Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Comunione dei santi,
comunione di ministeri

di Enzo Franchini

Perché non "passa" una sperimentazione più creativa della partecipazione nella chiesa? Perché - in particolare - il ritardo nell'attuazione dei ministeri istituiti? È troppo poco vederne la causa solo nella cattiva comprensione pastorale. È la cattiva spiritualità che inibisce. Ricentrare tutto nell'eucaristia diventa imperativo categorico.

Senza aggressività, come puro rilievo del dato di fatto, sembra di dover cominciare dall’osservazione che dovrà preoccupare le nostre riflessioni: l’eucaristia è troppo clericalizzata, troppo “monasticizzata”. Viene cioè legata prevalentemente alla celebrazione liturgica; a meno non giunga a quella devozione intesa come momento privato, in cui si dà appuntamento a Dio per parlargli della nostra anima.

Ancor più disincarnata ci sembra la proposta della comunione dei santi quale realtà non afferrabile sperimentalmente, vera ma nascosta dietro il velo «mistico» dell’arcano.

L’intenzione delle riflessioni che ci proponiamo è quella di rivendicare la fattibilità visibile di questa comunione: la comunicazione, la partecipazione, la consiliarità, sono infatti già un modo di fare eucarestia; e ancor di più lo sono i miniseri, che sono adempimenti eucaristici per loro natura. Se non fosse per queste tangibilissime realtà, non si attuerebbe il comando: «fate questo in memoria di me». Infatti il “corpo mistico” – realtà conclusive dell’eucarestia – non può essere alienato dalla storia, se Gesù resta con noi fino alla fine dei secoli. Parlare di “corpo mistico” deve significare che proprio di Gesù nato a Maria – e presente nell’eucarestia – dà alla chiesa di costruirsi; così come è la chiesa che fa crescere fino a compiutezza il corpo eucaristico di Gesù, che resterebbe mutilo se non inglobasse anche la nostra realtà presente.

Gesù come comunità

La premessa importante su cui fondare ogni applicazione comunionale è bene espressa nella celebre affermazione di Bonhoeffer: «Lo spazio di Gesù Cristo nel mondo, dopo la sua morte, viene occupato dal suo corpo, la chiesa (...). Alla chiesa si deve pensare come a una Persona fisica (...) l’uomo nuovo è uno, non molti (...). questo uomo nuovo è allo stesso tempo Cristo e la chiesa (...) Cristo è la chiesa (...). l’uomo nuovo non è il singolo (...), ma la comunità, il corpo di Cristo, Cristo» (Sequela pp. 216-218).

La citazione è forse più suggestiva che dimostrativa. E tuttavia essa prende tutto il suo valore una volta che si affermi che Gesù si definisce come persona, nella sua realtà costitutiva, proprio perché si attua come dedizione. Egli realizza la sua vita donandola agli altri: tanto da perdersi negli altri per ritrovarsi vivo in un modo nuovo. Per volontà del Padre, al quale si è abbandonato totalmente. Gesù si offre a noi in modo tale che il suo esistere è relazione con noi, per la nostra salvezza. Gesù è"transitivo" per definizione: perché, per essere se stesso, ha bisogno che qualcuno lo riceva. Gli uomini salvati sono essenziali a Gesù, come l'opera eseguita è necessaria a qualsiasi protagonista se egli vuoi essere riconosciuto capace e responsabile di gestire quell'opera.

Certamente, se non si fosse incarnato, il Verbo di Dio sarebbe stato in grado di dare a noi il suo insegnamento e la sua forza, senza bisogno di fare corpo con noi. Niente ci vieta di pensare che anche senza scendere dal cielo egli avrebbe potuto comunicare agli eletti le sue verità: gli sarebbe bastato comunicare per visione la totalità degli insegnamenti evangelici, come ha fatto coi profeti. C'è una sola cosa - ma questa decisiva per la sua esistenza - che non avrebbe potuto fare restando nel suo cielo: diventare "un solo corpo" con noi: e questo non come unità puramente interiore, realizzata niente più che nell'intimità del pensiero; occorre avere il coraggio di accettare che la sua unione con noi debba definirsi come realtà indubbiamente "fisica". Per realizzare questo impegno salvifico, non aveva altra possibilità che quella di assumere il nostro corpo, così che nessuno potesse più chiamarlo altro che insieme agli uomini con cui esiste in solido: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13).

La verità di questa solidarietà si concreta in modo indubitabile nell'eucaristia. L'eucaristia non è un mistero in più, da aggiungere agli altri articoli di fede elencati nel Credo: piuttosto l’eucaristia è lo strumento con cui quegli stessi articoli di fede diventano veri in ciascuno di noi, nella realtà della loro attuazione. Finché sono dichiarati nell’astrattezza della visione quegli articoli restano esterni all'uomo che li contempla. Ricevi l'eucaristia ed essi diventano invece carne della tua carne. Si inverano, si realizzano di nuovo in te come fatti concreti, salvano davvero tutti e singoli gli uomini che entrano nella comunione con Gesù. Senza l'eucaristia, il Credo conterrebbe la verità astratta - e dunque ancora inefficace - della salvezza. Con l'eucaristia avviene la sintesi tra il progetto ideale e la storia, tra l'ipotesi e la tesi.

La personalità relazionale di Gesù si decide eucaristicamente, perché è l'eucaristia che fa di noi unum corpus, in maniera sponsale così che i due - l'uomo e Cristo – siano una sola persona, e siano compartecipi e coeredi della stessa sostanza. Come Gesù è comunicatore effettivo dei dati elencati nel credo, così chi comunica con lui riceve, in lui, la pienezza del fatto creduto, e non solo la consolazione dell'intuizione: è questa, in sostanza, tutta la teologia dei capp. 14-17 di Giovanni (e non solo di quei capitoli).

Ma questa è dottrina sufficientemente nota, perché si debba insistervi più di tanto. Ciò che non è bastantemente affermato, invece, è che il Corpo mistico non è un’entità gia tutta adempiuta, come se esso non fosse più capace di agire nella storia. Al contrario è un corpo vivo anche su questa terra: è un corpo capace di crescere, di agire, di impegnarsi e sovraimpegnarsi (cf. 2Cor 12,15) per la salvezza delle anime.

Quello che è detto del suo santo corpo ecclesiale, può esser detto anche di Gesù: non è blasfemo parlare di Gesù che resta ancora "viatore" sulla terra, anche se assiso alla destra del Padre: infatti Gesù è nella gloria, ma non ancora del tutto, se egli sopporta in sé tutte le traversie del nostro corpo, che è suo. Gesù continua ad agire di più, e non di meno, di quanto abbia fatto nei giorni della sua carne mortale; solo che egli agisce ormai non senza il suo corpo totale; resta ancora e soltanto lui l’apostolo per eccellenza, ma tramite la sua chiesa.

La potenza della missione (e la dignità dei ministeri) e tutta qui: dopo l’ascensione, Gesù continua a donarsi solo per mezzo della dedizione dei suoi; sono i suoi fratelli che portano a compimento ciò che manca alla pienezza della sua opera salvifica (cf. Col 1,24).

Siamo già all'affermazione da cui si dovrà dedurre tutta la legge dell'apostolato: anche l'apostolato, infatti, con tutte le sue espressioni ministeriali, è in senso stretto un adempimento eucaristico.

L'eucaristia non è un deposito sacro, una presenza arcana da adorare: è una forza viva che fa potente la chiesa che ne è nutrita: chi mangia di lui vive di lui, dunque opera con la sua stessa energia.

Paradossalmente – ma non tanto – si potrà dire, allora: è vero che Gesù è la forza dell’apostolato, ma non è meno vero che anche l’apostolo è la forza di Gesù. Nessuno osi separare ciò che Gesù si è unito, fino a essere “una cosa sola”.

La carità eucaristica

Ma non si deve correre troppo. Prima di parlare direttamente di apostolato e ministeri, occorre fermarsi ancora un poco sulla “vera anima di ogni apostolato”, che è la carità. Un’altra volta, bisognerà dire che solo nell’eucarestia si comprende il valore teologale di ogni forma di carità, compresa la caritas pastoralis di cui parla Presbyterorum ordinis.

Nessuna carità umana può sostituire l’eucarestia: anche se dessi il mio corpo da bruciare a favore dei fratelli, prodigandomi senza sosta nel servizio; e anche se divenissi dolcezza e consolazione all’interno di una comunità tutta dolce e consolata, non per questo io realizzerei quella solidarietà nell’unico corpo che non può che essere quello di Gesù.

Non è la forza della nostra carità che consacra – cioè fa avvenire – l’eucarestia. È Gesù che facendosi nostra pane ci consacra nella sua carità.

D’altra parte, senza la nostra carità, la realtà eucaristica non perdurerebbe oltre il rito. Non serve a nulla il sacramento che non produce realtà, perchè è nella res sacramenti – nella verità dell’esistenza trasformata – che si attua il piano di Dio.

Simone Weil era sconvolta al dover constatare come Dio stesso si auto-limiti per far spazio all’uomo. L’azione di Dio sommata all’azione dell’uomo – osservava – non dà un risultato accresciuto, dà un risultato diminuito; è più una sottrazione che un’addizione. Eppure, supposto il piano creativo, la gloria del sommo Dio si realizza attraverso la debolezza umana: perchè l’amore di Dio è umile fino all’estremo del rispetto.

In modo analogo anche Gesù si auto-limita: egli certamente resta la presenza attiva che incentiva tutto il crescere del Corpo fino alla sua pienezza; ma non lo fa senza trasferirsi e in certo modo insediarsi nella nostra carità. Non si può comprendere la verità ontologica del Corpo mistico, senza credere anche alla sua verità caritativa: «Rimanete nel mio amore», comanda Gesù, così come io rimango nell’amore del Padre. Non meno di una quindicina di volte il Vangelo di Giovanni adopera il verbo “manere” per indicare questo reciproco insediarsi l’uno nell’altro, perfetti nell’unità.

Un’altra volta occorre lamentare l’interpretazione soltanto ontologica – e non soltanto attiva, operosa – della teologia giovannea. Sembrerebbe che, una volta stabiliti nell’amore che è Gesù in noi, si sia arrivati alla perfezione ultimativa, oltre la quale non ci sarebbero sbocchi per creare dell’altro.

Al contrario la comunione è certamente una realtà data ma, insieme, è un realtà tutta da farsi. La formula agostiniana con cui in certe chiese, per un certo tempo, si distribuiva la comunione, non potrebbe essere più eloquente: Ricevi ciò che sei. Diventa quello che già possiedi. Esercita attivamente la comunione, datti da fare, metti in opera quel Gesù che ti ha trasformato in lui: perché, se la comunione è potenza, non può continuare a essere senza l'esercizio attivo della comunionalità solidale con il prossimo.

«Fate questo in memoria di me»: ci si rifletta e si converrà che è questo il vero precetto eucaristico, quello che ci autorizza a continuare noi ciò che Gesù ha fatto per primo: non tanto il rito della cena, quanto l'offerta della vita.

E ancora adesso, quello che Gesù non smette di fare è di donarsi tutte le volte da capo, ogni volta che si attua in noi un sacramento.

Non bisogna esitare nel dire che egli non solo si dona, ma anche ci riceve. Noi ci diamo a lui in comunione. Egli si adempie accettando in sè la nostra vita. È questo che ci permette di pensare la redenzione - che è sicuramente già tutta data, interamente versata - come un fatto che tuttavia è capace di attuarsi di continuo, nella verità del tempo, dello spazio, degli impegni, delle vicissitudini. Per questo l'eucaristia non è mai finita, fino a tanto che i secoli non saranno consumati.

Ma ci tocca andare ancora più avanti: Gesù dona in comunione agli altri se stesso, ma, agli altri, dona anche noi, se facciamo comunione con lui. Quel pane eucaristico - annota il Martelet - è il corpo di Gesù, ma è anche il mio corpo: così che - una volta entrato nella solidarietà eucaristica - io stesso sono dato e mi dono in comunione.

In proposito Fulgenzio di Ruspe ha un lampo di splendida genialità: «Con il dono della carità ci è conferito d’essere (anche noi) in verità ciò che misticamente celebriamo nel sacrificio». E il discepolo di Agostino spiega ampiamente che quello che fa Gesù nel sacrificio eucaristico, lo possiamo fare anche noi: anche noi divenuti sacrificio, dunque anche noi dati in comunione: e questo non solo alla maniera mistica incontrollabile, ma anche nell'esplicazione attiva della nostra esistenza.

Questa è solo la metà della verità: l'altra metà consiste nella certezza che la comunione sta nel ricevere la vita degli altri, insieme a quella di Gesù. Loro sono pane per me. Vivo non senza il loro servizio, se è il loro servizio che mi dà la partecipazione all’unico corpo di Cristo...cosa che sarà anche meglio esplicitata quando, più avanti, si rifletterà sulla forza cristica e cristificante dei ministeri.

Per il momento, converrà insistere ancora sulla carità come attuazione efficace della res dell’eucarestia.

La teologia della liberazione ha spinto forse troppo verso l’eucaristia come simbolo dell'impegno, tanto da sembrare che l'impegno fosse già eucaristia: ed è vero, a patto però che si affermi con più forza che senza l’eucaristia non può darsi forma caritativa sacramentalmente efficace.

In compenso. la consuetudine europea continua a insistere troppo sulla celebrazione liturgica, e liscia la carità sullo sfondo, come possibilità di semplice applicazione etico-ascetica.

Bisognerà concentrarsi infinitamente di più sulla lavanda dei piedi perché qui è la sostanza eucaristica definitiva. La res del sacramento infatti, non è solo il corpo mistico come si continua a insegnare, ma è il corpo mistico in quanto persona attiva che fa servizio, e servizio umile in riconoscimento della presenza eucaristica nell'altro. Finchè siamo nel tempo della storia, l'ontologia si realizza nell'effettiva capacità di operare, così da dare corpo al Corpo perchè non si immagini che, per essere eucaristici, occorra uscire dalla corposità operosa del servizio.

Il servizio della comunione

C'è una concezione per lo meno mutila della comunione dei santi: quella di immaginare uno scambio in certa misura automatico dei "meriti", così come per pura forza di inerzia i vasi comunicanti allineano alla stessa altezza il livello del liquido che li riempie.

E invece la comunione dei santi è anche - e per certi aspetti prima di tutto - comunione di ministeri, tutti visibilissimi e sperimentabili.

È falso immaginare che tutti i servizi siano eguali, purché ci sia la carità; e che tutti i ministeri contino per l'amore che contengono. e non anche per la specificità del servizio prestato.

La nostra non è una comunione di uguali: c'è la fraternità, ma c’è anche la paternità, e, in casi precisi, anche la sponsalità. Ciò che viene dal padre o dallo sposo non è mai la stessa cosa di ciò che viene dal fratello: il «Dio che agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6) ha voluto che il suo Cristo stabilisse «alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 11-12)

Naturalmente sono i ministeri ordinati che comportano uno specificità che è decisiva per la struttura stessa del Corpo; quelli istituiti (e quelli di fatto) variano secondo il variare delle esigenze cui rispondono. Ciò che conta è il convincimento di fede che sia negli uni che negli altri, ogni volta che si agisce nel nome di Gesù, Gesù continua a darsi in comunione.

Questo comporta una prima convinzione di fede, di grandissimo valore: ogni volta che esercito il ministero per cui sono posto, io faccio reale azione eucaristica, Faccio “epiclesi” sui fratelli, do il corpo di Cristo...e insieme do il mio corpo. Per Paolo era indubitabile che l’eucaristia si adempisse non senza quel “culto” (o liturgia) che è l’apostolato (cf. Rm 1,9; soprattutto Ef 4,11-13). Alla maniera di Cristo – e insieme a lui – osa affermare di essere anche lui libagione per il santo sacrificio (Fil 2,17; 2Tm 4,6).

Ma c’è una seconda convinzione, a cui, in particolare i preti, siamo poco abituati: ed è la coscienza che insieme a Gesù, riceviamo gli altri in comunione; e questo ogni volta che essi esercitano un ministero con l’energia ricevuta da Dio (1Pt 4,11). Il ministro in atto – sia ordinato che istituito o di fatto – può santificarmi, con la forza del Corpo di cui è membro attivo. Il suo servizio è un’epiclesi al concreto, che mi “eucaristizza” progressivamente. Convertirsi alla comunione comporta anche tanta fede quanta ne occorre per non dimenticare che Gesù mi contatta tramite l’intervento santificante del fratello che fa corpo con lui.

È per poca abitudine a pensare eucaristicamente – cioè comunionalmente – che ci si trova imbarazzati di fronte alle molteplici presenze con cui Gesù ci attiva. Sappiamo che Gesù è presente nella sua parola, nelle varie celebrazioni liturgiche, nei poveri, e infine quando due o tre sono insieme nel suo nome. Intanto, occorre ricordare che nessuno di questi ambiti è mediatore di Gesù, se non in forza dell’eucaristia data o ricevuta. Gesù non dispensa mai dall’eucaristia, perché è lì che egli si è consegnato una volta per tutte. E inoltre nessuno di questi ambiti è separabile dagli altri, perché tutti sono necessari per creare l’unico Corpo che esse attivano cristianamente.

Comunque, si entra nell’universo mentale eucaristico quando ci si rende conto che Gesù, in forza della sua eucaristia, continua a farci eucaristia tramite il servizio dei fratelli e ai fratelli: è nella concretezza dei molteplici servizi, in tutti i loro aspetti, che si adempie la realtà eucaristica.

Eucaristia e missione

Questi ultimi accenni aprono obbligatoriamente alla missione verso il mondo non ancora credente: perché è per la vita del mondo che Gesù si è consacrato.

Una comunità che si chiudesse nella propria beatitudine cristiana, celebrando una carità eucaristica che non sia, per forza di cose, anche carità sacrificale a favore di chi non fa ancora della chiesa, mutua la verità del sacramento.

Prima ancora che sia il singolo a dedicarsi ai lontani, quasi uscendo dalla comunità e andando come Gesù «fuori dell’accampamento» (Eb 13,12), è la comunità in quanto tale a non avere altro scopo che quello della dedizione all’altro.

Non basta aprirsi all’ospitalità ecclesiale, così da lasciare entrare quelli che sono fuori, invitandoli anzi al convito; in altre parole: non basta fare proselitismo per allargare le nostre tende. Quanti sono già nella tenda non hanno altro impegno che quello di uscire loro verso gli altri, prima di chiedere che gli altri vengano a noi. È così che dobbiamo imparare e volere la totalità della salvezza per tutti.

Sarebbe assurdo affermare, con questo, che tutti debbano andare a servire l’incredulo o il pagano. Le vocazioni interne alla chiesa continueranno probabilmente a prevalere sempre, rispetto a quelle cosiddette missionarie. E però anche chi serve nella sua piccola postazione – anche la vecchietta che stira la biancheria della chiesa o dice il suo rosario – dovrebbe imparare a pensarsi in vista della totalità. Quella vecchietta non è un pezzettino del tutto, non è la classica povera goccia nell’oceano: se è parte del corpo di Cristo, è dedicata come Cristo non meno che alla salvezza di tutti gli uomini, anche se non lo sa. Ma dovrà imparare a saperlo.

Se pensassimo l’eucaristia solo in termini di interiorità ecclesiale, faremmo cessare la verità stessa dell’eucaristia, che è il sacrificio con cui Cristo ricapitola ogni cosa per offrirla al Padre. No meno di Gesù, la chiesa deve versarsi per gli altri: in caso contrario, ci sarebbe contraddizione all’interno dell’unica eucaristia, con Gesù che si offre per tutti e la comunità che si appaga di se stessa. Mai rompere la solidarietà con i fratelli, anche quando sono peccatori: davanti a Dio e per volontà di Dio, noi dobbiamo stare dalla loro parte – come Gesù – per difenderli “dall’ira di Dio” col nostro stesso corpo.

Non resta, allora, che applicare: tutte e singole le comunità cristiane sono lealmente eucaristiche se, nel loro quotidiano concreto, hanno iniziative davvero “estroverse”, centrate cioè su servizi tangibile agli “altri”.

Un’ultima considerazione: queste cose non vano pensate solo per dirle agli altri (che è il servizio tipico del predicatore, che si proietta sempre verso l’insegnamento). Dovremmo cominciare noi a guardare gli operatori cristiani come santi che “mi” impongono le mani, “mi” consacrano, “mi” mettono in grado d’essere a mia volta comunione. Ne deriverebbe subito un capovolgimento di prospettive pastorali che risulterebbe convincente anche per rassicurare gli altri – i ministri istituiti o di fatto – che essi sono veramente azione del corpo mistico di Cristo.

(da Settimana, n. 39, 3 novembre 1996, pp. 8-9)

Abbiamo tutti bisogno di Berakhà. E’ una parola importante, ma nasconde un contenuto difficile, di difficile attuazione. Molti hanno parlato, parlano e parleranno di benedizione, ma forse sono stati e sono lontani dalla benedizione. C’è la benedizione che rivolge l’uomo a un altro uomo, c’è la benedizione che rivolge l’uomo a Dio, e c’è la benedizione che rivolge Dio all’uomo, al mondo. Sono tutte benedizioni, ma sono benedizioni diverse, perché sicuramente la benedizione autentica, sicuramente vera, è la benedizione di Dio.

In cammino con Dio

Il passaggio del mare (Es 14)

di Marcello Milani


Premessa

Il brano «narrativo» in questione, a cui segue la versione poetica di carattere innico e liturgico (Es 15), contiene uno degli episodi più noti della Bibbia, ripreso e celebrato continuamente, nelle feste, nel teatro e nel cinema, nella Bibbia stessa, sia nell' Antico che nel Nuovo Testamento. Basti citare l'inno dal linguaggio mitico di Sal 77,14-21 e le menzioni in Sal 66,6; 78,13s; 106,7-12; 114, ecc.; ma anche in Is 43,16-21; Sap 10,18-19. Nel Nuovo Testamento si pensi a 1 Cor 10,1-2 (come simbolo battesimale) ed a Eh 11,29, per ricordare due citazioni esplicite (ma occorre ricordare le frequenti allusioni anche nei vangeli). Non si devono infine dimenticare Giuseppe Flavio (Antiquitates Jud. II, 318ss), Filone (Vita Mosis, I, 176ss e Legum Alleg. II, 102) e le tradizioni midrasciche. Il nostro testo ha messo in atto dunque una continua rilettura per celebrare il momento decisivo della liberazione dall'Egitto, l'addio definitivo e irrevocabile, che determinò una netta separazione tra passato e futuro e portò ad una situazione nuova (cf Is 43,18-19). «È l'ultima battaglia, l'ultima frontiera. Concentra tutte le tensioni precedenti in una giornata definitiva e per questo il suo ricordo è cifra abbreviata. Il Mar Rosso divide la geografia, divide la storia e si tramuta in una linea divisoria dell'esistenza».

Un racconto parallelo è costituito dall'ultimo atto dell'esodo: il passaggio del Giordano (cf Gs 1,10-18; 3-4; Sal 114), tanto che alcuni autori intendono il nostro racconto come secondario rispetto a quello, descritto a immagine dell'ingresso in Canaan (cf Bibbia di Gerusalemme).

Una prima lettura ha cercato di cogliere il formarsi storico del racconto (metodo storico-critico ), ravvisandovi almeno una duplice rappresentazione del nucleo centrale (vv. 21-29): da una parte il passaggio può avvenire in forza di un «vento impetuoso» che spazza via le acque e dissecca il mare, mentre gli egiziani sono sorpresi dal riflusso delle acque (è la tradizione detta jahwista: vv. 21b.24-25.27; Sal 77 e 114 aggiungono alla tempesta il terremoto), dall'altra Mosè stendendo la mano divide le acque e le fa ritornare alloro livello travolgendo gli egiziani (tradizione sacerdotale: vv. 21a.22-23.26.28-29). Per il narratore jahwista il Faraone prende l'iniziativa e da qui derivano gli eventi successivi; nel sacerdotale è Dio a prendere l'iniziativa, sviluppando il racconto in tre comandi e annunci con esecuzione e compimento. L'attuale racconto sottolinea la potenza della fede di Mosè (14,13-14.31), che rischia tutto sulla parola di Dio, e la salvezza miracolosa degli ebrei (vv. 30-31).

I particolari dell'avvenimento restano per noi oscuri. n linguaggio è da epopea. n luogo del passaggio resta incerto nella designazione. Il tenore del racconto attuale non si cura di precisare luoghi e fatti come essi esattamente siano avvenuti; invita a chiedersi piuttosto di che cosa essi siano simbolo, quale messaggio l'autore intenda offrire. Perciò il seguente lavoro si attiene alla fase narrativa di Es 14, nell'intento di cogliere la struttura del racconto attuale e i princìpi che danno coerenza al testo, per rilevarne i simboli e le implicanze teologiche.

Articolazione della narrazione

Il racconto, che contiene ripetizioni tematiche e alternanze tonali, frutto della rielaborazione di materiale diverso ma divenuti ora fatti di stile, è preparato e anticipato dalla narrazione della prima tappa del «cammino»: partenza dall'Egitto per la strada del deserto verso il Mare, viaggio da Succot fino a Etam (Es 13,17-22). È cammino lungo, non per la via più logica, «la strada dei Filistei», costeggiata di fortezze, ma attraverso il deserto. È motivato dalla necessità di assicurare la perseveranza dei fuoriusciti ed evitare che «ritornassero in Egitto» (vv. 17s). È anche marcia militare di un esercito a ranghi compatti, in ordine di battaglia o ben equipaggiato, cammino trionfale con il signore in testa, che manifesta la sua presenza nella «colonna di nube» di giorno e nella «colonna di fuoco» di notte (Es 13,21-22). I versi sembrano riassumere e anticipare il tema centrale dell'esodo: il cammino nel deserto (il vocabolario del v. 20 caratterizza il ritmo delle grandi tappe, cf 16,1-16). Essi preparano il lettore al distacco definitivo di Israele dall'Egitto (la partenza della mummia di Giuseppe porta via ogni segno egiziano) e lo convincono che egli sta per assistere a un momento unico della storia di Israele (il verbo «vedere» acquista nel contesto una funzione importante).

Nel capitolo 14 la salvezza-liberazione assume la forma di un racconto di guerra e di lotta che rivela la forza di Dio di fronte al potere egiziano. Al popolo che grida all'arrivo degli egiziani, Mosè risponde con un oracolo che fa eco allo schema della «guerra santa»: la «vittoria» è assicurata dalla presenza divina e sarà «salvezza» (v. 13); «n Signore combatterà per voi» (v. 14): Dio combatte da solo contro il potente esercito inseguitore e lo vince, dimostrando la sua «gloria», mentre il popolo rimane in silenzio; supera la paura di Israele con la rassicurazione di Mosè («non temete»); blocca, scompiglia e mette in fuga «esercito, carri e cavalieri».

n ritmo del racconto è segnato da tre riprese del discorso divino (vv. 1.15.26). È la parola di Dio che mette in moto gli eventi: come in Is 40-55, è parola creatrice all'inizio e in tutta la storia; sempre essa compie il disegno divino per cui è inviata (Is 55,11). Riconosciamo dunque tre scene o sequenze, le prime due di simile lunghezza (vv.I-14.15-25), la terza più breve (vv. 26-31). Ognuna inizia con il comando di Dio che dà istruzioni a Mosè e annuncia anticipatamente la vittoria; segue la descrizione degli eventi (=esecuzione e compimento). Al centro delle prime due è annunciato il riconoscimento di JHWH (vv. 4.18), ambedue si concludono con una medesima frase: Il Signore combatte per Israele (v. 14 = promessa, al futuro; v. 25 = riconoscimento degli Egiziani, presente). Due brevi pause (la crisi, vv. 10-13; l'angelo del Signore, vv. 19-20) servono a drammatizzare e rilanciare il racconto. o a creare un tono meditativo e di attesa. L'ultima scena è riassuntiva, realizzando la promessa del v. 13: Israele «vede la salvezza» e crede nel Signore e in Mosè che prima contestava (v. 31).

1. L’accampamento davanti al mare: cammino e attesa (vv. 1-14)

Il comando del Signore pone in moto il fatto narrativo (vv. 1-4): gli Israeliti devono «ritornare» per accamparsi di fronte al mare, così da suscitare la reazione del Faraone: li penserà errabondi e bloccati nel deserto. L'annuncio anticipa il risultato: almeno nell'ultima redazione, è Dio che «rende duro, ostinato» il cuore del re, impedendogli di comprendere il fatto, e lo incita nella sua avidità a inseguire gli schiavi fuggitivi con il suo esercito, preparandone la sconfitta.

Il fatto crea un problema: Dio incita al male? Qualcuno traduce il verbo come «incoraggiare, rendere fermo il cuore, renderlo ardito», cioè «incitare al combattimento», in un contesto di guerra santa o nel confronto di una tenzone, nel senso che Dio lancia la sfida. Ma perché Dio vuole il combattimento? Non per la vittoria di Israele, ma per manifestare la sua gloria di fronte a un potere violento ed essere riconosciuto dagli Egiziani (il v. 17 è tradotto, piuttosto liberamente: «asserire la mia autorità su»). Nel contesto del capitolo, quel combattimento appare un giudizio profetico sul peccato (cf Es 14,4.17-18 con Ez 28,22; 39,13). Infatti, l'ostinazione del Faraone è legata alla sua mutata opinione sulla liberazione. Egli intende ridurre ancora Israele in schiavitù e impedire il servizio-culto a Dio, che sarà dato dopo la liberazione, al Sinai. Il significato ultimo è dunque teologico: il ribelle alla sovranità del Signore sarà costretto, suo malgrado, a riconoscerlo: «gli Egiziani sapranno che io sono JHWH» (v. 4). Israele stesso «vedrà» il Signore come salvatore vittorioso. Così, Dio rivelerà la sua «gloria», manifesterà cioè la sua presenza attiva, «la sua mano potente». L'ostinazione del Faraone è dunque il modo con cui Dio fa conoscere la sua volontà e il suo giudizio, la sua potenza e il suo essere a chi lo rifiuta.

La narrazione (vv. 5-9) dimostra la realizzazione del piano divino: per Israele obbedendo (v. 4b), per il Faraone inconsciamente. Il lettore è condotto nel campo nemico che «insegue», ma due flash lo riportano nel campo di Israele, accentuando il contrasto ( cf due participi: in marcia a mano alzata, in segno di libertà, e accampato, vv. 8b.9b). Gli schieramenti si oppongono nei loro atti: gli Israeliti «fanno» quanto ha detto il Signore (v. 4b), ma rimproverano Mosè di averli fatti uscire («che hai fatto?», v. 11); gli Egiziani si pentono: «che abbiamo fatto?» (v. 5); tuttavia, è Dio il vero protagonista: il nome JHWH-Signore appare otto volte nella sezione, egli guida l'azione (vv. 8-9, cf v. 2), egli «farà» la salvezza (v. 13), risolvendo la crisi.

Il «discorso» divino però non si realizza subito. Il narratore opera uno stacco. Cambia soggetto e ci riporta dagli Israeliti (vv.10b-14): «vedendo» improvvisamente le truppe egiziane avvicinarsi minacciose, sono presi di sorpresa. L'uscita trionfante si tramuta in disperazione: da una parte gli Egiziani, dall'altra il mare. Ogni via è preclusa, il deserto diventa una tomba. È la prima «crisi» dopo l'uscita, descritta secondo il modello delle «mormorazioni» nel deserto (cf Es 15,22-18,27; N m 10,1-20,13; Sal 78), anche se il motivo presenta qualche differenza: la reazione non è dettata da fame e sete, ma da una minaccia esterna. Diventa grido al Signore-JHWH e ribellione contro Mosè. Se il primo risente l'eco delle invocazioni di aiuto in Egitto, la protesta contro Mosè riflette il mancato riconoscimento della liberazione e la nostalgia dell'Egitto: «È meglio per noi servire l'Egitto che morire nel deserto!». L'alternativa Egitto-deserto (vv.II-12) comporta connotazioni emotive e antitetiche; e nei due luoghi si oppongono i contendenti, Dio e Faraone. L'Egitto è insieme oggetto di odio e nostalgia, di rifiuto e desiderio: è il passato della schiavitù ma anche di una certa sicurezza; permane un legame invisibile tra aguzzino e vittima, inseguitore e perseguitato. Il deserto è il futuro con la prospettiva della libertà, ma più prossime appaiono morte e tomba. Tra le due tombe è preferibile «seppellirsi nel proprio passato piuttosto che rischiare il futuro di libertà nel deserto». Questa è rischio che si guadagna e difende contro i pericoli, ma negli Israeliti è ancora viva la mentalità degli schiavi che li porta a «tornare indietro». L'uomo - scrive Alonso Schokel - «si sente diviso tra l'ansia di libertà e il desiderio di sicurezza, e in mezzo al rischio ancora la sicurezza della schiavitù, il riposo finale in un sepolcro».

La reazione di Mosè è diversa dalle altre scene di mormorazione: egli esorta il popolo al coraggio e a una nuova fiducia nel Signore. Occorre ritrovare la «tranquillità» della fede. La sua risposta contiene un oracolo di salvezza (vv. 13-14), la vittoria resta come promessa: non devono temere ('al-tîra'û), ma «stare saldi e vedere (ûre’û)» la salvezza-vittoria del Signore; gli Egiziani che oggi «stanno vedendo» avvicinarsi, non li «vedranno» mai più.

2. La notte in mezzo al mare: notte di veglia, marcia e vento (vv. 15-25)

In questo atto centrale, allo schema di spazio si aggiunge il tempo: la notte. La risposta del Signore conferma l'oracolo di salvezza di Mosè. Anzitutto interroga Mosè: «Perché gridi a me?». In realtà era stato il popolo a gridare (v. 10): la narrazione non accenna a una preghiera di Mosè (come in 5,22-23), forse perché lo identifica con il popolo stesso; egli è intercessore e partecipe di ogni vicenda del popolo (cf 32,31-32). Quindi indica una strada aperta per Israele, esorta al coraggio, a riprendere il cammino (v. 15): richiede l'obbedienza anticipata di fede come ad Abramo (cf Gn 12,1-3). Infine, impartisce l'ordine a Mosè con l'annuncio (vv. 16-18): quel mare che appariva un'invalicabile ostacolo si apre miracolosamente e offre un «passaggio», diventa il luogo della salvezza. E sarà opera del Signore! Accettando di entrare nel mare, Israele accetta il rischio della fede, sfida la morte e supera la paura di morire.

Il v. 17 riprende il v. 4: là Dio spingeva Faraone a inseguire, qui a entrare nel mare. Ma per gli Egiziani sarà un'imitazione fatale. E ribadito lo scopo non ancora realizzato: il Signore mostrerà la sua gloria e sarà riconosciuto dagli Egiziani.

Prima dell'esecuzione (vv. 21-23), un'interruzione narrativa (vv. 19-20) conferisce alla scena un carattere meditativo. È la necessaria riflessione per comprendere l'atto di salvezza. Quella notte sarà notte di veglia e di marcia (fino alla veglia del mattino, v. 24, come nella celebrazione liturgica della Pasqua), i cui protagonisti sono l' angelo e la nube, le tenebre, il vento e il mare. Angelo e nube segni della presenza di Dio, da avanguardia si spostano a retroguardia e separano i contendenti ponendosi in mezzo, mentre vento e acqua si affrontano in un combattimento cosmico, nella tenebra della notte. Tenebre, vento e acqua del mare richiamano l'inizio della creazione (Gn 1,2): dal caos Dio traeva il mondo, da questa grande battaglia sorge una nuova creazione, dalle tenebre una nuova luce. Mediante il «vento orientale», particolarmente arido e violento, il Signore stesso respinge e pone in fuga anzitutto le acque del mare che bloccano la marcia del popolo. Così Israele può entrare nel mare prosciugato e continuare la sua marcia, inseguito per la medesima strada dagli Egiziani con tutto il loro potenziale bellico, ma senza vedere gli avversari, protetti dalla nube opaca.

La lotta tra il vento e il mare dura tutta la notte fino al mattino: le acque si dividono e appare la terra asciutta (vv. 22.29), come nella creazione (Gn 1,9s). In modo simile, il vento aveva prosciugato le acque del diluvio (Gn 8,1), facendo emergere la terra con la ripresa della vita, evidenziando un nuovo cosmo e una nuova umanità. Così, il passaggio in mezzo alle acque del mare acquista un valore simbolico, segna la «nascita» di Israele come popolo, nell'avverarsi di una nuova creazione.

La lotta cosmica si intreccia con quella terrena. In realtà, si tratta di una battaglia umano-divina. Alla veglia del mattino (vv. 24-25), cioè sul far del giorno, il Signore getta il suo sguardo sul campo egiziano e lo mette in rotta. L'azione parte dalla «colonna di fuoco e nube» che di notte teneva i due gruppi separati (v. 24): l'espressione potrebbe essere un modo per dire che temporale, folgore e oscurità nel cielo, scoppiano annunciati dal forte vento del v. 21. Così a tenebre, mare, vento e terra, si aggiungono fuoco e luce. Il cosmo lotta per i fuggitivi, senza che essi combattano, devono solo obbedire. La nube che prima guidava, illuminava e proteggeva ora combatte per Israele, «blocca o frena» le ruote dei carri, oppure le «fa deviare» nel pantano, impedendo l'inseguimento, e travolge l'esercito egiziano seminando il panico. Così gli Egiziani riconoscono che JHWH combatte contro di loro. Si chiude un primo cerchio: la realizzazione della promessa di Mosè (v. 14) e il riconoscimento di JHWH e della sua gloria (vv. 4 e 18). Resta l'ultimo atto, la sconfitta definitiva del nemico, la salvezza e il riconoscimento del Signore da parte di Israele.

3. Il mattino liberatore: sconfitta e salvezza (vv. 26-31)

Nel terzo comando ed esecuzione (vv. 26-27) le azioni invertono il processo rispetto alla seconda scena: le acque divise «ritornano» allo stato originario, incontro agli Egiziani; gli «inseguitori» diventano «fuggitivi». Entrano nel mare, ma mentre per Israele le acque si «ritraggono» (v. 21), formando un muro (vv. 29.22), sicché esso «cammina in mezzo al mare», cioè trova la sua strada (a destra e a sinistra) nell'asciutto, per gli Egiziani non c'è passaggio: sono bloccati e travolti dal Signore «in mezzo al mare», le acque li ricoprono, diventano la loro tomba. I vv. 28-29 riassumono gli opposti effetti finali.

Acquista importanza il tempo. Alla notte di separazione, veglia e marcia, segue il mattino di liberazione e vittoria: il mare è superato, le tenebre sono vinte dal fuoco e dalla luce. Il mattino («la veglia del mattino», v. 24; «allo spuntar del giorno, il primo mattino», v. 27) è sovente simbolo di salvezza o vittoria, il tempo dei grandi interventi liberatori di Dio. È il momento della teofania (Es 19,16) e della manna (Es 16), in cui gli Israeliti vedono la gloria del Signore (16,7-8); al primo mattino avviene l'intervento divino liberatore di Gerusalemme assediata (Sal 46,6); è il mattino dei grandi giorni trionfali (Gs 6,12.15; 8,10). Così «quel giorno» (v. 30) diventa il «giorno della salvezza» (cf 1 Sam 14,23; 2 Sam 23,10), in cui il Signore «agisce» con la sua mano potente (v. 31), giorno da celebrare nella liturgia mediante le feste (cf Sal 118,24).

E la visione finale dei nemici morti sulla spiaggia produce il timore-rispetto di Dio: la vittoria induce il popolo a credere in Dio e nel suo rappresentante. È la sintesi del processo narrativo: di fronte a Faraone che si avvicinava, gli Israeliti levarono gli occhi e temettero assai e gridarono al Signore (v. 10); Mosè esortava a non temere ('al-tîra'û), perché avrebbero visto (ûre’û) la salvezza-vittoria del Signore («vedere e temere» sono foneticamente collegati in ebraico), gli Egiziani che oggi «stanno vedendo» avvicinarsi, non li «vedranno» mai più. Ora Israele sperimenta la liberazione e ritrova la fede: «Israele vide gli Egiziani morti sulla spiaggia», «vide la mano potente» del Signore, «e il popolo temette-rispettò il Signore e credette» (v. 31). La fede di Israele coincide con quella di Mosè. Essa emerge quando la prova è superata, abbandonando il terrore dello schiavo e la paura della morte. Uscendo dal mare Israele nasce come popolo che testimonia e annuncia la miracolosa liberazione di Dio. Allora, il passaggio del mare diventa fatto rivelatore che manifesta i due atteggiamenti opposti dell'Egitto e di Israele. «Da un lato, l'accettazione del rischio giunge alla negazione del mare come termine di tutta la storia e segna, per Israele, l'inizio di una nuova esistenza; dall'altro, l'avidità dell'Egitto ci fa assistere a uno dei molteplici esempi di "imitazione fatale"».

In conclusione, il racconto del passaggio del mare narra della nascita di Israele: «Immerso nelle acque delle origini, tuffato nella notte cosmica, Israele, è separato mediante il fuoco dal suo passato di schiavitù in Egitto e condotto da questo medesimo fuoco verso la luce della sua vita nuova e libera; questa via gli è offerta perché ha vinto la paura rischiando nello sconosciuto che sta al di là; essa è inaccessibile all'Egitto che cerca solo di perpetuare il suo passato». Per gli Israeliti il passaggio è trovare una strada verso una vita nuova, quando non c'è più speranza: entrando nel mare simbolo di morte, lo negano e lo superano. La loro forza deriva dall'obbedienza alla parola del Signore. Il racconto infatti proclama la salvezza mediante la fede. Nella grande lotta essi stanno in silenzio, passivi, inermi. Hanno una sola possibilità, ritrovare la tranquillità della fede (v. 13): se essi «muovono il campo» (nāśā’) e «ritornano» (ŝûb), non in Egitto, ma là dove il Signore ha loro indicato, egli aprirà loro una strada; se essi «fanno» quanto Dio dice, egli «fa» la liberazione. Allora inutilmente l'Egitto «muoverà il campo» dietro a loro; non sarà passaggio, ma imitazione fatale: le acque «ritorneranno» su di loro, per travolgerli «in mezzo al mare». Tuttavia, essi stessi sono invitati alla fede: riconosceranno il Signore che prima avevano rifiutato.

In questa prospettiva si può rileggere il contesto di guerra. Non celebrazione nazionale, ma lotta contro un «potere» che voleva dare la morte (cf Es 2), giudizio e azione di forza di Dio contro quanti si arrogano diritto e giustizia contro il debole, basandoli sulla propria forza (cf Sap 2,11), propagandata con esercito, carri e cavalieri. Costoro da inseguitori si ritrovano fuggitivi. E dalla sconfitta del nemico cosmico è un mondo nuovo che nasce.

In cammino con Dio

Il valore permanente dell'Esodo

di Carlo Bazzi


Per le conseguenze che ha prodotto, per la profondità dei valori che ha messo in gioco, per la ricchezza della sua rivelazione su Dio e sull'uomo l'esodo oltrepassa l'Esodo, il suo senso supera l'evento che lo ha originato, per divenire fondamento della storia di Israele come popolo, modello di azione e di interpretazione, simbolo della salvezza. Rappresenta la continuità del piano di Dio nella discontinuità dei tempi e nell' oscillazione delle risposte umane. Il dossier che si può raccogliere sull'esodo - al,di fuori dell'Esodo - è così altrettanto voluminoso e almeno altrettanto significativo. È utile prima vedere i motivi e i modi della permanenza dell'Esodo nella storia ebraica e poi introdursi negli eventi drammatici dell'esilio babilonese e del ritorno a Gerusalemme con le visioni innovative che produce nei grandi profeti contemporanei. Infine il discorso cadrà sul valore dell'esodo per noi cristiani.

a) Permanenza dell'Esodo

Motivi di permanenza

Molti sono i motivi di questa permanenza e fecondità. Sappiamo bene che l'epopea dell'Esodo è stata redatta a molta distanza dagli eventi ed essa stessa contiene già in se riflessioni posteriori e risonanze attraverso molti altri fatti che hanno influito sul linguaggio e la forma stessa del primo Esodo. Basta pensare all'apostasia del vitello d'oro riflesso della politica religiosa di Geroboamo o all'opera di fusione di due tradizioni autonome come quella della fuga dall'Egitto e quella dell'alleanza sul Sinai.

E la presenza di formule e di un nucleo sostanziale tante volte ripetuto e schematizzato hanno trasformato l'Esodo in un paradigma produttivo. Un primo schema molto diffuso è quello binario dell'uscire e dell'entrare o quello ternario che aggiunge l'attraversare. Una variazione molto frequente è quella che pone Dio come protagonista che fa uscire e fa entrare e il popolo diviene oggetto della sua iniziativa. Questi tre verbi di base attraggono e ordinano tanti temi: all'uscire si collega l'Egitto e la schiavitù; all'entrare il tema della terra, del lavoro e del riposo; all'attraversare quelli del deserto, del cammino e dell'attesa. Verbi e temi formano uno schema facilmente esportabile e applicabile a molte situazioni.

Nella Bibbia è conosciuto un altro schema basato sull'esperienza dell'Esodo: situazione di grave oppressione - invocazione a Dio - intervento divino - lode per la liberazione ottenuta. Dio viene invocato come ultima risorsa per l' estremità del bisogno ma anche perché Egli è considerato il parente più prossimo - il «redentore» - obbligato a intervenire per il legame familiare stabilito con i padri e le promesse fatte loro. È classico l'uso che di questo secondo schema fa il deuteronomista nel valutare la storia d'Israele, ad es., nel libro dei Giudici, programmaticamente espresso e reso riproduttivo in Gdc 2,11-19. Nella sfera collettiva ma anche in quella personale lo ritroviamo descritto in tanti Salmi.

La memoria dell'Esodo sopravvive anche in tanti settori e tante istituzioni della vita di Israele. La Pasqua è, per eccellenza, il memoriale perenne dell'Esodo, che lo rende vivo per ogni generazione e rende ogni generazione contemporanea e protagonista dell'uscita dalla schiavitù dell'Egitto, spingendola a uscire da ogni altra schiavitù. Con questo rito l’'Esodo viene rivissuto nelle dimensioni della famiglia e del vicinato, ricordando e attualizzando, mangiando e bevendo, cantando e significando. Così l'esodo diviene vita. Con il primo mese dell' anno la storia riparte sempre dal suo inizio e i figli di Abramo vengono sempre ricostituiti come popolo.

L' Esodo e l'alleanza

Un altro legame perenne è costituito dalla categoria dell'alleanza, sancita sul Sinai. Essa è inserita nel cuore della esperienza dell'Esodo e realizzata tramite la mediazione di Mosè, lo stesso protagonista storico della liberazione. L'alleanza richiama l'Esodo e, come interpretazione globale di tutta la vita del popolo e dell'individuo, gli conferisce attualità perenne. Sappiamo poco del rito della rinnovazione periodica dell'alleanza. Dt 31,10 lo fissa ogni 7 anni, per la Festa delle Capanne e non sappiamo se ciò fosse la prassi effettiva. Certo ci sono testimonianze di solenni rinnovazioni che hanno valore epocale, come è il caso dell'assemblea di Sichem, appena entrati nella Terra, secondo Giosuè 24 e per Giosia in 2 Re 23 e così via. L'esodo rivive nell'alleanza e l'alleanza trae la sua origine e il suo senso da quella epopea di liberazione. In questo quadro assume il suo vero significato anche la Legge: essa è stipulazione di alleanza, effetto e garanzia della libertà ottenuta, motivo di rapporto e di fedeltà concreta al Dio alleato. Senza la Torah l'Esodo rimane avulso dalla vita o rinchiuso nel passato o nel rito: senza l'Esodo la Legge scade a imposizione o a principio organizzativo o principio etico. La Legge deve esser effetto di un' esperienza di libertà per divenire causa di una condotta nella giustizia e, nella fraternità.

All'Esodo e soprattutto all'alleanza è legata la Terra. È il punto di arrivo del movimento esodale ma è anche un compito e una conquista, che misura le capacità e la fedeltà dell'uomo. Nella stipulazione dell'alleanza, la terra è soggetta a leggi di distribuzione, di riscatto, di produzione, di relazioni. Diviene spesso causa di arroganza e violenza, di scontri e ingiustizie, di tentazioni e di idolatria, di vanto e di ribellione. La bella catechesi di Dt 8 invita a stare sulla terra come nel deserto, dipendenti da Dio e riconoscenti del suo dono. Alla fine, il possesso della terra per se e l' attrazione dei culti della fertilità travierà Israele e porterà alla perdita della stessa terra.

L'Esodo e il rapporto con Dio

Ma l'Esodo non è solo esemplare o giuridicamente costitutivo della vita del popolo, è anche il riferimento forte nello sviluppo e nelle vicissitudini dei rapporti fra il Dio vivo e il popolo peregrino nella storia. L'esperienza che ha creato il popolo fa parte indelebile della sua identità. L'esodo impegna Dio non meno che l'uomo. Drammatico e notevole è l'episodio di Es 32,11-14 in cui Mosè richiama Dio stesso agli impegni derivanti dalla esperienza di liberazione per cui neppure l'Onnipotente può distruggere l'opera delle sue mani o troncare l'iniziativa da lui stesso messa in atto. In Gdc 6,12-16 Gedeone replica all'angelo che lo saluta presentando come uno scandalo la miseria presente confrontata alla grande opera di salvezza operata da Dio al momento dell'uscita dall'Egitto. La memoria dell'Esodo funge come precedente, come memoria di liberazione, come titolo di diritto. Talora i profeti si comporteranno con Dio in modo simile e soprattutto i salmisti useranno una simile forza di pressione perché Dio intervenga a liberarli.

Ma più frequente è il caso contrario: Dio si serve dell'Esodo e dell'alleanza per ribadire a un popolo infedele e sordo gli impegni del patto ma ancor più per presentare le sue garanzie e vantare un'autorità nata dai suoi comportamenti storici e per fondare promesse future. «lo sono Colui che ti ha fatto uscire dall'Egitto...» diviene in bocca a Dio una sorte di autopresentazione, di «captatio benevolentiae», di prova di un impegno senza paragoni. La frase è sparsa un po' in tutta la Bibbia.

Riferimenti all'Esodo fungono anche come motivazione in molti testi legislativi. Il caso più noto è il prologo storico che lega l'Esodo ei Dieci Comandamenti (Es 20,2 e D t 5,6) ma anche tutti i codici importanti sono inseriti nella stessa cornice storica e da essa traggono la loro validità. Su di essa possono essere basate anche prescrizioni singole, come quella sul trattamento degli schiavi in Es 21,1-11.

L'Esodo è il soggetto di insegnamento storico e sapienziale, catechetico e spirituale più ripetuto. Dal «credo storico» di D t 26,5-11 alla grande catechesi di Sap 19, passando per Salmi a sfondo storico e sapienziale (Sal 78, 105, 106, 135) per finire alla lode prorompente da quelli del piccolo e grande Hallel (Sal 114-118 e 136).

b) Il nuovo Esodo

I profeti e l'Esodo

Nei profeti - anche se fanno scarsi riferimenti alla figura stessa di Mosè - domina ancora il riferimento all'Esodo, pur essendo presenti tanti altri riferimenti: ai patriarchi, alle tradizioni di Davide e alle visioni su Gerusalemme e soprattutto ai fatti loro contemporanei. Il Dio nel nome di cui parlano è fortemente quello dell'Esodo ma anche la loro stessa funzione di messaggeri ha senso solo nel quadro dell'alleanza. Sono inviati a difendere le prerogative divine presso la controparte, a salvaguardare i suoi diritti, a far ascoltare la sua voce. In una progressione che pare inarrestabile, Dio richiama il popolo agli impegni dell'alleanza, gli contesta la ripetuta infedeltà e, inascoltato, denuncia l'ostentazione e ne minaccia la distruzione. I testi acquistano lo stile prima dell'accusa e poi della sentenza di colpevolezza e dell'ingiunzione del castigo. Celebre e commovente è l'improperio di Mic 6,1-8 (vedi anche Ger 2,1-10 e moltissimi altri testi). Così il tema dell'esodo si drammatizza e da schema di salvezza si trasforma in elemento di rivendicazione, di accusa e di castigo. In forza del quadro rigido dell'alleanza, l'anti-esodo del popolo porta all'anti-esodo di Dio. Veramente il tema dell'esodo pervade e permea tutta la vita di Israele e ne detta tutti i possibili esiti: da una garanzia continua di protezione e di salvezza a un motivo ineludibile di condanna e distruzione. Di esodo si vive e si muore. L'esodo va aggiornato, reinventato, rivissuto come nuovo evento di purificazione e di salvezza.

La necessità di un nuovo esodo: Osea

Osea riprende le antiche tradizioni ma anche le innova profondamente. Riferimenti al primo esodo si trovano sparsi ovunque nel suo libro (9,3; 12,10; 13,4-6...) ma sono sviluppati in due testi principali, Os 2,5-24 e Il,1-11. In essi il profeta legge le tre fasi dell'Esodo come tre età della vita del popolo: l'uscita è la sua nascita, il deserto si identifica col tempo della sua giovinezza; l'ingresso nella terra è l'inizio dell'età adulta e la vita in essa è l'esperienza di un rapporto di matrimonio. L'infedeltà del popolo-sposa lo mette presto in crisi e demolisce le soglie che separano i tre momenti tanto da renderli circolari: Israele va riportato nel deserto, legato a un nuovo patto d'amore e rigenerato di nuovo. Qui l'Esodo viene smontato da un anti-esodo che genera, però, un nuovo esodo. Esso non consiste più nella costituzione di un nuovo popolo e nella dote di una legge che ne sorregga l' esistenza ma nel tentativo incredibile di toccare il cuore della gente, di intavolare un rapporto profondo per cui la conoscenza di Dio vale più dei sacrifici e l'amore più di qualsiasi altra cosa (cf 6,6). Qui l'amore di Dio per Israele non fa più violenza al faraone o ai suoi nemici e nemmeno si scarica contro il popolo trasgressore; qui Dio fa violenza solo a se stesso per essere e rimanere solo amore. Qui l'Esodo è soprattutto davanti più che alle spalle, un progetto ambizioso in cui pare piuttosto Dio costretto a uscire dai suoi diritti e dalle sue giuste rivendicazioni. Ci si domanda se questo messaggio possa ancora chiamarsi «esodo» o non qualcosa di molto nuovo, un nuovo inizio più che una ripresa, un tema migliore piuttosto che l'approfondimento dell'altro. In ogni modo i contatti linguistici e tematici sono evidenti per cui il nuovo Esodo è certo in tensione ma anche in continuazione del primo Esodo.

La nuova alleanza

Fallite le riforme e iniziato l'esilio, Israele deve registrare la perdita della terra e la fine del quadro originale dell'alleanza. Geremia ed Ezechiele intravedono la necessità e la possibilità di una nuova alleanza. Essa dovrà permettere la rottura della prima e una nuova volontà di salvezza e porre a Babilonia il punto fisico di partenza. Dovrà prevedere la rigenerazione profonda del popolo come spazio intermedio e il punto di arrivo sarà rappresentato da una vera e propria conversione al cuore. Dio prescinderà da ogni rivendicazione di pura giustizia e scriverà nel cuore degli Israeliti la sua legge e la sua alleanza. La conoscenza di essa sarà così profonda come la sua esigenza (Ger 31,31-34).

Anche Ezechiele insiste sulla purificazione e la trasformazione del cuore e ne indica l'agente: lo Spirito. Esso sarà la novità e il garante del rinnovamento e la forza di una inedita capacità di fedeltà del singolo ebreo, ormai costituito come nuovo soggetto al posto del re o della nazione (Ez 36,24-28 e altrove). La vita e la storia del popolo intero ripartirà, come morti risorgeranno, come ossa aride rivivranno nella forza dello spirito (cap. 37). Il primo Esodo stesso sarà re interpretato e rilanciato in base alla forza efficace dello spirito (Is 63,10-14).

Esperienza del nuovo Esodo: il secondo Isaia

Già Geremia (16,14; 23,7-8) aveva parlato del ritorno dalla dispersione babilonese come un intervento di Dio paragonabile all'uscita dall'Egitto e del nuovo esodo che soppianta il primo, ma è soprattutto il profeta anonimo della seconda parte del libro di Isaia che dall'interno e forse dalla stessa Babilonia legge i nuovi fatti in questa luce. Egli ricorda l'Esodo dall'Egitto (43,16ss; 51,10; ...), è quasi lo stesso profeta a sciogliere i lacci e a dare il via alla marcia di ritorno (48,20; 52,11-12; 55,12-13) ed è lui a insistere come nessun altro sul tema del deserto, che diviene luogo di trasformazione e di esperienza della guida amorevole e potente di Dio (35,1-10; 40,14; 41,17-20; 43,19ss). Lo strumento è il re medio Ciro (45,1ss; ...). Il punto d'arrivo non è più genericamente la Terra ma Gerusalemme. La città amata conosce una profonda trasformazione con il progredire del cammino degli esuli verso di essa. È perdonata, consolata ed evangelizzata (40,1ss; 52,7ss), è ascoltata e vendicata (51,17ss), resa di nuovo feconda e piena di figli e figlie (49,17-26; 54,1-3), ricostruita sulla giustizia e dotata di ogni bene (54,11-17), resa sposa e amata (49,14-15 e 54,4-8). Tutti gli elementi sono ripresi e profondamente rinnovati, come il profeta stesso dice con enfasi in 43,18-19, cf 48,6-8 ecc.

In una nuova luce appaiono soprattutto i due protagonisti dell'esodo, di ogni esodo: Dio e il popolo. Dio non è più solo il Dio dei Padri e della nazione, il Dio liberatore è alleato: è il Creatore, l'eterno, il Signore universale di tutta la storia e di tutti i popoli. Dalla forza del suo Nome scaturiscono tutte le sue parole e i suoi gesti di salvezza. Gli idoli sono una mera caricatura davanti a Lui. Dalla sua grandezza deriva anche la sua giustizia e il suo soccorso, che vengono a identificarsi dopo che Israele con l' esilio ha ampiamente scontato le sue iniquità. Il profeta della assoluta trascendenza di Dio è anche il profeta più positivo per il popolo, quasi che onnipotenza e misericordia coincidano. Ancora esistono requisitorie ed accuse verso il popolo di «ciechi» (42,18-25;43,22-26; ...) ma si fanno sempre più frequenti le dichiarazioni di perdono e di amore (40,27-31; 44,1-5; 49,14-16; ...) e l'invito pressante e spesso ribadito: «Non temere»! (41,14; 43,1.5; ...). Il pericolo non è più la ribellione e l'infedeltà ma la sfiducia e l' autodenigrazione. E qui si innesta il contributo più straordinario di questo profeta: anche la sofferenza viene redenta! Sono i famosi canti del Servo che illuminano di luce nuova questi oracoli di salvezza. Il dibattito sulla sua identificazione non è approdato ancora a conclusioni sicure ma tutto avviene come se il Servo potesse identificarsi prima con tutto il popolo e la storia delle sue sofferenze ma poi, là dove non si può più pretendere tanto dal popolo, pare divenire un individuo che subentra per osare, agire, soffrire e morire per tutto il popolo.

Senso nuovo dell'Esodo

La lezione dei profeti rimane indimenticabile. L'Esodo è conosciuto, ripreso, utilizzato ma anche riattualizzato, ripensato e spinto ai limiti e, forse, oltre le sue possibilità. Viene arricchito di una più profonda rivelazione di Dio e di una nuova antropologia, di nuove sfide e nuove promesse. Il ruolo e la persona di Dio è ancor più profondamente rivelato e si assiste a un movimento notevole di personalizzazione, democratizzazione e spiritualizzazione del partner umano. Lo spirito di Dio e dell'uomo vengono radicamente coinvolti in questa conversione al cuore prospettata dai profeti del nuovo esodo.

c) Attualità dell'esodo

La forte ispirazione che ha prolungato l'esistenza dell'esodo per tutta la storia d'Israele rimane valida anche per cristiani di oggi come per quelli di ieri e non è difficile trovare sue risonanze anche in tante culture e movimenti al di fuori della tradizione ebraico-cristiana. Questa permanente forza dell'esodo è legata alla figura di Cristo ma anche al suo radicamento profondo nella natura dell'uomo e nei rapporti sociali.

I Vangeli e l'esodo

Il Nuovo Testamento vi si riferisce innumerevoli volte sia come evento che come figura, sia per esprimere il Cristo che per descrivere la vita cristiana. Il termine «esodo» appare in Lc 9,31, nella Trasfigurazione, come indicazione della morte e risurrezione del Signore a Gerusalemme. Nei vari episodi evangelici si trovano citazioni e riferimenti ai singoli eventi antichi, come, ad es., al serpente di bronzo in Gv 3,14, al Giordano nel quadro del Battesimo di Gesù. Per le Tentazioni, mentre in Marco si fa riferimento ad Adamo per mostrare Gesù uomo nuovo, in Matteo e Luca si attribuiscono a Gesù le stesse tentazioni della generazione del deserto e alla sua vittoria il significato dell'inizio di un nuovo popolo di Dio. Chiaro è il richiamo al rito dell' alleanza sul Sinai nella istituzione dell'Eucaristia come «sangue della alleanza» (Mc 14,24 e paralleli). Si scorge l'influsso dell'esodo sulla struttura e le tematiche di intere sezioni come la sezione del viaggio in Luca o i vangeli dell'infanzia di Matteo. Ma se si scava a fondo sono moltissimi i passaggi e le sezioni in cui è possibile scoprire un riferimento diretto o indiretto, un' allusione o almeno una eco della epopea di liberazione dall'Egitto e della sua grande letteratura.

Molto significativa è la presenza del tema dell'esodo nella composizione globale dei singoli vangeli. In Matteo è notevole la presentazione di Gesù come nuovo Mosè e del vangelo come nuova Torah con i cinque grandi discorsi. Il Vangelo di Luca, oltre ad essere centrato sul grande viaggio, fa di Gerusalemme la meta di arrivo, come nel secondo esodo. Ma è soprattutto nel Vangelo di Giovanni che l' esodo fornisce temi e termini per mostrare in Gesù il compimento della storia della salvezza. Programmaticamente già nel Prologo la mediazione di Gesù viene accostata a quella di Mosè (1,17). Il tema dell'agnello che chiude l'intera opera in una grande inclusione (1,29.36 e 19,36) e il riferimento alla manna domina tutto il grande discorso sul «pane di vita». Ma questo Vangelo osa anche di più: la rivelazione di Dio al roveto ardente viene ripresa da Gesù e attribuita a se stesso in modo che Lui stesso prende ora non più soltanto il posto di Mosè ma quello del Dio dell'Esodo (8,24.28; 10,30; 14,30s ...). Egli è l'unico condottiero (8,12 e 10,4 ...) ma anche l'unico Salvatore (3,17; 4,42; 5,22-24; 12,47).

Non solo il quarto Vangelo ma tutto il Nuovo Testamento riprende l'esodo per illustrare la figura di Gesù Cristo ma si servono di Cristo per dare un senso nuovo all'esodo. Con la Pasqua, si radicalizzano i termini e le azioni dell'uscire-entrare e attraversare. Il punto di partenza non è più una regione dell'Ovest o dell'Est o del Nord o del Sud ma è la morte, la nostra condizione di peccato e di schiavitù; il punto di arrivo non è più la terra d'Israele o Gerusalemme ma cieli nuovi e terra nuova. Gesù non è più impegnato a vincere eserciti o il faraone ma Satana e ogni altro potere che incide negativamente sulla nostra condizione. Il senso di una redenzione totale è dato dall'attraversamento degli inferi e dalla apertura dei sepolcri per cui Egli è il Signore della morte e della vita e ha ogni potere in cielo e terra. Questo esodo radicale è in se stesso universale. Non riguarda più solo un popolo o una razza ma tutta l'umanità, non in modo automatico ma attraverso l'adesione libera della fede. C'è un'altra novità: il Dio liberatore è anche colui che è stato liberato; Colui, da cui proviene il comandamento e ogni autorità, è stato punito per tutte le trasgressioni! Non ci poteva essere avvicinamento più grande fra Dio e l'uomo. Il grande rinnovamento del partner umano dell'alleanza tanto sottolineato nel secondo esodo è ora decisamente e definitivamente iniziato.

L'Esodo e la vita cristiana

Paolo, la lettera agli Ebrei ma anche i Vangeli disegnano per i cristiani un tracciato di condotta, di relazioni e di mete calcate spesso sull'esodo come esperienza e come norma. Nel Battesimo avviene l'uscita attraverso le acque che inizia il cammino e costituisce un nuovo popolo. L'Eucaristia è la Pasqua cibo per il cammino e anticipo del festa di arrivo. Ma tutta la vita del singolo e del popolo cristiano rimane sotto il segno del cammino e dell'attesa del traguardo finale. È l'Apocalisse che più ha tematizzato questo aspetto e ha descritto le vie e le lotte della storia ispirandosi spesso all'antico percorso dall'Egitto alla terra promessa.

Il Nuovo Testamento insiste molte volte sulla problematica della Legge e della liberazione e purificazione del cuore. Lo Spirito Santo viene sempre più spesso menzionato come agente di queste trasformazioni personali e storiche, come già aveva profetizzato Ezechiele per il nuovo esodo. La continuità e la novità cristiana anche in questo settore sono comprensibili solo se confrontate continuamente con la Torah di Mosè e la liberazione dall'Egitto e i grandi approfondimenti profetici. Il cristiano vive perché si muove dietro al suo Mosè, si muove perché ha una meta alta e lontana da raggiungere, per raggiungerla attraversa le prove e i pericoli di deserti dalle mille forme. Il cristiano vive e spera ancora sotto il segno dell'esodo.

Il radicamento antropologico dell'Esodo

Se l'Esodo è rimasto così a lungo permanente e incisivo lo si deve anche al suo radicamento profondo nella vita e nella esperienza umana universale. Nella Bibbia «entrare e uscire» definisce la polarità che contiene tutta l'esperienza umana: per Mosè (Dt 31,23), per Giosuè (Gs 14,11), per Davide (1 Sam 18,14), per ogni uomo (Sal 121,8), per Paolo (At 9,28) e anche per il discepolo che per Gesù Porta del gregge può entrare ed uscire (Gv 10,9). È la polarità che indica l'uscita dal seno materno con tutti i rischi e le possibilità che dischiude. È legata alla crisi adolescenziale dove ritornano i grandi temi del nuovo esodo: il passaggio dall'eteronomia all'autonomia. L'età adulta consiste nel far sgorgare dal di dentro ciò che nell'infanzia ci viene imposto dal di fuori. Ma Osea ha mostrato come proprio l'età adulta può fallire la sua risorsa principale: il rapporto amoroso e religioso. Per cui bisogna rinascere spesso e la vita è un esodo continuo e ripercorrere tappe mai definitivamente superate.

L'esodo fornisce archetipi e modelli soprattutto alla dinamica della libertà. Come il popolo d'Israele è sempre possibile recedere verso la schiavitù protetta e rifiutare il costo di un vero cammino di liberazione. Anche la legge e la fedeltà forniscono infiniti spunti comuni fra vicende antiche e storiche e i drammi comuni delle singole persone umane. Il deserto è ancora uno spazio vitale di grande attualità in un mondo occupato da troppe cose e dai nostri rifiuti. Anche i tempi intermedi (studi, fidanzamento, ricerca di lavoro, permanenza nella famiglia di origine...), se da una parte si riempiono subito di contenuti propri, dall' altra tendono ad allungarsi enormemente e a trasformare la vita in un' attesa. La Terra è di nuovo un dato e un dono da valorizzare e custodire ma anche una risorsa di produzione e un compito di giustizia.

Esodo come emancipazione sociale

Mai l'Esodo ha smesso di essere ispirazione di rivendicazioni di giustizia e di promozione sociale per popoli, classi e individui. Alcuni movimenti si sono esplicitamente richiamati alla Bibbia e alcuni riformatori si sono paragonati a Mosè, soprattutto nell'ambito della cultura afro-americana. E complesso decidersi su quanto influsso Marx abbia subito dalle sue radici ebraiche ma esso è innegabile. Nel nostro tempo, a partire dagli anni '60 e '70 è nata una cultura della liberazione basata su grandi cambiamenti sociali e ispirata da una vera riscoperta dell'esodo. Movimenti, progetti politici, manifesti culturali hanno arricchito profondamente la comprensione dell'antico Esodo e la sua rilevante attualità. Basta qui segnalare alcuni nomi e casi. La teologia della speranza di J. Moltmann si presenta formalmente come una riscoperta dell'escatologia ma soprattutto del dinamismo storico dell'esodo. La teologia della liberazione è il fenomeno più ampiamente condiviso e ha acceso le speranze di un continente intero.

Ma anche il femminismo, la riscoperta di -culture e teologie alternative si inseriscono nello stesso filone tracciato dall' esodo e radicalizzato dalla prassi di Cristo e dalla sua vittoria sulla morte.

Tanti movimenti presentano una innegabile ambiguità e tendono ad applicare il primo Esodo cancellando talora gli approfondimenti e i progressi rappresentati dal nuovo esodo profetico e dal Vangelo. L'emancipazione sociale non può non essere parte di un progetto più globale e radicale.

Conclusione

L'Esodo disegna un lungo percorso biblico che giunge fino a noi, intatto nella sua validità. In questo percorso abbiamo notato una persistente continuità dello schema iniziale, dovuta a fattori notevoli: la grandezza dei primi eventi, le conseguenze storiche che hanno prodotto, le strutture sociali e i riti ma anche l'innesto profondo dei significati dell'esodo nella vita del popolo d'Israele e di tutta l'umanità, della società in genere e dell'uomo in quanto tale. Abbiamo notato anche una grande variabilità e creatività dello stesso schema. Ha saputo costituirsi come figura nella narrazione, fissarsi come quadro di riferimento nei rapporti contrastati della alleanza e rigenerarsi negli eventi dell'esilio per le grandi voci profetiche che lo hanno interpretato. Il Vangelo si innesta in questa fedeltà creativa e radicalizza i suoi temi e le sue dimensioni. In questo intrecciarsi di continuità e novità tre nodi ci sembrano notevoli:

* Il Dio biblico è legato alla storia e ai suoi processi e la storia è una storia di libertà. Il Dio biblico non rimane chiuso nella rete del mito ma è attivo nelle vicissitudini umane, accetta il confronto con le altre forze in campo, si schiera contro ogni oppressione e imperialismo, segue i ritmi e i percorsi della storia, non si sostituisce ma rafforza la responsabilità dei soggetti umani. Guida la storia dal di dentro evi disegna sovranamente un piano senza svuotarla anzi riempiendola. La stabilità della categoria «esodo» fonda e mostra la continuità della storia della salvezza: tutte le generazioni vengono unite e confrontate con la presenza di Dio e della sua costante spinta verso la libertà. La ripetitività dell'esodo prova che la libertà non viene mai raggiunta e che quello della libertà è un percorso di liberazione. Qui sta il vero realismo biblico: i bisogni, le schiavitù e il male non viene negato o escluso ma diviene il punto di partenza del piano di Dio e di ogni cammino umano.

* L'Esodo non è solo un nodo nella catena degli eventi storici ne un mero passaggio fra uno spazio socio-politico negativo a uno positivo. È ancor più la rivelazione di due soggetti e la costruzione della loro relazione. Il secondo esodo esplicita ciò che era già inteso dal primo: Dio si rivela come Liberatore e familiare e Padre e spinge l'uomo a raggiungere le profondità e la purificazione del suo cuore. Ciò significa che l' esodo non è un caso della storia ma si radica sull'essere stesso di Dio e dell'umanità. La presenza attiva e personale di Dio e il coinvolgimento della natura stessa dell'uomo assicurano la vera permanenza dell'esodo attraverso i tempi. Dio guida l'uomo a raggiungere la sua libertà e lo chiama a divenire suo alleato, suo congiunto. Nella figura cristiana del Verbo fatto carne si raggiunge il vertice di questo movimento. L'esodo è un cammino verso la libertà perché è un cammino verso la «conoscenza» e la comunione con Dio.

* Queste trasformazioni in senso personale aprono il dibattito secolare sul ruolo della legge all'interno dell'alleanza. La Torah è molto più che legge e la legge è ciò che estende alla vita l'impegno dell'alleanza. Ma già i profeti affermano che la legge deve essere interiorizzata e che lo Spirito rende la legge possibile e la rende vita. Qui non c'è differenza fra Antico e Nuovo Testamento, fra interpretazione ebraica e cristiana. Essa sorge dal diverso modo di collegare spirito e legge. Per l' ebraismo lo Spirito rimane legato alla legge e in qualche modo in funzione di essa, per il Nuovo Testamento lo Spirito prende il posto della Legge e la legge è in funzione di esso. In ogni modo, l'ultimo approdo dell'esodo è la scoperta dello Spirito. Esso è lo snodo di tutti i nodi: la forza incisiva negli eventi, il principio unificatore dei tempi, l'esigenza della conoscenza invece dei sacrifici e dell'interiorità del cuore, la relazione personale fra i soggetti, la suprema rivelazione di Dio come comunione. Con lo Spirito si compie e si dissolve l'esodo e tutta la storia viene confrontata con le assolute profondità del mistero di Dio e dell'uomo.

(da Parole di vita, 4, 97)

Mercoledì, 29 Agosto 2007 02:30

La vita e la morte (Giovanni Vannucci)

La vita e la morte

di Giovanni Vannucci

Il brano evangelico di Mt 16, 21-27 continua quello della confessione di Pietro; nel tentativo di comprenderlo, è necessario che riprendiamo alcuni vocaboli chiave di tutto l’episodio.

Gesù domanda ai discepoli: «Cosa dite che sia il Figlio dell’Uomo?». «Figlio dell’Uomo» è la traduzione letterale dell’espressione ebraica ben-Adam. Per la nostra mentalità il termine figlio designa il frutto naturale di una coppia; nella mentalità ebraica esso è, piuttosto, il portatore di un destino, di un mandato affidato al capostipite di una famiglia. Così, per esempio, i figli d’Israele sono i depositari e i continuatori della missione divina affidata a Israele. Adamo, nel linguaggio ontologico del Vecchio Testamento, indica l’essere umano distinto da tutte le altre creature per la caratteristica di portare nel suo sangue, dam, la presenza attiva dell’Iddio vivente. Infatti l’uomo, Adam, è l’essere creato destinato a spezzare i ritmi ripetitivi caratteristici degli esseri appartenenti ai vari regni della natura. Cristo, affermando di essere il ben-Adam, il Figlio dell’Uomo, sottolinea la realtà ultima della sua persona, quasi dicesse: io sono la perfetta manifestazione dell’Uomo, nella mia carne e nel mio sangue il Dio vivente è attivo, senza quelle limitazioni che l’esistenza pone a ogni altro uomo. Le mie azioni sono imprevedibili, indeterminabili, come quelle della vita che, pur essendo contenuta nelle forme della manifestazione, è incommensurabile a esse, è dentro le forme esistenti e oltre esse. La mia azione, pur esprimendosi nelle strutture stabilite, non può essere contenuta da esse, le fa esplodere dall’interno. Pietro, in un momento d’improvvisa illuminazione, comprende che la forma umana di Cristo è l’abitazione, lo scrigno dell’infinita vita divina: «Tu sei il vero Figlio dell’Uomo, in Te dimora la vita del Dio vivente». Pietro vien dichiarato «Beato», colui che è nella Verità, avendo saputo trascendere i dati della carne e del sangue in una visione che coglie l’invisibile realtà del Maestro.

E a questo punto comincia la seconda parte dell’episodio. Gesù cominciò a dire apertamente che «avrebbe subito violenza da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti, degli scribi, che sarebbe stato ucciso, dopo tre giorni avrebbe ripreso la vita». Evidentemente queste parole di Cristo continuano, spiegandone l’aspetto concreto, l’affermazione di Pietro: «Tu sei il Figlio del Dio vivente». Quasi dica: «Sono il Figlio del Dio che è vita, la mia manifestazione dovrà essere strettamente aderente alla vita. Come la vita è nelle forme, le conduce alla maturazione, quindi le spezza, le uccide per riprendere la sua trionfale manifestazione, così Io, il Vivente, dovrò essere ucciso, il mio corpo morrà, Io non morrò, il mio nuovo corpo avrà forma differente da quella che adesso ha nella dimensione terrena».

Pietro, ancora beato per aver azzeccato la definizione del mistero del Maestro, di fronte all’imprevedibile quadro che egli fa della sua missione, rimane sconcertato, non capisce più. Per Pietro la vita è la vita, la morte è la morte; ora il Maestro afferma qualcosa di totalmente impensabile: «È necessaria la mia morte, perché la vita raggiunga il ritmo della risurrezione. Nella vita è la morte, nella morte è la vita, questo è l’attuale ritmo; con me l’uomo non crederà più alla morte, ma alla continua ascesa della vita, finché tutto non sia immerso nell’infinita vita divina che è in me, e che con la mia morte aprirà la sorgente gioiosa dell’amore che vince la morte». Pietro non comprende, ricorda le parole recenti del Maestro: «Tu sei Pietro, su di te fonderò il mio nuovo popolo», si sente investito dalla missione di proteggere l’amato Maestro, così indifeso e imprevedibile! «Signore, quello che stai dicendo non accadrà mai!», afferma con sicurezza. La risposta che riceve è sconcertante: «Pietro, non ti comportare da condottiero, vieni dietro a me; con queste tue parole, dettate dal modo di sentire dell’uomo inferiore e non dalla sapienza di Dio, tu sei per me un Satana e un inciampo».

Satana è l’avversario, il persecutore, l’inciampo, la pietra che devia il corso della vita. Cristo postula il continuo superamento delle forme in una sempre nuova novità, Satana postula la permanenza della forma raggiunta, si oppone alla sua distruzione, vuole la permanente solidità in contrasto con la vita divina che, gioiosa, danza nell’universo e nella coscienza distruggendo ciò che non può accompagnarla nel suo crescente ritmo di vita. Cristo, implacabile, continua a rivelare il segreto contenuto della vita: «Chi vuol seguirmi, deponga le pesanti chiusure che gli impediscono di partecipare alla mia vita, si carichi della sua personale croce e cammini con me».

La Croce, non soltanto la sofferenza, è l’energia che struttura, di giorno in giorno, la nostra forma psicosomatica, ne favorisce lo sviluppo vitale: caricarsela sulle spalle vuol dire presentarsi alla soglia delle continue trasformazioni della vita con tutto il peso della propria realtà, in piena maturità, per passare oltre, per gettare la propria vita nelle continue mutazioni che ci attendono e che sono le tappe della nostra ascesa. In questo cammino il Figlio dell’Uomo è la misura che misurerà tutti, il peso che tutti peserà.

In tutto l’episodio svoltosi a Cesarea di Filippo, ci viene rivelata la funzione di Pietro, in parte spirituale, nella confessione: «Tu sei il Figlio del Dio vivente», e in parte temporale, nella sua opposizione a Cristo. Osare l’inosabile è la caratteristica del Figlio di Dio e dei figli di Dio, che si gettano in Dio come in un gorgo. Pietro inorridisce e indietreggia. Sarà sorpassato milioni di volte dal volo d’aquila dei veri fratelli del Signore, degli autentici figli di Dio. Che importa se non saranno sempre e tutti ortodossi? Cristo ha detto: «Solo chi perderà la sua vita per amor mio, la salverà».

Giovanni Vannucci, Risveglio della coscienza, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, (20a del tempo ordinario - Anno A), pp. 153-155.

Dietrich Bonhoeffer (1906-1945)
L’eco d’oltreoceano *

di Renzo Bertalot



Premessa

Negli ultimi tempi gli scritti di Dietrich Bonhoeffer sono stati raccolti con minuziosa cura e le ricerche sul suo operato conoscono un crescendo di notevole portata. L’interesse per il martire tedesco non è certo mancato negli Stati Uniti d'America. Le trentotto lettere dell'ex fidanzata di Bonhoeffer sono gelosamente conservate presso la Harvard University in attesa di pubblicazioni integrali e dei consensi necessari per le traduzioni in altre lingue. Intanto le opere del teologo tedesco sono state largamente diffuse nel mondo anglosassone.

Ci proponiamo pertanto di richiamare succintamente alcuni momenti essenziali della vita di Bonhoeffer e di rinviare il lettore alle prospettive del suo pensiero che hanno trovato un eco feconda nella riflessione teologica dell'America Latina.

A - Richiami

Dietrich Bonhoeffer nacque il 4 febbraio 1906 a Breslavia (allora Germania, oggi Polonia). Suo padre era psichiatra. Studiò a Berlino. A ventun anni presentò la sua prima tesi: Sanctorum Communio e nel 1930 conseguì la libera docenza con una seconda tesi su Atto e Essere.

Viaggiò molto, venne anche a Roma e, senza polemica, colse la serietà dell'"altro" e del "diverso": il cattolicesimo romano. Fu pastore della comunità di lingua tedesca a Barcellona e più tardi (1933) di quella londinese. Dal 1930 al 1931 usufruì di una borsa di studio presso l'Union Theological Seminary di Nuova York. Fu accolto con grande simpatia dalla comunità negra di Harlem della quale ebbe modo di apprezzare la viva spiritualità (i Negro Spirituals). Per Bonhoeffer la conoscenza dell'Evangelo Sociale fu un'occasione di "arricchimento" e di "ispirazione", che gli facilitò la sua comprensione "delle cose dal basso". (1)

Bonhoeffer fu consacrato pastore (11 novembre 1931) e nominato docente onorario di teologia all'università di Berlino.

Nel 1931 incontrò K. Barth che era e rimase un suo costante punto di riferimento. Barth lo cita spesso e volentieri nei volumi della Dogmatica. Tuttavia se è necessario condividere con il teologo di Basilea che la religione è una ribellione alla grazia bisogna andare oltre e dire un no secco alla religione. Così occorre andare oltre R. Bultmann, pur condividendone la demitizzazione e la comprensione esistenziale di sé: prospettive eccessivamente individualistiche. Infine si può concordare con E. Gogarten sulla totale secolarizzazione, ma a condizione di affermarne soprattutto l'aspetto pratico. (2)

Nel 1933 Hitler sale al potere. K. Barth e Paul Tillich lasciano la Germania mentre Bonhoeffer, come dirigente del movimento ecumenico, si occupa di Fede e Azione e si fa promotore dell'unità della chiesa, tema che gli rimase sempre a cuore. Contesta l'antisemitismo divampante. Alla radio condanna quelli che fanno un idolo di se stessi, ma la sua trasmissione viene interrotta.

Nota, con grande rammarico, il disinteresse inglese per gli affari ecclesiastici interni alla Germania, per la contrapposizione tra i "cristiano-tedeschi" e l'emergente "chiesa confessante". Intanto dal settembre 1933 M. Niemöller aveva organizzato la "Lega pastorale d'emergenza” (un embrione della futura chiesa confessante). Nel gennaio 1934, a Barmen, viene formulata (la redazione è di K. Barth) la "Dichiarazione teologica sulla situazione presente della Chiesa Evangelica tedesca" (manca però una parola chiara sull'antisemitismo). Nell'ottobre 1934 è esteso apertamente l'invito ad aderire alla Chiesa Confessante nella quale convergono i due movimenti accennati. In quel tempo Bonhoeffer aderisce alla Chiesa Confessante (è una chiesa in autodifesa?) mentre si trova a Londra intento a stabilire contatti con il vescovo anglicano George Bell allora presidente di Fede e Azione.

Ma Hitler è ormai considerato un anticristo perciò si può affermare con coraggio: Extra ecclesia (confessante) nulla salus. Il 9 novembre scatta la famosa "notte dei cristalli", ne seguono cento morti e trentamila deportati. Bonhoeffer, che si trovava in America è invitato a stabilirvisi, ma torna definitivamente in Germania il 6 luglio 1939. Paul Lehmann lo incontra a Nuova York e al momento dell'imbarco lo accompagna alla nave.

In Europa incontra W. Visser't Hooft in Svizzera. Va ad Oslo. Viene cooptato nello spionaggio tedesco diretto dall'ammiraglio W. Canaris. Partecipa all'organizzazione del complotto contro Hitler, ma l'impresa non riuscì; il fallimento ebbe luogo il 20 luglio 1944. Intanto Bonhoeffer era già stato arrestato (5 luglio 1943). Il 9 aprile 1945 a Flossenburg viene condannato a morte mediante impiccagione ad uncino.

Eberhard Bethge, amico e biografo di Bonhoeffer; rilevò che purtroppo non tutti i vescovi luterani lo considerarono un martire cristiano. Alcuni si limitarono a parlare di lui come di un martire politico.

B - Rinvii

Leggere Dietrich Bonhoeffer vuol dire imparare a districarsi (Paul M. van Buren) tra una serie di paradossi che rischiano di scoraggiare il lettore frettoloso (ateismo cristiano?). Gli esperti che, invece, ne hanno seguito il cammino da vicino tendono a sottolineare alcuni momenti significativi del pensiero bonhoefferiano. Intanto la teologia dialettica, portata alla ribalta da K. Barth, costituì un costante punto di verifica. La presenza di Dietrich Bonhoeffer in Inghilterra, la sua amicizia con il vescovo anglicano George Bell e la visita ai monasteri anglicani caratterizzati dalla loro "segreta disciplina della fede" impegneranno il nostro teologo a un livello ecumenico sempre più marcato e lasceranno un'impronta determinante nel lavoro biblico con i suoi studenti a Finkenwalde: un'eco indelebile d'oltre oceano che ritornerà spesso nei suoi scritti (Sequela). Solo chi crede obbedisce e solo chi obbedisce crede!.

Nell'aprile 1944 Bonhoeffer ci pone di fronte ad una nuova formula: l'interpretazione non religiosa del cristianesimo (Bethge). La religione è "carne" mentre la fede è "Spirito". La religione è "un pezzo di questo mondo prolungato". La religione non è una condizione della fede, ma una forma espressiva dell'uomo" a carattere individualistico. Occorre evitare il dio "tappabuchi" che s'infila nelle crepe della ricerca scientifica e "la grazia a buon mercato" che non promuove alcun impegno. (3)

Oltre alle formule cristologiche "sterili", che sono giochi intellettualistici, bisogna affermare il Cristo, uomo per gli altri; è il Signore dei non religiosi perché esiste una sola realtà: il Regnum Christi. È perciò necessario rischiare con forza la formula di Ugo Grozio, citata frequentemente: Etsi Deus non daretur. L'interpretazione non religiosa è l'interpretazione della fede. Il linguaggio religioso va abbandonato partendo da Cristo e rendendosi conto che il cristianesimo ha portato e porta una veste religiosa. Oggi avvertiamo che la teologia e l'annuncio non possono semplicemente ripetere frasi bibliche. I tempi sono cambiati e perciò richiedono una terminologia differente, una traduzione.

Che cosa significa allora essere cristiani oggi? Qual è il rapporto fede-mondanità? Bonhoeffer propone una forte dialettica tra identità e identificazione cioè una lettura cristologica della realtà di un mondo composto da idolatrie rivali. Senza identità l'identificazione diventa idolatria e ideologia: "noi viviamo nelle penultime cose e crediamo nelle ultime”.

Siamo alla fine della religione e all'inizio di un tempo completamente areligioso che esige in tal senso il rinnovamento della predicazione. Il Cristo per gli altri vuol anche dire una chiesa per gli altri (che vive di sole offerte).

C - L'America Latina

Già prima dell'ascesa di Hitler al potere (1933) si era formata in America del Nord una folta schiera di teologi barthiani. (4) Nel 1930-1931 Dietrich Bonhoeffer, l'abbiamo già ricordato, si trovava a Nuova York con una borsa di studio presso l'Union Theological Seminary. Fu in quell'occasione che venne a contatto con Paul Lehmann ed ebbe origine una lunga e duratura amicizia. Nel 1939 rifiutò l'invito di P. Lehmann a stabilirsi negli Stati Uniti e rientrò in Germania. Ma in quell'anno non si fermò la sua fama di valente teologo.

L'influenza di Bonhoeffer in America latina ha avuto il suo centro propulsore nel Theological Seminary di Princeton, dove nel frattempo si era trasferito P. Lehmann. Ed è proprio a Paul Lehmann (lo ricordo con stima è stato anche mio professore) che si deve la formazione bonhoefferiana di numerosi studenti ricercatori provenienti dall'America del Sud. Si poteva dire che nessun teologo più di Bonhoeffer incise sulla riflessione teologica del continente meridionale. A partire da Lehmann il pensiero bonhoefferiano coinvolse tra i primi (1952) Richard Shaull, professore al Seminario Presbiteriano di Campinas (Brasile). Sempre sotto la stessa spinta si cominciò a leggere assiduamente Bonhoeffer in rapporto alla nascente teologia della liberazione. L’interesse teologico si concentrava sull'etica contestuale e non più su quella normativa tradizionale. Dal Seminario di Princeton erano intanto giunti i rinforzi con Beatrix Melano (MRE) che, dal 1957 al 1959, fu chiamata ad assumere la responsabilità del Movimento Volontario degli Studenti, e Rubem Alves che aveva ottenuto il dottorato di ricerca (Ph. D) con una tesi sulla speranza umana (originariamente intesa come teologia della liberazione: titolo che suscitò allora difficoltà editoriali). Purtroppo nel 1960 tutti i bonhoefferiani furono espulsi dal Brasile, ma l'interesse ecumenico degli studenti fece si che l'eco di Bonhoeffer arrivasse anche a Buenos Aires. Emilio Castro fu tra i primi visitatori e conferenzieri. Nel 1961 venne anche Paul Lehmann. Ma, con l'andar del tempo e i colpi di stato in Uruguay e Cile (1973), vennero sospesi i movimenti degli studenti perché sospettati di sovversione.

Allora si pose il problema se prendere le armi o meno. In fondo Bonhoeffer aveva accettato, insieme con altri, di complottare un attentato contro Hitler e pagò questo suo impegno con la vita. Rimase forte la convinzione che Bonhoeffer non avrebbe mai accettato di confondersi con i guerriglieri perché era radicalmente un pacifista e un grande ammiratore di Gandhi. Tante volte aveva sperato di andare in India per approfondire la sua riflessione sulla resistenza passiva. (5)

Paul Lehmann, che fu il grande mediatore di Bonhoeffer in America Latina, ci ricorda alcuni punti della riflessione teologica in via di maturazione. A proposito del rapporto tra "ideologia" e "utopia" va notato che la prima è il prodotto dell'ambiente mentre la seconda ne costituisce la contestazione. Si instaura così un nuovo rapporto tra credere e obbedire e viceversa. Tradire può diventare la forma del "vero patriottismo". Lehmann ci ricorda con Bonhoeffer che non ci si può attendere che il padrone liberi spontaneamente lo schiavo. (Eppure qualcosa del genere è accaduto, molti anni dopo, quando il battista Martin Luther King, il metodista Mandela e il vescovo anglicano Desmond Tutu dedicarono proprio la loro vita a tale scopo). La violenza contro il potere è sempre e soltanto un rischio penultimo; in questo caso la violenza ha un carattere apocalittico. Infine bisogna arrivare ad un rovesciamento dei valori: non è giusto quel che è conforme alla legge, ma dev'essere legge quel che è conforme a giustizia; la libertà non va concepita entro l'ordine, ma è l'ordine che dev'essere espressione della libertà. (6)

Queste idee risuonavano nel 1967 all'Università di Berkeley in California al momento della rivolta studentesca contro l'establishment che a partire dall'anno successivo incendiò anche l'Europa. Giustizia e libertà non sono incasellabili nelle evoluzioni politiche dei popoli; le trascendono sempre in vista di un consenso apud omnes gentes, come insegnava Ugo Grozio, il fondatore del diritto internazionale.

Riassumendo

Niccolò Machiavelli aveva ricordato che la storia ci insegna una lezione molto chiara. il profeta rimasto solo muore. Così il fior fiore dei riformatori italiani del XVI secolo trovò, nella fuga all'estero, una via di scampo e uno spazio per la loro testimonianza. Karl Barth e Paul Tillich dovettero abbandonare la Germania di Hitler nel 1933. A noi lasciarono in eredità le dogmatiche più prestigiose del XX secolo. Dietrich Bonhoeffer non fuggì quando gliene venne offerta l'opportunità. Tornò in Germania e morì martire, profeta di tempi nuovi. La sua testimonianza ha varcato facilmente l'oceano Atlantico per fecondare riccamente e in maniera determinante la riflessione teologica del continente sudamericano. L'eco della sua missione continua a rimbalzare da una nazione all'altra richiamando le chiese alla concretezza della fede cristiana (è anche l'appello costante e attuale del Terzo Mondo), impegno che trascende ecumenicamente ogni religiosità che ci portiamo dietro.

Note

* Il presente testo è apparso in Studi Ecumenici, cf. R. Bertalot, Dietrich Bonhoeffer. L'eco d'oltreoceano, in Studi Ecumenici, 19 (2001), pp. 529-526.

1) Nel mezzo secolo che precede la prima guerra mondiale gli Stati Uniti conobbero l'affermazione del Social Gospel. Furono decenni di riflessione sull'etica cristiana che raccolsero il consenso di quasi tutte le chiese protestanti. Si moltiplicarono le pubblicazioni (In His Steps raggiunse i ventitré milioni di copie), le associazioni sociali e le cattedre di etica. Vi fu una notevole assonanza con il progredire del socialismo. L'utopia marxiana non disturbava l'impegno sociale dei cristiani che si appellava alla volontà di Dio da attuare anche in terra come in cielo. L'Evangelo Sociale offriva una motivazione e un'anima alle proposte sociali mentre il socialismo disponeva gli strumenti adatti a fronteggiare l'alienazione del proletariato. I credenti di estrazione fondamentalista offrirono il loro senso radicale di disciplina superando gradualmente le ristrettezze dell'individualismo; i metodisti apportarono la vivacità del risveglio, i riformati la riflessione teologica (sul male sociale e sulla concorrenza in quanto demoniaca) e gli anglicani la loro solida struttura organizzativa. W. Rauchenbush, pastore battista di estrazione kantiana, fornì i suggerimenti teologici più significativi per superare le crisi della società. Nel 1956 Reinhold Niebuhr ne ricorderà l'attualità.
Purtroppo il ritorno selvaggio del capitalismo con la prima guerra mondiale frenò ogni slancio e sospese l'appoggio delle organizzazioni ecclesiastiche. Tuttavia non si spense l'anelito verso un'etica collettiva degna di essere una risposta concreta alla Parola di Dio.
Per Bonhoeffer l'Evangelo Sociale fu un'occasione di "arricchimento" e d'"ispirazione". Paul Tillich dovette spesso giustificare il contenuto delle sue dotte lezioni rispondendo alla semplice domanda: "A che cosa serve?" Eppure Tillich era ben conscio della "maledizione della storia europea" e che nessun kairòs previsto dalla cultura tedesca si era mai realizzato. Il contributo della sua riflessione etica (III volume della sua Teologia Sistematica, tradotto ma non ancora pubblicato in italiano) varcò presto i confini della teologia per impegnare interdisciplinarmente altri settori scientifici. Bisogna inoltre ricordare la rivolta di Barth contro l'etica dei suoi maestri di teologia (1914).

2) H. Zahrnt, Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia, 1969, pp. 142 ss. e 177s.; R. Bertalot, Paul Tillich. Una teologia per il XX secolo, Ave Minima, Roma, 1969; R. Bertalot, La teologia della crisi e la cultura europea in Paul Tillich, in Rivista di teologia morale, n.130, (2001), pp. 199-206; E. Bethge, G. Ebeling, P. Lehmann, P.van Buren, Dossier Bonhoeffer, Queriniana, Brescia, 1975.

3) D. Bonhoeffer, Le prix de la grace, Delachaux et Niestlé, Neuchàtel, 1962; R. Shaull, Oltre le regole del gioco, Claudiana, Torino, 1972, pp. l45 ss.; B. Melano, The Influence of Dietrich Bonhoeffer, Paul Lehmann, and Richard Shaull in Latin America, in The Princeton Seminary Bulletin, n.l (2001), pp. 61-84.

4) Presso il Seminario Teologico di Princeton esiste un "Centro di studi barthiani", Cf. The Princeton Seminars Bulletin n. 2 (2001), pp. 243s.Studi su D. Bonhoeffer sono ampiamente segnalati alle pagine 245-254.

5) Melano, The influence, p. 82.

6) P. Lehmann, Transfiguration politics, SCM Press Press, Londra, 1975, pp. 57, 84, 262-268.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

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Max Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Ed. Leonardo, Roma, 1945.

Una lettura ortodossa del libro Gesù di Nazaret

Gesù della storia e Gesù dello spirito

di Vladimir Zelinskij




La lettura del libro “Gesù di Nazaret” mi ha fatto tornare in mente la domanda di Giovanni Battista: “Sei Tu Colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Mt. 11,2). L’uomo di oggi potrebbe chiedere: “Sei tu di cui parlano i Vangeli e le Chiese istituzionali o sei solo un’ombra di qualcuno che è diverso e sconosciuto?”. Sembra che il libro di papa Ratzinger nasca dalla necessità di rispondere a questo interrogativo e perfino alla sfida spirituale che la nostra epoca rivolge all’Uomo di Nazaret: “Chi sei Tu?”. La risposta del “Gesù” del Papa è fatta con chiarezza e onestà, con sapienza erudita, ma anche col linguaggio del cuore che si fa sentire attraverso un’argomentazione precisa e dettagliata. Il suo scopo, come spiega l’Autore, è di “presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale” (p. 18), di colmare lo strappo aperto fra il “Gesù storico” ed il “Gesù della fede”. Strappo che dovrebbe essere così doloroso per l’Occidente cristiano e che, almeno per ora, ha risparmiato l’Oriente e che apre la strada alle altre “notizie” su Gesù. Un Gesù sottratto alla Tradizione apostolica e diventato protagonista di invenzioni letterarie, di libere fantasie, gnostiche o “troppo umane”. Il compito del libro è di fornire la nuova visione di Gesù, vero, evangelico, credibile, radicato nella tradizione del Suo popolo; in altre parole, ecclesiale. Il metodo del Papa è quello della Fides quarens intellectum, secondo la formula di Anselmo, la fede che cerca la comprensione attraverso una lettura attenta, che analizza, convince, si appoggia sulla scienza moderna della Scrittura. Alla fine del cammino questa fede arriva alla confessione di Pietro: “Tu sei Cristo, Figlio del Dio Vivente!” (p. 401). Ma la strada delle prove battuta dall’Autore - sempre con grande stile e impeccabile documentazione - ci porta ad un’altra domanda: si può ottenere con la ragione credente ciò che né la carne né il sangue possono rivelare, ma solo il Padre che sta nei cieli? Si può penetrare nel “pensiero di Cristo” (1 Cor. 2,16) soltanto col nostro pensiero o intravedere la Seconda Persona della Santissima Trinità attraverso la sola riflessione scientifica sulla storia di Gesù? O per avvicinarlo bisogna fare un salto che ci stacca dalla terra ferma del discorso logico e razionale permettendoci di entrare nell’incomprensibile?

Nella sua opera il Papa cita un pezzo del dialogo prestato dal libro di Jacob Neusner “Un rabbino parla con Gesù”. “Così – dice il maestro – è questo che il saggio Gesù aveva da dire?” Non, precisamente, ma quasi”. Egli: Che cosa ha tralasciato”. Io: Nulla. Egli: Che cosa ha aggiunto allora. Io: Se stesso” (p. 131). “La centralità dell’Io di Gesù nel suo messaggio - commenta l’Autore - imprime la nuova direzione a tutto”. La rivelazione di questo “Io” è il punto di partenza per ogni fede cristiana, ma possiamo conoscerlo solo attraverso la sua “parte visibile”? Possiamo dire che l’Io di Gesù è davvero aperto a noi? La persona di Cristo, come luce di Dio che abita nelle tenebre è, nello stesso tempo, celato e rivelato. Lui è “il segno di contraddizione” (Lc. 2,34), come dice il vecchio Simeone. Quel segno fa parte della realtà umana e nello stesso tempo la rende problematica, la mette sotto il suo giudizio. Lo vediamo nel Discorso della Montagna, analizzato nel nostro libro con grande cautela e profondità. Le beatitudini di Gesù, dice il papa, si sviluppano dai comandamenti di Mosè e formano la nuova Torah. Quel Discorso porta in sé “la cristologia nascosta”, ma anche “ un quadro completo della giusta umanità” (p. 157). Da un altro lato le Beatitudini appartengono ad una diversa realtà, quella della salvezza che mette la vecchia umanità sottomessa alla legge di Mosè sotto il giudizio del Regno promesso da Cristo.

Questo è il problema principale che pone il grande “Gesù di Nazaret” al lettore “orientale”: si può davvero entrare nel mistero della fede con lo sguardo concentrato solo sul personaggio storico, su tutto ciò che può essere capito, analizzato, chiarificato razionalmente? L’Io divino-umano di Gesù può essere “spiegato” dall’analisi del testo scritto? Quando Egli dice: Io sono sorgente d’acqua viva (Gv. 7,37), vediamo il miracolo della Parola, ma la sorgente che è nel Padre resta invisibile.

“’Io sono’ si colloca totalmente nella relazionalità tra Padre e Figlio”, dice il Papa, - “in tutto il suo essere non è altro che rapporto con il Padre” (p. 399). Ma noi in quale modo possiamo entrare in questa relazione? Il volto del Figlio si fa intravedere sotto i simboli dell’acqua, del vino, della luce, della vite, del pane, ma come questa acqua arriva a noi, questa luce ci tocca, questo pane e vino diventano il nostro cibo? Tra noi che viviamo oggi e i tempi di Gesù - oltre la nostra grata memoria, la venerazione, la comprensione, la conoscenza - c’è anche un protagonista invisibile, un attore che ci fa entrare nell’intima e diretta relazione con Cristo: lo Spirito Santo. È proprio Lui che riempie e fa vivere in noi i segni e le immagini di Gesù: acqua, luce, vita, parola. Perciò: “nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor. 12,3)

Il metodo del libro è sempre proprio del Ratzinger teologo, convinto che la via della vera ragione coincida con la via della fede (cfr. il discorso pronunciato a Ratisbona nel settembre 2006). Tutte e due hanno il medesimo fondamento della verità. Ma la verità dello Spirito coincide completamente con la verità che possiamo raggiungere con la mente? Qui sorge il primo solco di quell’incomprensione fra Oriente e Occidente che fa eco nei secoli: nel trattare dell’umanità di Gesù che, come venne detto, “non conosciamo... secondo la carne” (cf. 2 Cor 5,16) e neanche secondo la “carne” della sapienza umana. Chi legge queste quasi 450 pagine su Gesù non può non ammirare la qualità della forma letteraria di un testo perfettamente organizzato, preciso e denso, un testo in cui non c’è una riga di troppo e un’osservazione che aggiunga qualcosa al già detto. Ma dopo tutto questo cammino il lettore si ferma davanti ad un enigma, oltre il quale il pensiero analitico non può andare. Il libro di Benedetto XVI è, senza dubbio, un’incomparabile testimonianza della fede nel Gesù della Scrittura, ma la sua testimonianza fa appello ad un’altra dimensione, quella del Regno dello Spirito, che è sempre vicino, ma che è non di questo mondo.

Sabato, 11 Agosto 2007 02:04

Maria incontra Gesù nell'annunciazione

Nell’incontro, nell’alterità più assoluta e nella comunione più stretta, si creano a vicenda: Maria accoglie e dona a Gesù la realtà di figlio, il figlio dona a Maria la realtà di madre.

Sabato, 11 Agosto 2007 01:52

L'esilio babilonese (Luca Mazzinghi)

L'esilio babilonese

di Luca Mazzinghi

L'orizzonte storico della seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55) è costituito dalla catastrofe dell'esilio a Babilonia degli abitanti di Gerusalemme; è agli esiliati, infatti, che questi capitoli si rivolgono. La storia dell'esilio ha radici lontane: già il regno del Nord ha conosciuto l'esilio, come si è visto nei numeri precedenti, dopo la distruzione di Samaria da parte degli assiri nel 721. Nel regno del Sud, in Giudea, il re Ezechia ha evitato per poco una sorte analoga (cf gli episodi relativi alla guerra siro-efraimita e all'invasione di Sennacherib). Il regno di Manasse (687-640 ca.), figlio di Ezechia, trascorse senza troppi sussulti; Manasse, vassallo dell'Assiria, riuscì a conservare la pace e un minimo di indipendenza, pur a prezzo di tributi e di un compromesso di carattere anche religioso; il giudizio che il testo di 1 Re 21,1-18 darà del suo regno è, proprio per questo motivo, molto negativo. Dopo il brevissimo regno del figlio Amon, i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme riuscirono a porre sul trono il giovanissimo Giosia - di appena otto anni! -, uno dei figli di Amon, creando così le condizioni per una grande opera di riforma religiosa di carattere fortemente monoteista, sullo spirito del libro del Deuteronomio. La composizione di questo libro (o almeno dei cc. 12-26), iniziata probabilmente sotto Ezechia, viene completata proprio sotto il regno di Giosia, sotto il quale iniziano anche ad essere scritti i testi che poi diventeranno i libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e dei Re.

Ma proprio negli anni della maturità di Giosia, verso il 612, un brusco cambiamento nel panorama internazionale ebbe gravi riflessi sulla storia di Israele: l'Assiria scompare improvvisamente dalla scena, la sua capitale, la grande città di Ninive, viene distrutta sotto i colpi del nuovo astro nascente, l'impero neobabilonese. Del crollo dell'Assiria cerca di avvantaggiarsi l'Egitto, che, sotto la guida del faraone Necao, inizia una avanzata verso nord; in questa campagna condotta attraverso la regione palestinese il re Giosia viene ucciso, nel tentativo, probabilmente, di contrastare l'avanzata del faraone. La morte del re giusto sarà un episodio che segnerà profondamente gli Israeliti. Siamo nel 609 a.c. e gli anni che seguiranno saranno anni di grande confusione e di veloce declino per il regno di Giuda, eventi che la Bibbia ci descrive negli ultimi capitoli del secondo libro dei Re e, soprattutto, nel libro del profeta Geremia, contemporaneo di questi fatti.

Dopo l'uccisione di Giosia, il faraone Necao nominò un re di suo gradimento, il debole Ioiakim, che, pochi anni dopo, sarà pronto a cambiare bandiera, quando, nel 605, Necao verrà sconfitto dal re babilonese Nabucodonosor; nel 598 lo stesso Nabucodonosor assedia e conquista Gerusalemme nel corso di un periodo molto confuso; nell'assedio il re Ioiakim muore e il figlio Ioiachin viene deportato a Babilonia, dove resterà a lungo; con lui viene deportata una piccola parte della popolazione, in particolare nobili e artigiani. Gerusalemme, tuttavia, non viene distrutta e su di essa Nabucodonosor nomina un nuovo re, Sedecia, un altro dei figli di Giosia. La politica debole e vacillante di Sedecia ci è nota dai cc. 32-38 di Geremia; in seguito a una doppia ribellione contro Babilonia, Nabucodonosor ritorna nella regione e, verso la metà di luglio del 586, distrugge Gerusalemme, dopo due anni di assedio; Sedecia viene catturato, i suoi figli uccisi ed egli, dopo essere stato accecato, è condotto prigioniero a Babilonia, questa volta insieme a una parte considerevole della popolazione. Il libro delle Lamentazioni descrive in modo drammatico l'accaduto e l'impatto che la sorte di Gerusalemme ebbe sul popolo d'Israele.

Dopo la doppia deportazione e la distruzione di Gerusalemme, nella Giudea restarono soltanto le classi più povere della popolazione; l'economia, in un paese devastato dalla guerra, fu ridotta a pura economia di sussistenza. Le autorità di Babilonia nominarono una sorta di viceré, il governatore Godolia; invano il profeta Geremia invitò i superstiti rimasti in patria a sottomettersi all'autorità di questo Godolia; una banda di ribelli lo uccise, provocando, sembra, una terza deportazione da parte dei Babilonesi e fuggendo poi in Egitto, dove fu trascinato lo stesso Geremia. Con la morte di Godolia, la Giudea diventa, politicamente parlando, una delle tante province dell'impero babilonese, perdendo anche quella parvenza di autonomia rimastale. Una parte della popolazione, tuttavia, non si mosse dalla Giudea e forse almeno una parte di Gerusalemme fu di nuovo abitata, pur essendo le mura e il Tempio distrutti; la politica dei Babilonesi fu in realtà meno dura di quella che, in passato, avevano avuto gli Assiri. Sarà proprio questa parte di popolazione rimasta in patria a creare problemi, quando, molti anni più tardi, gli esiliati inizieranno a far ritorno a Gerusalemme. Ma l'attenzione dovrà ora trasferirsi a Babilonia, e, in particolare, alla vita degli esiliati; in questo modo sarà più facile comprendere il messaggio del Deuteroisaia.

(da Parole di Vita, n. 4, 1999)

Lezione Undicesima

IL LEGAME STORICO-SALVIFICO
TRA IL CULTO EBRAICO E LA LITURGIA CRISTIANA

 


Introduzione

1. I riti del culto ebraico, stabiliti nell’A.T., avevano nell’intenzione di Dio che li aveva ordinati, il preciso scopo di operare la salvezza. Nella nuova alleanza i riti sacramentali sono segni dotati di una triplice dimensione: hanno un valore dimostrativo di una realtà spirituale presente, un valore rimemorativo di una realtà passata, ed un valore preannunciativo di una realtà futura. S. Tommaso applica a tutti i segni rituali dell’antica alleanza questo principio dei sacramenti cristiani.

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