Religioso Marista
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La generazione dei figli di Dio
di Giovanni Vannucci
Cristo nostra pace
Per una teologia cristiana della pace
di Bruno Forte
La speranza della pace fra utopia e disincanto
La luce della ragione forte: l'utopia dello pace solo umana
Tre metafore possono dare in maniera densa il senso di ciò che la modernità è stata e ha espresso nella sua parabola storica: la metafora della luce, la metafora della notte e la metafora dell'aurora.
L'epoca moderna è l'epoca della luce. Non a caso la modernità compiuta inizia con quella stagione che in tutte le lingue europee classifichiamo nel segno della luce: Illuminismo, Aufklarung, Illustraciòn, Enlightenment, Siècle des lumières. La luce come anima della modernità si lascia riconoscere nella fiducia attribuita alla ragione di poter interpretare il mondo e di cambiarIo: questa è la grande ispirazione dell'epoca moderna, una sete di illuminazione, di comprensione razionale, di trasformazione razionale del mondo. Quando Hegel sintetizza il suo progetto speculativo nella formula «il razionale è reale, il reale è razionale», ciò che esprime in essa non è un gioco di concetti, ma un progetto che ha avuto un destino epocale immenso in tutte le realizzazioni dell'ideologia. La formula veicola esattamente la sete della modernità di poter finalmente illuminare il mondo con la luce della ragione, liberandola dalle tenebre dell'oscurantismo e della barbarie, per realizzare una umanità illuminata o - come si dice - emancipata e adulta, dove ciascuno sia finalmente non oggetto ma soggetto della propria storia. Il grande sogno della modernità, quella che potremmo chiamare "l'utopia moderna", è l'utopia di un mondo finalmente adulto, emancipato, dove nessuno sia asservito ad altri e ognuno sia non più oggetto ma soggetto di storia.
Qual è il tipo di pace che questa utopia della modernità porta con sé? È la pace di un mondo totalmente compreso e risolto all'interno di una idea: è la pace dell'ideologia, è l'ideologia della pace. Sappiamo bene quanta violenza le ideologie abbiano prodotto, ma non dovremmo dimenticare che tutte le ideologie sono nate dall'ambizione di realizzare una pace universale: la pace del proletariato, la pace della giustizia, il sole dell'avvenire. C'è una sete di pace nell'animo moderno, ma la pace ambita è quella che viene costruita partendo da un modello totalmente ideale che deve applicarsi alla realtà e trasformarla: ecco perché il grande nemico della modernità è l'oscurantismo di chi non vuol servirsi della ragione per trasformare il mondo. Il nemico della pace, il controrivoluzionario, è qualcuno la cui ragione non funziona: ecco perché gli si può tagliare la testa! La metafora della ghigliottina è la metafora tragica dell'assoluta incapacità della visione ideologia del mondo di tollerare il diverso, di accogliere l'altro. Allora si comprende come la pace che l'ideologia perseguirà sarà inesorabilmente una pace violenta, che dovrà essere imposta alla realtà a tutti i costi.
La sete di totalità della ragione, la luce che Goethe morente invoca come il dono più alto - «Licht, mehr Licht», «Luce, più luce» - di fatto diventa totalitarismo e violenza. La modernità è il tempo della violenza: traducendo in categorie politiche questo sogno di pace, si può dire che si tratta della pace dell'egemonia, della pace imposta dal più forte, dal gendarme del mondo di turno nella storia.
Questi non sono solo gli inizi del nostro presente, sono purtroppo drammaticamente anche i nostri giorni: chi continua a dire che l'ideologia è morta, non smette di illudersi. L’ideologia è oggi viva più che mai, semplicemente ha cambiato disegno. Che cos'è se non una ideologia lo schema su cui si muove ad esempio la politica di guerra condotta come risposta alla barbarie terroristica? La tesi tanto nota di Samuel Huntington, (1) considerata addirittura profetica del nostro presente nella sua previsione dello "scontro delle civiltà" come scontro dei mondi religiosi ad esse sottesi, risponde in realtà a uno schema totalmente ideologico: l'Ottocento è stato il secolo dello scontro delle nazioni, il Novecento è stato il secolo dello scontro delle ideologie, il XX secolo sarà il secolo dello scontro delle civiltà, dove civiltà è soprattutto quel complesso di idee, di costumi, di prassi, che si radicano in una visione religiosa della vita. Huntington viene considerato il profeta dell'11 settembre del 2001, quando ciò che egli aveva intuito si sarebbe realizzato, o meglio avrebbe iniziato a realizzarsi: lo scontro tra l'Occidente "cristiano" e l'Islam, tra questi mondi religiosi, ovvero queste civiltà, che vengono a impattarsi con un'unica prospettiva di soluzione, la vittoria dell'uno sull'altro.
Come si vede, lo schema ideologico di una pace totale imposta da una visione ideale del mondo e costruita con l'esercizio della violenza da parte del più forte è quella che la modernità in qualche modo ha inseguito e continua a inseguire. Non c'è stato dittatore, di destra o di sinistra, che non abbia parlato di pace, che non abbia promesso la pace e che non abbia preteso di costruire la pace. Ecco perché dobbiamo essere sempre molto diffidenti verso quei discorsi che fanno della pace un'ideologia. Essere costruttori di pace non può nè deve significare essere "pacifisti" in un senso ideologico.
Nota
(1) S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997.
La notte delle ideologie: il disincanto dello violenza moderna
Il secondo modello è espresso dalla metafora della notte. La visione moderna totalitaria e ideologica della vita, del mondo e della pace ha prodotto la tragedia del "secolo breve", che - a detta dello stesso autore della formula fortunata, Eric Hobsbawm - è stato il secolo tragico, tra i più violenti della storia umana. Hobsbawm calcola che alla fine del Novecento almeno un terzo dell'umanità degli inizi del secolo era stata sterminata a causa dei genocidi e delle guerre. Dunque mai, anche quantitativamente, l'umanità ha avuto un impatto di violenza così globale come nel secolo che si chiude con l'era della globalizzazione, il secolo che si apre col genocidio armeno e che si chiude col genocidio del Rwanda, che vive nel suo cuore e centro l'impensabile e inaudito dramma della Shoah. È chiaro che tutto questo produce una sorta di rigetto della violenza, del totalitarismo dell'idea che tanta violenza ha prodotto: ecco perché la metafora della notte diventa per contrappunto la più adeguata ad esprimere la condizione post-moderna. Se la modernità è il tempo della luce, della ragione forte, tempo di una pace costruita applicando al reale l'ideale, la post-modernità è il tempo del disincanto. Lì dove la modernità era il tempo dell'utopia, di un sogno di pace da costruire a qualunque prezzo, la post-modernità è il tempo in cui non si crede più possibile il sogno della pace, o perlomeno della pace universale.
Nella coscienza post-moderna, allora, la pace viene a coincidere col patto fra soggetti parziali che si accordano per un interesse comune: ciò che è tipico del post-moderno non è l'assenza di una ricerca di pace, ma è la riduzione della ricerca di pace a un interesse parziale. È questo che scatena le brame etniche e dei gruppi, le logiche "di bassa lega" e "leghiste", sostenute da un interesse di parte esasperato fino a diventare assoluto. Questa è la pace tipica del nichilismo post-moderno, una pace pattizia, fondata cioè sul compromesso che realizzi l'interesse non di tutti, ma solo di quanti riescono a mettersi d'accordo per fare il proprio interesse. Ecco perché si parla di un disincanto: è come se si fosse perso il gusto, il sogno, di una visione più grande, più alta. Mentre l'ideologia ancora sognava un mondo di pace, anche se lo realizzava nel segno della violenza, il disincanto post-moderno non ha più sogni di pace, ha interessi di parte. Tuttavia, nell'interesse di parte la violenza non è minore che nell'ideologia: se si difende un interesse di lega, l'altro diventa semplicemente un nemico, come accade, per esempio, nel caso del clandestino o dell'immigrato, in una certa logica presente anche nel nostro paese.
Anche il disincanto è dunque un'epoca di violenza. Dobbiamo liberarci dall'idea che il disincanto della post-modernità sia un disincanto innocuo; c'è un potenziale di violenza estremo nel nichilismo, nella logica e nell'etica nichilista, cioè nel1' individualismo di gruppo, che domina il tempo della post-modernità. La frammentazione rispetto ai sogni totalizzanti dell'idea non è meno violenta dell'idea stessa. Se l'ideologia è stata violenza, e nessuno oramai lo nega, il nichilismo post-ideologico e il suo relativismo sono un'ideologia ancora più violenta dell'ideologia stessa. Il riflusso del privato, la chiusura nel proprio gruppo, nella propria etnia, nella propria logica di parte, non sono affatto processi innocui. Anzi, sono eticamente devastanti e producono frutti velenosi per la costruzione dello Shalom secondo il disegno di Dio.
L'aurora dell'Altro: verso la pace, fondata sulla giustizia e sul perdono
La terza metafora è quella dell'aurora: è l'aurora dell'altro, l'apertura all'impossibile possibilità; è la metafora legata ad una idea della pace che non sia nè il frutto di una violenza imposta, di un'ideologia dominante, di una egemonia, nè semplicemente il risultato di un compromesso parziale che ci separi in una sorta di isola felice dal grande naufragio del mondo. La pace che indichiamo col termine dell'aurora è una pace apparentemente impossibile e tuttavia desiderata, è la pace fondata sulla giustizia, cioè sul rispetto dell'altro chiunque egli sia, e su quel di più della giustizia che è il perdono, la capacità di andare oltre la semplice misura del dovuto o del ricevuto. Ma su questo terzo modello, di cui in qualche modo è stato segno straordinario il fatto che la coscienza del Papa che denunciava la guerra è diventata voce della coscienza di una grande parte dell' umanità, ci soffermeremo accostando il secondo momento di questa riflessione, che potremmo chiamare "la Alef della pace"; il luogo dove abita l'Altro, Gesù Cristo, nostra pace.
Gesù Cristo, nostra pace
Tutta la grande tradizione cristiana, a partire da san Paolo (Ef 2,14), confessa che Cristo è la nostra pace. In questa riflessione ci soffermeremo a pensare che cosa significa che Lui è la nostra pace, alla luce del carattere fondamentale della rivelazione cristologica, la "trasgressione", intendendo questo termine nel senso forte, etimologico, dell'oltrepassare, del trasgredire, del passar oltre, cioè dell'infrangere la soglia per andare più avanti. Cristo è infatti per eccellenza il "trasgressivo", e proprio così è la nostra pace. Ecco il paradosso: quando noi pensiamo pace, pensiamo armonia. In realtà Cristo è pace perché è disarmonia, perché in Lui c'è stata una triplice rottura, un triplice oltrepassamento. Potremmo dire la stessa cosa con un termine più biblico: "esodo": Gesù vive tre esodi fondamentali, tre trasgressioni che lo connotano come il Principe della pace.
L'esodo di Gesù dal Padre: il dono della pace
La prima trasgressione consiste nel fatto che Gesù, secondo la rivelazione cristiana, è la Parola uscita dal Silenzio: questo linguaggio era comune nel cristianesimo del primo secolo. Ignazio di Antiochia non esita a parlare di Gesù come del Logos, che procede dal Silenzio: fu poi la paura dello gnosticismo ad allontanare questo linguaggio. Che cosa si esprimeva con esso? Che all'inizio della rivelazione c'è un esodo di Dio da sé e che questo esodo trova il suo compimento nella più alta trasgressione, il venire del Figlio nella carne: Gesù è la Parola venuta dall'eterno silenzio di Dio ad abitare fra noi. In questo senso Tommaso d'Aquino diceva che Cristo è anzitutto Colui che vive «l'exitus a Deo». Noi siamo talmente abituati a queste formule che non ne comprendiamo più la forza trasgressiva: eppure, parlare di un'uscita da Dio di Dio, di un Dio in esilio da Dio, è veramente paradossale, anche se detto con il linguaggio di Tommaso d'Aquino, cioè della voce della grande tradizione cristiana.
Dunque Cristo è la nostra pace anzitutto perché è un Dio che esce da sé, è un Silenzio che diventa Parola, ma è anche una Parola che resta totalmente appesa a quel Silenzio: Cristo è insomma tutto relativo all'altro da sé da cui proviene, ma che resta avvolto nel silenzio. La grande tradizione cristiana ha espresso questo concetto con il linguaggio della Re-velatio, della rivelazione come svelamento che vela: re-velare significa tanto togliere il velo, quanto ispessirlo. E questo è tutt'altro dall'idea della Offenbarung tedesca, parola usata come equivalente di revelatio, ma che dice in realtà ciò in cui tutto è aperto, spiegato, manifesto, dove Dio è pubblicato. Cristo è invece la nostra pace perché rivelandoci Dio ce lo nasconde. Cristo è la nostra pace perché in Lui non c'è una visione ideologica, né una risposta totale; c'è un restare appesi al divino silenzio.
Il primo tratto della pace, che è Lui, è quindi di essere totalmente appesa all'Altro, donata dall'Altro, avvolta dal silenzio dell'Altro. Insomma, chi crede in Cristo nostra pace crede in una pace che non sa spiegare, di cui non sa fino in fondo rendere ragione secondo la logica di questo mondo: per il discepolo del Crocifisso la pace viene da altrove, è dono di un altrove che resta nascosto nel silenzio dell'adorazione. Cristo, insomma, in quanto è Colui che esce come parola dall'eterno silenzio del Padre, è la nostra pace non perché ci spiega il mondo come facevano le ideologie, ma perché ci testimonia il mistero del mondo, perchè ci rimanda ad un'origine più profonda, altra, misteriosa e nascosta, cui solo l'adorazione e l'ascolto obbediente corrispondono.
L'esodo di Gesù da sé: l'Abbandono sorgente della pace
In secondo luogo, Cristo vive l'esodo da sé senza ritorno: è il mistero della sua croce, è la sua seconda trasgressione, l'uscire da sé fino in fondo per amore nostro. Sappiamo che Emmanuel Lévinas, intriso di linguaggio biblico, definisce così l'amore: «l'esodo da sé senza ritorno». Che cos'è la croce se non l'estremo esodo del Figlio dell'uomo da sé, senza ritorno a sé? Quando ritorno ci sarà, sarà il dono del Padre nell'ora della Resurrezione. C'è, insomma, un'interruzione estrema, c'è l'abisso, c'è la croce, ma questo è esattamente il nome dell'agape. L'agape, la carità, è questo agòn: nel greco del Nuovo Testamento agòn e agape si corrispondono, la radice è la stessa, l'amore, agape, è agonia, è lotta. Ecco perché l'estrema rivelazione dell'agape è la morte, è l'abbandono della croce. Ciò vuol dire che Colui che è la nostra pace è tale perché muore nell'abbandono per amore degli altri: l'altro nome della sua pace è la carità, l'agape. La pace non si costruisce attraverso l'esercizio di una volontà, di una potenza: se noi pensiamo che la pace la fanno le bombe intelligenti o che la pace la fanno le truppe di occupazione, siamo totalmente al di fuori di questa logica della rivelazione cristiana. Chi dice che la pace si costruisce con le armi semplicemente ignora questa evidenza della Croce e dell'abbandono.
Se il primo carattere della pace rivelata è che essa viene da altrove e resta custodita nell'adorazione e va accolta restando continuamente appesi al silenzio di Dio, il secondo carattere è che la pace si costruisce con la nonviolenza, con la perdita di sè, con il dono della vita fino alla fine: la via della pace non può essere quella della potenza del mondo, ma solo quella della debolezza. Mentre si svolge la grande storia su cui sono puntati i riflettori del mondo, c'è insomma un'altra storia, quella della carità, dove la suora palestinese cura l'ammalato ebreo, dove le religiose di Amman accolgono i profughi musulmani che vengono dall'Iraq... Quest'altra storia è quella del secondo esodo di Gesù, che non ha portato la sua pace con segni di potenza, ma morendo abbandonato sulla croce. Se la Chiesa dimenticasse di essere anzitutto l'Ecclesia Crucis, cioè la Chiesa di questo suo Dio crocifisso, essa semplicemente tradirebbe se stessa. La forza e il grande carisma di questi ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II sono legati proprio alla sua debolezza fisica, unita alla forza della sua fede e del suo amore. La seconda trasgressione del Cristo, l'esodo da sé senza ritorno, ci dice che è l'abbandono di sé per amore di Dio e degli altri la vera sorgente della pace.
L'esodo di Gesù verso il Padre: la speranza della pace che non delude
Il terzo esodo è quello che Tommaso d'Aquino chiama il «reditus ad Deum», l'esodo verso il Padre. In esso, ancora una volta, appare chiaro che la pace è legata ad una eccedenza, ad una promessa, ad una speranza: la speranza è l'altro nome della pace, ma essa e anche il fermento critico che ci ricorda come nessuna realizzazione mondana della pace sia totalmente la pace. Non ci sarà mai qualcuno che potrà dirci «abbiamo finalmente realizzato la pace», perché Gesù risorto ci dice che la nostra pace è altrove, è nascosta con Lui nel cuore di Dio e verso questa pace dobbiamo sempre tendere. San Bernardo lo afferma chiaramente: «Amaritudo ecclesiae sub tyrannis est amara», l'amarezza della Chiesa è amara quando la Chiesa è perseguitata; «sub haereticis est amarior», l'amarezza della Chiesa è ancora più amara quando la Chiesa è divisa dall'eresia; «sed in pace est amarissima», ma l'amarezza della Chiesa tocca il suo culmine quando la Chiesa se ne sta soddisfatta e tranquilla in pace, pensando di aver salvato il mondo. Nulla è più pericoloso per la Chiesa che uno spirito di trionfalismo, un'estasi dell'adempimento, una seduzione del possesso: noi siamo pellegrini della pace perchè Cristo con la sua resurrezione ci indica sempre un altrove della pace, la patria di Dio tutto in tutti nello Shalom finale, escatologico.
Rendere ragione oggi della nostra speranza
Abbiamo considerato la Beth del mondo con i modelli della pace: la violenza dell'ideologia, la pace compromissoria del nichilismo post-moderno, l'aurora di una pace possibile-impossibile; abbiamo visto la Alef di Gesù Cristo con le sue tre trasgressioni, il suo triplice esodo, una pace che viene da altrove e che si costruisce nell'adorazione di Dio, nella carità, nell'esodo da sé, e che va verso altrove e quindi è sempre nel segno della provvisorietà e della speranza. Che cosa comporta l'incontro di questa Alef e di questa Beth, cioè qual è il progetto dei costruttori di pace secondo il vangelo? Come rendere ragione della nostra speranza di pace oggi, in questo contesto della post-modernità e dei suoi sviluppi alla luce della rivelazione cristiana? Presento tre indicazioni, in cui semplicemente rileggo i tre esodi di Gesù, applicandoli al costruttore di pace, alla Chiesa costruttrice di pace.
Discepoli dell'Unico: contemplazione e pace
Se Cristo è Colui che vive l'esodo dal Padre e resta sempre appeso a questo divino Silenzio, allora la prima dimensione del costruttore di pace, che viva nella sequela di Lui, non potrà che essere quella della contemplazione e dell'ascolto. Teologia della pace significa - non per un'urgenza parenetica, ma per un'esigenza teologica - ricordare che la pace viene da Dio e soltanto da Lui deve essere continuamente invocata. Il costruttore della pace o è un contemplativo di Dio o non è. La frase di André Malraux, ripresa da Karl Ranner, «il XXI secolo o sarà mistico o non sarà», si applica alla pace in maniera assoluta. La forza dei costruttori di pace secondo il vangelo è questo "venire da altrove". In questo senso, l'impegno cristiano della pace è tutt'altro che una forma di pacifismo, se per pacifismo si intende un'espressione dell'ideologia. L'ideologia non ha esattamente quello che invece è lo specifico dell' anima cristiana della pace, ciò che ha caratterizzato per esempio Giovanni XXIII - per fare un esempio che richiama la Pacem in terris - e cioè la dimensione dell'essere nascosti con Cristo in Dio, del venire da altrove, del ricevere in dono la pace. La dimensione contemplativa della costruzione della pace è quello che specifica, caratterizza, il cristiano: un'icona vivente ne è proprio Giovanni Paolo II, di cui è stato detto - a mio avviso giustamente - che è un mistico. E che sia proprio un mistico ad essere stato il più grande protagonista del "no" alla guerra in Iraq, la dice lunga: questa è la forza dei costruttori di pace secondo Gesù, non altra.
Servi per amore: pagare il prezzo dell'impegno al servizio della pace
Se Gesù vive l'esodo da sé fino alla fine, l'agòn come agonia della sua agape, la pace per il costruttore di pace secondo il vangelo non può costruirsi che per la via dell'amore crocifisso, della carità, della non violenza. Chi volesse costruire la pace secondo il vangelo e accettasse anche soltanto come metodo di lotta la violenza di qualunque genere, anche la violenza verbale, avrebbe tradito la causa della pace. La pace si costruisce in questo amore radicale dell'abbandono: fa molto di più per la pace una Madre Teresa che rinuncia alla logica del potere di questo mondo, che anzi quando si accorge che questa logica sta penetrando in chi le è vicina dice «prendiamone le distanze», che non un gioco di potere che possa far sembrare che la Chiesa abbia avuto chissà quale ruolo nella costruzione della pace. il ruolo dei costruttori di pace secondo il vangelo è di costruire la pace secondo la logica della carità, che non è mai una logica vincente agli occhi del mondo, ma è la logica di chi - lo dice Gesù nel vangelo, dunque la sua autorità basta per tutto - non resiste al malvagio, oppone a chi lo colpisce su una guancia l'altra guancia. È la carità indifesa, ma non per questo indiscreta, è una carità lucida, consapevole, carità intelligente quella che può costruire la pace che non delude, fondata sulla giustizia per tutti e sul reciproco perdono.
Testimoni del senso: vivere la profezia della pace senza fermarsi
Infine, se Gesù vive la terza trasgressione ritornando a Dio Padre, la terza direzione della costruzione della pace è la testimonianza della speranza. Essere testimoni di speranza in un mondo come il nostro, senza pace, è il dono d'amore più grande che noi possiamo fare all'umanità, continuando a credere in una possibilità impossibile, e cioè che la pace si costruisca attraverso la giustizia e il perdono. È questa la testimonianza che noi siamo chiamati a dare più di ogni altra cosa. E che questa testimonianza non sia semplice utopia, credo lo dimostrino anche dei segni della storia: sessant' anni fa di fronte all'Europa della seconda guerra mondiale e della Shoah, chi avrebbe potuto pensare per oggi a un'Europa unita? Dunque, è anche la storia che ci educa a dei salti, a delle rotture, a delle sorprese: laddove, poi, non bastasse la storia, dovrebbe bastare l'impossibile possibilità della fede. Che credente è il credente che crede solo nel possibile? Lo specifico del credente è credere nell'impossibile. La "akedàh" di Isacco (Genesi 22), figura di ogni fede, di cui Paolo parla implicitamente in Romani 8,32 dicendo «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha conse-gnato per tutti noi», che cos'è se non l'accettare la sfida dell'impossibile possibilità di Dio? E che cos'è la speranza se non un vivere nell'ottica dell'impossibile possibilità di Dio? Uomo di pace, secondo il vangelo, non è quello che crede nell'efficacia dell'ideologia e nella forza delle armi o dei pani secondo l'interesse del mondo, ma quello che crede in un Dio, che questa pace è venuto a costruirla con noi, abbandonandosi su una croce e aprendoci una speranza di resurrezione. Contemplativi della pace, nella carità, fino alla fine, nei metodi, nelle forme, finanche nella possibile resa e sconfitta agli occhi del mondo, ma testimoni di speranza sempre: questo mi sembra lo stile dei costruttori di pace, non in astratto, fuori tempo, ma oggi, davanti allo scenario di questo mondo segnato da eventi drammatici, ma che noi, come discepoli del Crocefisso Risorto, siamo chiamati ad amare e a servire, per edificarvi il regno di Dio, regno di amore, di giustizia e di pace.
(Tratto da AA.VV., Pacem in terris, Saronno, 2004)
Benedetto dai rabbini
Camaldoli.
XXV colloquio ebraico-cristiano
Germania.
Gli Evangelici verso l'unione
Dobbiamo essere grati ai teologi di Dombes per aver pazientemente e accuratamente lavorato sulla figura di Maria prendendo in esame il contenzioso secolare che esaltava le contrapposizioni confessionali senza intravederne le convergenze.
La prova e l'obbedienza
a cura di Mario Maritano
Ambrogio, discendente di una nobile famiglia romana, nato a Treviri (337/339) diede ottima prova di sé come consularis Liguriae et Aemiliae, cioè come governatore dell'ltalia settentrionale con sede a Milano. Così, pur essendo ancora catecumeno, fu acclamato vescovo di Milano dal popolo, quando egli intervenne per sedare i tumulti alla morte del suo predecessore nel 374. Iniziando il suo ministero episcopale, egli distribuì i suoi beni ai poveri, si dedicò ad una vita ascetica e si applicò agli studi teologici. Svolse un'intensa attività pastorale, sociale, a favore dei più poveri. Si rivelò abile e deciso soprattutto nel difendere la religione cattolica contro i pagani e gli eretici; affermò l'indipendenza della Chiesa di fronte allo Stato. Scrisse molte opere esegetiche, dogmatiche, morali-ascetiche, discorsi, lettere e inni.
Nel suo libro De Abraham, Ambrogio presenta la figura del patriarca come un modello di vita cristiana (ricordo che il vescovo di Milano in quest'opera si rivolge ad adulti che dovranno ricevere il battesimo). Abramo, nel suo peregrinare e nel suo agire in piena fiducia e obbedienza a Dio, diviene il modello del cristiano che progredisce spiritualmente, abbandonando una vita frivola e peccaminosa, e nelle prove e nelle tentazioni si mantiene fedele a Dio.
La prova e l'obbedienza
1,2,4. Abramo è messo alla prova come un uomo forte, è incoraggiato come un uomo fedele, stimolato come un uomo giusto e quindi "partì, secondo la parola del Signore e con lui partì Lot" (Gen 12,4). È ciò che si proclama tra le sentenze dei sette sapienti: "épou Theô", cioè "segui Dio".
Abramo con i fatti anticipò le sentenze dei sapienti, e, seguendo il Signore, uscì dalla sua terra. Ma poiché la sua terra precedentemente era un'altra, cioè la regione dei Caldei, dalla quale uscì Terach, padre di Abramo, che migrò a Carran, e poiché Abramo condusse
via con se suo nipote, mentre gli era stato detto: "Esci dalla tua parentela", (Gen, 12,1) consideriamo se per caso "uscire dalla sua terra" non significhi uscire da questa terra, cioè dalla dimora del nostro corpo, da cui uscì Paolo, che disse: "La nostra patria è nei cieli" (FiI 3,20), e dalle attrattive e dai piaceri del corpo, che - disse - sono come congiunti della nostra anima, la quale necessariamente soffre insieme al corpo, finché rimane ad esso strettamente vincolata. Perciò dobbiamo uscire dal modo di vivere terreno, dai piaceri mondani, dalle abitudini e dalle azioni della vita passata, in modo che cambiamo non solo i luoghi, ma anche noi stessi. Se desideriamo unirci a Cristo, abbandoniamo le cose corruttibili (1,2,4).
1,8,66. Dio mise alla prova Abramo quando gli ordinò di uscire da Carran e lo trovò obbediente. Lo mise alla prova quando Abramo liberò il nipote confidando nella forza della fede, quando non prese nulla del bottino (di guerra), quando Dio promise a lui, ormai vecchio, un figlio - infatti avendo egli cento anni, sebbene considerasse ormai inariditi gli organi di riproduzione di Sara, tuttavia credette e non ebbe esitazioni grazie alla fede, sebbene potesse averne a causa della sterilità e della vecchiaia (della moglie) -, lo mise alla prova sollecitando la sua ospitalità. Dopo averlo così provato, Dio reputò Abramo più forte nel sopportare ordini più impegnativi e più pesanti.
Da questo esempio impariamo che una persona è messa alla prova da difficoltà reali, è tentata invece da difficoltà create appositamente e fittizie. Dio infatti non voleva che il padre immolasse il figlio, ne che facesse questa offerta, dato che procurò una pecora da sacrificare invece del figlio, ma tentava Abramo nel suo affetto di padre (cf Gn 22,1-18), per vedere se anteponesse i comandi di Dio al figlio e diminuisse la forza della sua devozione, in considerazione del suo affetto paterno.
Ambrogio, Abramo 1,2,4 e 1,8,66
Immagini di Abramo
nel Nuovo Testamento
Citato 73 volte nel Nuovo Testamento contro le 80 di Mosè e le 59 di Davide, Abramo è una delle più importanti figure cristiane. Lo era già negli scritti ebraici della stessa epoca. Alcune tradizioni neotestamentarie non fanno che riprendere tratti del personaggio già chiari nel giudaismo antico, trasformandoli solo in parte. Tuttavia un autore come Paolo fa del patriarca una figura originale, poco compatibile con le letture ebraiche: Abramo è per lui il giusto per fede, quindi la persona che crede in Gesù Cristo.
Le tradizioni antiche che soggiacciono al Nuovo Testamento sono difficili da individuare, perché esse sono state rimaneggiate dai redattori. Indipendentemente dall’apporto dei redattori finali e delle loro accentuazioni teologiche, tuttavia possiamo ricostruirne alcune, le cui radici affondano nel giudaismo e senza troppi rischi farle risalire a Gesù. Per un ebreo, come per un cristiano del I secolo, Abramo è l’antenato, il padre del popolo di Israele, e la paternità è inoltre una qualità che egli condivide con Dio. Egli è citato per primo nella linea dei patriarchi, perché Dio si dichiara il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", formula recepita da Mosè nel roveto ardente e spessissimo ripresa in seguito (Es 3,16, citato in Mt 22,32 e paralleli; At 3,13; 7,32). Se ha lasciato il suo paese di origine, è stato per fondare un popolo e radicarlo in una terra (Gn 12,1 citato in At 7,2; Eb 11,8); i figli di Abramo formano in realtà il popolo destinatario delle promesse divine. I due cantici del vangelo dell’infanzia secondo Luca, quello di Maria e quello di Zaccaria, immersi in un’atmosfera anticotestamentaria, ricordano l’impegno che Dio si assunse di fronte ad Abramo con il popolo che doveva nascere da lui (Lc 1,55.73).
Ne consegue che ogni ebreo è figlio di Abramo, e che ogni ebrea ne è la figlia, come la donna curva che Gesù guarisce in giorno di sabato (Lc 13,16). Nelle due genealogie di Gesù, pur diverse l’una dall’altra, Abramo è citato come antenato del bambino (Mt 1,1-17; Lc 3,34). Se Matteo sfrutta l’informazione per insistere sull’appartenenza di Gesù al mondo ebraico, Luca, che la utilizza poco in questa direzione, tuttavia la fornisce;. essa fa parte del dato tradizionale cristiano. Non bisognerebbe tuttavia pensare che la filiazione da Abramo si riduca ad una situazione di fatto. Un ebreo del I secolo sa che essa è anche un divenire, e che non ci si può dichiarare figli di Abramo se non si vive della Torâ. L’alleanza stipulata con i patriarchi produce i suoi effetti soltanto se l’ebreo accetta questi padri come modelli. In vari momenti della sua crescita, l’albero dell’alleanza che ha le sue radici in Abramo ha avuto rami secchi, tra cui quelli che sono nati da Ismaele e da Esaù (At 3,25; Rm 9,7). Il primo libro dei Maccabei può scrivere: "Ricordate le gesta compiute dai nostri padri ai loro tempi e ne trarrete gloria insigne e nome eterno. Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?" (1 Mac 2,51-52).
I vangeli testimoniano le polemiche innescate a questo proposito con alcuni ebrei, sia da parte di Giovanni Battista che di Gesù (Mt 3,9 e parallelo; Gv 8,33-40). Non basta rivendicare per padre Abramo, bisogna vivere di conseguenza. Certi paria, come Zaccheo, si rivelano veramente "figli di Abramo", mentre questo titolo era loro negato da altri che, a torto, si consideravano più qualificati di lui a portarlo (Lc 19,9).
Antenato, origine, il padre Abramo è anche naturalmente colui che accoglie i suoi figli al termine del loro cammino. Con Isacco e Giacobbe egli presiederà al banchetto escatologico cui non dà diritto la nascita (Mt 8,11; Lc 13,28). E il seno di Abramo è il luogo in cui si ritrova il povero Lazzaro della parabola (Lc 16,22-30) mentre il ricco indifferente alla sua povertà ne è escluso. Questi luoghi escatologici del vangelo legati ad Abramo sono attestati nel giudaismo rabbinico (Esodo Rabba 25; Pesiqta Gabbati 43, 108b; b. Qiddušîn 72ab). Essi corrispondono ad immagini forse comuni nel giudaismo del I secolo, benché nessun altro testo ebraico, al di fuori dei vangeli, le riecheggi direttamente.
La rivoluzione paolina:
Abramo senza Mosè
Se la figura paterna di Abramo presentata dagli evangelisti e dagli Atti degli Apostoli si inserisce, nel suo complesso, in continuità con le tradizioni ebraiche dell’epoca, non si può dire lo stesso del modo in cui Paolo tratta il patriarca. Il testo del primo libro dei Maccabei, citato prima, presenta in realtà Abramo come un modello di giustizia, ma questa giustizia gli è valsa perché è stato fedele nella prova. La prova di cui si parla è quella del sacrificio, detto anche l’Aqeda (la legatura) di Isacco riferita al capitolo 22 della Genesi. È accettando di offrire in sacrificio l’unico figlio che Abramo, nelle tradizioni ebraiche più attestate, si è rivelato giusto e fedele. Anche il Nuovo Testamento è un’eco di questo nella lettera di Giacomo e nella lettera agli Ebrei (Eb 11,17): se Abramo fu considerato giusto, non fu per la sua sola fede, ma anche per le sue opere. La lettera di Giacomo scrive: "Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?" (Gc 2,21). Per questo meritò il bel titolo di "amico di Dio" (Gc 2,23; Co-rano 4,125).
Quando scrive questo, Giacomo testimonia una consolidata tradizione ebraica. Il suo testo è tuttavia segnato dalla polemica che conduce contro Paolo, che aveva della giustizia di Abramo una visione del tutto diversa. Per l’apostolo delle genti, il versetto biblico su cui si fonda principalmente la giustizia di Abramo è al capitolo 15 della Genesi: "Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gn 15,6), ben prima nel racconto della scena dell’Aqeda.
L’apostolo dedica ad Abramo due lunghi sviluppi, uno nell’epistola ai Galati (3,6-29), dove, rivolgendosi ad un pubblico tentato di sommare i comandamenti della Tora alle esigenze della vita in Cristo, Paolo insiste sul fatto che Abramo è colui che riceve le promesse divine, che queste promesse riguardano "la sua discendenza", e che il termine "discendenza" designa direttamente Cristo. Il termine "discendenza" è in realtà al singolare nel testo ebraico di Gn 12,7, come nella Settanta (Ga13,16). Cristo è dunque l’erede delle promesse fatte ad Abramo. La legge di Mosè, venuta "quattrocentotrenta anni" dopo il patriarca (Gal 3,18), non può annullare queste promesse. Di conseguenza, i comandamenti della legge ebraica non hanno peso nel processo di giustificazione del credente.
Nell’epistola ai Romani (4,1-16), gli accenti sono leggermente diversi, benché il messaggio sia complessivamente lo stesso. Paolo ricorda che Abramo fu dichiarato giusto dalla Scrittura subito dopo che Dio gli ebbe annunciato una discendenza numerosa come le stelle del cielo, nel capitolo 15 della Genesi (Gn 15,5-6). La circoncisione, figura della legge che sarebbe venuta attraverso Mosè, fu imposta da Dio soltanto più tardi, nel capitolo 17 dello stesso libro (Gn 17,10-14); ed egli superò la prova di essere stato pronto a sacrificare il figlio ancora più tardi, in Genesi 22. In altre parole: Dio dichiarò che Abramo era giusto indipendentemente dalla legge e indipendentemente dalla sua obbedienza. Non circonciso, Abramo era ancora in un certo senso pagano quando Dio lo dichiarò giusto. Questi eventi sono il fondamento della convinzione paolina che la giustizia di Dio è destinata a tutti – ebrei e pagani – grazie alla loro fede, indipendentemente dalla legge ebraica.
Il lettore moderno può essere fuorviato da questo modo di ragionare che gioca su dei particolari del testo biblico; esso è tuttavia perfettamente in linea con i criteri esegetici ebraici applicati nel I secolo. Un rabbi contemporaneo di Paolo avrebbe potuto discutere con lui di questi risultati, ma non contestare questo metodo di lettura. In un certo senso, il modo di ragionare paolino è anche straordinariamente moderno perché, nella lettera ai Romani come in quella ai Galati, Paolo tiene conto della relazione cronologica tra gli eventi: la legge è venuta dopo la promessa (mentre varie correnti del giudaismo del I secolo ritenevano che già Abramo e perfino Adamo praticassero la Tora); la giustizia del patriarca fu dichiarata dal testo sacro prima che fosse prescritta la circoncisione e prima che si fosse verificata l’Aqeda di Isacco. Prime da un punto di vista cronologico, la promessa e la giustizia nate dalla fede hanno la precedenza sugli altri eventi della storia della salvezza.
Si comprenderà così come molti ebrei non possano seguire Paolo sul suo stesso terreno, perché questo li condurrebbe a svalutare l’osservanza della Torâ, tesoro donato da Dio al popolo d’Israele. In questo, Paolo è uno dei maggiori artefici della futura frattura fra giudaismo e cristianesimo.
Una figura complementare:
Abramo, l'ebreo, sottomesso a Gesù
Non si potrebbe chiudere questa carrellata senza presentare due altri lunghi passaggi del Nuovo Testamento che mettono in scena Abramo, entrambi successivi alle lettere di Paolo: uno si trova nella lettera agli Ebrei, l’altro nel vangelo di Giovanni. Oltre alla sezione sulla fede di Abramo in cui l’autore considera due momenti importanti della vita del patriarca, e cioè la sua partenza dalla terra d’origine e il suo sacrificio (Eb 11,8-19), la lettera agli Ebrei ne ricorda un altro: l’incontro con il re sacerdote Melchisedek (Eb 7,1-9). L’autore utilizza qui la tipologia. Melchisedek è typos di Cristo; il suo sacerdozio prefigura il sacerdozio della nuova alleanza. Quanto ad Abramo, egli è l’antenato di Levi, portatore lui stesso del sacerdozio ebraico. Ora il testo afferma che Abramo attribuì a Melchisedek "la decima di tutto", lo considerò cioè suo superiore e si sottomise a lui (Gn 14, 17-20). Trasferendo questo al rapporto tra Gesù e i sacerdoti ebrei, l’autore della lettera ne deduce la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio levitico, benché Gesù non fosse appartenuto, secondo la legge ebraica, ad una famiglia sacerdotale. Gesù corrisponde a Melchisedek, Abramo a Levi.
Di redazione ancora più tardiva, il vangelo di Giovanni dedica un lungo passaggio ad una polemica tra Gesù e coloro che l’evangelista chiama "i Giudei", nella quale interviene la figura di Abramo (Gv 8,33-58). Questi ultimi affermano all’inizio della discussione: "Il nostro padre è Abramo" (v. 39). Sino a questo punto, non è che una discussione diffusa, già richiamata, sul diritto di qualcuno di rivendicare Abramo per padre. La sfumatura propriamente giovannea si precisa tuttavia lungo lo svolgimento del racconto. Alcuni versetti più avanti, Gesù dichiara: "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò" (v. 56); poi: "In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono" (v. 58). Dichiarazione che i suoi interlocutori considerano blasfema e a conclusione della quale raccolgono pietre per scagliarle contro l’empio. Come appare da questo complesso sviluppo, il personaggio di Abramo cambia statuto: dalla figura paterna che è all’inizio della discussione, diventa una figura profetica la cui funzione è testimoniare la preesistenza del Figlio e di rallegrarsi della sua venuta.
Queste due ultime figure, presentate rispettivamente dalla lettera agli Ebrei e dal vangelo di Giovanni, hanno in comune che Abramo è sottoposto a Cristo: sottoposto attraverso la sua riverenza verso Melchisedek (Eb), sottoposto grazie alla gioia che egli prova nel "vedere" colui il cui nome è "Io sono" (Gv).
Modello per il credente di ogni origine (ebreo o pagano) secondo Paolo, Abramo avrebbe potuto diventare nel pensiero cristiano una pura figura di universalismo. Testi posteriori alle lettere paoline, e in particolare i vangeli di Matteo e di Giovanni come pure la lettera agli Ebrei, lo reinseriscono tuttavia nel giudaismo, col rischio di ridurne in parte la statura. Questa diversità ristabilisce un felice equilibrio. Paolo sceglie Abramo piuttosto che Mosè, Matteo al contrario valorizza Mosè e la sua legge. Giovanni tratta il patriarca come un profeta.
Gli autori del Nuovo Testamento si impadroniscono delle figure dell’Antico con grande libertà, contribuendo tutte a delineare i tratti di colui in cui essi trovano la loro pienezza, cioè Gesù Cristo.
Il dialogo risorsa dei forti
di Mario Marazziti
Si legge nei Racconti dei Chassidim che il rabbino Pinhas così spiegava la confusione di lingue dei popoli: "Prima della costruzione della torre tutti i popoli avevano una lingua sacra in comune, in più ciascuno aveva il proprio linguaggio... Ciò che Dio fece quando li punì, fu di toglier loro la lingua santa". Era la lingua della comunicazione tra i popoli. Il dialogo tra i credenti delle diverse comunità religiose è il lavoro per riscoprire questa lingua sacra, ed è un grande bisogno dei nostri tempi.
Era questa l'intuizione di Giovanni Paolo II quando ad Assisi, nel 1986, invitò i leader delle grandi religioni mondiali a pregare gli uni accanto agli altri per invocare dall'alto il "grande dono della pace". Era una intuizione che si era forgiata nel dolore della Seconda guerra mondiale, nell'orrore della Shoah, nella lotta non violenta, spirituale e morale al totalitarismo sovietico, nel Concilio Vaticano II. Una intuizione radicata nel profondo del XX secolo, che si è appena chiuso. Il tempo più secolarizzato della storia umana. Molti avevano anticipato la "fine del cristianesimo" e delle religioni. La fine del XX secolo, invece, si è chiusa sotto il segno della globalizzazione e delle religioni. E quello che Gilles Kepel ha chiamato "la rivincita di Dio".
Le grandi religioni mondiali sono tornate a essere un fattore rilevante sulla scena internazionale oltre che nella vita quotidiana. A volte sono state usate, come in passato, per sostenere conflitti. Ma sono anche diventate in maniera inedita un fattore di ricomposizione e di dialogo.
Con il Concilio Vaticano II si è infatti innescato un cambiamento radicale nel rapporto tra le grandi religioni monoteistiche, islam, ebraismo, cristianesimo, per iniziativa della Chiesa cattolica. Ne è seguita la stagione del disgelo e degli entusiasmi del dialogo, sia ecumenico che interreligioso, fino alla stagione del "disincanto".
La spinta dei meeting internazionali "Uomini e religioni" viene da lontano: l’ispirazione prossima è nella Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986; ma ben prima si era mostrato un movimento all'interno dei differenti mondi delle religioni per una più intensa comprensione reciproca. Quasi cento anni prima, nel 1893, si era tenuto a Chicago - su iniziativa stavolta di un pastore presbiteriano e con l'appoggio della Chiesa cattolica nordamericana - il Word Parliament of Religions, con la partecipazione di sedici tradizioni religiose. L'iniziativa avrebbe dovuto continuare a Parigi nel 1900, ma si trasformò in un congresso di studiosi di storia delle religioni.
La seconda fase è segnata dall'incontro mondiale di dialogo di Assisi: che non è rimasto un unicum. Per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e la risposta di leader religiosi (e laici) in molte parti del mondo, ne è nato un movimento mondiale che ha attraversato molte capitali europee e ha creato e crea una consuetudine all'incontro proprio mentre sono scoppiati nuovi conflitti, dai Balcani al Medio Oriente, ai Grandi Laghi in Africa. E mentre si è diffusa un’ondata fondamentalista nelle principali espressioni religiose del pianeta, dall'islam all'induismo, a settori protestanti americani. Il dialogo tra le grandi religioni della terra è stato messo al centro, con la preghiera, da Giovanni Paolo II, in tempi di grave turbamento mondiale per il ritorno della guerra: i due incontri di Assisi successivi al 1986 e la Preghiera interreligiosa in piazza San Pietro alla vigilia del Grande Giubileo.
La convinzione della Comunità di Sant'Egidio, quando avvia gli incontri internazionali "Uomini e religioni" è che le religioni possono e debbono dare un contributo importante alla pace. La pace, nel XX secolo, è entrata nel bene e nel male nelle agende delle diverse tradizioni religiose, tutte attraversate dal problema della legittimazione dei grandi conflitti mondiali. Ma desolidarizzare solennemente le religioni dalla guerra appare un compito possibile, anzi necessario. È così che da Roma il dialogo riparte ma riparte soprattutto dal basso, coinvolgendo leader religiosi e mondi di base di riferimento. Oggi questa onda di dialogo tra uomini di religione e esponenti della cultura laica per affrontare con onestà, assieme, le grandi domande del nostro tempo, torna a Milano.
L'appuntamento è stato per il 5-7 settembre 2004. E il titolo è già una sfida: "Religioni e culture si incontrano: il coraggio di un nuovo umanesimo". Più di trecento leader delle grandi tradizioni religiose mondiali, cardinali, mufti, teologi, rabbini, grandi anime della tradizione buddhista e induista, credenti e testimoni laici si sono dati appuntamento su invito della Comunità di Sant'Egidio e dell'arcivescovo di Milano per resistere alla tentazione della contrapposizione, dello "scontro tra le civiltà" e per costruire i passi necessari per entrare nella globalizzazione con un po’ più di anima, meno in ordine sparso, convinti della grande necessità di reinventare la pace e la coabitazione in un mondo che è più complicato di ieri.
È un'onda lunga, quella che torna a Milano, l'unica città che ha ospitato più di un incontro interreligioso mondiale, oltre ad Assisi e a Roma, dove hanno preso inizio i meeting internazionali "Uomini e religioni". In mezzo è accaduto di tutto.
Era difficile immaginare il mondo in cui ci troviamo oggi quando questo pellegrinaggio di uomini e donne comuni e di grandi leader spirituali ha mosso i primi passi. Chi scrive ricorda la difficoltà, alla fine degli anni Ottanta, di avere nella stessa sala ebrei e musulmani, con i loro segni distintivi, all'inizio. La diffidenza poi superata - tra ebrei e cattolici nel 1989, cinquantesimo anniversario della Seconda guerra mondiale, quando il meeting si spostò a Varsavia, Cracovia e Auschwitz-Birkenau: per il contenzioso sull'apertura del Carmelo di Auschwitz nel recinto del luogo della memoria "sacro" agli ebrei.
Ricordo il cammino fatto: il primo pellegrinaggio, in quella occasione, di leader musulmani nel luogo dello sterminio di massa degli ebrei, un vero disgelo; l'invocazione perché i muri cadessero, prima della fine del Muro di Berlino, quando nessuno immaginava l'implosione dell'impero sovietico; i passi di dialogo per ricucire le ferite della Guerra dei Balcani tra la Chiesa ortodossa di Serbia e la Chiesa di Roma, allora sentita come avanguardia delle potenze occidentali in guerra per Bosnia e Sarajevo.
Molto è cambiato, in questi anni, da Milano (1993) a Milano (2004). Si è riaperto un dialogo profondo tra il patriarcato ortodosso di Romania e Giovanni Paolo II, dopo la grande Preghiera per la pace di Bucarest, che San'Egidio ha organizzato per la prima volta assieme a una Chiesa ortodossa. E oggi sono in via di soluzione i contenziosi legati alle grandi ferite lasciate dallo scontro tra ortodossi e uniati cattolici, acuiti da stalinismo e regime di Ceaucescu. Il canale di stima e di comunicazione con il grande mondo ortodosso russo, che non si è mai chiuso e che ha ripreso vigore nei meeting internazionali "Uomini e religioni" è un altro motivo di speranza, come pure gli esili, mai interrotti contatti con l'universo dei credenti cinesi. È stato commovente vedere davanti alla chiesa di San Domenico a Lisbona la richiesta di perdono del patriarca, il cardinale José da Cruz Policarpo, agli ebrei portoghesi proprio nel luogo che è stato il simbolo dell'inquisizione: curando una ferita durata quattro secoli. E è stato ed è decisivo vedere lo sforzo di incontro che dopo l'11 settembre 2001 è diventato ancora più necessario, per togliere aria, acqua e spazio agli estremisti che vorrebbero un mondo permanentemente in guerra e schiavo della paura e dell'odio, sotto la minaccia del terrorismo.
In questi anni molti i cambiamenti: all'interno del cammino di dialogo e nello scenario esterno. E le due cose si intrecciano. Non era facile, agli inizi, che ebrei e musulmani accettassero con facilità di essere nello stesso luogo, nello stesso paneli. All'inizio, discorsi paralleli. Poi, negli anni, un intero popolo di cercatori di pace dalle diverse tradizioni religiose è diventato protagonista del dialogo, di una ricerca comune, della necessità di tornare nel profondo delle proprie rispettive tradizioni religiose per trovare le ragioni del dialogo e della pace.
Difficile un bilancio. Paradossalmente, il successo maggiore è il fatto che il dialogo interreligioso è uscito dallo statuto dell'eccezionalità e, in certa misura, è diventato "ordinario". Che si è contagiato nelle chiese locali, tra le diverse comunità, anche quando ci sono, riemergenti, incomprensioni e paure. Difficile anche un bilancio dei momenti più importanti.
Le religioni - ha scritto Andrea Riccardi - possono essere benzina sui conflitti, ma possono essere anche acqua sui conflitti. Negli incontri "Uomini e religioni" le religioni hanno scelto in maniera impegnativa - in un tempo di rinascenti fondamentalismi - di non farsi utilizzare per fare meglio la guerra, e per costruire un'alternativa a un clash of civilization che sembra auspicato da più parti: dai maestri del terrore e da chi teme il dialogo.
È la sfida che viene raccolta a Milano in questo 2004. È un dialogo a più dimensioni. Dialogo tra cristiani: viste da lontano, nella prospettiva della globalizzazione, dei bisogni del pianeta, delle domande mute delle popolazioni civili che soffrono e di quanti chiedono un senso per la propria vita, le divisioni tra cristiani appaiono poco comprensibili, nella loro catena di piccole o grandi diffidenze e incomprensioni. È da salutare come una buona notizia e da circondare con affetto, per esempio, la presenza di tante Chiese ortodosse al meeting per la pace di Milano. Dialogo tra credenti delle grandi religioni mondiali: le tre religioni del Libro, ebrei, cristiani e musulmani e le grandi religioni asiatiche. L'antidoto alla tentazione dello scontro tra le civiltà sta qui, in questa scelta del dialogo come forza e della preghiera come arma. La preghiera come "forza debole" che cambia il mondo, mentre ci si conosce di più, ci si capisce di più, si camminerà processionalmente assieme fino alla Piazza del Duomo, il 7 settembre, in un'immagine - vera e non pubblicitaria - che è il contrario dell'11 settembre o delle immagini che vogliono stravolti i volti dell'Altro in quello del nemico.
Dialogo tra le culture, per evitare che il pianeta imbarbarisca come la nostra vita quotidiana, che le nostre case e i nostri quartieri o il nostro mondo diventino zone franche" recintate da alti fili spinati per difendersi dal "nemico": poveri, immigrati, sconosciuti, Sud del mondo, credenti di altre religioni.
"A che serve il dialogo?". C'è chi sostiene che è impossibile il dialogo senza svendere i pezzi pregiati della propria identità. Al contrario, il dialogo nasce dalla scelta di andare più in profondità nella propria identità, anche di cristiani, senza lasciarsi sopraffare dalla paura dell'altro perché incerti di sé stessi. Non è l'incontro degli ingenui. Il dialogo, infatti, non è mai la scelta dei deboli o degli spaventati. È una grande occasione per andare in profondità nella propria comprensione religiosa e, da lì, trovare nuove ragioni per comprendere l'altro, riempire fossati, svuotare le ragioni della diffidenza e della guerra in un tempo in cui terrore e conflitto sono diventati di casa. È un modo per fare entrare frammenti di futuro mentre il cielo sembra plumbeo e senza spiragli.
È il tempo in cui non smettere di guardare al futuro e alla convivenza da ricostruire. Al fondo, c'è una consapevolezza antica. Era ed è una sensibilità in profonda sintonia con una domanda che Igino Giordani si faceva già nel 1953, all'indomani del secondo conflitto mondiale: "A che serve la guerra?". Si rispondeva: "La guerra è un omicidio in grande, rivestito di una specie di culto sacro, come lo era il sacrificio dei primogeniti al dio Baal: e ciò a motivo del terrore che incute, della retorica onde si veste e degli interessi che implica. Essa sta all'umanità come la malattia alla salute, come il peccato all'anima".
A Milano sono risuonate le parole di un grande arcivescovo e Papa, Paolo VI, e la sua sapienza entrerà nelle corde profonde dell'Incontro internazionale. Esprimeva già, celebrando le Giornate mondiali della Pace, ogni 1° gennaio, il "Vangelo della Pace", come nel 1970: "Quando parliamo di pace, non vi proponiamo, o amici, un immobilismo mortificante ed egoista. La pace non si gode; si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto, è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare. Non è un'ideologia soporifera... Non è nostro ufficio giudicare le vertenze tuttora in atto fra le nazioni, le razze, le tribù, le classi sociali. Ma è nostra missione lanciare la parola Pace in mezzo agli uomini in lotta fra loro. È nostra missione ricordare agli uomini che sono fratelli. È nostra missione insegnare agli uomini ad amarsi, a riconciliarsi, a educarsi alla pace".
Pochi anni dopo, nel 1979, il messaggio del 1° gennaio individuava ancora più precisamente la strada, la stessa di oggi: "Predicare il vangelo del perdono sembra assurdo alla politica umana, perché nell'economia naturale spesso la giustizia non lo consente... La pace che conclude un conflitto è di solito un'imposizione, una sopraffazione, un giogo... Manca a questa pace, troppo spesso finta e instabile, la completa soluzione del conflitto, cioè il perdono, il sacrificio del vincitore a quei vantaggi raggiunti, che umiliano e rendono il vinto inesorabilmente infelice; e manca al vinto la forza d'animo della riconciliazione... Da una parte e dall'altra occorre l'appello a quella superiore giustizia, che è il perdono, il quale cancella le insolubili questioni di prestigio, e rende ancora possibile l'amicizia. Lezione difficile: ma non è forse magnifica? Non è forse di attualità? Non è forse cristiana?".
(da Jesus, n. 9, settembre 2004)
C'è da chiedersi: quali persone possono significativamente abitare questa stagione del "ritorno del sacro"? La risposta pare scontata: i "pellegrini dell'Assoluto".