Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lezione Decima

L’economia salvifica nel culto d'Israele

 

 

Introduzione

La comunità d’Israele era talmente convinta dell’importanza del culto e della liturgia, in quanto espressione della vita di fede e del rapporto particolare di Dio con il suo popolo, da ritenere il servizio liturgico (abodah) come una delle tre cose su cui poggiare il mondo:

«Shimon il giusto, era uno degli ultimi membri della Grande Assemblea. Egli soleva affermare: su tre cose poggia il mondo: sulla Torah, sul servizio divino (abodah) e sulle opere di carità» (Mishnah, Pirqué abot, 2, ed A.A. Piattelli, Massime dei Padri, Roma, p. 10).

Dio prende l’iniziativa della salvezza. Ogni atto salvifico, che comporta un aspetto nuovo nella rivelazione, viene ad arricchire e consolidare il legame tra Dio e il suo popolo (alleanza), ed è registrato nella Parola.

Non temete chi uccide il corpo

di Giovanni Vannucci




La parola di Cristo scende nei profondi recessi dell’anima umana, e vi compie la trasformazione dell’uomo, la carne riceve la parola e la parola fa fiorire la carne. Ogni cellula della carne vibra di nuova vita, appare l’uomo nuovo e in lui tutto è annuncio. I due momenti sono essenziali: ascoltare nel silenzio, nell’oscurità del proprio essere la parola; quando nell’uomo tutto si dischiude alla vita della parola allora, e solo allora, può annunciare all’aperto quello che nell’oscura trasformazione del suo essere è stato compiuto dalla parola. Ogni discepolo è chiamato a vivere il mistero dell’incarnazione della parola, non a gustare lo zucchero ma a divenire lui stesso zucchero. Se questo non è compiuto, il suo annuncio viene inquinato dalle parti irredente del suo essere.

Fintantoché la Parola incarnata non ha posto radici in tutto il nostro essere, l’annuncio della parola evangelica è inquinato. Chi ha sperimentato la Parola, e ad essa si è offerto totalmente, può parlarne «sui tetti e sulle piazze», perché allora diviene tutto Parola. Nessuno può parlare dell’elefante se non l’ha ancora visto, si riferirà sempre a ciò che ha letto, a ciò che gli è stato riferito da altri. La Parola evangelica è via, verità, vita. Via che va percorsa, verità che va scoperta, vita che, se non è vissuta, diventa una dannosa verbosità. Pronunciare delle parole sulla Parola senza la corrispondente esperienza, riunire intellettualmente delle parole non vissute, deforma e inquina l’annuncio. Gli Evangeli suggeriscono continuamente di sperimentare la Parola. «Sperimentate la Parola, non limitatevi ad ascoltarla, ingannandovi con falsi ragionamenti» (Gv 1,22). «Chi ascolta le mie parole e non le sperimenta nella pratica sarà come un insensato che costruisce la sua casa sulla sabbia» (Mt 7,26). Il peccato di Pietro fu l’aderire rapidamente al senso letterale delle parole del Maestro e il diffondersi in parole che non nascevano dall’esperienza; pecca quindi contro la Parola. Quando cammina sulle acque (Mt 14,18), quando riprende il Signore (Mt 16,22 e 8,32), alla lavanda dei piedi (Gv 13,6), parla prima di avere sperimentato la Parola. Nel triplice rinnegamento non pecca tanto per essersi eclissato, ma per le parole: «Io non sono del gruppo dei discepoli» (Mc 14,71); Pietro si è lasciato trascinare dalle parole, pecca pronunciando delle parole che non nascono dal profondo silenzio dell’esperienza. Forse anche l’annuncio odierno della Parola è lontano dalla terra del vissuto e si dissolve in una fumosità di parole.

Il discepolo che diviene tutto Parola, si troverà in un mondo che lo beffeggia, lo emargina, lo uccide. «Non temete quelli che uccidono il corpo, temete colui che può far perire e l’anima e il corpo nella geenna» (Mt 10,28). Chi può far perire l’anima se non la tendenza alla superficialità e alla verbosità che ci caratterizzano come uomini? Nel Canone della Messa diciamo: per Cristo, con Cristo, in Cristo. Per Cristo è finalizzare la nostra vita alla Parola incarnata, ma non basta, un ulteriore passo ci è richiesto: sperimentare la Parola come unica compagna della nostra vita; anche questo non ci è sufficiente, dobbiamo vivere, fonderci nella Parola, divenire una sola cosa con Lei. Allora non ne gusteremo più il sapore, saremo anche noi la dolcezza della Parola. L’annunciatore sarà allora come il Maestro, perfetto come il Padre che è nei cieli. Vivrà l’amore pieno e libero che ama non perché è amato, perché l’amore è la stessa natura di Dio. Chi ama secondo la carne e il sangue, non fa nulla di diverso dal bruto, la cavalla ama il suo puledro, la cagna il suo cucciolo; chi ama nella completa trasformazione del suo essere, ama come il Padre stesso sa amare.

(in Giovanni Vannucci, «Non temete chi uccide il corpo», 12a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 121-122).

Una breve rivisitazione di modelli cristologici a duemila anni dalla nascita di Cristo.

 

Sulle tracce di Bob Dylan, Abraham Ifrah ha trovato sulla sua strada alcuni discepoli di rabbi Nahman. Il rav Ifrah è oggi uno dei maestri più apprezzati del chassidismo.

IL MONTE ATHOS

Dalla terra al cielo

di Jean-François Colosimo


“Talanton, tatalanton, tatatatalanton…”. Nella notte fonda il martelletto urta, risalta, danza sul legno della simandra. È così, dice la tradizione, che Noè convocò gli animali nell’arca. È così, dice la regola, che i fratelli sono chiamati a riunirsi in chiesa.

Giovedì, 14 Giugno 2007 01:30

La preghiera dell'Africa (Patrice Jean Ake)

Dobbiamo scendere negli inferi della sofferenza con i nostri fratelli e sorelle

La preghiera dell'Africa

di Patrice Jean Ake



A partire dal settembre 2002, la Costa d’ Avorio, terra di speranza - stando a quanto dice anche il nostro inno nazionale - è entrata in una guerra che non è ancora terminata. In questo sfacelo, molti ivoriani continuano a credere che le elezioni si terranno, che l’economia rifiorirà e che la Costa d’Avorio risusciterà, come ha preconizzato il nostro arcivescovo emerito, mons. Bernard Agré. Anche noi facciamo parte di questo gruppo di persone, anche se riteniamo che queste speranze, gioie, tristezze e angosce debbano essere superate da una speranza più grande, suscitata dal messaggio di salvezza di Gesù Cristo. Il cuore della nostra speranza è la Chiesa, popolo di Dio in marcia che, vivendo di questa speranza, lancia questa sfida al nostro Paese, al nostro continente africano e al mondo intero. E’ dunque la Chiesa che fonda questa speranza che prende in contropiede tutte le visioni afro-pessimiste.

Per questo, partendo dalla crisi ivoriana e cercando di comprenderne le ragioni, cercheremo di vedere che cosa significa speranza - e cosa significa essere testimoni di speranza - in un contesto di crisi, come quello ivoriano e non solo, e per cercare di dire anche cosa i cristiani d’Africa possono affermare in termini di speranza al mondo occidentale.

Al di là di tutto quello che può essere stato detto o scritto sulla crisi ivoriana e sulle cause economiche o politiche, pensiamo che la vera ragione non è stata ancora evocata. La crisi che conosce il nostro Paese ha origine nel fossato che non ha mai cessato di approfondirsi tra ricchi e poveri, a tal punto che la capitale Abidjan, situata a sud, non ha mai smesso di svilupparsi in maniera abnorme, mentre il resto del Paese è rimasto indietro.

Ma più ancora, i privilegiati, che hanno saccheggiato il Paese per lustri, si sono costruiti propri quartieri, ospedali, università, luoghi di divertimento; intanto gli ospedali, le scuole e le università pubblici accolgono i figli dei poveri. E mentre ai rampolli dei ricchi, dopo aver studiato all’estero o in prestigiose scuole locali, viene garantito un posto di lavoro, gli altri perdono il loro tempo a riempire domande di impiego senza alcun risultato.

Quelli che hanno preso le armi in questi anni si dicono «giustizieri» di tutta questa massa di «senza voce» e delle regioni trascurate dallo sviluppo, cercando di prendere con la forza quello che la politica ha rifiutato loro. Ancor più, questi giovani, messi ai margini dal sistema, sono diventati oggi i padroni del gioco politico, senza capirlo fino in fondo, come pure gran parte della popolazione.

Sono disperati e dunque non hanno paura delle armi, ma a ogni tumulto sociopolitico ne approfittano per riversarsi nei supermercati o nei distributori di benzina per saccheggiarli. Oppure distruggono strutture pubbliche come scuole, ospedali, biblioteche o edifici amministrativi, pensando che appartengono ai potenti, e così si illudono di ridurre il fossato che li separa dai ricchi.

Queste situazioni non sono appannaggio dei popoli africani. Gli Stati Uniti d’America, così come le banlieu della grandi città europee, hanno conosciuto recentemente delle sommosse. La ragione è sempre la stessa anche a livello planetario, ovvero il fatto che esistono gravi sperequazioni tra un’élite di ricchi e potenti e una grande massa di poveri. Di qui una guerra che si nutre di terrorismo internazionale e fanatismo, mentre l’Onu appare blindato dai diktat dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, che si sono spartiti il mondo.

Eppure, anche se tutto sembra perduto, una speranza c’è. In Costa d’Avorio, sin dall’inizio di questa crisi, le nostre Chiese non hanno smesso di riempirsi e nelle nostre famiglie la preghiera è sempre presente. Numerosi gruppi di preghiera sono nati, anche se in un contesto apparentemente apocalittico. Questo perché gli ivoriani si rendono conto che tutte le nostre speranze non possono essere soddisfatte se non da una speranza più grande, che è radicata nel messaggio di salvezza di Gesù. Avere speranza, dunque, è andare oltre le legittime attese della popolazione - beni materiali, amore umano, situazione sociopolitica stabile, rilancio economico - per perseguire il bene di tutti.

Sperare solo per se stessi sarebbe segno di un egoismo e di un orgoglio insopportabili. Come testimoni di speranza, laici e persone consacrate, al seguito di Mechtilde de Hackeborn e di Magdebourg, di Teresa di Lisieux e Teresa d’Avila o di Giuliana di Norwich, hanno desiderato donare la loro vita affinché i loro concittadini potessero essere salvati. Queste persone pregano per i peccati dei loro fratelli e sorelle, li guardano con amore senza condannarli. Essere testimoni di speranza è avere un amore ardente della croce, il desiderio di soffrire con Gesù per salvare l’umanità. In questo contesto di crisi, essere testimoni di speranza significa scendere agli inferi con i nostri fratelli e sorelle, per incontrare tutti coloro che hanno le mani sporche di sangue, responsabili di uccisioni e barbarie di ogni genere, e di orrende violenze sulle donne stuprate, sventrate, infettate di malattie terribili. Dobbiamo portare le sofferenze di questi traumi e implorare Cristo di non abbandonarci nella morte. Non possiamo che pregarlo perché dopo questa terribile traversata ci attenda sull’altra riva. In questo contesto, la voce che noi come Chiesa ivoriana possiamo inviare alla Chiesa universale non può che essere un messaggio di speranza. L’inno del nostro Paese saluta la Costa d’Avorio come una terra di speranza. Questo saluto è stato tradotto nel linguaggio del popolo nella formula: «Lo scoraggiamento non appartiene agli ivoriani». E poi, oltre alla speranza, c’è l’ospitalità: «Paese dell’ospitalità», dice il nostro inno. Di fronte all’egoismo generalizzato nel nostro mondo, ci auguriamo che tutti i Paesi, anche l’Italia, possano essere terra d’accoglienza per tutti coloro che vogliono venirci in cerca di un po’ di felicità, e che gli italiani comprendano che la Terra e tutte le sue ricchezze appartengono a Dio e che noi dobbiamo condividerne i beni, affinché il fossato tra ricchi e poveri si assottigli. Se ci rendiamo conto di questo, non erigeremo muri di filo spinato tra le nazioni, non vivremo più con la paura di prendere l’aereo, ma ogni uomo si sentirà a casa sua su questa Terra, dove vivremo tutti come fratelli e sorelle.

* Docente di Filosofia, Università cattolica di Abidjan

(da Mondo e Missione, Ottobre 2006)

La lotta del Segretariato per l’unione dei cristiani sotto il cardinale Bea per una dichiarazione De Judaeis, culminata con successo nel documento conciliare Nostra aetate, ha prodotto frutti ricchissimi.

Giovedì, 14 Giugno 2007 01:08

A partire dalla tolleranza (Avery Dulles)

LE RELAZIONI TRA LE RELIGIONI

A partire dalla tolleranza

di Avery Dulles

Le relazioni fra le varie religioni del mondo sono state spesso ostili, e in molti luoghi lo restano tuttora. Prendendo in mano un quotidiano, difficilmente possiamo evitare di imbatterci in articoli su conflitti fra ebrei e musulmani, fra musulmani e indù, fra indù e sikh o fra musulmani e bahai. In un qualche periodo storico ognuna di queste religioni si è scontrata con il cristianesimo. Il cristianesimo, da parte sua, ha ampiamente contribuito a tensioni e conflitti interreligiosi. I cristiani hanno perseguitato gli ebrei e hanno organizzato guerre sante contro i musulmani. In seno al cristianesimo vi sono state guerre micidiali, specialmente fra protestanti e cattolici, ma a volte anche con gli ortodossi. Scontri del genere continuano, ad esempio, in Irlanda del Nord, anche se non sarebbe giusto presentare la Chiesa cattolica come belligerante in questo conflitto, poiché le sue autorità hanno disapprovato la violenza da entrambe le parti.

Dal punto di vista americano, non siamo assolutamente interessati a una guerra contro l’islam. Il nostro paese è ospitale nei riguardi dei musulmani, che costituiscono oltre un milione della sua popolazione. Essi godono di una piena libertà di culto in tutto il Nord America e in tutta l’Europa occidentale. Una nuova crociata non sarebbe sostenuta da nessuna delle grandi potenze dell’Occidente e non avrebbe certamente la benedizione delle autorità religiose cristiane. Il nostro scontro con Osama bin Laden riguarda unicamente la sua politica della violenza, che non sembra accordarsi con i principi fondamentali del vero islam.

Da parte araba, la religione è un elemento presente, ma estremisti musulmani come bin Laden sembrano operare per fini culturali, politici, etnici ed economici più che puramente religiosi. Essi ce l’hanno con il potere degli Stati Uniti e dei loro alleati, che considerano arroganti e brutali. E, più profondamente, provano un senso di ripugnanza verso quella che ritengono essere la cultura dell’Occidente. Non ce l’hanno in primo luogo con il cristianesimo in quanto religione, quanto piuttosto e soprattutto con quella che considerano la perdita della religione in Occidente: il suo eccessivo individualismo, la sua pratica licenziosa della libertà, il suo materialismo, il suo consumismo improntato alla ricerca del piacere e del divertimento. Essi vedono in questa cultura edonistica una minaccia, poiché esercita una forte seduzione su molti giovani delle società tradizionalmente islamiche dell’Asia, dell’Africa e di altri continenti.

Se questa analisi è corretta, la globalizzazione potrebbe essere considerata la causa soggiacente al conflitto in Afghanistan. I moderni mezzi di trasporto e di comunicazione mettono a contatto culture che si sono sviluppate in modo relativamente autonomo nelle varie parti del mondo. L’incontro provoca una sorta di trauma culturale, specialmente in paesi che non sono passati attraverso quel graduale processo di industrializzazione e modernizzazione che è intervenuto in Occidente due secoli fa.

Ora i cristiani del Nord America e dell’Europa occidentale sono abituati ad avere rapporti con ebrei, musulmani, indù, buddhisti e membri di qualsiasi altra religione. Attualmente, in presenza di un’immigrazione su larga scala e di una generalizzata disponibilità dei moderni mezzi di comunicazione, nessuna religione può più pretendere di esercitare il proprio dominio esclusivo su una determinata regione e di proteggere i propri seguaci dal contatto con altre fedi. Piaccia o non piaccia, siamo in genere destinati a vivere in società religiosamente miste, comprendenti persone di varie fedi e anche persone che non praticano alcuna fede.

Perciò, dobbiamo discutere i modi in cui le varie religioni possono relazionarsi fra loro. Vorrei proporre una tipologia comprendente quattro possibili modelli: coercizione, convergenza, pluralismo e tolleranza.

Il primo modello, quello della coercizione, ha predominato nella maggior parte della storia umana. In molte epoche storiche le autorità politiche hanno voluto imporre un’unica religione nei territori sottoposti alla loro giurisdizione e costringere le popolazioni sottomesse ad adottare la religione del conquistatore. Per un certo periodo l’Impero romano ha accettato il pluralismo religioso, ma ben presto gli imperatori hanno cominciato a pretendere per sé onori divini. Così sono giunti a perseguitare quelle religioni, come il cristianesimo, che rifiutavano un tale culto. Quando l’Impero ha adottato il cristianesimo come religione ufficiale, gli imperatori hanno incominciato a imporre l’ortodossia cristiana e a perseguitare tutte le altre religioni, comprese le forme dissidenti del cristianesimo. Il modello di un’unica religione per uno stesso stato è rimasto il modello normativo anche dopo la Riforma e fin nella prima parte dell’epoca moderna. Le terribili guerre e persecuzioni del XVI e XVII secolo sono state in gran parte dovute all’idea che ogni stato doveva avere una sola religione, quella del suo sovrano (cuius regio eius religio).

In questa situazione, le guerre fra gli stati sono diventate spesso, sotto un altro aspetto, guerre fra religioni. Le crociate illustrano molto bene questa realtà. Pur essendo normalmente presentati come aggressori, in realtà gli europei hanno condotto in gran parte un’azione militare difensiva. Gli arabi e i turchi hanno conquistato la Siria, il Nord Africa e ampie aree del territorio europeo, fra cui il Portogallo, la Spagna, la Francia meridionale, regioni dell’Italia e della Svizzera in Occidente e i Balcani, l’attuale Iugoslavia e l’Ungheria in Oriente. L’avanzata delle forze musulmane ha comportato ovviamente la diffusione dell’islam in quanto religione e la loro ritirata ha comportato, il più delle volte, la cristianizzazione forzata dei territori da essi perduti, come si può vedere nel caso della Spagna del XV secolo, che ha espulso tutti gli ebrei e i musulmani che non accettavano di convertirsi al cristianesimo.

Nell’attuale situazione di «villaggio globale» è difficile mantenere il modello della coercizione. In seguito alle sanguinose «guerre di religione», l’Europa e gli Stati Uniti hanno imparato la lezione e si sono resi conto che i costi erano eccessivi. Dal punto di vista della teologia cristiana, il tentativo di convertire le persone con la spada è insostenibile. Protestanti e cattolici hanno imparato che l’adesione alla fede deve essere un atto libero e non imposto. I passati tentativi di costringere le persone a convertirsi sono serviti a screditare la religione e hanno favorito la diffusione dell’indifferentismo e di atteggiamenti a-religiosi.

Senza dubbio esistono ancora nel mondo governanti che cercano di imporre l’uniformità religiosa. Sono vicini molesti e vere minacce alla pace mondiale. Dal punto di vista cristiano, le loro politiche coercitive vanno disapprovate. Ritengo che con il passare del tempo riconosceranno che le loro politiche sono sbagliate. Infatti, come ho detto, dati i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione, diventa molto difficile impedire lo sviluppo di varie comunità religiose in ogni regione del mondo. Anche se alcuni governi autoritari possano contrastare la penetrazione di altre fedi, come avviene attualmente in certe regioni musulmane, induiste e buddhiste, alla fine le barriere saranno sfondate e crolleranno. Presto o tardi le popolazioni che sono state costrette ad adottare la religione dei loro governanti chiederanno la libertà di seguire la propria coscienza e testimoniare le proprie autentiche convinzioni religiose.

Nonostante le battute d’arresto e le ricadute, l’onda della storia ha favorito la libertà religiosa. L’Unione sovietica non è riuscita a imporre la propria ideologia atea per più di settant’anni. La coercizione religiosa sopravvive solo in nazioni che sono giunte molto tardi alla modernità. Essa è promossa da estremisti che avvertono la necessità di ricorrere a misure disperate per salvare la propria concezione teocratica dello stato.

Il secondo modello di relazione fra le religioni è quello della convergenza. Convinti che l’impulso religioso è essenzialmente lo stesso in tutte le persone e in tutti i popoli, certi studiosi affermano che le religioni concordano negli aspetti essenziali e che le loro differenze sono solo esteriori. Negli anni settanta John Hick, fra gli altri, ha affermato che le religioni potevano accordarsi sulla base del teocentrismo e riconoscere che le loro differenze riguardo ai mezzi della salvezza erano culturalmente condizionate. (1) Ma il teocentrismo non è una piattaforma soddisfacente per il dialogo con molte religioni, che sono politeiste, panteiste o atee. Anche le religioni chiaramente teiste, come l’ebraismo, l’islam e il cristianesimo, non vogliono rinunciare alle loro convinzioni riguardo alla via per giungere a Dio, sia essa la legge di Mosé, il Corano o Gesù Cristo.

Perciò, abbandonando l’idea teocentrica della convergenza religiosa, vari studiosi hanno adottato recentemente quello che essi chiamano il modello «soteriocentrico». (2) Essi affermano che tutte le religioni concordano sul fatto che lo scopo della religione è dare la salvezza o la liberazione, che esse intendono in modi diversi, probabilmente a causa della varietà delle culture. E ritengono che mediante il dialogo sulla liberazione le religioni potrebbero superare le loro reciproche divisioni.

Queste teorie della convergenza partono dal presupposto che tutte le religioni, perlomeno nei tratti che le differenziano, sono costruzioni umane, incerti tentativi di esprimere il mistero sacro e trascendente che circonda l’esistenza umana. Ma questa teoria contraddice l’insegnamento ufficiale e l’identità storica delle religioni e incontra delle resistenze da parte delle persone autenticamente religiose, le quali affermano che la loro fede specifica è vera, anzi divinamente rivelata. I cristiani ritengono che dottrine centrali della loro fede, come la Trinità e l’Incarnazione, fanno parte della rivelazione e non possono essere sacrificate per conseguire una qualche ipotetica riconciliazione. Gli ebrei aderiscono appassionatamente alla legge di Mosé e alla tradizione rabbinica. I musulmani, da parte loro, considerano il Corano la rivelazione definitiva di Dio e vedono in Mohammed il maggiore e l’ultimo dei profeti. La soteriologia è un fattore di divisione, perché le religioni sono fortemente discordi sulla via della salvezza. Perciò, come rimedio alla disunione il soteriocentrismo non promette nulla di più del teocentrismo.

Il terzo modello d’incontro religioso è quello del pluralismo. Con questo termine non mi riferisco solo alla molteplicità delle religioni, ma all’idea che essa rappresenti una benedizione. Si afferma che ogni religione riflette determinati aspetti del divino. Questi aspetti sono tutti parzialmente veri, ma hanno bisogno di essere integrati e controbilanciati dagli elementi di verità che si trovano nelle altre religioni. La coesistenza di tutte le religioni cancella gli errori e supera i limiti di ciascuna di esse presa singolarmente. Come affermava nel IV secolo il retore Simmaco nella sua discussione con sant’Ambrogio: «È impossibile che ci si possa avvicinare a un mistero così grande percorrendo una sola strada». (3)

Questo approccio esercita un certo fascino sui relativisti, i quali affermano che la mente umana non può raggiungere la verità oggettiva e che la religione è espressione di sentimenti puramente soggettivi. Ma esso non convince i credenti ortodossi, i quali sostengono che le dottrine della propria religione sono oggettivamente e universalmente vere. Il cristianesimo sta e cade con l’affermazione che vi sono realmente tre persone in Dio e che la seconda, il Figlio eterno, si è incarnata in Gesù Cristo. I cristiani non hanno difficoltà a riconoscere l’esistenza di elementi di verità e di bontà in altre religioni, ma non smettono di insistere sulla necessità di trasmettere a tutti i popoli la rivelazione di Dio in Cristo. Allo stesso modo, gli ebrei e i musulmani impegnati considerano le loro religioni come divinamente rivelate e rifiutano ogni tentativo di porre tutte le religioni sullo stesso piano.

Naturalmente, questa risposta negativa non significa che i seguaci delle diverse religioni non abbiano nulla da imparare gli uni dagli altri. Il cristianesimo si è sviluppato lungo i secoli entrando in contatto con una grande varietà di filosofie e di religioni, che hanno permesso ai cristiani di scoprire nella loro fede implicazioni che altrimenti non avrebbero riconosciuto. Il cristianesimo cresce come un organismo che assume il cibo dall’ambiente in cui vive e lo assimila in se stesso. Non ammette la validità di dottrine e pratiche che contraddicono la sua auto-comprensione. Come vedremo fra poco, il dialogo può accrescere il reciproco rispetto delle diverse religioni, ma l’esperienza non offre alcun motivo per ritenere che esso induca a concludere che tutte le religioni sono ugualmente buone e vere. Sui punti in cui si contraddicono a vicenda, perlomeno una di esse deve essere errata.

E veniamo alla quarta opzione, quella che io chiamo della tolleranza. Tolleranza non equivale ad approvazione, anche se in genere comprende un qualche grado di approvazione. Noi tolleriamo cose che non riteniamo nemmeno accettabili, perché non riusciamo a eliminarle o perché la loro soppressione sarebbe in se stessa un male. Nel XVIII secolo, il principio della tolleranza – come viene espresso, ad esempio, da John Locke nella sua famosa Lettera sulla tolleranza – è stato generalmente accettato in molti paesi dell’Europa occidentale.

Quel principio ha giocato un ruolo fondamentale nell’esperimento americano della libertà ordinata. Nel nostro paese abbiamo avuto fin dall’inizio una grande varietà di denominazioni cristiane che si consideravano reciprocamente nell’errore. L’ordinamento politico americano non ha richiesto loro di approvare le reciproche dottrine e pratiche, ma ha preteso che rinunciassero a ogni iniziativa volta a costringere i membri di altre denominazioni a concordare con esse. Nel corso del tempo la scena religiosa è diventata sempre più varia. Oggi, essa contiene un numero molto maggiore di varietà di cristianesimo rispetto a quelle che erano presenti all’inizio. Inoltre, il paese ha accolto sulle sue coste moltissimi ebrei, musulmani, buddhisti e indù. E tuttavia, a parte qualche rara eccezione, tutti questi gruppi religiosi vivono pacificamente insieme, senza interferire nella dottrina, nella vita e nel culto degli altri. L’esperimento americano ha funzionato abbastanza bene, per cui può rappresentare un possibile modello per la comunità internazionale, che in questi tempi sta sperimentando le doglie del parto.

Anche se il termine «tolleranza» non ricorre molto nell’insegnamento ufficiale cattolico nel corso degli ultimi cinquant’anni, questo quarto modello è, a mio avviso, quello che corrisponde meglio alla dottrina del magistero. Nel 1953, in un importante discorso, Pio XII ha affermato che nella comunità mondiale che allora stava nascendo, la Chiesa cattolica non pretendeva di avere un posto privilegiato o di essere riconosciuta come religione istituita. Essa chiedeva unicamente che alle varie religioni fosse concessa la piena libertà di insegnare le proprie convinzioni e praticare la propria fede. (4) Nella dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane e nella Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, il concilio Vaticano II ha assunto questo modello come un modello adatto ai singoli stati-nazione.

Il concilio Vaticano II rinuncia espressamente al ricorso a ogni sorta di coercizione, sia essa fisica o morale, affinché altri entrino nella Chiesa cattolica. Esso insegna che si deve riconoscere e rispettare la libertà religiosa di tutti i cittadini e di tutte le comunità religiose, anche là dove l’ordinamento giuridico attribuisce uno speciale riconoscimento a una determinata religione (cf. Dignitatis humanae, n. 6; EV 1/1060). Per la pace della società civile e per l’integrità delle stesse religioni è essenziale promuovere un clima di reciproca tolleranza e reciproco rispetto.

A volte il concilio Vaticano II è stato frainteso, ritenendo che esso avesse adottato il modello pluralistico e rinunciato alle pretese esclusive del cristianesimo. (5) In realtà, il concilio ha insistito sull’unica verità della fede cattolica e sul dovere di tutti di cercare la vera religione e abbracciarla una volta trovata (cf. Dignitatis humanae, n. 1; EV 1/1043).

Il concilio Vaticano II ha proclamato una cristologia molto elevata. Ha insegnato che Dio ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero (cf. Lumen gentium, n. 17; EV 1/327) e che egli è «il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (Gaudium et spes, n. 45; EV 1/1464). Il Concilio cita Paolo, secondo cui il disegno dell’amore di Dio è quello di «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Gaudium et spes, n. 45, che cita Ef 1,10; EV 1/1464).

In base alla sua alta cristologia, il concilio Vaticano II si è premurato di insistere sull’unica mediazione di Cristo e di sottolineare l’importanza permanente dell’attività missionaria. Riconoscendo in Cristo il redentore del mondo, il Concilio ha invitato i cristiani a diffondere il più ampiamente possibile il Vangelo. Non conoscere il Vangelo o negarlo equivarrebbe a trascurare o rifiutare il maggiore dono fatto da Dio all’umanità. Mediante il suo dinamismo interno, la Chiesa tende a diffondersi e ad accogliere nel suo grembo membri di ogni razza e nazione. Il decreto Ad genteshanno bisogno di Cristo, modello, maestro, liberatore, salvatore, vivificatore» (n. 8; EV 1/1107). sull’attività missionaria afferma che, avendo peccato ed essendo sprovvisti della gloria di Dio, tutti gli esseri umani «

Riguardo alle religioni non cristiane, il Concilio insegna che esse spesso contengono «semi del Verbo» e «raggi di quella divina verità che illumina ogni uomo», ma non insegna che queste religioni sono rivelate o che sono vie di salvezza o che possono essere accettabili alternative al cristianesimo. Naturalmente l’ebraismo detiene un posto speciale fra le religioni non cristiane, poiché la fede di Israele è il fondamento sul quale poggia il cristianesimo (cf. Nostra aetate, n. 4; EV 1/861ss). La Bibbia ebraica conserva un valore perenne in quanto parola di Dio divinamente ispirata e rivelazione di Dio al popolo eletto prima della venuta di Cristo (cf. Dei verbum, n. 14; EV 1/895).

Il Concilio è ben lungi dall’insegnare che le altre religioni sono prive di errori. Esso dichiara che «molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cf. Rm 1,21.25)... Perciò, per promuovere la gloria di Dio e la salvezza di tutti costoro, la Chiesa, memore del comando del Signore che dice: «Predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,16), promuove con ogni cura le missioni» (Lumen gentium, n. 16; EV 1/326).

L’evangelizzazione, secondo l’Ad gentes, purifica i riti e le culture dei popoli «dalle scorie del male e [li] restituisce al suo autore, Cristo, che rovescia il regno del demonio e allontana la multiforme malizia del peccato» (n. 9; EV 1/1109). Queste espressioni significano che le altre religioni non sono assolutamente sostituti adeguati del cristianesimo. Ciò implica che sotto certi aspetti esse possono ostacolare la salvezza dei loro seguaci. In questa misura l’atteggiamento del Concilio nei loro riguardi è un atteggiamento che comporta approvazione limitata e tolleranza.

A volte si pretende che le convinzioni assolute, come ad esempio le affermazioni avanzate dalle sacre Scritture e dai concili a proposito di Gesù Cristo, generino oppressione e violenza. Credo che sia vero il contrario. I leader del movimento antischiavista del XIX secolo e del movimento dei diritti civili del XX secolo, nonché i grandi fautori della non violenza, sono stati generalmente uomini e donne dotati di una forte convinzione religiosa.

Chi non riconosce alcun assoluto morale non dispone di basi abbastanza solide per difendere i diritti umani e la dignità umana. Chi non sa con certezza se la soppressione di una vita innocente sia o meno incondizionatamente vietata, potrà addurre solo deboli motivazioni contro il genocidio e contro la massiccia strage di innocenti che avviene in tutto il mondo nelle cliniche in cui si pratica l’aborto. Ovviamente, è possibile che certe persone che si oppongono all’aborto possano, orientandosi in modo fuorviato, uccidere coloro che praticano l’aborto, ma casi del genere sono rari, e violano anch’essi i principi etici cattolici che vietano agli individui di farsi giustizia da soli.

I cristiani sono tolleranti nei riguardi delle altre religioni, non nonostante la loro assoluta certezza della rivelazione, ma in parte proprio a causa di essa. La rivelazione li assicura che Dio ha creato gli esseri umani a sua immagine come soggetti liberi e responsabili. Essa insegna anche che la fede è per sua natura un atto libero. La Dignitatis humanae afferma chiaramente che i cristiani devono rispettare il diritto e il dovere di tutte le persone di cercare la verità in campo religioso e di aderirvi una volta trovata. Ai credenti deve essere consentito di professare e praticare la propria religione, a patto che, così facendo, non contravvengano alle esigenze di un giusto ordine pubblico.

L’atteggiamento della tolleranza e dell’approvazione limitata, quando è reciproco, apre la strada a varie strategie che possono condurre a una coesistenza pacifica e amichevole. Vorrei ricordare, anzitutto, la strada della conoscenza. Normalmente i vari gruppi religiosi provano un sano stimolo a cercare di conoscere gli altri, incontrandosi nella vita reale e informandosi accuratamente gli uni sugli altri mediante lo studio e la lettura. In una società multireligiosa le persone dovrebbero essere educate non solo nella loro fede, ma anche, in qualche misura, nella fede delle persone con cui dovranno interagire. Tutti dovrebbero guardarsi da caricature basate sul pregiudizio e sull’ignoranza.

In secondo luogo, i gruppi possono impegnarsi insieme in alcuni programmi basati su un comune riconoscimento di valori morali fondamentali. Persone appartenenti a fedi diverse hanno delle opportunità di lavorare insieme su obiettivi quali la difesa della famiglia, i diritti dei migranti e dei rifugiati, la diminuzione della povertà e della fame, la prevenzione e la cura delle malattie, la promozione della pace a livello nazionale e internazionale, la tutela dell’ambiente. A causa della loro autorità sulla coscienza dei fedeli, i gruppi religiosi possono offrire forti motivazioni a sostegno di riforme in prospettiva umanitaria.

In terzo luogo, i gruppi possono testimoniare insieme le comuni convinzioni religiose e morali. Molte religioni concordano sull’importanza della preghiera e del culto. Esse incoraggiano la ricerca della santità e combattono contro vizi socialmente dannosi, quali l’ira, il furto, la disonestà, la promiscuità sessuale e l’alcolismo. In una società minacciata dall’egoismo e dall’edonismo, le voci concordi dei leader religiosi possono offrire un importante contribuito all’elevazione del livello della pubblica moralità.

In quarto luogo, in certe occasioni i vari gruppi possono pregare insieme e organizzare celebrazioni interreligiose. Due emblematiche espressioni di questa forma di approvazione limitata sono state le giornate di preghiera per la pace convocate dal papa Giovanni Paolo II nel 1986 e nel 1993. Dopo i terribili avvenimenti dell’11 settembre 2001 si sono tenuti a New York e in altre città molti incontri interreligiosi basati sulla preghiera e sulla riflessione silenziosa.

In quinto luogo, una necessità molto importante, spesso sottolineata dal papa Giovanni Paolo II, è quella della guarigione delle memorie. Basandosi fortemente sulla tradizione, la religione perpetua le esperienze passate della comunità di fede, compresi i suoi momenti di gloria, di sofferenza e di umiliazione. Le ferite inferte anche in un lontano o lontanissimo passato continuano a bruciare e ad alimentare l’ostilità. Se non si affrontano onestamente, le radici del risentimento avvelenano l’atmosfera, per cui si incolpano ingiustamente uomini e donne dei nostri giorni delle malefatte reali o immaginarie dei loro antenati. Per ristabilire l’amicizia, le comunità dovrebbero ripudiare i comportamenti attribuiti ai loro predecessori. È opportuno che esse chiedano perdono per ciò che possono aver fatto i loro predecessori e offrano perdono per le colpe che hanno patito le loro stesse comunità. Giovanni Paolo II ha coraggiosamente imboccato questa strada nei suoi rapporti con altre Chiese cristiane, con gli ebrei e con i musulmani. Queste espressioni di pentimento e di perdono sono un’importante azione interreligiosa.

In sesto luogo, a partire dal concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha posto un forte accento sul dialogo teologico. Paolo VI ha istituito un segretariato speciale, che è diventato poi il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. (6) In questi dialoghi le parti si chiariscono reciprocamente le loro credenze, esplorano strade che permettano di poter vivere amichevolmente insieme, si arricchiscono con le reciproche concezioni e si sforzano di ridurre i disaccordi cercando elementi di convergenza. Questi dialoghi si sono dimostrati molto fruttuosi per il miglioramento delle relazioni fra le varie comunioni cristiane. Essi possono essere molto fruttuosi anche nel campo delle relazioni interreligiose.

Ma per quanto prezioso, il dialogo non è una panacea. Non ci si può aspettare di superare tutti i disaccordi. Dopo aver raggiunto concezioni condivise e aver stabilito delle convergenze, in genere le parti riconoscono che non è possibile raggiungere la piena unità mediante il solo dialogo. Le religioni sono saldamente ancorate a posizioni contrastanti, che non possono abbandonare senza sacrificare la propria identità. Anche se indubbiamente i cristiani possono sperare che i loro partner nel dialogo giungano a riconoscere Cristo come il salvatore del mondo, un tale risultato oltrepassa le attese e gli orizzonti del dialogo in quanto tale. Il dialogo è finalizzato a raggiungere gli accordi che le parti possono concludere nel quadro dei loro specifici impegni religiosi.

A volte si è affermato che il dialogo è un segno di debolezza, poiché implica incertezza circa l’adeguatezza delle proprie posizioni. A mio avviso, il dialogo è invece un segno di forza. Occorre molta sicurezza di sé per ascoltare pazientemente gli altri quando ci dicono perché pensano che abbiamo torto. È facile comprendere il motivo per cui i gruppi che non hanno riflettuto in profondità sulle motivazioni delle proprie credenze rifuggono da un dialogo per il quale non sono preparati.

Abusando del dialogo si possono fare certamente dei danni. Un errore sarebbe quello di trasformarlo in un’occasione di proselitismo, cercando di convertire alla propria fede i partner del dialogo. In questo modo si stravolgerebbe lo scopo del dialogo, che differisce dalla predicazione missionaria. L’errore opposto sarebbe quello di nascondere o rinunciare alle convinzioni del gruppo al quale si appartiene, suscitando così false attese. Naturalmente i partecipanti al dialogo non sono autorizzati a cambiare le dottrine delle loro comunità religiose.

Ma, condotto giustamente, il dialogo è una delle strade più promettenti per un crescente incontro fra le grandi religioni. Non bisogna cominciare dai temi più sensibili e discussi. In genere le parti faranno bene a cominciare dai temi sui quali si può sperare di raggiungere un buon livello di consenso. Nell’enciclica Ecclesiam suam Paolo VI suggeriva di scegliere come temi di conversazione (colloquium) interreligiosa ideali comuni, quali la libertà religiosa, la fratellanza umana, la buona cultura, la beneficenza sociale e l’ordinamento civile. (7)

È possibile dialogare anche su temi più direttamente religiosi, come ad esempio il valore della preghiera e la natura dell’esperienza mistica, che sembrano presentarsi in forme analoghe in varie tradizioni religiose. (8) Si potrebbero immaginare dialoghi molto fruttuosi sulla sofferenza e la felicità, la vita e la morte, la parola e il silenzio. Per i partecipanti il risultato più importante di questi incontri sarà quello di riuscire a conoscersi e a rispettarsi vicendevolmente. L’amicizia fra rappresentanti qualificati delle varie religioni può facilitare il superamento delle ostilità accumulate e a ristabilire la fiducia.

All’inizio del terzo millennio, il dialogo interreligioso non è un lusso. Insieme alle altre cinque strategie che ho raccomandato, esso può essere necessario per prevenire disastrose collisioni fra i principali gruppi religiosi.

Nella crisi attuale, le religioni hanno una grande opportunità di passi oltre l’ostilità e la violenza fra i popoli e promuovere la stima reciproca e una cordiale cooperazione. Ma la posta in gioco è alta. Se le varie comunità religiose rifiutano di adottare programmi di tolleranza e di impegnarsi in un dialogo rispettoso, si corre il grave rischio di ricadere nelle reciproche recriminazioni e nell’odio. Allora si abuserebbe ancora una volta della religione, come è avvenuto già tante volte in passato, per giustificare il conflitto e lo spargimento di sangue. Come ha affermato Giovanni Paolo II in relazione agli avvenimenti dell’11 settembre, «non dobbiamo permettere che ciò che è avvenuto approfondisca le divisioni. La religione non deve essere mai usata come una ragione per il conflitto». (9) I seguaci delle religioni devono essere in prima fila nella costruzione di un mondo nel quale tutti i popoli possano vivere insieme in pace e fratellanza.


Note

1) J. Hick, God and the Universe of Faiths, St. Martin Press, New York 1973; God has Many Names, Macmillan, London 1980. Una buona presentazione della posizione di Hick si trova in P.F. Knitter, No Other Name?, Orbis, Maryknoll (NY) 1985, 146-52 (ed. it. Nessun altro nome?, Queriniana, Brescia 1991).

2) Questa visione è espressa in P.F. Knitter, «Towards a Liberation Theology of Religions», in J. Hick, P.F. Knitter, The Myth of Christian Uniqueness: Towards a Pluralistic Theology of Religions, Orbis, Maryknoll (NY) 1987, 178-200 (ed. it. L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Cittadella, Assisi 1994).

3) Cf. A. Toynbee, Christianity among the Religions of the World, Scribner’s, 1957, 112.

4) Pio XII, allocuzione Ci riesce: AAS 45 (1953), 794-802, specialmente 797.

5) Nell’estate del 2000 la Congregazione per la dottrina della fede ha risposto a questo fraintendimento del concilio Vaticano II nella Dominus Iesus, una dichiarazione sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, Regno-doc. 17,2000,529ss.

6) Il card. Francis Arinze, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha pubblicato un piccolo ma prezioso volume intitolato Meeting Other Believers: The Risks and Rewards of Interreligious Dialogue, Our Sunday Visitor, Huntington Ind., 1997.

7) Paolo VI, Ecclesiam suam, 6.8.1964, n. 112; EE 7/819.

8) Autori come Bede Griffiths e Thomas Merton hanno descritto il modo in cui l’esperienza della preghiera mistica può essere un vincolo d’unione fra i membri delle diverse comunità religiose.

9) Parole pronunciate da Giovanni Paolo II il 23 settembre 2001 in Kazakistan.

L'Eucarestia nella prospettiva Ortodossa

di Vladimir Zelinskij




L'approccio dogmatico ed eccesiologico

“In quanto a noi, il nostro pensiero si accorda con l'Eucarestia, dice S.Ireneo di Lione, - e l'Eucarestia in cambio conferma il nostro pensiero. Noi offriamo à Dio ciò che é Suo, proclamando la comunione e l'unione della carne e dello Spirito poiché come il pane che viene dalla terra, dopo aver ricevuto l'invocazione a Dio, non è più pane ordinario, ma Eucarestia, così i nostri corpi che partecipano dell'Eucarestia non sono più corruttibili, perché hanno la speranza della risurrezione” (“Contro le eresie”).

La speranza della risurrezione si trova proprio nel nucleo del mistero eucaristico nella vita della Chiesa Ortodossa anche se questo centro non è sempre visibile. Si può parlare dell'Eucarestia in modo diverso: dal punto di vista dogmatico, liturgico, spirituale, ecclesiologico, escatologico, ma lo scopo finale, il telos, come dicevano i greci, del discorso, sarebbe sempre lo stesso: la comunione con Dio nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, presente e vivo nei Suoi doni e nel Suo Regno, preparato per noi. Eucarestia nel senso ontologico e dogmatico è la partecipazione alla natura divina (vd. 2 Pt 1,4), nel senso personale e comunitario - la partecipazione liturgica all'Ultima Cena del Signore, nel senso ecclesiale è l'attualizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo, nel senso escatologico è la preparazione per il Giudizio Finale e l’incontro con Cristo. La comunione come avvenimento sacramentale e spirituale è il cuore dell'ortodossia che batte nella sua teoria, come nella sua pratica, nella vita della Chiesa, come nella vita della persona che cerca la sua salvezza.

Fra la pratica e teoria non c’è una linea della demarcazione netta, come questa linea non dovrebbe essere fra la fede e la spiritualità. Dal punto di vista antropologico nella Chiesa Orientale esiste una sorte del primato della contemplazione e della "teoria" sull'azione umana perché il mondo è visto piuttosto come manifestazione del Divino (per la Chiesa Occidentale invece il mondo è piuttosto il risultato dell'azione di Dio). Questa differenza esisteva dall'inizio: I greci ponevano l'accento sull'immagine di Dio nella creazione, i latini vedevano la propria vita come attività, indirizzata verso Dio.

La diversità (naturalmente leggitima) si fa notare anche nel concetto di ecclesiologia. L'ecclesiologia ortodossa si chiama spesso l'ecclesiologia della comunione: la comunione alla SS.Trinità, ma anche la comunione ai santi doni che uniscono fedeli in Cristo. E la comunione mistica dà la sua forma anche alla struttura della Chiesa. Il vescovo (o il sacerdote che lo sostituisce) è in comunione con i suoi fedeli e con gli altri vescovi nei sacramenti e nella preghiera. L'ecclesiologia non è una pura logia, ma - sapienza - saggezza - salvezza. E la conoscenza della vita nella Chiesa può aiutare a portarci sul cammino della salvezza che si trova nella comunione con Dio.

"La Chiesa, - secondo la definizione del teologo russo Alexej Chomiakov (1804-1860), - è la vita di Dio fra gli uomini". Ma che cos'è la salvezza come vita di Dio? “Fra gli uomini", "nel mezzo di uomini", "dentro gli uomini" la vita di Dio vuol dire: "la santità". Siamo sempre al confine del mistero che vive in noi. Il mistero della fede e della presenza reale di Dio nella nostra vita ecclesiale è come la soglia e la condizione della nostra conoscenza della Chiesa. Avviciniamo la natura della Chiesa attraverso il mistero eucaristico.

"La natura della Chiesa stessa è eucaristica, - dice il teologo ortodosso Kiprian Kern (1899-1960). (1) Se la Chiesa è il Corpo di Cristo, anche l'Eucarestia è un Corpo di Cristo. Senza l'Eucarestia non c'è una vita ecclesiale, come l'Eucarestia è impossibile fuori della Chiesa". Parlando dell'Eucarestia parliamo della Chiesa e vice versa. Parlando della Chiesa confessiamo il nucleo della fede. L'ecclesiologia ci pone prima di tutto un problema dell'identità della Chiesa cioè dell'identità stessa del Cristo che vive fra noi. La Chiesa condiziona questa identità nell'Eucaristia.

"Il canone eucaristico - continua Kern, - è una interpretazione liturgica del dogma della SS.Trinità, della creazione, della redenzione o della santificazione". In altre parole, L'Eucaristia porta in sé e manifesta il cuore della fede che confessa che l'opera di Cristo sia la nuova creazione dell'uomo e del cosmo nello Spirito Santo grazie all'unità dell'umanità con Dio. Lo Spirito Santo entra nella creazione e invisibilmente riempie il nostro essere. Secondo San Gregorio Palamas, lo Spirito Santo c'include nel Corpo di Dio tramite i sacramenti della Chiesa. Ma la Chiesa stessa è un sacramento che ci prepara al Regno e alla trasfigurazione finale. La Chiesa è vista come luogo della nascita e della vita dell'uomo nuovo, non soltanto riconciliato, ma eucaresticamente unito con Dio. In questo senso la comunione al Corpo e al Sangue del Cristo fa vedere Crsito in lui, ciò che l’uomo è o piuttosto chiamare ad essere. Così l'ecclesiologia diventa una vertice della nuova antropologia.

L’approccio antropologico
L'antropologia ortodossa è trinitaria. Il concetto della
Trinità contiene in sé una premessa della moltitudine delle persone umane. Nella Trinità l'unità e la diversità coincidono e l’unità dei molti diventa un'immagine della Chiesa radunata nella stessa Eucarestia. In potenza tutta l'umanità è il Corpo del Cristo. L'Incarnazione ha riprodotto, ricreato l'unità umana. (“Adamo vive in noi” – come dice San Gregorio di Nissa). Come Corpo del Cristo abbiamo il sangue del Cristo, siamo uniti nell'Eucarestia, cioè nella Chiesa. L'unità della Chiesa è l'unità della natura umana restaurata in Cristo e questa unità si realizza nell'Eucarestia. L'Eucarestia è un atto con cui Dio ci unisce nel Corpo del Cristo. (P.N.Afanasiev). (2) I fedeli sono rifondati nel Corpo del Cristo, perché loro sono nutriti con lo stesso Corpo. Se la Chiesa avesse il cuore, quel cuore dovrebbe essere il sacramento dell'Eucarestia.

Il Cristo è la radice della deificazione della natura umana. L'uomo unito a Cristo è già la Chiesa (San Massimo il Confessore), perché la comunione con Cristo ci fa il Corpo del Cristo. Il corpo umano in quel caso è lo strumento, ma anche il tempio dello Spirito. La vita comune si fa come cammino verso la deificazione dell'uomo che può essere solo l'azione del Santo Spirito. Quando alla fine della Divina Liturgia il sacerdote dice: “Le cose sante ai santi”, lui proclama la santità del Corpo del Cristo già presente nella comunità dei credenti ch'è anche il popolo dei peccatori. Questo Corpo è unito nell'unità escatologica della Parusia. Già Didaché ci dà un'immagine del pane disperso e raccolto La Chiesa come un atto della ri-unione dell'umanità che vive in Cristo.

L'identità con Cristo è condizionata dall'esistenza delle moltitudini. Lo Spirito che costituisce l'identità del Cristo è lo Spirito della comunione e la sua opera consiste nella trasformazione in comunione della realtà umana incompatibile con l'individuo separato dagli altri. La Trinità stessa è la comunione e nello stesso tempo la personalità. Ma anche la Chiesa è la "personalità corporativa" e il suo essere personale si rivela proprio nell'Eucarestia. Il mistero della Chiesa è il mistero dell'"uno" che è moltitudine nello stesso tempo. Per questo motivo la cristologia ortodossa non è concepibile senza l'ecclesiologia. L'esistenza del corpo è una condizione necessaria che la testa sia la testa. Nella preghiera eucaristica la Chiesa diventa santa in tutti i suoi membri e colui che presiede la comunità, il sacerdote, si identifica con il Cristo stesso. Ma anche tutta la comunità diventa il Cristo che prega al Dio Padre nell'unità dello Spirito Santo

La Chiesa è sempre vista come icona del Regno che deve venire e la sua identità coincide con l'identità del Cristo e del Regno escatologico. La sua esistenza è iconica. Essa è l'immagine di ciò che la trascende.

L'approccio liturgico

Per l'ortodossia, la Chiesa vive nell'Eucarestia e anche attraverso l'Eucarestia. Il mondo intero può essere visto come "liturgia cosmica", che offre al trono di Dio tutta la Sua creazione. Ogni fedele porta il mondo in sé e devo portarlo al mistero eucaristico.

“Nella Chiesa antica i fedeli non si recano da soli in Chiesa ma accompagnat i dai doni della creazione. Il pane, il vino e l'olio vengono portati in processione liturgica e in sfilata - è l'odierno "grande ingresso" della liturgia - il quale a sua volta li "rapporterà al trono di Dio come Eucarestia”. (m. Ziziulas). La visione eucaristica del mondo ci apre la creazione dove l'Eucarestia non può essere oggetto o mezzo. L'Eucarestia è la rivelazione del cosmo.

Nel contesto liturgico l'Eucarestia si rivela come manifestazione di tutta la Chiesa. La Chiesa conosce e celebra un solo sacramento cioè il mistero del Cristo, del Cristo totale che salva il mondo. In questo senso l'Eucarestia non può essere solo un mezzo della grazia, ma la sua realtà. Dall'inizio del cristianesimo l'Eucarestia era vista come "Sacramento dei sacramenti" che esprime il mistero della Chiesa stessa come sacramento. Il sacramento può è primo di tutto una realtà divino-umana o come ritorno alla creazione nuova. Se il diavolo ci separa, il sacramento ci unisce nel Corpo di Cristo. E’ lo Spirito Santo ch’è l'ultimo criterio della verità della fede che non costituisce il mistero liturgico ma proviene da esso.

La gratitudine è un motivo principale del canone eucaristico. Nell'Eucarestia la Chiesa si effettua come la creazione nuova e come il mistero della conoscenza. La conoscenza cristiana (Gv.17,3) è anzitutto la gratitudine. Nella gratitudine scopriamo anche ciò che possiamo chiamare l'antropologia eucaristica. L'uomo che crede è l'uomo che loda, che ringrazia, che torna nella sua memoria al mistero della salvezza rivelata nella vittoria del Cristo sul peccato tramite la Croce. L'anamnesis, la memoria sacra ecclesiale, non è separata dal ringraziamento. Il sacrificio del Cristo è commemorato nella gratitudine. La memoria ecclesiale come la forma della presenza del Cristo e la realtà stesso del Regno. (“Come il Padre l’ho preparato per me, Io preparo per voi un regno perché possaite mangiare e bere alla mia mensa nel Mio Regno” – Lc 22, 30).

L'Eucarestia è come un farmaco dell'immortalità" (Sant'Ignazio d'Antiochia) per il mondo e per l'uomo perché loro siano realmente ciò che sono e che il peccato altera. La liturgia ci torna all'originale del mondo - questo punto è molto importante - quando non esisteva ancora divisione fra il "naturale” e il “soprannaturale". L'ortodossia anche adesso rifiuta questa dicotomia perché prima di tutto nel contesto liturgico la dicotomia non esiste. Esiste una natura e la creazione come unica realtà. Esiste un incontro completo fino all'identità del celeste con la realtà terrena. Qui tocchiamo un altro problema, quello del simbolo e della realtà. La funzione del simbolo non è fare figura, un segno esteriore, ma far apparire la realtà, farla manifestare. Il simbolo è il segno di qualche cos'altro presente nella stessa realtà creata. Il sacramento - qualsiasi, ma prima di tutto l'Eucarestia - non si trova in opposizione alla creazione o alla creatura, ma rivela la sua natura autentica. Perciò l'Eucarestia ha carattere cosmico ed escatologico. Essa include in sé tutta la creazione, perché la creazione è già il Regno, ma il Regno nascosto. Il sacramento è rivolto verso questo Regno del secolo futuro.

L'essenza della Chiesa è il cammino verso il Cielo, e l'Eucarestia è il mistero di questo cammino anche nella memoria o l'anamnesis. L'anamnesis che contiene anche la memoria della Croce come vittoria sul peccato, è la presenza mistica del cammino all'interno del nostro essere che ci porta al Regno. Ma l'anamnesis è anche la memoria del futuro, un atto escatologico. “Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap.22,13). “Vieni, o Signore Gesù” (Ap 22, 20). La memoria del Regno aperta al Ritorno del Signore.

Per questo motivo l'ecclesiologia ortodossa non usa la parola "transustanziazione". Prima di tutto per non introdurre la filosofia umana nell’incomprensibile. Il corpo destinato alla risurrezione è lo stesso corpo, non di un'altra sostanza, ma quello che è stato creato da Dio e cambiato o ricreato nell'atto eucaristico. Quando il sacerdote dice: "Questo è il Mio Corpo" le sue parole o piuttosto le parole di tutta la Chiesa cambiano la natura dell'offerta. Così questa parola del Salvatore, una volta pronunciata, è stata e sarà sufficiente per compiere il più perfetto sacrificio sulla tavola di tutte le chiese, dall'ultima Pasqua di Gesù Cristo fino ai nostri giorni e fino al suo avvento.

Il pane diventa il pane del cielo perché su di esso viene a posarsi lo Spirito, ma rimane il pane com'è. L'Eucarestia è fatta dallo Spirito Santo, ma il "momento", , dell'invocazione dello Spirito Santo, oltre l'epiclesi riempie tutta la liturgia. La presenza dello Spirito è convalidata dalla fede. Tutta la liturgia è già la tramutazione: la materia, il rito, il simbolo sono riportati alla loro origine di creazione.

Ciò che è lì davanti a noi non è l'opera del potere umano. Colui che ha fatto questo nell'ultima cena lo fa ancora adesso. In quanto a noi, il nostro compito è quello di servitori, ma è Lui che santifica e trasforma. "C'è (...) un solo Cristo, tutto intero qui e tutto intero là, un solo corpo (...). Noi non offriamo un'altra vittima, come il sommo sacerdote di allora (dell'Antico Testamento); è sempre la stessa, o piuttosto noi facciamo il memoriale del sacrificio”. (San Giovanni Crisostomo).

L’eucarestia e l’assemblea

Tutta l'azione liturgica fa parte del mistero eucaristico, cominciando dall'assemblea ecclesiale che costituisce uno degli aspetti della sacramentalità globale della Chiesa, e il suo cuore; "il mistero dei misteri", come dice Olivier Clément è l'Eucarestia”. Nella proscomidia (o protesi) tutta la Chiesa (la Madre di Dio, i santi più importanti, il clero, il popoli, i vivi, come anche i morti) è riunita davanti all'Agnello. L'assemblea ecclesiale è preceduta da quella mistica durante la proscomidia. L'assemblea - l'Eucarestia - la Chiesa costituiscono una tri-unità, l'una è inseparabile dall'altra.

Secondo Pseudo-Dionigi Areopagita l'Eucarestia è prima di tutto il sacramento dell'assemblea, perché si l'Eucarestia è la forma iniziale della Chiesa, l'assemblea è la forma iniziale dell'Eucarestia. La Chiesa stessa è il sacramento e il mistero nel senso escatologico e cosmico. La struttura della Chiesa è misterica perché essa nel sacramento si trasforma in realtà della vita nuova. Secondo la prospettiva ortodossa l'Eucarestia come sacramento non è divisibile durante la liturgia perché tutta la liturgia nella sua integrità è lo svolgimento del miracolo eucaristico. L'importanza dell'assemblea è nel fatto che essa manifesta il carattere sacerdotale del Popolo di Dio. Il popolo concelebra, perciò il sacerdote non può essere mai solo ed ogni liturgia ha - almeno in teoria - un carattere conciliare.

Perfino il tempio stesso deve avere la struttura "conciliare" come l'organizzazione dello spazio nel senso dialogico. Tutto lo "spazio" ecclesiale è consacrato come luogo della comunione con Dio. Soprattutto l'iconostasi come la visione del Regno dei Cieli ha il compito di esprimere questa idea della comunione del divino e dell'umano. La comunione è possibile perché tutta l'assemblea è già il Corpo del Cristo.

Nello stesso tempo l'assemblea ha un altro significato quello del popolo dei peccatori che cerca la loro salvezza nel pentimento, nella metànoia. La metànoia è un atto ecclesiale che liturgicamente, spiritualmente ci prepara all'Eucarestia che porta in sé anche il mistero del perdono, della tramutazione dei peccatori nei cittadini del Regno.

Ricordiamo le altre parole di Sant’Ireneo “Ubi Ecclesia, ibi Spiritus et omnis gratia”. Dov'è lo Spirito, lì è anche il Regno. L'Eucarestia inizia come l'ascensione verso la cena del Signore nel Suo Regno e il suo primo gesto è la benedizione del Regno. Tutto il suo svolgimento ci procede verso l'altare, simbolicamente espresso con la piccola entrata col Vangelo che significa la venerazione del luogo del sacramento, lo spazio che rivela e che nasconde la santità di Dio, ma anche la venerazione della Parola di Dio.

L'Eucarestia e il Vangelo

Il sacramento dell'Eucarestia è indivisibile dal sacramento della Parola come una parte della liturgia.

Entriamo nella comunione alla verità tramite la Parola. La verità fa parte del nostro essere, perché siamo stati illuminato dalla luce della Parola, ma la verità va rivelata e risvegliata nella nostra intelligenza. Così la Parola di Dio diventa la comunione della ragione, perché anche il Vangelo è il luogo della "presenza reale" dello Spirito. Il Vangelo come l'icona del Cristo risorto.

"È detto che noi beviamo il sangue del Cristo non soltanto quando lo riceviamo secondo il rito dei misteri, ma anche quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita, come egli stesso dice :

“Le parole che ho detto sono spirito e vita” (Origene).

“In verità, prima di Gesù, la Scrittura era un'acqua, ma dopo Gesù è divenuta per noi quel vino nel quale egli l'ha tramutata” (Origene).

La predica che segue la lettura serve proprio alla risveglia della Parola nella nostra mente. La Parola deve essere rivolta al cuore e il cuore deve essere aperto. Ma l'apertura del cuore per sentire e capire è il dono ricevuto dalla Chiesa intera. L'assemblea, la venerazione dell'altare, la parola, la predica, la preghiera sono gli elementi diversi che costituiscono il sacramento della Chiesa preparandola al sacrificio eucaristico. La partecipazione dei laici al sacrificio della Chiesa è il sacerdozio di tutti, il sacrificio del Cristo stesso nella Sua Chiesa. Tutti i battezzati, tutti i membri della Chiesa sono inclusi in questo sacerdozio regale. I laici come fedeli non sono sacerdoti di secondo grado, anche loro sono consacrati al servizio del Cristo.

Così nasce "il corpo" della parrocchia come una Chiesa locale. Tutto il Cristo è presente nell'Eucarestia e dove c'è Eucarestia vera, c'è anche la pienezza della Chiesa. Tutti noi, sacerdoti, laici, siamo il Corpo del Cristo, tutti partecipano all'offerta del Cristo si è offerto per noi. L'offerta va fatta da tutti, gli elementi di questo mondo sono destinati ad essere portati come offerta, come sacrificio.

Il sacrificio eucaristico non è una ripetizione del sacrificio sul Golgotha (che è irrepetibile), ma, direi, il suo riconoscimento nell'atto liturgico. Nell'offerta riconosciamo il Cristo stesso. La liturgia e la Chiesa stessa sono possibili perché il sacrificio del Cristo è già stato fatto e noi lo commemoriamo e lo riconosciamo nell'azione della Chiesa. Questa commemorazione di cui parleremo ancora non è un semplice ricordo, ma la proclamazione dell'identità essenziale fra il sacrificio del Cristo con il sacrificio eucaristico che si fa in Chiesa.

L’Eucarestia e il sacerdozio

Da questa identità nasce anche il sacramento del sacerdozio come sacerdozio del Cristo stesso. Il sacerdozio del Cristo consiste nella riunione in sé di tutti i credenti, di tutti i fedeli. Il sacerdozio nel momento della celebrazione manifesta la sua unione e la comunione con tutta l'assemblea ecclesiale. Dunque, il sacerdozio è un sacramento perché ha una radice eucaristica.

Il sacerdozio è il dono di Dio e come tale è indipendente dalla qualità spirituale del sacerdote ma nello stesso tempo questo dono è personale, e la pienezza della vita ecclesiale dipende dalla capacità di ricevere questo dono. Perciò ogni Eucarestia include anche la preghiera del sacerdote per se stesso, la sua offerta spirituale.

Durante l'offerta quando il pane e il vino sono portati sull'altare, tutta la Chiesa è radunata nella commemorazione. L'offerta eucaristica è come la memoria attualizzata. Nella memoria il Signore si rivolge alla Sua creazione perché la memoria di Dio porta in sé l'amore che ci cerca e ci salva. La memoria dell'uomo in Dio è il dono della vita, la memoria del Dio nell'uomo è l'accettazione del dono, la sua risposta all'amore. Questa risposta che liturgicamente si manifesta nella gratitudine.

“L'Eucarestia esige il  m e m o r i a l e (o  a n a m n e s i s) di tutta la storia della salvezza, compendiata nel suo centro, la croce vivificante, la croce pasquale. Questi avvenimenti, iscritti nella "memoria" di Dio, la Chiesa li rende presenti, attuali, efficaci. In tale "memoriale" vivente, il prete è l'immagine di Cristo, un "altro Cristo", dice san Giovanni Crisostomo, egli è il testimonio dell'incrollabile fedeltà di Cristo alla Sua Chiesa. Per mezzo di lui, che compendia la preghiera del popolo e rappresenta per il popolo il segno di Cristo, questo unico gran sacerdote, compie l'Eucarestia. E tutto si fa nello Spirito Santo. Nello Spirito Santo la Chiesa è il "mistero" del Risorto, il mondo in via di trasfigurazione.” (Olivier Clément, Alle fonti con i padri)

L'approccio spirituale

L'Eucarestia è rivolta al tempo escatologico, alla gloria del Regno. Gli altri tipi di celebrazione sono orientati a questo tempo. La correlazione dei due tempi è il principio della struttura liturgica della Chiesa. La liturgia è sempre inclusa nel quadro della "celebrazione del tempo".

Il presente come attualizzazione del passato, ma anche come "mondo che verrà" è sempre presente nella celebrazione. Per questo motivo la Chiesa Ortodossa e la sua vita spirituale nasce dalla Tradizione e si appoggia sulla Tradizione che contiene in sé il tempo escatologico, il tempo che non si cambia come non si cambia la Chiesa stessa che, però può dare le risposte nuove alle sfide di ogni tempo. Il tempo del Cristo e l’epoca degli apostoli sono sempre presenti in qualsiasi periodo della vita della comunità ecclesiale e formano la sua identità metastorica. Sia la forma visibile di questa identità (le celebrazioni liturgiche, la successione apostolica ecc.), sia la sua espressione invisibile (la preghiera personale, la “custodia del cuore” ecc.) coincidono nella tradizione che continua a vivere nella Chiesa la quale, in virtù della sua identità sacramentale e spirituale, e nonostante i suoi cambiamenti culturali e rituali, può essere riconosciuta in qualsiasi momento della storia.

Perciò l'assemblea eucaristica rimane non soltanto il centro della vita ecclesiale, ma anche della vita dello spirito umano. La spiritualità ortodossa si realizza nell’unione con Dio incarnato, crocefisso, risorto che deve manifestasi anche nella fraternità fra i fedeli. Ogni liturgia è vissuta spiritualmente come sacramento della memoria della santità vissuta, dell'unità del popolo di Dio e della sua gratitudine alla soglia del Regno. “In ogni cosa rendete grazie” (o “fate Eucaristia”) dice San Paolo (1 Tess. 5,18) perché in ogni cosa - il cuore umano e tutto il creato – c’è il suo segreto centro eucaristico.

1) Eucarestia, Parigi, 1947 (in russo).

2) La Chiesa dello Spirito Santo, Parigi, 1971 (in russo).
La santità è «vivere con»

di Pietro Andrea Cavaleri


Note

1) M. ZAMBRANO, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondatori, Milano 2000, p. 29.

2) Cfr H. ARENDT, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 1995.

3) Cfr M. CACCIARI, L'Arcipelago, Adelphi, Milano 1997.

4) Cfr G. SALONIA, Dialogare nel tempo della frammentazione, in E. ARMENTA - M. NARO (a cura di), Impense Adlaboravit, Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo 1995, pp. 571-586.

5) Cfr H. KOHUT, La guarigione del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992; La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino 1993,

6) M. SPAGNUOLO LOBB, G. SALONIA, P.A. CAVALERI, Individual and community in the Third Millennium, “British Gestalt Journal”, 2 (1997), pp. 107-113.

7) P. CODA, Il Cristo crocifisso e abbandonato redenzione della libertà e nuova creazione, “Nuova Umanità», XVIII (1996/3), n. 105-106, p. 375.

8) Cfr C. LUBICH, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Let­tere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, “Nuova Umanità”, XXI (1999/2), n. 122, pp. 177-189.

­9) Per un approfondimento su questo tema cfr H. U. VON BALTHA­SAR, Gloria. Nello spazio della metafisica. L'epoca Moderna, Milano 1978; G. ZANGHI, Quale uomo per il terzo millennio?, “Nuova Uma­nità”, XXIII (2001/2), n. 134, pp. 247-277.

10) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità. La trinità come stile di vita e forma di pensiero, Città Nuova, Roma 1998.

11) Cfr K. HEMMERLE, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinno­vamento del pensiero cristiano, CittàNuova, Roma 1996.

12) Per un approfondimento del paradigma trinitario come mo­dello sociale cfr E. CAMBÒN, Trinità, modello sociale, Città Nuova, Roma 1999.

13) Cfr C. LUBICH, op. cit.

14) Cfr P. A. CAVALERI, Verso una psicologia in dialogo, “Nuova Umanità”, XXII (2000/3-4), nn. 129-130, pp. 409-445.

15) A questo riguardo cfr G. CICCHESE, I percorsi dell'altro. An­tropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999.

16) Cfr H.G. GADAMER, La molteplicità d'Europa. Eredità e futuro, in AA.vv., L'identità culturale europea tra germanesimo e latinità, a cura di A. KRALI, Jaca Book, Milano 1988.

17) Cfr E. LÉVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990.

18) Cfr P. RICOEUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

19) Cfr J. L. MARION, Dato che. Saggiò per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001.

20) Cfr G. CICCHESE, op. cit.

21) Cfr D. STERN, Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987; La costellazione materna, Bollati Borin­ghieri, Torino 1995.

22) Cfr C. TREVARTHEN, Empatia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1998.

23) J. BRUNER, La ricerca del significato. Per una psicologia cultu­rale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

24) Cfr A. OLIVERIO, Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Raffaello Cortina, Milano 1999.

25) Cfr D. J. SIEGEL, La mente relazionale. Neurobiologia dell'espe­rienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano 2001.

26) D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996.

27) D. BONHOEFFER, op. cit., p. 441.

­28) D. BONHOEFFER, op. cit., p. 462.

29) Sul tema della diversità nell'esperienza relazionale cfr O. SALONIA, Kairòs. Direzione spirituale e animazione comunitaria, Edb, Bologna 1994.

30) «E diceva che sarebbe buon frate minore colui che riunisse in sé la vita e le attitudini dei seguenti santi frati: la fede di Ber­nardo, che la ebbe perfetta insieme con l'amore della povertà; la sem­plicità e la purità di Leone, che rifulse veramente di santissima pu­rità; la cortesia di Angelo, che fu il primo cavaliere entrato nell'Or­dine e fu adorno di ogni gentilezza e bontà,' l'aspetto attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto; la mente elevata nella contemplazione che ebbe Egidio fino alla più alta perfe­zione; la virtuosa incessante orazione di Rufino, che pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spi­rito unito al Signore; la pazienza di Ginepro, che giunse ad uno stato di pazienza perfetto con la rinunzia alla propria volontà e l'ardente desiderio d'imitare cristo seguendo la via della croce; la robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Indi, che a quel tempo sorpassò per la vigoria tutti gli uomini; la carità di Ruggero, la cui vita e comportamento erano ardenti di amore; la santa inquietudine di Lucido, che, sempre all'erta, quasi non voleva dimorare In un luogo più di un mese, ma quando vi si stava affezionando, subito se ne allonta­nava, dicendo: Non abbiamo dimora stabile quaggiù, ma in Cielo” (FF 1782).

31) Sul conflitto e sulle problematiche comunicative che da esso derivano cfr H. FRANTA - G. SALONIA, Interazione comunicativa, LAS, Roma 1988; P. A. CAVALERI - G. LOMBARDO, La comunicazione come competenza strategica, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2001.

32) Su questo tema cfr M. CACCIARI, L'invenzione dell’individuo, “MicroMega - Almanacco di Filosofia” 9 (1996), pp. 121-127.

33) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità, cit.

Cfr G.M. ZANGHI, Dio che è amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova, Roma 1991.

35) “Come nei monasteri - dove si prega e si contempla - il silenzio e la solitudine, la grata e il velo aiutano l'unione con Dio, così per noi il fratello amato. (...). Occorre, dunque essere pronti a date la vita per l'altro. E, se è così, occorre anche fare uno sforzo per aiutare il nostro fratello a raggiungere la perfezione che noi desi­deriamo per noi. Si va a Dio, quindi, attraverso i fratelli e le sorelle, ma anche assieme a loro” (C. LUBICH, Unione con Dio e con i fra­telli nella spiritualità dell'Unità, in “Nuova Umanità”, XXIV, 2002/5, n. 143, p. 559).

36) Cfr C. LUBICH, L'Eucaristia, Città Nuova, Roma 1977.

37) Sull'Eucaristia come chiave a lettura dei rapporti interpersonali cfr G. SALONIA, Eucaristia e dinamiche familiari, “Via Verità eVita”, XXXIII, gennaio-febbraio (1984), pp. 42-53.

38) Sul concetto di “traità“ cfr M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1993.

39) Cfr K. HEMMERLE, Partire dall'unità, cit.40) Cfr C. LUBICH, op. cit.

41) GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nn.43, 57.

42) Cfr K. RAHNER, Nuovi Saggi, Edizioni Paoline, Roma 1968.

43) K. RAHNER, Elementi di spiritualità nella Chiesa del futuro, in AA,vv., Problemi e prospettive di spiritualità, a cura di T.GOFFI - B. SECONDIN, Queriniana, Brescia 1983, pp. 440-441.

Search