Partiamo da una constatazione: a dispetto della mondializzazione e del “villaggio globale”, la multiculturalità così come esiste un po’ dappertutto, non necessariamente insegna relazioni interculturali ricche ed armoniose. La relazione tra individui o gruppi differenti per origine culturale è troppo spesso deformata da uno schermo colorito di pregiudizi e di stereotipi che generano malintesi, incomprensioni, giudizi e tensioni. Quando, per es., un migrante incontra un operatore del sociale o dell'educativo, la volontà di capirsi non manca ma spesso non è sufficiente. Infatti non è raro che, da una parte e dall'altra, si risveglino delle resistenze e nell'interazione si installi il disagio, di qui l'incomprensione e il rifiuto.
Degli immigrati si dice che sono "diversi" e siccome vengono a vivere da noi bisogna pure che prima o poi si adattino. Gli operatori non sempre sono stati formati per lavorare con dei migranti. Bisogna che siano informati su di loro, che siano sensibilizzati a percepire e ricercare (nel senso di essere curiosi, di sapere cosa l'altro pensa di me), a riconoscere le differenze culturali nel senso di conoscerle e rispettarle (non ancora di accettarle) di cui i migranti sono portatori (sani), per integrarle nella pratica professionale. Gli ostacoli disseminati lungo il cammino della comprensione interculturale sono molti: nè l'imposizione di un adattamento forsennato, nè la conoscenza enciclopedica di una cultura congelata saranno sufficienti ad evitare incomprensioni.
È la constatazione che pone Margalit Cohen-Emerique, dottore e ricercatrice in psicologia sociale, esperta di relazione e comunicazione interculturale, che si occupa da molti anni dell'immigrazione e delle sue differenti manifestazioni. A partire dall'osservazione del lavoro degli attori sociali sul campo, Cohen-Emerique ha cercato di "focalizzare" la pratica interculturale. Ha analizzato le interazioni che hanno luogo tra persone di origine culturale diversa ed ha identificato i principali ostacoli alla comunicazione tra il migrante e tutte le persone della società di accoglienza con le quali entra in contatto (l'insegnante, l'assistente sociale, il medico, ecc.).
Occhio alle "zone sensibili"
Le ricerche di Margalit Cohen-Emerique dimostrano che, nell'approccio interculturale, le conoscenze teoriche dell'Altro non sono sufficienti, per due ragioni che qui riassumiamo.
a) Il percorso alla scoperta dell'Altro è troppo spesso marchiato da stereotipi (tipo: "gli africani sono grandi amatori della musica e della danza"). Capita di proiettare meccanicamente su un individuo o su un gruppo le conoscenze a volte troppo scarne che si hanno della sua cultura, senza tener conto del carattere unico della sua persona. Questo avviene specialmente quando ci si sente colpiti/minacciati nella propria identità, e si reagisce emotivamente, replicando, magari aggressivamente, e riaffermando le false immagini che si hanno dell'Altro. Il conflitto è allora inevitabile. Così, l'approccio che si limita a diffondere informazioni sullo Straniero è insufficiente: l’accento deve essere messo sulla relazione tra me e l’Altro.
b) Si ritiene che l'incontro interculturale sia tra culture e identità nazionali. In realtà a entrare in contatto sono le persone, le persone portatrici di culture tra loro differenti. La relazione interculturale si realizza dunque ogni volta a livello interpersonale, mettendo in gioco l'identità personale e sociale dell’individuo, facendo intervenire le differenze culturali presenti tra i soggetti e sollecitando una serie di attitudini e di reazioni proprie di tutte le persone. Ciascuno di noi, nell'incontro con l'Alterità, sarà più o meno toccato in uno o in un altro livello della sua identità (appartenenza di genere, professionale, generazionale, della classe sociale...). Sono queste chiamate "zone sensibili", collegate alla propria storia personale ma anche a quella collettiva. Quando queste zone sensibili vengono sollecitate, hanno la tendenza di provocare reazioni affettive che possono frenare o impedire la comunicazione. Si rischia allora di cadere in una logica di conflitto.
Per tendere verso un approccio interculturale più positivo è importante prendere coscienza delle proprie zone sensibili e accostarsi delicatamente a quelle del proprio interlocutore. Il modo di procedere che propone Margalit Cohen-Emerique si basa sul presupposto che in tutti gli incontri interculturali ci sono degli attori in gioco che sono tutti portatori di cultura. Non solo il migrante, ma anche l'operatore. Nell'interazione con l'altro-diverso c'è la possibilità di vivere o di provocare degli "shock culturali" che bisogna imparare ad attutire, a disinnescare.
L'altro, proprio in virtù della sua più o meno marcata diversità, rappresenta una minaccia identitaria per cui ciascuno reagisce di “pancia” di fronte ad alcuni comportamenti dell’altro che mettono in discussione o sembrano attaccare alcuni pilastri valoriali dell’identità (es.: la libertà dall'individuo, il ruolo della donna nella famiglia e nella società; l'educazione dei figli; ecc.). Allora essere interculturali significa anche e soprattutto saper gestire le proprie emozioni, sospendere il giudizio e interrogarsi/interrogare l'altro, facendo lo sforzo di andare a capire il proprio quadro di riferimento culturale e quello dell'altro.
Gli shock-culturali
Nei prossimi numeri della rivista, attraverso un’analisi approfondita di alcune situazioni interculturali nel quotidiano, caratterizzate da incomprensioni e da shock culturali provocati o subiti (che quindi hanno visto l'assenza del modo di procedere interculturale, si cercherà, in particolare, di affrontare ciò che riguarda la rappresentazione delle differenze e del cambiamento culturale. Questi tratti culturali (personali, familiari, professionali, nazionali, di classe, ecc.) non sono fissati mia volta per tutte. Essi evolvono, si accentuano o si ammorbidiscono secondo i contesti, seguendo il filo delle storie personali, degli incontri realizzati, delle scelte fatte, sempre con la storia delle relazioni tra i popoli come tela di fondo.
Che gli shock culturali succedano non deve stupire nessuno. Ma l’inventario dei fatti che ne stanno alla base è ampio. Così lo shock può diventare fonte di apprendimento e di nuova attribuzione di senso a condizione di essere convenientemente analizzato. Perché è in tali situazioni di attrito che alcuni tratti fondamentali (e non sempre coscienti) della propria cultura emergono e si chiariscono, così conia la comprensione di chi siamo noi.
È passato il tempo in cui si credeva che l'incontro interculturale fosse una fortuna ed è passato il tempo del rigetto. Il nostro deve essere il tempo della creazione paziente di occasioni di interazione tra identità differenti che si danno mutualmente un senso in un contesto ogni volta da definire.
a cura della Coop. Interculturando
(da Cem/mondialità giugno/luglio 2004)