Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Riaffermazione di principi o dialogo?

di Giordano Muraro

Premessa.

Il documento Famiglia e procreazione umana porta la data del 13 maggio 2006, ma è stato presentato ufficialmente il mese dopo a Roma, finito il convegno del Forum delle associazioni familiari (12 maggio) e prima del convegno internazionale sulla famiglia a Valencia (1-9 luglio). In novantasei pagine si propone di rintuzzare gli attacchi che oggi vengono mossi con estrema violenza alla famiglia e alla procreazione. È stato accusato di durezza e intransigenza, e soprattutto di un linguaggio che non ammette dialogo. Dopo aver dichiarato erronee e fuorvianti le proposte alternative alla famiglia tradizionale e alla procreazione, presenta in modo preciso e accurato la dottrina della Chiesa su questi argomenti. Ma il tono è assertivo e ha l’atteggiamento di chi dice: «Tu sbagli», ma non si confronta. Non prende sul serio chi pensa in modo diverso, ma lo liquida sbrigativamente mettendolo tra quelli che camminano nelle tenebre e hanno bisogno di luce per scoprire la verità. Il documento si preoccupa di fornire questa luce, presentando una sintesi chiara del pensiero della Chiesa.

Non segue lo schema invalso dopo il concilio Vaticano II, che invita a discernere nella storia “luci e ombre” e che ritroviamo, per esempio, nella Familiaris consortio; nel mondo vede solo tenebre e nella dottrina della Chiesa la luce che fa chiarezza. E’ un metodo che oggi viene rifiutato in partenza, perché la mentalità di oggi ritorna - anche se con altro spirito - al principio antico che nella discussione e nel confronto non ha valore il «chi lo dice», ma il «che cosa dice» (non a quo dicitur, ma quid dicitur): un principio che sembra più adatto alla mentalità di un mondo in cui - come si dice nel documento - l’individualismo frammenta la società e perde sempre più valore l’argomento ex auctoritate. Oggi si chiede il dialogo, anche se la richiesta spesso è più nominale che reale. Si è capito che il monologo di chi è certo di possedere la verità e non ha la pazienza di confrontarsi, genera solo isolamento o contrapposizione e conflitto, che radicalizzano le posizioni di ognuno.

Un’utile sintesi dottrinale, ma non aiuta incerti e deboli di fede

Una seconda accusa viene mossa al documento. La dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione viene fondata su principi ancora troppo generici, che avrebbero bisogno di essere rielaborati e presentati in modo più specifico per essere utili a confutare le posizioni ritenute fuorvianti. Per confutare la procreazione artificiale e il matrimonio omosessuale non è sufficiente fare appello alla dignità della persona umana, perché in nome di questo stesso principio viene fatta la richiesta delle forme alternative. E’ necessario analizzare l’una e l’altra posizione e far vedere che i beni che nascono dalla famiglia tradizionale e dal modo naturale di procreare promuovono in modo ottimale il bene delle persone e della comunità, mentre gli altri modi potranno soddisfare dei desideri immediati e parziali che però si rivelano controproducenti per lo sviluppo pieno della persona e della società. Non si tratta di una lotta tra il bene e il male, tra i giusti e i peccatori, ma del confronto tra persone che ritengono entrambe di promuovere il bene degli individui e della società.

Un’impostazione simile richiederebbe un impianto diverso da quello adottato dal documento. Il che non significa che sia inutile. E’ certamente utile per chi vuole avere una sintesi del pensiero della Chiesa su questi argomenti, anche se poi resta aperto il lavoro dell’analisi del pensiero di chi si contrappone, e del confronto, per mettere in evidenza la superiorità dei benefici che la persona e la società ricevono dalla procreazione e dalla famiglia pensati e vissuti in modo tradizionale. Oggi l’aiuto che si chiede è simile a quello che un parroco ha chiesto al pontefice Benedetto XVI, quando il 31 agosto ha incontrato i sacerdoti della diocesi di Albano: « Cosa possiamo fare noi sacerdoti per [...] comunicare al positivo la bellezza del matrimonio che sappia far innamorare ancora gli uomini e le donne del nostro tempo?». E il Pontefice dopo aver dato una sua risposta ha concluso dicendo: «Ma come comunicanrle? Mi sembra un problema comune a tutti noi». La risposta può essere data solo dal popolo di Dio intero, con l’apporto degli esperti di comunicazione e con l’esperienza degli stessi coniugi che vivono questa fondamentale esperienza umana. E’ quello che la Familiaris consortio aveva proposto sia nell’introduzione, sia in tutta la parte che riguarda l’aspetto pastorale.

Per questo il documento è utile per chi desidera avere un compendio della dottrina della Chiesa sulla famiglia e sulla procreazione; ma lascia deluso chi avrebbe desiderato uno strumento per confermare i deboli e gli incerti nell’insegnamento della Chiesa, e per avere più ragioni convincenti per discutere con chi pensa in modo diverso.

Una visione sintetica del documento

Non è facile presentare una sintesi di questo lungo e complesso documento. A prima vista sembra il contenitore di tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e alla procreazione. Ed è in un certo senso vero. I contenuti sono molti, e qualche volta si ha l’impressione che la preoccupazione della completezza abbia reso difficile un’esposizione semplice e unitaria. Però è possibile giungere a una prima conoscenza, sfrondando il discorso di molti temi collaterali e concentrando tutto - come suggerisce lo stesso documento - intorno al tema della procreazione umana.

Partendo dalla procreazione il discorso si estende alla famiglia, perché la famiglia è il luogo naturale della procreazione umana; e si prolunga alla società, perché la società è l’interlocutore naturale della famiglia nel compito di portare la persona procreata al suo pieno sviluppo umano. Tutto questo discorso viene collocato nel contesto socio-culturale attuale, per cui il documento dedica una parte alla ricerca delle correnti di pensiero che stanno all’origine delle nuove proposte sulla procreazione e sulla famiglia. La conclusione però è pessimistica: «Mai nella storia del passato la procreazione umana, e quindi la famiglia, che è il suo luogo naturale, sono state minacciate come nella cultura odierna» (p. 6).

Introduzione: famiglia e procreazione

Risalendo alle cause di questa crisi, individua subito la principale: «Le cause sono diverse, ma l’eclissi di Dio, creatore dell’uomo, sta alla radice della profonda crisi attuale della verità tutta sull’uomo, sulla procreazione e sulla famiglia» (ibjd.). Le cause immediate sono da ricercarsi nelle diverse filosofie che hanno reso sempre più sbiadita la presenza di Dio nella vita dell’uomo, fino a farlo scomparire; e con lui anche quelle norme certe e universali scritte nella natura stessa dell’uomo, che costituivano il punto di riferimento per tutti gli uomini. Un uomo senza Dio e senza legge naturale cade inevitabilmente in un forte individualismo che frammenta tutto il vivere sociale, anche la famiglia, e lo rende unico arbitro della sua vita, delle sue scelte e del suo destino.

La scienza si sostituisce alla sapienza, il benessere e l’utile prendono il posto del bene, le applicazioni scientifiche mettono praticamente a tacere i principi che dovrebbero invece giudicarle e guidarle. Le correnti radicali propongono nuovi modelli di famiglia; alcune correnti di bioetica orientano l’uomo e la donna a una procreazione senza amore; si consolidano le politiche di controllo delle nascite che diventano concretamente una diffusione della contraccezione e della sterilizzazione; la stessa impostazione socio-economica porta a ritardare il tempo del matrimonio e della procreazione. L’uomo pensa di essere più libero, in realtà è più disorientato. In questo mondo che è nelle tenebre il documento si propone di riportare la verità sulla famiglia e sulla procreazione.

Il documento non affronta subito il tema della famiglia e della procreazione, ma parte da una riflessione sull’uomo. Infatti dalla concezione dell’uomo dipende il modo di concepire la famiglia e la procreazione. L’uomo che oggi vive nella storia è un uomo dominato dall’individualismo e tende a usare della sua libertà per raggiungere il massimo del suo benessere in ogni sua esperienza. Anche «nei rapporti intimi l’uomo e la donna si comportano come individui e ciascuno cerca il piacere più intenso o l’utilità massima per se stesso» (p. 13). All’uomo sociale e familiare si contrappone l’uomo individuale. Questa concezione dell’uomo è all’origine della richiesta di fare famiglia e di procreare in modo diverso da quello tradizionale.

1. La procreazione

Dopo questa prima riflessione generale, il documento prende in considerazione la procreazione esaminando il suo luogo naturale, cioè la famiglia. La famiglia è presente in tutte le culture dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa, delle Americhe. Da dove nasce questa esigenza di famiglia e di procreazione? Dalla natura stessa dell’uomo. Nella lex naturalis troviamo «il fondamento sia per la sessualità, per l’amore tra uomo e donna, sia per l’insieme della vera vita di famiglia» (p. 21). La procreazione ha le sue radici nella corporeità, cioè nella natura dell’uomo che è composto di anima e corpo. Da questa realtà composita nasce la sessualità, che non è riducibile a un fatto biologico, ma lo trascende e diventa un fatto psichico, interpersonale.

La maschilità e la femminilità sono due mondi di umanità che esercitano una forte attrattiva reciproca. Dall’attrattiva nasce l’amore, che è «fondamento del matrimonio e, questo, della famiglia umana che trasmette la vita ai figli e li educa per la vita sociale» (p. 23). Ma se per creare il matrimonio bastano l’uomo e la donna, per realizzare la procreazione umana è necessaria la presenza attiva di Dio. L’anima, che è l’elemento umano che permette all’uomo di trascendere tempo e spazio, nel momento stesso in cui è soggetto alle leggi della materia, non procede dall’uomo, ma è infusa da Dio. L’uomo, la donna e Dio sono all’origine della persona umana.

2. La famiglia, luogo di procreazione

Il figlio è fatto «ad immagine di Dio». Ed è questa dignità che fonda in lui l’esigenza e il diritto di essere generato da un gesto di amore e non prodotto in laboratorio; anzi, chiede di essere il frutto di un atto che non disgiunge la fecondità dall’amore, il significato unitivo da quello procreativo. Non ha bisogno solo di nascere da un gesto di unione amorosa, ma da uno stato di vita amorosa, cioè da una famiglia, perché solo questa comunione permanente può garantire al figlio di ricevere non solo l’umanità iniziale, ma lo sviluppo di tutta la sua umanità attraverso l’educazione. Per questo l’uomo e la donna devono modellare il loro amore su quello di Dio, il quale non ama la sua creatura solo nel momento della creazione, ma la segue nella sua crescita e nel suo sviluppo. La procreazione diventa una forma di «collaborazione con l’amore di Dio creatore, da cui deriva per i coniugi la condizione di cooperatori di Dio» (p. 28). Purtroppo oggi la responsabilità nella procreazione non viene più intesa come consapevolezza di diventare collaboratori di Dio nella donazione e nella continuazione della vita, ma come l’impegno a diminuire il numero dei figli, specialmente nei popoli emergenti.

3. Famiglia e procreazione integrale

Il figlio non ha bisogno solo di essere generato, ma anche di essere allevato ed educato. Per rispondere a queste sue esigenze è necessaria la presenza costante dell’uomo e della donna, che il figlio porta già uniti in sé. I genitori con l’allevamento-educazione sviluppano le premesse di vita che hanno deposto in lui, quando gli hanno donato la propria vita attraverso la comunicazione del loro patrimonio cromosomico. In altre parole: il figlio chiede di continuare a essere generato per tutta la vita dall’uomo e dalla donna che lo hanno introdotto nella vita, partecipandogli la propria vita. I contenuti di questa educazione ci sono già nella natura del figlio; si tratta di edurli (educare = educere = tirar fuori) attraverso un’attenzione personalizzata e continua. Nessun’altra struttura educativa è capace di educare come fa la famiglia, perché nessun’altra è capace di sviluppare questa cura amorosa quotidiana, attraverso la quale passano la vita e i suoi valori. San Tommaso esprime molto bene questo fatto con l’immagine del secondo utero: «Uscito dall’utero, prima di avere l’uso del libero arbitrio, è mantenuto sotto la cura dei genitori come sotto una specie di utero spirituale» (II-II, q.10, a.12).

4. Aspetti sociali del servizio alla famiglia

I genitori non bastano, e neppure la comunità familiare, il figlio porta in sé delle esigenze che possono essere soddisfatte solo dalla più ampia comunità sociale. Per questo la famiglia e la società devono allearsi per assolvere al compito di generare l’uomo perfetto. Da questa alleanza nasce un fatto originale: la società aiutando la famiglia aiuta se stessa, perché i beni della famiglia si riversano in modo positivo nella vita sociale; e la famiglia aprendosi alla società aiuta se stessa, perché viene aiutata nell’opera fondamentale della prima personalizzazione e socializzazione del figlio. Per questo è necessario sviluppare nella società questa doverosa attenzione verso la famiglia e nella famiglia una maggiore consapevolezza delle sue capacità di influire positivamente sulla società: non solo perché provvede alla sua continuazione con la procreazione e con l’educazione del figlio alla socialità; ma anche per il fatto che l’uomo e la donna prendendosi cura l’uno dell’altra e insieme prendendosi cura dei figli, svolgono un servizio straordinario per la società, che nessun’altra struttura o istituzione svolge ed è in grado di svolgere.

La società affronta e risolve i problemi umani con gli strumenti che le sono propri, cioè la giustizia e la professionalità; mentre la famiglia affronta e risolve i problemi con lo strumento più prezioso ed efficace per la formazione umana, che è l’amore e la gratuità. E nessuna energia umana è paragonabile all’amore quando si tratta di formare la persona umana. Per questo la società deve riconoscere che la famiglia svolge un’opera propria e insostituibile per la formazione dell’uomo e della società. E deve riconoscere alla famiglia i precisi diritti che le permettono di svolgere questo suo compito: sia i diritti dovuti alla famiglia (il diritto al lavoro, al salario familiare, all’educazione dei figli, anche all’educazione sessuale); sia quelli dovuti alle singole persone che formano la famiglia.

E tra questi il primo è il diritto alla vita fin dal suo concepimento. L’aborto è un delitto abominevole, non solo verso la persona, ma anche verso la società. perché ne stravolge la struttura e le finalità affidandole il potere di conferire alle persone i diritti fondamentali dell’uomo, mentre dovrebbe solo riconoscerli, promuoverli e difenderli. Tra i beni che la famiglia produce nelle persone e nella società c’è quello di essere anello di congiunzione tra le generazioni. Nella famiglia il singolo non vive sradicato, ma è inserito in una storia che trasferisce nel presente la vitalità del passato, e apre la vita al futuro. Anche la storia della salvezza. La fede vive nei figli, perché viene celebrata ogni giorno attraverso le parole e le convinzioni ricevute dai padri. E nella vita vissuta che Dio tramanda se stesso e le sue meraviglie, da una generazione all’altra.

La famiglia è anche un’unità di consumo, ma di un consumo ordinato e programmato, nel senso che nella famiglia vengono stabilite le necessità di ognuno e a ognuno viene dato secondo le sue necessità, non solo nel presente, ma anche per il futuro. La famiglia non produce solo una economia di consumo; può essere fonte di produzione non solo organizzandosi in azienda (l’azienda familiare), ma inserendo nel mondo della produzione e del lavoro delle persone che sono state educate alla laboriosità e stimolate ad acquisire la necessaria preparazione professionale. La famiglia crea per la società un “capitale umano” che non consiste solo nell’immettere nella società delle persone preparate professionalmente, ma di immetterle con tutto il carico di umanità che acquisiscono in famiglia. Oggi ci troviamo di fronte a un grande pericolo: l’invecchiamento della popolazione, causato anche dall’individualismo che porta a vedere il figlio più come un problema che come una ricchezza, e dalla poca attenzione che la società dimostra nei confronti della famiglia.

Non si pensa sufficientemente al fatto che una popolazione invecchiata produce effetti negativi sulla società stessa, non solo economici (chi pagherà le pensioni?), ma umani e sociali, dovuti alla sproporzione tra giovani e anziani. La società anziché aprirsi alla speranza e preoccuparsi di creare ancora una volta le premesse per il futuro, si ripiega su se stessa per far fronte al problema del suo invecchiamento. L’attenzione si sposta dai giovani agli anziani, dimenticando la verità elementare che gli anziani trovano una soluzione ai loro problemi attraverso le forze nuove portate dai giovani. L’inverno demografico che dai Paesi ricchi viene esportato alle popolazioni emergenti, diventa un nuovo flagello per tutta l’umanità.

5. Riflessioni teologiche e prospettive pastorali

Il documento finisce con alcune riflessioni teologiche e alcune prospettive pastorali. Due in particolare: anzitutto imparare a vedere la famiglia e il suo potere procreativo alla luce del grande mistero trinitario, dove regna l’amore come fonte di vita e di felicità. Da questa partecipazione alla vita trinitaria nasce il potere della famiglia a portare nel tempo la vita e la salvezza. Infatti la famiglia si rivela un luogo ottimale per trasmettere la fede con la parola e l’esempio ed è abilitata proprio dal sacramento del matrimonio a trasmettere la fede attraverso i suoi due valori propri: l’amore e la vita. Il tema è stato sviluppato ampiamente dalla Familiaris consortio, e recentemente nel convegno di Valencia. In secondo luogo, riconoscere la centralità della pastorale della famiglia e della vita, non tanto nel senso di farne una parte privilegiata della pastorale, ma nel senso di tener presente la dimensione familiare in tutti i momenti della pastorale. Famiglia e amore sono inscindibili, proprio perché l’amore è il principio, l’anima, il fine della famiglia, e a lei compete il compito di vivere e di testimoniare l’amore nella quotidianità della vita.

Conclusione

Ogni documento esprime ricchezza e limiti. Questo documento presenta tutti i problemi che oggi vengono agitati intorno alla famiglia e la dottrina che sta alla base per la loro soluzione. Manca però quel linguaggio e quel modo di esporre e sviluppare il discorso che permette ai fedeli di Cristo di dialogare e di convincere coloro che presentano proposte alternative, e di dimostrare che la famiglia fondata sul matrimonio è «la sola che produce in modo pieno i beni» necessari per lo sviluppo umano delle persone e della società.

(da Vita Pastorale, Novembre 2006)

Martedì, 11 Settembre 2007 00:17

Il “volto ebraico” di Gesù (Giuseppe Laras)

Il “volto ebraico” di Gesù

di Giuseppe Laras

A distanza di sessant'anni dall'emanazione delle norme anti-ebraiche del regime mussoliniano, a chi mi chiede un commento, un'impressione o un ricordo che riassuma l'impatto che quella normativa scellerata ebbe sugli ebrei italiani, che dall'oggi al domani scoprirono di non essere più uomini e donne normali, ma una sorta di "paria" emarginati ed estromessi dalla vita, che fino a poco tempo prima, bene o male, riuscivano a condurre insieme agli altri cittadini, io rispondo con una parola: incredulità.

Al di là, infatti, del dolore, delle preoccupazioni e della disperazione che un tale stato di cose induceva in tutte le famiglie degli ebrei d'Italia, lo stupore per un'iniziativa tanto criminale quanto ingiusta, in me (allora ero piccolissimo) e nei miei era prevalente su altri sentimenti, anche se in realtà chi avesse tenuto d'occhio i segnali sempre più intolleranti che emergevano dalla politica del regime già da diversi anni, si sarebbe accorto che qualcosa di efferato stava maturando contro gli ebrei.

Oggi, con riferimento a quei giorni, sono più portato a chiedermi come sia potuto accadere che la popolazione, cioè la gente comune, i colleghi, i conoscenti dei quarantamila ebrei italiani, nella loro stragrande maggioranza, non abbiano reagito, non abbiano mosso un dito, non abbiano detto una parola magari solo di solidarietà e di condivisione nei confronti delle vittime, fino a pochi giorni prima persone libere e normali come loro.

A pensare e scrivere queste cose mi induce una lettera di Luigi Giussani pubblicata su la Repubblica del 2 gennaio [1999] (...), intitolata «Noi siamo degli ebrei». Don Giussani si riferisce al rifiuto di Pio XI di dare un avallo alle leggi razziali, come gli veniva richiesto, rifiuto formulato più o meno con le parole «Noi siamo spiritualmente degli ebrei».

È certo che questa frase torna ad onore del Papa di allora, ma, a un tempo, fa emergere in maniera drammaticamente evidente come quei nobili e religiosi sentimenti non fossero di fatto condivisi e testimoniati dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani di allora, tutti di fede cattolica. E viene, in particolare, da chiedersi - stimolati dalle parole elevate di don Giussani - quale concezione dell'uomo sia stata insegnata e trasmessa a quella generazione, se si è potuto abbandonare alla persecuzione e alla morte - senza dire o fare pressoché nulla - uomini, donne e bambini che, ancorché colpevoli di essere ebrei, erano pur tuttavia portatori, assieme a tutti gli altri uomini, del marchio divino (immagine=zélem) che conferisce una sorta di sacralità da non conculcare e da non profanare mai.

Debbo riconoscere che da quei tempi lontani a oggi, è stato percorso un lungo tratto di strada che ha consentito al popolo cristiano (almeno in una sua parte che non sono in grado di quantificare, ma che è comunque qualitativamente rilevante) di vedere con altri occhi e con altro cuore gli ebrei, riscoprendo nella loro lunga e misteriosa storia spirituale taluni elementi comuni che spiegano e giustificano alcuni tratti dell'identità religiosa dello stesso popolo cristiano.

La storia di Israele

Sono gli effetti del cosiddetto "dialogo" che, sia pur faticosamente, sta plasmando un nuovo tipo di approccio da parte di cristiani ed ebrei nei confronti gli uni degli altri.

Io oso pensare - anche in questo particolare contesto ci si sente troppo inadeguati e fragili per esprimere giudizi e previsioni - che da parte della Chiesa si dovrebbe insistere di più (anche se già qualcosa si sta facendo in tale direzione) per una maggior conoscenza della storia e della spiritualità di Israele, al fine di riuscire a restituire un "volto ebraico" a Gesù.

Che cosa significa "un volto ebraico"? Significa che fino a pochissimo tempo fa il volto, la figura, la vita, i pensieri, la lingua di Gesù non avevano alcunché che ricordasse l'Ebraismo e l'ebraicità. Eppure Gesù era ebreo e, fino alla sua morte, si muove e opera all'interno di un'ottica, religiosa e comportamentale, assolutamente ebraica.

Una tale operazione di estraneazione di Gesù dal popolo d'Israele - che risponde evidentemente a motivi politici, apologetici e quant'altro in cui, peraltro, non sono legittimato a entrare - ha, secondo me, posto le premesse e acuito un antisemitismo divenuto sempre più virulento e aggressivo.

Il recupero della figura di Gesù all'interno di un contesto ambientale dominato da idee, concezioni e usi appartenenti alla tradizione d'Israele, potrebbe - col tempo, con perseveranza, con pazienza, con l'ottimismo che nasce dalla fede in un futuro pacificato e affratellato, giusta la concezione messianica - rivelarsi la carta vincente risolutiva della partita contro l'antisemitismo cristiano.

Ritrovamento e riconciliazione
Occorre che cristiani ed ebrei vadano avanti in questo cammino di ritrovamento e di riconciliazione, ciascuno con la sua fede e le sue certezze, nella consapevolezza che un superiore e misterioso disegno provvidenziale entrambi ci coinvolge e ci guida fino al momento, quando Dio vorrà, del suo disvelamento.

Come scrive don Giussani, penso anch'io che la fedeltà nell'attesa di Dio sia faticosa e possa talvolta tradursi in uno stato doloroso del credente. Aggiungerò solo che la certezza di un domani che sarà migliore di oggi (è questa la quintessenza della dottrina messianica d'Israele), unita a un senso di umiltà, che dobbiamo ritrovare in vista di un appuntamento così promettente e grandioso, potrà forse liberarci dalle angosce e dalle ingiustizie del presente.

Lunedì, 10 Settembre 2007 23:58

Violenza necessaria? (Jean-Marie Muller)

Violenza necessaria?

di Jean-Marie Muller

Spesso è la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. È importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi dal giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell’oppressione, essa obbliga ad una solidarietà attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il più delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non è il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non è il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell’ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. È importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient’altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi è anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo è un obiettivo della solidarietà verso di loro.

Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi è più un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non è tanto la ricerca di una efficacia quanto la rivendicazione di una identità. È il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza è allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. È l’ultimo mezzo di espressione di quelli che la società ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiché essi non hanno avuto la possibilità di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che è loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa è allora un “segnale d’allarme” che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della società. La violenza è per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: «sono violento, dunque sono». E la violenza permette di farsi riconoscere tanto più per il fatto che essa è proibita dalla società. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo può essere vero per l’individuo come per il gruppo. Anche il gruppo può volere provare a sé stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l’impiego della violenza. Esso così obbligherà gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, là dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, provoca un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l’umiliazione di essere degli esclusi.

Ma comprendere la violenza non è giustificarla. Infatti, se la violenza è giusta quando serve una causa giusta, non diventerà allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si è mai incontrato nel corso dei secoli, si è mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa è giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approverà la violenza per la cattiva causa? Basterà discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non basterà. Se la violenza è legittimata come un diritto dell’uomo, ciascuno potrà prendere a pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che lo stimerà imposto dalla difesa dei suoi interessi. In realtà l’ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potrà più interrompere. La violenza diventa fatalità. La nonviolenza intende spezzare questa fatalità.

Secondo le ideologie che dominano le nostre società, è necessario opporsi alla prima violenza, dell’oppressione o dell’aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per fine di stabilire la giustizia o di difendere la libertà. L’argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto – incessantemente avanzato per giustificare la violenza, è che essa è necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira ... portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiché qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l’intenzione di servire una causa giusta cambia o no la natura della violenza? In altri termini, è possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l’uso della violenza per una causa giusta non è altro che l’uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale a questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perché resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.

Jean-Marie Muller, da: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, pp. 38-41, traduzione di Enrico Peyretti, in:  Il Foglio, 289.

Venerdì, 31 Agosto 2007 00:24

Fedeltà (Faustino Ferrari)

L’inizio del libro dell’Apocalisse troviamo sette lettere indirizzate a sette Chiese. Uno dei temi costanti di queste lettere è la fedeltà, la perseveranza. Nella fedeltà ci sono già tutte le tracce, i segni del compimento...

C –GESU’ CRISTO PRESSO GLI EBREI
ED ALTROVE

di Bruno Secondin

L’interesse per Gesù e per il suo messaggio di salvezza e di sapienza ha da sempre superato le frontiere della sua comunità costituita e storicamente definita. La curiosità per questa figura «straordinaria» ha preso i sapienti fin dalla prima ora, e ne sono stati sovente affascinanti, senza tuttavia per questo entrare tra i suoi «seguaci»

Nel nostro tempo questo «interesse» e questo «fascino» continuano a mantenersi vivi. Passiamo in rassegna alcuni settori.

I

... Gesù l’ebreo

Non c’è dubbio che in questi anni è andato crescendo l’interesse per la figura storica di Gesù e per il suo significato «spirituale» negli ambienti religiosi ebrei culturalmente più sensibili al dialogo con la religione cristiana. Soprattutto importante è stato il tentativo di recuperare la figura di Gesù alla cultura ebraica del tempo e di riscoprire la «simpatia» che tanti rabbini ebrei hanno avuto per questo famoso «rabbino».

Si è arrivati così a leggere in forme nuove il ruolo del cristianesimo di fronte all’ebraismo. La «giudaicità» di Gesù affascina oggi sia gli ebrei che i cristiani. Per questi è un recupero dell’umanità storica di Gesù, del suo rapporto con la cultura e le sue forme regionali, del riflettersi in lui dei vari movimenti messianici. Per gli ebrei è come una «reclamazione» della ebraicità di Gesù, un «bringing home» di questo famoso rabbi.

Per capire la novità e anche la causa dell’ostilità storica fra i due gruppi, bisogna non dimenticare la situazione conflittuale cui furono sottoposti gli ebrei per secoli: da una parte l’accusa di deicidio e dall’altra la persistente pressione per indurli a «conversione».

Gesù e la sua croce nella storia sono diventati per gli ebrei il segno/sintesi della sopraffazione e delle violenze. Solo alcuni isolati e ammirevoli dissenzienti - come Maimonide (1135-1204) che riconosce come «provvidenziale» il cristianesimo - andavano oltre le solite accuse raccolte e diffuse nelle famose Tôledôth Yéshü (Vita di Gesù) piene di leggende infamanti (Gesù figlio di Pantèra...). Tali testi (la loro origine risale al sec. VIII) sono una specie di anti-evangelo, diffusi in ebraico e yiddish, erano molto conosciute negli stati popolari e spesso venivano letti durante la veglia di natale. (1)

Di recente ha preso l’avvio uno studio più esatto delle «concezioni» ebraiche (e anche islamiche) di Gesù nel medioevo, contestualizzando con maggiore cura le affermazioni nelle situazioni di conflitto, di polemiche culturali, di interessi economici, di modelli di società. E appare un mondo finora sconosciuto, in cui il rifiuto dell’accettazione di Gesù e della sua «chiesa» ha molteplici ragioni, non tutte senza peso. Si pensi alle critiche dei giudei e dei musulmani medievali della Spagna a certe forme «cristiane» di praticare la fede in Gesù Cristo, con fanatismo sanguinario.

Nel secolo scorso, quando i ghetti si smantellarono e cominciò una storia nuova per gli ebrei, più rispetto e libertà anche per loro, qualcuno comincia a riconoscere il valore spirituale dell’insegnamento del rabbi di Nazaret. Così H. Graetz, grande studioso ebreo, che riconosce in Gesù «nobiltà di cuore, profonda serietà morale e santità di vita», ma la cui stima viene contestata nell’ambiente ebraico. Così C.G. Montefiore, che lo definisce un autentico «profeta».

Il movimento sionista - cioè il grande revival del ritorno alla terra dei padri - con la fine del sentimento di emarginazione e di insicurezza, conduce più facilmente a riconoscere in Gesù di Nazaret un grande figlio di Israele. Ammiratori di Gesù sono tra gli altri: Moshé Hess, Max Nordau, Max Bodenheimer, Theodor Herzl, Klausner Joseph («Gesù è un grande artista delle parabole»).

Le conseguenze della visita storica del papa alla sinagoga di Roma (13 aprile 1986) sono ancora da verificare, sul piano di eventuale «riflesso» nella cristologia. Per ora però si possono meglio valutare le conseguenze di dialogo e collaborazione provocate dal paragrafo 4 della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano Il.

Sono tanti coloro che dal lato dell’ebraismo rileggono la vicenda Gesù.

Citiamo alcuni autori che si sono distinti in particolare su questo tema.

Jules Isaac (+ 1965): con la sua opera. Gesù e lsraele (2) inaugura una nuova era nei rapporti reciproci. E’ un invito ad una rimeditazione più equilibrata e onesta degli scritti neotestamentari. L’opera si divide in quattro sezioni: Gesù detto «il Cristo» era ebreo secondo la carne e la cultura; predicò il «Vangelo» nella sinagoga ebraica e nei luoghi sacri ebraici, fu in buone relazioni con il suo popolo, esclusa una piccola minoranza fanatica che lo condannò; del crimine di deicidio è imputabile una minoranza di «collaborazionisti» invasa da orgoglio dottorale, mentre il vero ebraismo non ha consegnato Gesù al potere occupante. Tipico tono dell’opera è quello del rispetto e dell’attenzione a tutte le fonti, per riscoprire la profondità ebraica di Gesù e del suo messaggio.

Martin Buber (+ 1965): l’autore dei famosissimi Racconti dei Chassidim. Egli affermava in una conferenza a Gerusalemme (1948): «lo credo fermamente che la comunità ebraica, nel corso della sua rinascita. riconoscerà Gesù.

Shalom Ben-Chorin: sostenitore dell’ebraismo progressivo e del dialogo ebraico-cristiano e autore di un famoso libro: Fratello Gesù. (3) Gesù vi appare come un maestro giudaico, vicino alla linea dei farisei, che ha proposto l’interiorizzazione della Legge condensandola nell’amore.

Pinchas Lapìde: autore del libro Ist das nichtJosephs Sohin? Jesus in heutigen Judentum.. Questo teologo ebreo ha dimostrato, anche con altri studi e pubblicazioni, come oggi fra gli ebrei sia altissimo l’interesse per Gesù di Nazaret:.

Egli sviluppa anche la ricerca sulle opinioni dei rabbini circa Gesù: e da questo studio sulle testimonianze di 18 secoli risulta evidente la stima per la qualità sapienziale del «rabbi» di Nazaret. In un dialogo con Hans Küng egli ebbe a dire:

«Il fratello Gesù viene finalmente riportato a casa come compagno, come connazionale e consanguineo... anzi, perfino come sionista e compagno di lotta». (4)

Franz Rosenzweig (+ 1929): interessante la sua teoria nella difficile opera La stella della redenzione, di recente tradotta in italiano. (5) Prendendo lo spunto dai due triangoli incrociati della «stella davidica» egli vede che l’ebraismo rappresenta la santa vita che anticipa l’eterna pienezza della redenzione: il popolo ebraico per questa vita è chiamato a star fuori del tempo, è da sempre presso Dio. Il cristianesimo invece rappresenta la via, perché il cristiano cammina nel tempo e nello spazio e, camminando, conduce al Padre i pagani attraverso il Figlio. Con riferimento alla stella davidica, l’ebraismo è il fuoco che brucia in eterno, mentre il cristianesimo è l’insieme dei raggi che sono lanciati, in tutte le direzioni.

«Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti ad una stessa opera. Egli non può far a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto...". (6)

David Flusser: con l’opera Jesus egli vuole recuperare le radici ebraiche e anche la personalità profetica e l’originalità dell’amore ai poveri e agli emarginati (e anche ai nemici) di Gesù. Egli difende decisamente la storicità della vicenda di Gesù, e anche la specificità («gli influssi ricevuti da Gesù non bastano a spiegare tutto il suo comportamento morale sulla dottrina dell’amore»). Accetta anche la situazione gloriosa del Cristo:

«Non abbiamo alcun motivo di dubitare che il crocifisso sia veramente “apparso” a Pietro, poi ai dodici, poi a più di 500 fratelli alla volta!...., poi a Giacomo e a tutti gli apostoli». (7)Anche se trascura Giovanni (non lo ritiene storico) e rifiuta di accettare le opere di potenza, il Gesù di Flusser appare un profeta impegnato per la conversione individuale e radicale a Dio, tuttavia non il Salvatore dell’umanità. Accetta però che Gesù si sia autoidentificato coni il «Figlio dell’uomo» di Daniele, senza che sia accettabile il «Figlio di Dio» in senso cristiano. In sostanza Flusser si interroga continuamente sul significato della figura e accetta che si «possa scrivere una vita di Gesù».

Molti altri nomi si potrebbero citare: Robert Aron con l’interessante operetta Gli anni oscuri di Gesù, Paul Winter, Samuel Sandmel, Harvey FaIk , letterati come Shalôm Asch (autore del romanzo Il Nazareno), Max Brod. J. Sinclair, J. Bor, A. Chouraqui (noto traduttore del NT in bellissimo francese). Infine il grande artista Marc Chagall che ha più volte dipinto la crocifissione, ma come «simbolo» del destino del popolo ebraico, non come segno «cristiano» .

Infine un fenomeno che sta suscitando parecchio interesse è il moltiplicarsi di gruppi di ebrei che permanendo nell’ambito ebraico, considerano Gesù come Messia vero: si chiamano Jews for Jesus. Si trovano diffusi in particolare in California.


Osservazioni

In conclusione quello che per un ebreo medio oggi può essere ammesso circa Gesù, è che si può considerare un grande profeta di Dio, maestro di sapienza, dalla morale elevata, che nella tradizione spesso è stato molto stimato, e che oggi ancor di più si può stimare, come una figura «eccezionale» della storia ebraica.

Però del «Verbo fatto ebreo» si continua a lamentare la trasformazione - ad opera di Paolo specialmente (cf. R. Aron) - della figura e del messaggio di Gesù in un qualcosa di «universale», però de-ebreizzato, e fatto figura teologica, rispondente ai canoni ellenistici. E qui il contrasto non è sanabile.

Note
1) Un’antologia dei testi: J.P. Osier, L’évangile du ghetto, ou comment les juifs se racontaient Jésus, Berg International, Paris 1984, importante per le varie redazioni delle Tôledôth. In italiano c’è anche R. Di Segni, Il Vangelo del ghetto, Newton Compton, Milano 1985, con intenti simili al precedente. Per un primo approccio più panoramico cf. Ben-Chorin, Jesus im Judentum, Wuppertal 1970, specie pp. 7-46.


2) Ed. Italiana Cardini, Firenze 1976 (originale tedesco 1948).

3) Morcelliana, Brescia 1985. originale tedesco: Bruder Jesus, der Nazarener in jüdiscer Sicht, Paul List, München 1967.

4) H. Küng-P.Lapide, Gesù segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 15.

5) Marietti, Casale Monferrato, 1985.

6) Rosenzweig, La stella, pp.444-445.

7) Gesù, p. 165.

II

... ed altrove…..

Bisogna chiarire subito una cosa: che in questo settore si può cadere facilmente nell’equivoco: o del riduttivismo (disprezzo dei valori altrui) o del parallelismo (somiglianze che non sono omogenee). Perciò poniamo alcune indicazioni di partenza.

Le domande vitali che l’uomo si pone. si ritrovano praticamente con eguale frequenza in tutte le religioni: sono le domande sulla nostra origine, sulla morte, sul dolore, sulla felicità, ecc. Dall’esperienza ellenistica, alle Svetasvara Upanishad (1,1) e alla Nostra aetate, (n. 1): ovunque sono espresse praticamente con gli stessi termini. Citiamo da questo ultimo testo:

«Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (NÆ 1).

Alla varietà delle domande religiose - seppur consonanti - corrisponde la pluralità della forma delle risposte. Qui nasce storicamente la varietà delle religioni, che risentono sia della peculiarità etnica (genio dei popoli), sia delle condizioni ecologiche, storiche, culturali, sia della presenza di leaders influenti, ecc.

Il cristiano che si incontra con la molteplicità e la varietà delle forme di religione, ha spesso rifiutato globalmente tutto, ritenendolo inutile e «estraneo”, o superstizione. Oggi il problema si pone invece in termini nuovi, molto interessanti, che propongono una possibile convergenza di tutta la varietà verso l’unità.

Nei documenti conciliari vengono riconosciuti «elementi di verità e di grazia» (AG 9) anzitutto a livello di persone seguaci di altre religioni, e anche come dati oggettivi propri delle stesse tradizioni religiose: «riti e culture» (LG 17), «iniziative religiose» (AG 3), «ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» e si riscontrano nelle loro «tradizioni religiose» (AG 11). E inoltre mostra una consapevolezza importante dell’influenza universale dello Spirito santo in tutto il mondo. «Indubbiamente lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato» (AG 4). Lo Spirito chiama tutti gli uomini a Cristo, col Vangelo predicato, con i «semina Verbi» sparsi ovunque (AG 15) e offrendo a tutti «nel modo che Dio conosce.., la possibilità di venire a contatto col mistero pasquale» (GS 22). Forse il passaggio più «cattolico» del concilio sta nel paragrafo 92 di Gaudium et spes dedicato al dialogo fra tutti gli uomini, attraverso quattro cerchi concentrici. Termina accennando «a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi e umani». E si augura che «un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e portarli a compimento con alacrità». Il dialogo interreligioso appare elemento costitutivo intrinseco alla missione della chiesa.

Esempi recenti di testimoni profetici di questo incontro - da Ch. de Foucauld a Monchanin, da Peryguère a Le Saux, a Griffiths, ecc. — rendono questo discorso sempre più fecondo e carico di promesse.

Per il cristiano il centro dell’universo e della storia è Cristo Gesù: per cui la figura del «pantocrator» esprime bene il ruolo centrale rispetto ad ogni esperienza religiosa. Ma oggi questa universalità non è solo un concetto più o meno astratto e vago, è di fatto diventato un grosso problema; di fronte alla vitalità e al dialogo con le altre religioni.

Si parla oggi di «Cristo dentro le religioni»: è la posizione assunta dal concilio, specialmente in Nostra aetate e anche espressa dal teologo K. Rahner sui «cristiani anonimi». Ci sono tuttavia delle resistenze, perché questo fa delle altre religioni una «praeparatio evangelica», cioè del materiale grezzo che viene assorbito dal cristianesimo, una volta che il Vangelo sarà annunciato. E quindi le altre religioni hanno un valore subordinato e secondario, in fondo.

Altri parlano di «Cristo al di sopra delle religioni»: in questo modo di vedere le altre religioni non sono pura preparazione evangelica, ma di fatto sono autentiche «vie di salvezza», al di fuori dell’esperienza «chiesa cristiana». Questo toglierebbe a Cristo la normatività unica e ultima, perché Dio avrebbe da dire e da fare più di quanto non sia stato detto e fatto in Cristo. Il pluralismo di «figure» religiose sarebbe volontà di Dio, e Cristo sarebbe né contro, né sopra, ma «insieme» con le altre religioni. I diversi sentieri, quasi vie differenziate di salvezza, «portano» a Dio, e non più solo a Cristo.

C’è infine la «teologia della liberazione» delle religioni: che accentua il criterio della capacità non tanto di «affermare» verità e unicità, ma di «migliorare» la storia dell’umanità. Quindi il valore unico di Cristo si misura su questa capacità di essere l’unico che «libera» oppure di essere in compagnia di altri efficaci «liberatori». Quest’ultima posizione di fatto rinnega completamente quello che la rivelazione su Gesù Cristo (gli Evangeli) afferma in maniera non equivoca: che cioè egli è l’unico «liberatore» definitivo.

Mi pare meglio accettabile la posizione di chi suggerisce anche una lettura universalistica del messaggio biblico (che è attestata specialmente nelle correnti sapienziali), in modo da riuscire a cogliere le «tracce di Dio» o i cosiddetti «semina Verbi» in mezzo alle molteplici tradizioni religiose le quali risalgono a Dio, perché lui ne è l’autore.

Come bene spiega Rossano (8) le varie «risposte religiose» possono considerarsi risposta a quell’ interiore «instinctus Dei invitantis» con il quale Dio chiama tutti gli uomini a sé. C’è un tempo prima di Cristo e un tempo dopo Cristo: ma non esiste un tempo senza salvezza (Unheilzeit ) e un tempo con la salvezza (Heilzeit). La così detta «economia sapienziale» - cioè l’azione salvifica di Dio tramite la Sapienza e il suo Spirito - è attestata ampiamente sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo. Si pensi alle molteplici alleanze attestate nel Pentateuco dal codice sacerdotale. Si pensi a testi come questi: «Dio ama i popoli» (Dt 33,3), è «amante della vita» (Sap 11,26), «la terra è piena del suo amore» (Sal 32,5), «la potenza di Dio riempie l’universo» (Sap 1,7; Pro 8,31).

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, soprattutto Giovanni e Paolo hanno assunto il criterio dell’universale sovranità di Cristo. Nella lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi Cristo è proclamato fondamento e chiave di volta di tutta la storia: tutto fu creato in lui, tutto sussiste in lui, tutto tende alla conciliazione ultima in lui (Col 1,15-20; Ef 1,10). Sempre secondo Paolo lo Spirito opera per la giustificazione in ogni uomo che opera il bene e che segue la legge dell’amore (Rm 2,25-29; cf. At 10,34-35). Ancor più splendida la testimonianza di Giovanni: nel prologo l’azione del Verbo è descritta come «presenza» nel mondo, «illuminazione» e vita spirituale per tutti (Gv 1,9). Nell’Apocalisse Cristo è «il Primo e l’Ultimo, il Vivente» (1,18), agnello vittorioso prima della fondazione del mondo (5,13) e nel libro che tiene in mano sono segnati i destini della storia (5,6-9).

La riflessione teologica di questi anni ha cercato di percorrere la strada degli epiteti cristologici come Logos, sapienza, manifestazione, ecc., per valorizzare tutto il patrimonio di «beni spirituali e morali» e i valori socio-culturali (NÆ 5) che si trovano nell’universo religioso delle grandi tradizioni religiose mondiali. E’ una riflessione ancora aperta e che già i Padri fecero (come Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino, Origine, Agostino, Gregorio Nisseno), ma rimangono da affrontare molti settori.

Non solo quello del riconoscimento di Gesù Cristo come «rivelatore e salvatore unico», ma anche quello del valore dei «libri sacri», degli «archetipi religiosi» propri dell’antropologia universale, dell’apporto delle religioni alla fede in Cristo e all’esperienza cristiana della salvezza. Si tratta cioè di un apporto di esplicitazione soltanto, o di scoperta di valenze nuove non ancora percepite, o vi sono addirittura degli elementi «nuovi» da «assumere»?

Così il dialogo interreligioso diviene un processo di annuncio e di ascolto, di accoglienza e di offerta: e non una pura presa di coscienza delle differenze esistenti, storiche ed esistenziali. Come appunto viene suggerito anche da documenti ufficiali più recenti.

Evangelii nuntiandi (n. 53) a riguardo delle altre religioni ossserva:

«Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a pregare a generazioni di persone».

E in un altro documento recente, del Segretariato per le religioni non cristiane, che offre delle «riflessioni e orientamenti» per il dialogo interreligioso dice:

«A un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere la loro esperienza di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell’Assoluto».

Il valore di quello che altre religioni possono dire oggi di Gesù Cristo (o arricchire il già detto) deve essere visto in questa prospettiva: che tenga conto delle ricchezze espressive e sacre delle altrui tradizioni, della capacità di ciascuna tradizione di assimilare in maniera creativa il messaggio di Cristo. L’esperienza del resto s’è già verificata per tutto l’occidente nei secoli IV e seguenti, e si sta ripetendo nei luoghi dove l’inculturazione spinge verso nuove «sintesi».

E’ tutto ancora da verificare l’impatto storico della grande riunione, ad Assisi dell’ottobre 1986, dei rappresentanti delle varie religioni del mondo. Ma certamente quell’esperienza ha aperto la strada ad una forma nuova di dialogo fra le religioni, e di rapporto tra religioni e storia comune.

È interessante che siano soprattutto gli asiatici e gli africani a sentire questo problema in maniera intensa. Essi amano oggi parlare di «Christus cosmicus», cioè «universale». Mentre la teologia occidentale ha posto l’accento di più sulla persona storica di Gesù di Nazaret e sulla chiesa come istituzione storica, la giovane teologia asiatica e africana è più attenta a cogliere le implicazioni universali del «primato» di Cristo.

Scrive il teologo dello Sri Lanka, Tissa Balasuriya (9):

«Cristo il Signore implica una dimensione di essere molto più vasta che non Gesù di Nazaret, sebbene Gesù sia il Cristo».

Lo studio di alcuni passi del Nuovo Testamento (es. Ef 1 e Col 1) in cui si parla del pieno compimento della rivelazione divina nella universale signoria del Risorto, invita ad una visione «cristica» di tutta la realtà. umana e cosmica.

Se una teologia centrata sulla figura di Gesù e la fondazione storica della chiesa ha indotto i cristiani - argomenta Balasuriya - a reclamare un monopolio su Dio, ritenendosi gli unici depositari della salvezza, la riflessione sul primato di Cristo e l’universale presenza del suo Spirito conduce a ripensare la creazione nei termini della presenza di Cristo in tutta la realtà creata. Se è vero il «disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10), allora bisogna cercare il messaggio di Dio in tutti gli strati dell’esistenza: storica, cosmica, sociale, individuale.

C’è una «teoprassi» nei valori «religiosi» dei popoli: tale patrimonio deve essere capito, assunto, letto in Cristo, purificato in lui. Bisogna far attenzione per non confondere l’universalità di Cristo come unico mediatore con la universalità del cristianesimo come religione storica.

Dice un altro teologo asiatico, A. Pieris: se la chiesa vuole conoscere e mostrare il «volto asiatico di Cristo», deve

«essere abbastanza umile da farsi battezzare nel Giordano della religiosità asiatica e abbastanza forte da essere crocifissa sulla croce della povertà asiatica»

La religiosità profonda e ricca dell’Asia e la sua immensa povertà (80% dei poveri del mondo) sono l’impasto per una chiesa cristiana a misura dell’Asia? Egli sostiene anche che vi sono quattro modelli di inculturazione: cultura e religione (latino); filosofia e religione (greco): questi sono impraticabili nel contesto asiatico. Il terzo: religioni cosmiche (animiste) e cristianesimo (nordeuropeo): potrebbe andare bene in Asia, ma per pochi ormai; altre grandi religioni sono già arrivate. E sono le religioni «metacosmiche»: cioè con una realtà trascendente che agisce in maniera immanente nel cosmo e nell’uomo, attraverso l’agape (amore redentore) e la gnosis (conoscenza salvatrice). Per cui conclude che il modello monastico è il più vicino al genio asiatico: per la solidarietà con i poveri (agape) e per la comprensione del linguaggio dei monaci (gnosis) asiatici.

Interessante è anche la «Minjung Theology», cioè la teologia coreana che ritiene il «popolo» (= minjung) come soggetto della storia. La «Minjung Theology» non intende essere né una teologia politica coreana, né una teologia coreana della liberazione. Essa si basa sulla convinzione che il messaggio cristiano si radica nell’esperienza storica e culturale di un popolo. Uno dei termini usati è han (da cui anche «Theology of han»): significa il sentimento collettivo del popolo oppresso, carico di tutti i soprusi e le violenze, è la «giusta indignazione» che permane oltre i tiranni e le tragedie, e indica una coscienza collettiva messianica di speranza e libertà.

In linea generale: si può dire che nelle grandi religioni non cristiane, Gesù Cristo è visto non solo come via all’uomo maturo e realizzato, ma anche come via a Dio, come mediazione al trascendente e al divino.


Note

8) P. Rossano, Teologia delle religioni: un problema contemporaneo, in R. Latourelle, (ed.), Problemi e prospettive di Teologia fondamentale. Queriniana, Brescia 1980, pp. 359-377.

9) Teologia planetaria.

Può essere utile richiamare alcune esperienze del silenzio cristiano sia nel mondo antico extracristiano, sia negli autori cristiani e nei testi liturgici delle Chiese. Esse possono suggerire delle piste di approfondimento teologico-spirituale di un elemento celebrativo spesso disatteso nella pratica.

di François Thual *

La Chiesa cattolica ha evoluto negli ultimi cinquanta anni. Tentiamo una proiezione: che cosa diventerà fra cinquanta anni?

È vero, la Chiesa ha evoluto, ma non sono stati affrontati due punti essenziali e non lo saranno nel prossimo mezzo secolo. Da una parte, la mondializzazione del cattolicesimo, che è presente, in gradi diversi, fin dalla fine del XIX secolo, su tutti i continenti. Dall'altra parte, il sistema di funzionamento interno della Chiesa, la sua organizzazione come “monarchia centralizzata elettiva”, che neppure cambierà nella misura in cui dipende dalla sua ecclesiologia, cioè dalle sue concezioni teologiche dogmatiche costruite per due millenni in modo piramidale.

Quelli che furono convertiti dal Concilio.
E quelli che no

di Marco Ronconi

Recentemente, al convegno di presentazione per una mostra fotografica organizzata dal­l’Azione cattolica italiana sul Concilio ecumeni­co Vaticano II ho ascoltato con piacere la vicepresiden­te del settore giovani ragionare su come il Vaticano Il corra i rischio di diventare solo un mito per le nostre ultime generazioni. "Solo", perché la mitizzazione è una delle più pericolose riduzioni di quell'evento che ha prodotto una gamma di documenti ricchissimi e ha introdotto uno stile ecclesiale adeguatamente aggiornato (bisognerebbe dire «nuovo», ma evito l'aggettivo per non distrarre alcune anime giustamente sensibili). Tali tesori non vanno posti sotto una campana di vetro e ammirati, ma vanno fatti circolare, verificati e recepiti fino all'osso. Ascoltavo e condividevo.

Il tentativo di ricezione riduttiva che conosco meglio è quello che cerca di incastrare i protagonisti del Concilio in categorie sociologiche comprensibili, ma tuffo sommato inadeguate (destra-centro-sinistra...). E altrettanto vero però, che anche fare del Concilio un evento "mitico", significherebbe isolarlo dal presente, levandogli quella carica propositiva che è ancora lonta­na non solo dall'esaurirsi, ma forse anche dal manifestar­si in tutta la sua forza. Non mitizziamo, dunque. È diffici­le, a ben guardare, ma lo si può fare. Soprattutto, rac­contiamo le storie tutte intere, senza paura, affrontan­do la fatica della loro complessità. Pretendiamo che ci vengano raccontate nella loro interezza.

Da tempo, discutendo e ascoltando di Vaticano II, io che ne ho letto solo sui libri, ho maturato l'idea che il dittico progressisti-conservatori (non) funziona esattamente come il dittico credenti-non credenti: a proposito di questa distinzione, ad esempio, il cardinale Martini rifletteva che «ogni credente dialoga con il non credente che è in lui» e proponeva perciò di ragionare abbandonando tale distinzione che non corrisponde alla realtà, preferendole invece la distinzione tra "pen­santi" e "non pensanti . Non sono in grado di propor­re un'analogia simile per inquadrare il Vaticano II, i suoi protagonisti e i suoi diversi modi di recepirlo, ma mi sembrerebbe una buona idea che qualcuno lo faccia. Qualcuno che, afferrando la mole di lavoro preziosissi­mo che gli storici stanno offrendo, dia vita a una tradi­zione rispettosa della complessità e dell'intelligenza di molti dei suoi protagonisti, da non ridurre, ma da cono­scere per discernere e progettare.

Faccio un esempio con la storia del cardinale canadese Paul-Emile Léger Nato nel 1904, entrato in seminario a 12 anni, prete di una congregazione auste­ra e rigorista, arcivescovo di Montreal a 46 anni, in occasione della porpora cardinalizia, si firma «principe della Chiesa» (dal linguaggio, sembra conservatore): grande oratore e predicatore radiofonico (atteggiamen­to progressista verso i mezzi di comunicazione?), si distingue nei primi anni di episcopato per la sensibilità verso le cause sociali dei malati e degli anziani (qui è difficile: conservatore o progressista?), nonché per una vigorosa campagna di moralizzazione contro l'alcool, le danze modeme, Elvis Presley, il cinema, il bingo e l'abbi­gliamento sulle spiagge (ok è conservatore). Nelle file dei prelati "tradizionalisti" si presenta al Concilio (an­che se alcune sue affermazioni sui poteri da riconoscere ai laici mi sembrano "progressiste" ancora oggi...), dove fa parte di alcune delle commissioni più importan­ti. Come "esperto", si avvale però di A. Naud, per il quale parla il titolo del suo libro più celebre: Il magistero incerto. Al termine del Concilio, nel 1967, il cardinale Léger lascia Montreal per trasferirsi a Yaoundé, in Ca­merun, dove resta 12 anni dedicando energie e denaro alla cura dei lebbrosi. Apparentemente, un mito. Per evitare quanto dicevamo prima, tuttavia, basta continua­re la storia fino in fondo. Il suo volontario trasferimento africano - che lascia tutti di stucco - non coincide infatti con un lieto fine. Léger incontrerà molti e difficili problemi con il clero locale, venendo costretto a un ulteriore ripensamento del suo modo di vivere l'aspetto missionario del cristianesimo, fino al ritorno in Canada.

Un'altra volta racconterò di come mi sia stupito a scoprire che è stato il cardinale Ottaviani a introdurre la prima volta frère Roger Schutz in Vaticano, o rievo­cherò la "conversione" del cardinale Parente che, da esponente della minoranza curiale si ritrovò nel post­concilio a difendere vigorosamente la dottrina della collegialità episcopale, avendo riconosciuto il valore degli studi del giovane prof. Alberigo ed essendo rima­sto colpito dagli interventi di alcuni confratelli, come l'allora ausiliare di Bologna, monsignor Luigi Bettazzi. Per ora penso basti ricordare che «ognuno può dire che il Concilio non è stato niente per lui, se non l'ha convertito, se non gli ha cambiato la vita, se non gli ha risvegliato responsabilità sino ad allora insospettate o troppo neglette» (cardinal Paul-Emile Léger).

(da Jesus, gennaio 2006)

Riflessioni sul corpo in un libro di Mario Antonelli

di Marcello Neri


La pastorale ha sempre avuto un certo “pudore” quando trattava il tema della corporeità. Il testo intende ridare ad essa il giusto posto nel contesto dell’annuncio cristiano.

Lectio divina su Apocalisse 12

La Donna dell'Apocalisse
e la spiritualità ecumenica

di Bruno Forte *

L’Apocalisse è una sorta di teologia della speranza sotto forma di teologia della storia: attraverso un susseguirsi drammatico di messaggi e di visioni essa intende annunciare la fede nella finale vittoria del Dio della promessa, invitando alla fiducia la comunità delle origini - provata dalle prime avvisaglie della persecuzione e dalla lacerazione in atto con la Sinagoga - e i discepoli d’ogni tempo. Quando la missione della Chiesa sarà compiuta e l’alba del Regno di Dio tutto in tutti spunterà sull’orizzonte della storia, allora la grande lotta svoltasi nel tempo giungerà alla fine e la vittoria del Signore risplenderà nei cieli nuovi e nella terra nuova delle Gerusalemme celeste. È nello scenario di questa battaglia che si colloca anche il dramma della divisione dei cristiani ed è nella luce della speranza del trionfo dell’Eterno, fondata sulla resurrezione del Crocifisso, che si fonda l’impegno ecumenico al servizio dell’unità per la quale Cristo ha pregato (cf. Gv 17,21). Proprio perché di questo scenario e di questa speranza si fa voce l’Apocalisse, è illuminante rivolgersi ad essa per approfondire le motivazioni e le caratteristiche di una spiritualità ecumenica.

In questa prospettiva, assume un particolare rilievo il capitolo 12, sintesi simbolica dell’intera storia della salvezza, dove viene presentato un “segno grandioso”, che “appare” nel cielo (la forma verbale usata è “ófthe”, propria delle teofanie e delle apparizioni del Risorto: cf. 1 Cor 15,5-8), la Donna (v. 1), a cui è contrapposta un’altra figura imponente, il Drago (v. 3), altrettanto densa di significato simbolico (come indica l’uso del medesimo verbo “ófthe”). Si tratta del “serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (v. 9). La Donna fugge nel deserto, simbolo ricchissimo nella tradizione biblica, dove Dio le ha preparato un rifugio (cf. v. 6), mentre si sviluppa la lotta fra Michele e i suoi angeli contro il Drago (cf. vv. 7ss), che, sconfitto e precipitato sulla terra, si avventa contro la Donna e il Figlio da lei generato (cf. vv. 13 e 17). La Madre e il Bambino non soccomberanno, riportando anzi la vittoria (cf. vv. 14 e 16).

È anzitutto lo sfondo veterotestamentario del racconto ad aiutarci a coglierne il significato: si avverte l’eco di Genesi 3,15, il testo che annuncia l’inimicizia perenne fra la Donna e il serpente, fra il seme di questi e il seme di lei. È poi evocato il contesto dell’Esodo, col tema del deserto (v. 6) e col motivo delle ali di aquila date alla Donna per volare verso di esso (cf. v. 14 e Es 19,4: “Vi ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me”). L’immagine della terra asciutta che assorbe il fiume delle acque suggerisce quindi quella del passaggio del Mar Rosso (cf. vv. 15-16 e Es 14,9 e 15,2). La figura della Donna richiama la nuova Gerusalemme, madre del popolo messianico (cf. Is 66,7), e in generale il popolo eletto (cf. Os 1-3; Is 26,17s e Ger 31,4.15): ella è “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (v. 1). L’essere vestita di sole - fonte della luce, immagine della sovranità e trascendenza di Dio, “avvolto di luce come di un manto” (Sal 104,2) - avvicina la Donna alla figura di Sion, che sarà “rivestita di magnificenza” (Is 52,1) e “delle vesti di salvezza” (Is 61,10) nel tempo escatologico. Poiché la luna è l’astro su cui si misurano i tempi (cf. Gn 1,14-19), il fatto che la Donna abbia la luna sotto i piedi significa che a lei è assicurata la vittoria sull’avvicendarsi delle stagioni: ella, cioè, non soccomberà alle vicissitudini terrene. La corona di dodici stelle, infine, richiama sia le tribù dell’antico Israele (cf. il sogno di Giuseppe in Gn 37,9), che “i dodici apostoli dell’Agnello” (Ap 21,10.12.14), fondamento della nuova Gerusalemme. Questo insieme di simboli autorizza a vedere nella Donna il popolo di Dio delle due alleanze, l’Israele dell’attesa e la Chiesa dell’avvento messianico. Come quello della Donna, il destino del Popolo dell’alleanza sarà segnato dalla lotta col Drago, di cui certamente il dramma della divisione è un frutto.

La Donna partorisce “un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro” (v. 5): è la madre del Messia, generato nel dolore come indica il fatto che la Donna “gridava per le doglie e il travaglio del parto” (v. 2). Il Figlio è oggetto della feroce avversione del Drago (cf. v. 4b), del quale tuttavia sarà vittorioso, come mostra il fatto di essere “subito rapito verso Dio e verso il suo trono” (v. 5). Il parto doloroso congiunto all’immediata esaltazione è chiara figura del mistero pasquale: è peraltro propria del quarto Vangelo l’immagine del parto applicata al passaggio dalla tristezza alla gioia dei discepoli nell’esperienza della morte e resurrezione del Signore: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,21-23; cf. pure At 13,32-34).

Tenendo conto del duplice simbolismo della Donna e del parto, il messaggio di Apocalisse 12 può allora formularsi così: la Chiesa, nuovo Israele, nell’attuarsi della sua missione nel tempo, conosce le doglie ed è oggetto degli attacchi del Drago, di cui sono segno evidente non solo le persecuzioni dall’esterno, ma anche e specialmente le divisioni interne, frutto del peccato e dell’ostinazione in esso. Come, però, il suo Signore è stato vincitore della morte e dell’Avversario diabolico con la sua Pasqua, così la comunità messianica non soccomberà alla prova e sarà salvata dalla potenza di Colui, che è già presso il trono di Dio. Il trionfo pasquale del Figlio della Donna è anticipo e promessa del trionfo escatologico della Chiesa, anche se essa vive al presente la sua missione fra le doglie e il travaglio del parto, attraversando il suo “deserto”, che è tempo di prova e di grazia analogo a quello dell’esodo di Israele. L’azione del discepolo per realizzare il disegno di unità che Dio Padre ha per la Sua Chiesa può essere pertanto sostenuta da una speranza più forte di ogni disincanto e di ogni sconfitta.

Nella Donna, che genera il Messia Re, può essere vista anche la figura concreta di Maria, la Madre di Gesù, chiamata col titolo di Donna da Giovanni sia quando parla della sua presenza presso la croce (Gv 19,25-27), sia nel racconto delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12). Questo riferimento conferma come nella Chiesa delle origini la figura della Madre di Gesù era evocata quale densa immagine della vocazione e della vicenda dell’intero popolo di Dio e avvertita come motivo di conforto e di speranza di fronte al dolore presente. In questa luce è possibile leggere anche meglio il valore dell’ambiente in cui si svolge la drammatica lotta: il deserto. Combinando i significati vetero-testamentari del deserto a quelli legati alla figura della Donna - che è inseparabilmente la Chiesa e Maria - è possibile individuare quattro condizioni rilevanti per la vita e la missione del popolo di Dio, in particolare per il servizio alla causa dell’unità dei cristiani. Si delinea una spiritualità caratterizzata dall’ascolto contemplativo della Parola di Dio, dalla carità perseverante sotto la Croce, dalla fiducia incondizionata nella fedeltà divina e dalla speranza più forte di ogni delusione o apparenza contraria nella realizzazione della preghiera di Gesù “che tutti siano uno”.

Il deserto nella Bibbia è anzitutto il luogo della memoria dellamore e dellascolto della Parola dell’Amato: secondo quanto è detto nel libro del profeta Geremia, esso richiama il primo amore fra Dio e il suo popolo: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (2,2). Al tempo stesso, il deserto (in ebraico: “midbar”) è simbolo dell’ascolto accogliente della Parola (in ebraico: “dabar”), la sola forza che può trasformarlo nel meraviglioso giardino della nuova creazione: perciò, al centro della fede ebraica c’è l’ascolto - lo “shema” -, il silenzio accogliente in cui la Parola viene, come in un silenzioso deserto, a suscitare la vita. Secondo la meditazione dei Padri, Maria è il “deserto fiorito”: in quanto Vergine dell’ascolto ella è il silenzio in cui risuona la Parola di Dio, il “deserto” delle possibilità umane che si lascia totalmente abitare e plasmare dalla Grazia. Riconoscendosi nella Donna dell’Apocalisse condotta nel deserto e riconoscendo parimenti in essa la Vergine Maria come suo modello, la Chiesa apprende a “fare deserto”, a vivere cioè l’ascolto religioso e fecondo della Parola di Dio, da porre alla base della sua missione. Si profila così il primo tratto di una spiritualità che aiuti il popolo di Dio a sostenere la battaglia escatologica e essere vittorioso nella vittoria divina: il primato della dimensione contemplativa della vita spesa al servizio della causa dell’unità e nutrita dall’ascolto perseverante della Parola di Dio, come sorgente che sempre di nuovo convoca la Chiesa e la unifica nella comunione della fede e del servizio.

Il deserto è poi percepito nella Bibbia come il luogo della prova: nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (8,14-16). Queste parole evocano le prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma si adattano anche alla terribile prova della lotta che secondo l’Apocalisse si scatena nel deserto contro la Donna da parte della Bestia. A sua volta, la donna Maria ha conosciuto la prova della fede (cf. la spada di cui parla Lc 2,35), fino ai piedi della Croce (Gv 19,25-27). Da Lei la Chiesa impara a sostenere la prova, fiduciosa in Dio e nella sua fedeltà, attraversando il deserto in tutta la sua ambiguità di luogo di rifugio e di spazio della lotta, dove si sperimenta la protezione dell’Altissimo e la ferocia del Drago. Da questa ricchezza simbolica, viene alla Chiesa la consapevolezza di non poter vivere la propria missione fino al tempo della fine senza essere sottoposta alla crisi ed alla prova, ma le giunge anche la certezza che il Dio che ha salvato la Donna nel deserto custodirà e salverà anche Lei, Madre nella grazia dei figli resi tali nel Figlio. Una spiritualità ecumenica, protesa al superamento delle lacerazioni che l’azione del Drago induce nella vita della Chiesa, è in tal senso anche un cammino sotto la Croce, che sa vivere ed offrire le prove come prezzo dell’amore per la causa dell’unità voluta dal Signore.

Continuando a percorrere la tradizione biblica, il deserto si presenta come il luogo della fedeltà divina: è ancora il Deuteronomio ad assicurarci che nel deserto Israele fa esperienza della fedeltà dell’Altissimo: “Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero” (32,10-12). Come Israele, così la Donna dell’Apocalisse sperimenta nel deserto la tenerezza della protezione divina, la fedeltà dell’Eterno all’alleanza. A sua volta, la Madre del Messia, la donna Maria, canta le meraviglie del Dio fedele: il Suo Magnificat ci insegna a credere nell’impossibile possibilità di Dio in ogni situazione. Da questo insieme di significati risulta per la Chiesa la certezza di non essere mai lasciata sola nella prova legata alla sua missione: il suo Signore è per lei il custode, che manifesta proprio nelle sfide dell’azione missionaria le riserve inesauribili della fedeltà al suo popolo. La spiritualità ecumenica si fonda sulla certezza della fedeltà di Dio, che non abbandona mai chi in Lui confida e porta a compimento le sue promesse, a cominciare da quella della finale riconciliazione di ogni creatura in Cristo, perché sia Lui a consegnare tutto al Padre e Dio sia tutto in tutti.

Il deserto, infine, è nella concezione biblica il luogo della sete del volto di Dio: il Salmo 63 lo testimonia: “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (vv. 2.7-8). Nel Salmo 143 il deserto è simbolo dell’attesa di Dio: “A te protendo le mie mani, sono davanti a te come terra riarsa” (v. 6). La Donna dell’Apocalisse è portata nel deserto per esservi nutrita dall’Eterno, segno di una fame e sete che solo Lui può colmare. Maria, la Madre di Gesù, è la credente che cammina verso il Volto nascosto e ci insegna a desiderare sempre la visione del Volto divino con fede umile e abbandonata all’Altissimo. Da questa simbologia ricchissima, la Chiesa impara a vivere la propria missione nel segno della sete di Dio, attraversando il deserto del tempo nella ricerca del Suo Volto, che solo sazia l’attesa, contagiando agli uomini questa sete salutare, di cui l’arsura del deserto è metafora. Una spiritualità ecumenica vuol dire in questa luce l’incessante sete dell’unità voluta dal Signore e invocata da chi si pone nella Sua sequela e la speranza, più forte di ogni delusione o apparenza contraria, nel compimento della preghiera di Gesù affinché tutti siano uno. La spiritualità ecumenica è spiritualità della speranza!

La ricchezza dei simboli condensati nella figura della Donna dell’Apocalisse e della lotta di Lei e del Figlio suo con la Bestia sullo sfondo del deserto converge dunque per far riconoscere alla Chiesa la sua vocazione di popolo dei pellegrini in cammino verso la patria fra le immancabili prove, di cui la prima e forse la più dolorosa è proprio quella della divisione che può determinarsi al suo interno. Chiamata ad attraversare il deserto del tempo con lo sguardo rivolto all’ultimo tempo ed ai segni anticipatori di esso, la Chiesa contempla Maria, Madre del Signore, Donna dell’ottavo giorno, e, confidando nella sua vicinanza materna, Le chiede aiuto per vivere la sua missione di Chiesa della speranza, testimone credibile della carità e della fede, al servizio dell’unità che Cristo vuole, come e quando egli la vorrà. “La dolce Madre di Dio - invoca Lutero all’inizio del Commento al Magnificat da lui scritto nel 1521 - mi procuri lo Spirito, affinché io possa spiegare con giovamento e bene questo suo canto, in modo che tutti ne possiamo trarre un’intelligenza che ci porti alla salvezza e a una vita degna di lode, sì che poi nella vita eterna possiamo celebrare e cantare questo eterno Magnificat”. “Che questo canto - prega ancora il Riformatore in chiusura del suo commento - non soltanto illumini e parli, ma arda e viva nel corpo e nell’anima. Cristo ce lo conceda per l’intercessione e il volere della sua diletta madre Maria!”.

* Arcivescovo di Chieti-Vasto

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