa perché nel sistema liturgico del rito bizantino non solo l’eucaristia ma ogni celebrazione è orientata, dalla liturgia delle ore ai sacramenti, dai riti di benedizione a quelli di suffragio. La preghiera orientata, anzi, è la norma anche in casa: le icone davanti alle quali la famiglia si riunisce per pregare sono disposte sulla parete orientale ed è a quel centro ideale che tutti si rivolgono per la preghiera della mensa. Quindi ad essere orientata non è soltanto la liturgia, ma l’intera vita cristiana, dal battesimo alla sepoltura. Nei cimiteri dei paesi a maggioranza ortodossa colpisce infatti la posizione unidirezionale delle tombe, tutte rivolte a est, a dire che i defunti sono lì in attesa della risurrezione annunciata da Cristo che tornerà da oriente (Mt 24,27). E’ una tradizione così profondamente radicata che anche dove vigeva il socialismo reale, sotto un regime molto attento a obliterare i segni del cristianesimo, le tombe con la stella rossa erano ugualmente posizionate a oriente come le tombe dei credenti. Questa circolarità sempre auspicata tra liturgia comunitaria, preghiera personale-familiare e vita di tutti i giorni le Chiese ortodosse l’hanno raggiunta integrando nel culto la devozione delle masse. La radice ultima del forte attaccamento degli orientali alle celebrazioni liturgiche sta proprio nel fatto che l’abituale solennità con le quali si svolgono non ne ha attenuato il carattere fortemente popolare. Una tradizione liturgica, un “rito” (bizantino, romano, ambrosiano, ecc.), è ben oltre che un “modo” di celebrare i misteri della salvezza. E’ un sistema coerente e coordinato, fatto di gesti e parole significativi anzitutto per la comunità celebrante, così che ogni rito cristiano è sempre portatore di una visione propria e particolare di quello che celebra. La disposizione e la fruizione dell’edificio che accoglie l’assemblea per la liturgia di questa visione è parte integrante e tutt’altro che secondaria.

Due sistemi fondamentali

Un Oriente cristiano in quanto tale non esiste; esistono invece delle Chiese orientali che hanno una tradizione liturgica propria, a volte comune a più Chiese. Per l’architettura liturgica abbiamo due sistemi fondamentali, siriaco e bizantino antico. In ambedue i sistemi la liturgia della Parola ha uno spazio ben definito e propri arredi nel centro della chiesa: in Siria troviamo il bema, una piattaforma rialzata con la cattedra episcopale, gli scanni per i presbiteri e gli amboni per la proclamazione della Parola. L’altare è nell’abside rivolto a oriente e con una cortina che pende all’ingresso del santuario/presbiterio. I celebranti vi entrano soltanto all’inizio della liturgia eucaristica e per le preci conclusive della liturgia delle ore, essendo il santuario luogo dell’intercessione e del sacrificio, non solo eucaristico, ma anche del quotidiano sacrificio di lode (vespri e mattutino-lodi).

A Costantinopoli al centro della chiesa troviamo un unico ambone monumentale, mentre la disposizione del presbiterio richiama le attuali chiese di rito romano con cattedra episcopale e seggi per i presbiteri nell’abside e, davanti alla cattedra, un altare isolato. Per riprendere le parole dell’Institutio generalis del Messale romano del 1969 (par. 262) è davvero un altare «costruito staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno», ma non per celebrarvi verso il popolo. Nel rito costantinopolitano la relazione tra altare e celebrante viene tratteggiata dalle preghiere presidenziali che conosciamo da un codice scritto in Calabria verso la fine dell’VIII secolo, il Barberini gr. 336, dove colui che presiede l’azione liturgica è definito più volte «servitore dell’altare».

Come nel Canone romano, l’altare di pietra rimanda all’altare del cielo dal quale discende sui presenti e sui doni eucaristici la grazia dello Spirito Santo. Il punto focale, almeno nella tradizione bizantina, non è però l’altare, ma la cattedra vuota dove il Cristo, presente in tutte le celebrazioni liturgiche, siede invisibilmente. La cattedra vuota indica anche la provvisorietà delle liturgie terrene in attesa della liturgia eterna che viene già celebrata nei cieli e attende soltanto il compimento alla fine dei tempi. A volte si legge o si sente dire che la celebrazione orientale con colui che presiede posto dinanzi all’altare intende sottolineare la dimensione sacrificale dell’eucaristia piuttosto che quella conviviale.

Che dire allora della liturgia delle ore? La verità è che ogni tradizione va compresa nel contesto del proprio sistema teologico e, almeno in ambito ortodosso, la teologia liturgica è unica per i sacramenti e la preghiera delle ore: la liturgia è personalistica e il suo scopo è la santificazione della comunità, non degli elementi naturali o del tempo. Quello che si intende sottolineare, almeno a data antica, non è l’aspetto sacrificale, ma la dimensione cosmica della liturgia, intesa come possibilità offerta a presidente e assemblea di concelebrazione nella liturgia eterna celebrata nei cieli. Anche quando dopo l’iconoclasmo (anno 843) la grande basilica bizantina cederà il posto a un modello di chiesa più piccolo, ispirato all’architettura monastica, la percezione resterà la medesima.

Nella relazione al convegno di Bose “Lo spazio liturgico e il suo orientamento”, anticipata su Avvenire del 1° giugno scorso, Enzo Bianchi sottolineava che «i due modi possibili di celebrare l’eucaristia non possono, presi singolarmente, esaurire la totalità del mistero celebrato». Nel caso dell’Oriente cristiano certamente non si tratta della pretesa di esaurire la totalità del mistero, ma di optare per un sistema simbolico ritenuto più congeniale e funzionale al proprio modo di celebrare i misteri, che restano sempre tali in quanto opera di Dio.

La differenza è evidente quando si celebra la liturgia delle ore in un edificio adattato al rito bizantino o in una chiesa orientata. Ai vespri l’abside si trova nella penombra illuminata dalla luce debole del tramonto che filtra dalle finestre della parete di fondo posta a occidente, e dall’abside inizia l’accensione delle candele e dei lumi per il lucernare, che culmina con il canto dell’inno a Cristo “Lieta luce di gloria santa” che illumina le tenebre. Inversamente alla fine delle lodi mattutine l’abside e il presbiterio posti a oriente sono inondati di luce e da lì inizia lo spegnimento dei lumi e delle candele perché «è venuto a visitarci dall’alto un sole che sorge». E’ chiaro allora che una chiesa non orientata indebolisce la mistagogia dei segni legata alla liturgia delle ore, che nelle Chiese ortodosse è celebrata quotidianamente “con il popolo”, non solo nei monasteri ma in ogni chiesa parrocchiale. Tuttavia anche in un edificio geograficamente non orientato la simbologia non viene meno: il presbiterio con l’altare e la cattedra restano il punto focale per tutti i partecipanti.

Non è un problema ecumenico

Gli autori che auspicano l’adozione nelle liturgie d’Occidente della celebrazione orientata, o almeno del suo incremento, non omettono di evidenziare che l’opzione versus populum prospettata dall’istruzione postconciliare Inter oecumenici del 26 settembre 1964 e subito applicata dovunque, avrebbe allontanato la Chiesa di rito romano dalla comune tradizione cristiana, creando così un ennesimo problema ecumenico. Personalmente credo che una tale preoccupazione vada ridimensionata. La celebrazione versus populum praticata nella Chiesa romano-cattolica non costituisce un problema nelle relazioni tra le Chiese in vista della ricomposizione dell’unità cristiana ed è un tema assente anche in campo accademico, dove le riserve verso la prassi liturgica cattolica riguardano aspetti ritenuti più importanti, come lo spostamento della cresima/confermazione a dopo la prima comunione o la prassi generalizzata della comunione dalla riserva eucaristica e sotto il solo simbolo/specie del pane.

Il vero problema sta in una certa attitudine mentale che considera le Chiese orientali come il museo di se stesse, intente a conservare una tradizione sulla quale non è possibile neanche discutere, e alle quali ci si può sempre rivolgere quando si ha bisogno di qualche argomento (ex Oriente lux!) per sostenere ogni genere di tesi, salvo poi ignorarne la tradizione quando si scopre che non coincide con i nostri desideri e interessi. Un approccio scientifico, e quindi disinteressato, al patrimonio e all’esperienza liturgica dell’Oriente cristiano, e non solo del passato ma anche del presente, metterà sul tappeto una realtà, forse poco conosciuta, ma non per questo meno vera: nella Chiesa ortodossa di Grecia esiste un movimento in favore della celebrazione versus populum, che in alcune occasioni viene regolarmente praticata. E non si tratta di liturgie alternative che si tengono in qualche parrocchia di cui nessuno ricorda il nome, ma della solenne celebrazione della liturgia detta di san Giacomo, il formulario eucaristico originario della Chiesa di Gerusalemme, presieduta nella propria cattedrale dall’arcivescovo di Atene o dal metropolita del Pireo, regolarmente teletrasmesse dalle numerose emittenti televisive di proprietà della Chiesa o sotto il suo controllo.

Negli ultimi anni l’arcivescovo di Atene, Cristodoulos, celebra versus populum la liturgia eucaristica del Sabato santo, e non all’altare nel presbiterio, ma sul simulacro (epitàphios) della tomba vuota di Cristo posto nel centro della chiesa in mezzo ai fedeli. In Russia neanche a parlarne, ma quello che non è possibile a Mosca lo è ad Atene perché in materia liturgica esiste nelle Chiese ortodosse un duplice principio, operante anche se non codificato, quello dell’autodeterminazione di una Chiesa locale e della non interferenza delle altre, quando non è in discussione il deposito della fede.

La fenomenologia del movimento nella Chiesa di Grecia per la liturgia versus populum è interessante anche per alcune analogie con quanto è avvenuto nella Chiesa romano- cattolica, visto che in ambedue: le Chiese troviamo a monte un movimento più generale per la riforma liturgica, un tema sul quale il santo Sinodo di Atene si è espresso più volte negli ultimi anni con interesse prioritario. Più incerta invece è l’analisi delle motivazioni, e qui entra in gioco l’aspetto culturale e antropologico del problema.

Per le Chiese ortodosse gli argomenti addotti in campo cattolico (aspetto conviviale dell’eucaristia, partecipazione attiva, opportunità pastorale) non bastano se non possono dimostrare radicamento e relazione con la tradizione ecclesiale intesa in senso dinamico. Ecco allora che a commento di una foto di una celebrazione ortodossa versus populum si trova una didascalia che spiega come in quell’occasione la liturgia si svolge “al modo antico”. Foto e commento sono apparsi su Peiraiki Ekklisia, il mensile ortodosso più diffuso e influente in Grecia. E a proposito ricordo l’espressione interessata, ma non sorpresa, del collega Robert Taft quando ho avuto occasione di mostrargli il servizio, a conferma che la liturgia è dovunque una realtà in movimento, anche se non sempre immediatamente percettibile. Il movimento liturgico ortodosso oggi è molto vivo e si esprime anzitutto nella promozione degli studi, particolarmente in Russia, e nella riflessione comune su temi di storia, teologia e pastorale liturgica, spesso in collaborazione con istituzioni o studiosi cattolici.

versus populum resta episodica. La non accoglienza di questa e altre riforme liturgiche, come una certa ipersensibilità al “nuovo”, deve essere compresa a partire dalla storia di queste Chiese, dove in un passato anche recente le riforme sono sempre state auspicate e messe in atto dai movimenti ecclesiali che con la gerarchia hanno avuto rapporti conflittuali anche a motivo dello spiccato impegno politico di leader e aderenti durante la dittatura dei colonnelli. Così la proposta della celebrazione versus populum spesso è stata intesa soltanto come espressione di contestazione o di particolarismo ecclesiale, e quindi isolata e scoraggiata. A costo di generare delusione, come si può vedere, in tutte queste faccende la teologia liturgica non ha avuto e non ha un grande ruolo.

Le Chiese malabarese e maronita

Qualcosa di simile, ma con motivazioni di altro genere, è avvenuto di recente anche nell’Oriente cattolico. Dopo il Vaticano Il la Chiesa malabarese (India meridionale) e in parte quella maronita (Libano ed emigrazione), hanno adottato di propria iniziativa la celebrazione versus populum, una scelta apparentemente incomprensibile se si tiene presente che proprio le Chiese di cultura liturgica siriaca hanno tanto sottolineato nei testi e nella disposizione dell’edificio di culto l’importanza della celebrazione orientata. In realtà, dopo l’occupazione portoghese del 1498, i malabaresi avevano perso l’autonomia ecclesiastica e perfino la gerarchia indigena (ripristinata soltanto nel 1896), subendo un’intensa latinizzazione. La celebrazione orientata è rimasta in uso fino al Vaticano Il, ma le Chiese da secoli ormai avevano perso il bema centrale per la liturgia della Parola e la cortina dinanzi al santuario/presbiterio, così quando nella Chiesa romana si è fatta strada la celebrazione versus populum era del tutto naturale per i malabaresi farla propria. Il colmo è che l’operazione è stata camuffata all’insegna dell’inculturazione indiana: non c’è nulla di specificamente indiano nella messa malabarese versus populum, al contrario, come ho fatto notare in Liturgia dei dizionari San Paolo, e ben prima di Uwe Michael Lang, «si ha l’impressione che l’inculturazione [...] continui piuttosto a guardare verso modelli liturgici europei [...] in un vero aggiornamento della latinizzazione» (Cinisello Balsamo 2001, p. 1391).

Nel 1996 la Congregazione per le Chiese orientali ha emanato una istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei canoni delle Chiese orientali, un documento importante e ben scritto, ma assai singolare nella sua concezione, nel presumere di poter riformare liturgie mal celebrate in base a norme canoniche. Nel § 107, dopo aver richiamato i motivi che esigono nelle tradizioni orientali la celebrazione versus orientem, si afferma: «Tale prassi, minacciata in non poche Chiese orientali cattoliche per un nuovo, recente influsso latino, ha dunque un valore profondo e va salvaguardata come fortemente coerente con la spiritualità liturgica orientale». Ma l’istruzione non è stata accolta con favore e alcuni episcopati sono giunti a ostacolarne la traduzione nelle rispettive lingue perché il documento metteva in discussione tutta una serie di abitudini contratte nel tempo e che ora le Chiese considerano come tradizione propria e distintiva, specialmente laddove l’acquisizione di elementi del rito romano è avvenuta per distinguersi dal rito delle Chiese ortodosse di origine.

Cosa allora le Chiese d’Oriente, almeno quelle che hanno mantenuto la propria fisionomia, possono offrire alle Chiese sorelle d’Occidente? Non modelli da imitare, ma un paradigma su cui riflettere, quello cioè della circolarità tra liturgia, teologia liturgica, architettura, spiritualità, devozione popolare. Se nel rito romano la celebrazione versus populum risulta pienamente coordinata con l’intero sistema liturgico attualmente vigente, allora ogni confronto con altri sistemi liturgici, dell’antichità, di Trento o delle Chiese orientali, sarà istruttivo, anche formativo, ma in nessun caso normativo e in grado di modificare il presente in modo durevole.


* (Professore straordinario di liturgie orientali e liturgia comparata. Facoltà di liturgia del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, Roma)

(da Vita Pastorale, gennaio 2007)


Sul libro di Uwe Michael Lang

Alcune semplici osservazioni

di Riccardo Barile

Le questioni suscitate e dibattute richiedono un’erudizione superiore alla cultura di un operatore pastorale medio. Qui invece vorremmo limitarci a proporre alcune attenzioni di semplicità basica, accessibili a tutti e che sarebbe opportuno tenere presente.

1 La questione antropologica. Cogliere il senso dell’oriente suppone cogliere anche gli altri punti cardinali e vivere all’aperto per vedere dove il sole nasce e dove tramonta. Questa è una dimensione antropologica che l’uomo cittadino o non ha più o ha molto indebolita, poiché vivendo tra case mediamente alte né acquisisce tale orientamento né lo usa nella vita giornaliera. Certo, l’oriente teologico è infinitamente di più, ma per sussistere ha bisogno di questa dimensione antropologica, oggi per lo più assente.

2 La non rilevanza dell’orientamento. La facilità di disporre di una base antropologica non è tutto, poiché per certe esperienze cristiane ritenute fondanti essa va costituita o ricostituita quando manca: così la Chiesa per l’eucaristia richiede di entrare nella pratica del pane di frumento e del vino di uva anche laddove non se ne fa uso. Dovremmo dunque far reimparare a regolarsi sui punti cardinali perché la preghiera cristiana ritrovi il suo vero e pieno senso? No, poiché bisogna distinguere tra posizione fisica e orientamento spirituale (verso Dio per Gesù Cristo): solo quest’ultimo è determinante, mentre la posizione fisica è più relativa (cf risposta della competente Congregazione in Enchiridion Vaticanum 19/1300-1345).

3 Le convenienze e le inconvenienze dell’orientamento. Ammesso che con l’evoluzione storica l’oriente di fatto significa l’abside (EV 19/1303), alcune parti della celebrazione verso l’abside possono rivelarsi opportune o per l’assetto artisticamente intoccabile del luogo di culto, o per orientare la preghiera verso la gloria, verso un polo escatologico. Ciò però richiede di rispettare la natura della preghiera, per cui ciò che va benissimo per una colletta diventa problematico quando alla parola è associato il contesto di un convito, come nella preghiera eucaristica. Inoltre la teoricità della discussione non deve far dimenticare le absidi delle quali si dispone e dunque verso che cosa ci si rivolge. Nel migliore dei casi verso Gesù Cristo: ma la preghiera non è rivolta al Padre? E quando nelle absidi o nei punti di gloria c’è la Madonna o addirittura un santo? Si pregherà rivolti ad essi? Via... non diamo occasione al legittimo scatenarsi di una nuova riforma protestantel

4 Una via anglosassone e una via italiana? Nel libro le note sono 245 e le citazioni risultano ovviamente qualcuna in più. Ebbene, escludendo i documenti del magistero e i Padri, non si arriva a dieci citazioni italiane, comprese 4 o 5 di Ratzinger che per metà sono traduzioni dal tedesco. Conclusione: quella sollevata è una problematica anglosassone, suscitata forse da forti contrasti di pratica liturgica, ma che non appartiene alla pastorale e alla teologia

5 I molti vantaggi del sospetto. In un libro in traduzione italiana del 1999 edito dalla Lev, Paul De Clerck (L’intelligenza della liturgia) alle pp. 153-156 già auspicava che per alcune preghiere il presidente e gli altri si rivolgessero verso un polo escatologico o di gloria. La proposta era accettabile perché senza riferimenti aggiunti al sacro, al sacrificio e alla presenza reale, come invece avviene nell’odierno dibattito. E allora perché non sospettare quale teologia c’è dietro a tali proposte? Ma non solo quale teologia o quale Chiesa, ma anche quali simpatie politiche? Di più, quale psicologia e quale “affettività”? Questi “sospetti” non possono mai essere rivolti a chi in concreto sostiene una posizione, ma risultano utili e fecondi non per valutare le persone che parlano, ma per capire quale clima si crea agitando in un certo modo certe questioni.

(da Vita Pastorale, gennaio 2007)


L’inesauribile creatività dello Spirito

Carismi antichi e nuovi per una Chiesa "bella"

di Fabio Ciardi


Dall’inizio de! secolo scorso, ma soprattutto dopo il Concilio, hanno cominciato a sorgere nuove fondazioni con caratteristiche spesso completamente diverse da quelle tradizionali. Esse nascono da un comune vasto movimento di ritorno alle fonti (bibliche, liturgiche, patristiche, ecumeniche) e da esperienze di ecumenismo pratico.

«Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l’impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali» (VC 62).

Nelle molteplici forme di vita evangelica nate lungo la storia della Chiesa lo Spirito sembra sbizzarrire la sua inesauribile creatività. Anche per i nostri tempi egli ci ha riservato nuove sorprese.

Le realtà del XX secolo

All’inizio del ‘900, a Vallendar in Germania, nasce l’Opera di Schönstatt, fondata da padre Kentenich per far presente in una società scristianizzata la vita evangelica secondo l’esempio di Maria, la prima cristiana. Nel 1921, la Legio Mariae, ispirata da un laico, Frank Duff, prende forma in Irlanda dilagando rapidamente nel mondo.

Le ceneri causate dalla seconda guerra mondiale si rivelano il suolo adatto sul quale fioriscono nuove spiritualità, come quella del Movimento dei Focolari che nel 1943 trascende il conflitto mondiale e le sue conseguenze per puntare sull’unità di tutti gli uomini. In Francia, le Equipes Notre-Dame, fin dal ‘39 offrono una spiritualità coniugale, una grande novità a quel tempo.

In Spagna nel 1949 l’esperienza dei Cursillos de cristiandad risveglia l’impegno cristiano attraverso un cammino comunitario. Agli anni ‘50, in Polonia, risalgono le origini del movimento Luce-Vita che supera il divieto fatto alla Chiesa di promuovere organizzazioni per la gioventù. In Ungheria, Regnurn Marianum aiuta la gente a sopravvivere alla violenza del sistema politico. In Italia, padre Lombardi fonda il Movimento per un Mondo Migliore. Contemporaneamente prende vita, con padre Rotondi, il Movimento Oasi per la formazione spirituale e apostolica.

Nell’ambiente universitario di Milano, nel 1954, il carismatico don Giussani è ispirato a dar vita a una iniziativa che sarà la matrice della futura Comunione e Liberazione. Durante il Concilio i Padri riconoscono che è avviata «una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici». Col passare del tempo i protagonisti in prima linea per attuare la nuova visione della Chiesa conciliare sarebbero stati i nuovi movimenti, che negli anni post-conciliari prendono sempre più vigore.

Nel 1964, in Spagna, il giovane laico Kiko Argüello insieme a una giovane ragazza, Carmen Hernàndez, inizia un’esperienza di pastorale nuova per le parrocchie: è il Cammino neo-catecumenale. Nello stesso anno, a Trosly, nel nord della Francia, il canadese Jean Vanier realizza la prima comunità deIl’Arche dove le persone handicappate mentali e altri condividono la vita pienamente, vivendo e lavorando insieme.

Nel 1967, il Movimento carismatico, un fenomeno già presente da vari secoli nelle Chiese protestanti, espIode nella Chiesa cattolica negli Stati Uniti. Oggi tocca la vita di oltre 80 milioni di cattolici in tutto il mondo. Nel contesto delle rivolte studentesche del ‘68, germogliano i primi semi della Comunità di Sant’Egidio: leggendo il Vangelo, Andrea Riccardi e i suoi amici si sentono chiamati a vivere la Chiesa là dove c’è la violenza, l’emarginazione e la povertà.

Con l’avvento del sinodo sui laici del 1987, la Chiesa prende atto delle dimensioni mondiali e interculturali dei movimenti. Giovanni Paolo Il porta oltre 60 movimenti a celebrare la Pentecoste del 1998 insieme a lui, in un fine secolo testimonianza dell’unità nella diversità e nella ricchezza di carismi che lo Spirito Santo elargisce nella Chiesa alle soglie del terzo millennio. «Voi qui presenti siete la prova tangibile di questa effusione dello Spirito».

Le nuove forme

Assieme ai movimenti ecclesiali (quando non addirittura in seno agli stessi movimenti) fioriscono “nuove forme di vita consacrata” e “nuove comunità”. Possiamo ricordare la Tenda del Magnificat, la comunità Nôtre-Dame de l’Alliance, la Communauté de l’Emmanuel, la Fraternité de la Résurrection, la comunità Pain de Vie, la Comunità missionaria di Villaregia...

«L’originalità, delle nuove comunità», leggiamo in Vita consecrata 62, «consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi».

Le caratteristiche di queste nuove esperienze di vita evangelica sono: una forte insistenza sulla vita comunitaria; l’ospitalità e l’accoglienza di quanti vogliono condividere la gioia della vita comune, della preghiera, del servizio; l’ecumenismo inteso come apertura alla grande tradizione cristiana così come viene espressa dalle differenti Chiese; la composizione mista di uomini e donne, che spesso comprende anche gli sposati con l’intera famiglia; la riscoperta dei valori della gioia e dell’amicizia.

Un tipo particolare di “nuove comunità” è quello di indole monastica. Pur scegliendo di appartenere all’ordo monasticus tradizionale, esse intendono realizzare un monachesimo nella Chiesa locale, senza alcuna esenzione canonica dall’autorità episcopale. Basterà accennare alla Comunità di Bose, che è diventata luogo di ispirazione per altre analoghe comunità, alla Comunità di Monteveglio, alla Comunità monastica di Gerusalemme...

Tra le caratteristiche di questo “nuovo monachesimo”, il forte ancoraggio alla Scrittura, il riferimento alle molteplici tradizioni monastiche antiche, comprese quelle orientali, una liturgia comprensibile a tutti, la sobrietà e la semplicità dello stile di vita, l’affiato ecumenico, l’accoglienza e la condivisione della vita con gli ospiti, la riscoperta della laicità e del lavoro...

Il grande “movimento”

Per capire le nuove forme di vita carismatica, evangelica e di consacrazione presenti oggi nella Chiesa occorre tuttavia tenere presente il più ampio ambiente ecclesiale in cui esse sono maturate e la sensibilità nuova venutasi a creare. Esse nascono infatti da un comune vasto “movimento” di ritorno alle fonti (movimento biblico, liturgico, patristico, ecumenico...) e di apertura al mondo contemporaneo che lo Spirito Santo ha impresso a tutta la Chiesa del nostro tempo. Esse sono il frutto di una nuova spiritualità, non più di minoranze, quasi elitistica (legata a ordini e congregazioni religiose) ma aperta a tutti (vocazione universale alla santità); una spiritualità comunitaria ed ecclesiale, subentrata a una spiritualità coltivata in funzione della propria relazione personale con Dio; una spiritualità della vita e dell’impegno nel mondo e nella storia come luogo della presenza e dell’amore di Dio.

Da qui derivano gli aspetti che caratterizzano le nuove esperienze ecclesiali, i movimenti in modo particolare:

1 - La laicità. Anche se nel loro seno vi sono persone consacrate, la maggior parte dei membri dei movimenti sono laici. Viene messa in evidenza soprattutto la consacrazione battesimale e il sacerdozio comune. Si è parlato in proposito di una “Pentecoste laica”.

2 - Nello stesso tempo si presentano come luogo d’incontro e di comunione tra tutte le vocazioni della Chiesa, quasi a ricreare un bozzetto di Chiesa. In esso convergono, almeno potenzialmente quando non praticamente, tutte le vocazioni del popolo di Dio.

3 - La varietà di vocazioni implica - ed è un’altra caratteristica - l’elasticità e la varietà nelle forme di appartenenza e di impegno. Essa è richiesta anche dalla grande diversità di situazioni in cui vivono i fedeli laici e in cui continuano a vivere quando aderiscono al movimento.

4 - La partecipazione attiva alla missione della Chiesa, sgorgante dalla vocazione battesimale, è riscoperta nella sua specificità: portare lo Spirito di Cristo in tutte le realtà sociali, politiche, economiche, culturali, una missione aperta a innumerevoli iniziative personali e comunitarie.

5 - La novità portata dai movimenti è infine data da una profonda carica spirituale, evangelica, comunionale che fa rivivere gli elementi della vita cristiana con insolita genuinità, freschezza e semplicità.

Siamo nell’alveo della grande tradizione della Chiesa, che ha visto sorgere nel suo seno sempre nuovi “movimenti” di spiritualità, di pensiero, di azione («La Chiesa stessa è un movimento», ha detto Giovanni Paolo Il). Nel medesimo tempo siamo davanti a qualcosa di nuovo, della novità dello Spirito. Carismi antichi e carismi nuovi chiamati a una comunione sempre più profonda perché la Chiesa possa splendere in tutta la sua bellezza e compiere la sua missione sacramentale di unità degli uomini tra loro e con Dio.

(da Vita Pastorale, aprile 2006)

Bibliografia

AA. VV., Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico spirituali ed apostoliche, a cura di Favale A., LAS 1991, Roma; I movimenti nella Chiesa. Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali. Roma 27-29 maggio 1998, “Laici oggi” 1999; Castellano J., Carismi per il terzo millennio. I movimenti ecclesiali e le nuove comunità, Edizioni OCD 2001, Roma; Torcivia M., Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme 2001, Casale Monferrato; Favale A., Comunità nuove nella Chiesa, Messaggero 2003, Padova.

Lo slancio del Concilio si è spento. E la Chiesa si accontenta di diventare una “religione civile”.

Un’altra chiesa è possibile

Intervista di Francesco Comina a Marcelo Barros


Marcelo Barros è uno dei più noti biblisti brasiliani e teologo fra i più stimati a livello internazionale. Nel suo ultimo libro si occupa di acqua. Meglio di spiritualità dell’acqua. «L’acqua è la vita – ci ha detto – ed è un bene essenziale che ha il marchio di Dio tanto che i pozzi del Vangelo solitamente richiamavano i nomi dei profeti biblici (pozzo di Giacobbe...). Questo per dire che l’acqua è sotto la protezione del profeta, per cui oggi le politiche neoliberiste che vorrebbero appropriarsi di questa fonte fondamentale della vita sono politiche che vanno contro Dio ancor prima che contro gli uomini. Sono ingiuste, inique, maledette dai profeti».

Marcelo Barros, stiamo vivendo in un sistema globale di guerra. Sembrava che con la caduta del muro di Berlino si mettesse in moto una politica di pace, una società di giustizia, un mondo riconciliato. L’Onu ha lanciato la decade della cultura della pace come inizio del terzo millennio e invece ci troviamo nella decade della guerra. Lei da tempo riflette a livello teologico con i grandi teologi del nostro tempo (Boff, Küng, Moltmann, Panikkar) sul ruolo che le Chiese possono avere per la costruzione della pace mondiale. Perché il messaggio di pace delle Chiese si sta così indebolendo?
Se tutte le Chiese degli Stati Uniti si fossero unite e avessero detto pubblicamente a Bush che i cristiani non possono fare la guerra e che i credenti americani che fossero andati in guerra sarebbero stati in qualche modo dichiarati fuori dalla comunità, io credo che la guerra non ci sarebbe stata. Ma invece cosa abbiamo visto in televisione? Tutto il contrario: Bush è apparso con la Bibbia nella mano per dire che fa la guerra in nome di Dio, in nome del Bene contro il Male. È vero che trentasei Chiese evangeliche nordamericane e la Chiesa cattolica romana si sono dichiarate contro la guerra, ma in una forma teorica, debole, trattenuta. Io credo che sempre, anche a livello nazionale, la Chiesa cattolica si inserisca dentro una religione civile. Bush va dal Papa come se andasse da un capo di Stato e il Papa, come un capo di Stato anche se dice delle parole importanti, rimane sempre su una posizione teorica e non si investe di un ruolo profetico di condanna della guerra.

L’istituzione non è quasi mai stata profetica.
Sì, è accaduto. Per esempio quando Hitler andò a Firenze, il cardinale di quel tempo listò a lutto la cattedrale. Quello è stato un segno profetico. Ma oggi manca totalmente una vera educazione alla pace e anche la spiritualità della pace è ancora molto debole. Noi siamo stati educati da un cristianesimo di conquista. Culturalmente siamo rimasti a Colombo, a Cortez, a Isabella di Castiglia. Non si brucia più nessuno, ma culturalmente non è cambiato molto. Quando si fa una lotta acerrima per tenere il crocifisso nelle scuole pubbliche, oppure si fa di tutto per mettere nella Costituzione europea le radici cristiane (quando invece tutto il sistema occidentale è così poco cristiano negli atti), allora siamo perfettamente nel quadro di una religione civile, che non rispetta la pluralità dello Stato, la laicità della società. Perché la missione della Chiesa non è quella di affermare se stessa, ma di essere testimone del regno di Dio, della giustizia e della pace.

Lei ha fatto la critica della Chiesa occidentale, il centro del sistema. Ma come vive invece la Chiesa di periferia, la Chiesa del Sud del mondo da dove lei proviene: è una Chiesa profetica?
Il Concilio Vaticano II ha definito la Chiesa come comunità locale. Sia al Nord che al Sud ci sono delle esperienze bellissime e ci sono sempre delle testimonianze di profezia, ma l’organizzazione della Chiesa, la sua struttura, la sua società ha bisogno di fare un passo fondamentale.

Quale?
Come i primi cristiani hanno dovuto passare dalla cultura giudaica a quella greco-romana, adesso c’è bisogno di universalizzare la Chiesa. Non è possibile che un africano debba chiedere il permesso a Roma per essere africano, non è possibile che un brasiliano, un argentino, un cileno, debbano domandare a Roma di poter vivere la fede nella loro cultura come se fosse una concessione benevola del Vaticano.

Anche lei, Barros, fa parte di quella schiera di teologi del mondo che vorrebbe avviare una riforma universale della Chiesa, una sorta di nuovo Concilio. Come lo vede lei questo nuovo Concilio della Chiesa?
Ho appena finito la stesura di una prefazione a un libro che si intitola “Dal Concilio Vaticano II a un nuovo Concilio”. Ho partecipato a un incontro a Barcellona con i grandi teologi su questo tema. Io credo che dobbiamo avviare una grande riflessione conciliare. Nel 1958 è morto Pio XI e nessuno poteva immaginare che la Chiesa del tempo potesse rinnovarsi nel modo che papa Giovanni è riuscito a fare con il Concilio Vaticano II. Non ha senso celebrare adesso un nuovo Concilio perché inevitabilmente rispecchierebbe le logiche attuali. No, le Chiese locali, i movimenti ecclesiali, i gruppi di base comincino ad avviare un processo conciliare per partorire, come in una gravidanza, una nuova Chiesa riconciliata, di pace, aperta alle grandi religioni dell’umanità e orientata alla giustizia e alla profezia. Questo processo dovrebbe poi sboccare, fra dieci-quindici anni, alla realizzazione di un vero Concilio ecumenico, un Concilio delle Chiese e non solo della Chiesa romana.

Quali sono i grandi temi di riflessione che la Chiesa dovrebbe rilanciare oggi?
Un grande regista americano ha raccontato in un film (Il dormiglione, di Woody Allen, 1973, ndr) la storia di un uomo che aveva una malattia inguaribile, il quale ha chiesto una iniezione affinché potesse dormire fino a quando l’umanità non avesse scoperto la cura per la sua malattia. L’uomo è stato ibernato e risvegliato otto secoli dopo. Tutto il film era basato sul fatto che l’uomo pensava di aver dormito otto ore e invece aveva dormito otto secoli. Quando è uscito dall’edificio era tutto sorpreso di vedere le macchine volare, gli uomini vestiti con altri paramenti ecc. Ecco io credo che quel film sia la migliore metafora della nostra Chiesa, che ha dormito otto secoli e non si è resa conto che il mondo si è trasformato fortemente. Il nuovo processo conciliare dovrebbe prendere fortemente coscienza delle

trasformazioni in atto nella società. Ecco allora le domande: come fare in modo che la Chiesa dialoghi con i giovani sulla base dei grandi temi della sessualità, dell’affettività, della vita? Come fare una revisione della dottrina affinché ci si tolga di torno questa interpretazione del cristianesimo a partire dal peccato, fonte e origine delle crociate e delle guerre religiose? Come leggere la complessità della società? Come rendere onore ai grandi temi della giustizia, della pace in un mondo profondamente ingiusto e lacerato? Come ridare valore al ruolo della donna nella Chiesa? Come modificare la visione dei ministeri?

Ma perché i vescovi oggi temono le istanze critiche della base, come, ad esempio, quelle di “Noi siamo Chiesa”?
I vescovi hanno una fissazione nel problema del potere. Io credo che la cosa peggiore sia la manifestazione di un potere religioso, sacrale. Se il potere militare, ad esempio, durante la dittatura brasiliana mi opprimeva, non opprimeva il mio spirito, il mio io interiore: mi opprimeva fisicamente, ma io ero libero. L’oppressione religiosa, invece, opprime la coscienza. Il grande teologo Bernhard Häring diceva che aveva sofferto molto di più quando è stato chiamato a rispondere a un processo della Curia romana, di quando è stato imprigionato dai nazisti. La Chiesa si deve liberare dall’autoritarismo e dal dogmatismo. Gesù l’ha detto ai discepoli: “Voi non dovete imporre l’autorità” e “la libertà non deve essere confusa con una espressione della verità”.

Come mai si è arrivati a questa situazione? Come mai il Concilio aveva liberato energie straordinarie e oggi la Chiesa vive la fatica di essere testimone del Vangelo in una società secolarizzata?
Il Concilio Vaticano II ha dato dei principi di cambiamento ma non ha cambiato la struttura che è rimasta uguale. In Brasile le Chiese migliori che facevano cose straordinarie spesso sono state paralizzate dall’ingresso di un vescovo autoritario e tradizionalista. In poco tempo abbiamo assistito a distruzioni di processi che il vescovo precedente aveva fatto su lunghi periodi. L’esempio più angosciante è quello di dom Helder Camara. Lui ha dato la vita per i poveri, per la libertà, per i diritti degli ultimi, per una Chiesa aperta, al servizio degli altri. Roma ha nominato, senza domandare a nessuno, un vescovo di un’altra regione che non aveva mai vissuto il processo rivoluzionario di Recife e in poche settimane tutto il lavoro è stato distrutto. Quello che è accaduto a Camara è successo per tanti vescovi profetici dell’America Latina come Mendez Arceo in Messico, Samuel Ruiz nel Chiapas. È triste vedere che i frutti dei grandi spiriti liberi della Chiesa latinoamericana vengono distrutti da una politica miope della stessa Chiesa istituzionale. Ma la base resiste e nei prossimi mesi, quando organizzeranno l’incontro nazionale delle comunità di base del Brasile, potremo constatare dal vivo che nonostante gli impedimenti decisi dalla strategia della conservazione, c’è una profezia che vive fra gli ultimi e i diseredati del Paese, una profezia di umili sacerdoti, di suore, di laici che testimoniano il Vangelo sine glossa. Ecco il futuro della Chiesa risvegliata dalla lunga ibernazione.

(da Mosaico di pace, ottobre 2004)

Venerdì, 28 Settembre 2007 23:42

La fede e il tempio (Giovanni Vannucci)

La fede e il tempio

di Giovanni Vannucci


Il testo evangelico di Lc 17, 11-19 riprende il tema del rapporto tra il contenuto e la forma della religiosità; tra lo spirito e le prescrizioni liturgiche; tra Cristo, Tempio non costruito da mano d’uomo, e il tempio, struttura e costruzione dell’uomo.

L’azione si svolge tra Cristo e il sacerdozio ufficiale del tempio ebraico; i dieci lebbrosi in cammino tra questi due poli sono la figura di noi uomini. Guariti da Cristo, ricevono l’ordine di presentarsi al sacerdozio ufficiale per le purificazioni e il riconoscimento della guarigione. Nove, dimenticando l’autore della guarigione, si perdono nel tempio e nel suo cerimoniale. Uno solo ritorna a Cristo: il Samaritano, l’eretico che non si trovava a suo agio nel tempio di Gerusalemme, ma il cui cuore sensibile e grato lo riconduce a Cristo, a Colui che salva mediante la fede in lui riposta. «E Gesù gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”» (Lc 17, 19).

Noi cristiani, chiamati a edificare il Tempio dello Spirito, mai dobbiamo perder di vista l’estrema delicatezza del nostro servizio religioso. Le strutture comunitarie, rituali, ecclesiali, che danno forma e visibilità alla edificazione del Tempio dello Spirito, nascono da Cristo, dalla sua opera salvifica, e devono condurre a Cristo, alla sua Verità e Santità.

Cristo è la Verità: da lui l’uomo è liberato dalla lebbra dell’errore, del falso, dell’egocentrismo, del volere negativo, e, attraverso le strutture che traducono nel tempo l’anelito cristiano alla pienezza della Verità, l’uomo deve essere aiutato a raggiungere la Verità sempre più vasta, più illimitata, più liberatrice.

Cristo è la Verità che ci fa liberi; le forme che essa assume nel mondo dei fenomeni devono essere cosi sature dell’ansia liberatrice di Cristo da aiutare l’uomo a passare di liberazione in liberazione, fino a riposare in quella libertà dove il cuore non ha più timore, la coscienza non sperimenta più oppressioni e la mente esulta per aver trovato la terra che la placa nella luce gioiosa di tutto il vero.

Com’è espressivo l’episodio evangelico dei dieci lebbrosi! Cristo, rimanendo fuori del tempio, costruito da mano d’uomo, guarisce l’uomo affetto dalla lebbra, lo invia nel tempio e lo attende fuori del tempio. Ritorna a Cristo colui che accetta il rito in virtù della parola di Cristo, e nell’ambito del tempio sente allargarsi il cuore per la riconoscenza e l’amore verso Colui che l’ha risanato, e per questo riceve la grande parola: «Torna nella vita; la tua fede ti ha dato la salvezza!» (Lc 17, 19).

Le strutture visibili della Realtà cristiana non sono un fine, ma un mezzo, la forma che nasce da Cristo e che a lui conduce. Il Sacramento, la Dottrina, la struttura temporale dell’Ecclesia cristiana nascono da Cristo, e a lui devono ricondurre l’uomo, arricchito di gratitudine e di amore.

L’uomo, elevato dalla nuova vita, trasmessagli da Cristo e dal Sacramento, ritorna nell’esistenza dei mondi irredenti per disseminarvi la luce e la vita di quella fede che lo ha salvato e che è germe di Redenzione per tutti. La fede ha la sua manifestazione umana nel cuore redento in un amore nuovo e in una gratitudine nuova.

Giovanni Vannucci, «La fede e il tempio» in La vita senza fine,  Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, (28a del tempo ordinario - Anno C), pp. 203-204.

di Luigi Alici

«E chi è il mio prossimo?» (Luca 10,29). Così dottore della legge, che aveva il monopo­lio della lettera e forse aveva smarrito lo spirito sfida il Maestro, quasi a voler dire: «Da dove cominciare concretamente, ad applicare la legge per conseguire la vita eterna?». Il Maestro risponde con una storia inquietante e straordinaria: «Un uo­mo scendeva da Gerusalemme a Gerico...».

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