Mondo Oggi

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Mercoledì, 26 Marzo 2008 11:09

L'invasione

Nel
giro di pochi anni, alcune capitali dell’Africa dell’Ovest hanno
visto un cambiamento radicale del traffico su due ruote. I motorini,
mezzo principale di trasporto della popolazione cittadina a
Ouagadougou come a Cotonou, si sono rapidamente moltiplicati. Gli
indistruttibili Yamaha giapponesi, assemblati in Burkina Faso sono
stati soppiantati dai Jailing, Sukinda, Yashua e tanti altri nomi di
fantasia. Ma anche Yamaha contraffatti. Tutti «made in China».
A un terzo del costo.
Mercoledì, 19 Marzo 2008 10:50

Il PIL

"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani".

Robert Kennedy


Mercoledì, 12 Marzo 2008 14:21

Indipendenza finanziaria targata Bancosur

Ormai. è cosa fatta. Il Sudamerica avrà un proprio organismo di credito, che porrà fine al monopolio del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale e del Banco interamericano de desarrollo (Bid).

In giugno è stato firmato in Argentina l’atto costitutivo del Banco del Sur (Bancosur), cui aderiscono Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Paraguay e Venezuela. L’entrata in funzione effettiva dell’organismo - che potrà contare su un capitale di sette miliardi di dollari - è avvenuta a fine giugno, con una cerimonia d’inaugurazione a Caracas. Il Banco del Sur avrà la sua sede principale a nella capitale venezuelana e uffici a Buenos Aires e a La Paz.

Si tratta di un importante progetto finanziario regionale, che rientra nel cammino verso l’integrazione del Sudamerica e che, allo stesso tempo, può essere letto come un modo per rafforzare i Paesi dell’area Mercosur (mercato comune dell‘America meridionale).

I principali promotori dell’iniziativa sono stati il presidente venezuelano Hugo Chàvez e il suo omologo argentino Nestòr Kirchner, che tempo fa aveva già rotto i ponti con l’Fmi, cancellando completamente il debito del suo Paese.

L’obiettivo principale dell’organismo è garantire l’indipendenza finanziaria del continente, facendo leva sulle ingenti riserve di dollari accumulate negli ultimi tempi dai Paesi sudamericani, soprattutto dal Venezuela. Recentemente il cancelliere venezuelano Nicolàs Maduro ha assicurato che il Banco del Sur è «un’ alternativa forte» per porre fine al monopolio dei tradizionali enti finanziari internazionali. Riferendosi all’Fmi e alla Banca mondiale, Maduro ha spiegato: «Loro ci pagano due o tre punti percentuali per il nostro denaro e in cambio ci fanno pagare l’8 o il 10 per cento di interessi per prestarci il nostro stesso denaro. Ci saccheggiano».

Il nuovo organismo di credito, che è stato concepito come «la banca per lo sviluppo del futuro», ha tra i suoi obiettivi principali quello di attrarre investimenti economici verso l’America Latina e sostenere la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali. Chàvez ha già proposto il progetto anche al Paesi non allineati, a quelli asiatici e africani. Il tempo dirà se si tratta di una trovata ideologica o un efficace volano per lo sviluppo.

Di Alessandro Armato
MM/8-9/07


Mercoledì, 05 Marzo 2008 10:16

L'incontro con l'altro: ferita e benedizione

Il tema del rapporto fra ricchezza e felicità vive oggi una stagione di grande interesse all’interno del mondo accademico e non solo. La nostra rivista se ne è già occupata in passato e continuerà a seguirlo, convinti come siamo che su questa pista si possano offrire utili provocazioni alla società civile e alla Chiesa. In Italia uno degli studiosi di riferimento è il professor Luigino Bruni, autore di numerosi e apprezzati contributi in proposito. Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione a La ferita dell’altro, l’ultimo volume di Bruni, in uscita presso Il Margine di Trento.

Immaginate….. una città senza condomini rumorosi e litigiosi, dove ogni famiglia ha la sua propria villetta isolata acusticamente e visivamente dalle altre in modo che nessun vicino possa dar fastidio all’altro; dove i pochi grattacieli rimasti sono costruiti in modo da evitare ogni incontro lungo le scale o nei pianerottoli; dove, negli uffici e nei posti di lavoro si comunica solo via mail o, per le decisioni più delicate, via Skype; dove tutti gli spazi una volta comuni sono stati lottizzati e privatizzati, dalle piazze ai quartieri, e ciascuno difende e controlla il suo pezzettino di città; dove con una semplice mail possiamo ordinare la spesa che ci viene recapitata a casa senza bisogno di uscire e perdere del prezioso tempo; dove i media sono diventati così sofisticati e interattivi da farci sentire tutto il giorno in compagnia di tanti, pur trascorrendo sempre più ore da soli davanti a pc e tivù; anche le lezioni universitarie ci vengono recapitate a casa via Internet, con docenti virtuali preparatissimi che ci seguono personalmente da qualunque parte del mondo, senza alcun bisogno di incontri faccia a faccia.

Una città «ideale»: i conflitti sono stati infatti eliminati perché è venuta meno la pre-condizione stessa del conflitto, insistere cioè su una terra comune, su di una communitas. Vi piacerebbe vivere in una tale città? Vi auguro di sì, poiché questa scena stilizzata è molto vicina a quella reale che si sta profilando nelle città che oggi stiamo immaginando e progettando nelle nostre società di mercato. Mercato, sì: perché il mercato e la sua logica è proprio ciò che più sta determinando questo scenario. Questo libro vorrebbe offrire qualche spiegazione del perché si sta profilando un quadro simile, e magari offrire qualche spunto di riflessione a chi (come me) è molto preoccupato da una tale prospettiva. Ci sono un’ immagine e un’intuizione all‘origine di questo testo: il «combattimento di Giacobbe con l’angelo» narrato dalla Genesi (l’immagine), e l’indissolubile legame presente in ogni autentico rapporto umano tra «ferita» e «benedizione» (l’intuizione).

Prima o poi ogni persona fa una esperienza, che segna l’inizio della sua piena maturità: capisce nella propria carne e intelligenza che se vuole sperimentare la benedizione legata al rapporto con l’altro/a, deve accettarne la ferita. Comprende, cioè, che non c’è vita buona senza passare attraverso il territorio buio e pericoloso dell’altro, e che qualunque via di fuga da questo combattimento e da questa agonia conduce inevitabilmente verso una condizione umana senza gioia. In un certo senso è tutta qui l’idea che ha originato il percorso di questo libro, il quale racchiude un tentativo di far dialogare l’economia con questo «combattimento»,con la ferita e con la benedizione dell’altro. Perché tentare questo dialogo?

La scienza economica, con la sua promessa di una «vita in comune senza sacrificio», rappresenta nella tarda modernità una grande via di fuga dal contagio della relazione personale con l’altro, e proprio per questa ragione l’umanesimo dell’economia di mercato, che pure ha prodotto grandi frutti di civiltà, è oggi tra i grandi responsabili (sebbene non l’unico: un altro grande protagonista è la tecnologia) della deriva triste e solitaria delle moderne società di mercato, una condizione umana senza gioia anche per aver creduto alla grande illusione che il mercato, o l’impresa burocratica e gerarchica, ci potesse regalare una buona convivenza senza dolore, ci facesse incontrare un'altra che non ci ferisse, che non combattesse ma semplicemente scambiasse innocuamente con noi. E in effetti ci stiamo sempre più «incontrando» in questo modo negli anonimi mercati post-moderni. Ma forse stiamo uscendo dal territorio dell’umano, se è vero che l’umano inizia con la gratuità, che è sempre un’esperienza di relazione interumana rischiosa e quindi potenzialmente dolorosa. (...)

Questo innocuo incontro con l’altro senza ferita è anche un incontro senza gioia, che non porta ad una vita pienamente umana, per la persona e per la società, come i contemporanei studi sui «paradossi della felicità» ci dicono con sempre maggiore forza, come avremo modo di vedere nell’ultima parte di questo saggio. Questa grande illusione della modernità oggi la stiamo pagando infatti con la moneta della felicità, ed è ora che qualcuno chiami il bluff. (..)

Questo libro, però,non è scritto da un pessimista o da un nemico dei mercati e della società contemporanea, o da un nostalgico di antiche comunità pre-moderne. Lo sguardo con il quale guardo il mondo che cerco di descrivere vuole essere in realtà largo, positivo, uno sguardo di chi è solidale compagno di viaggio dei protagonisti (economisti compresi) delle storie che racconta. Le pagine che seguono sono solo un tentativo per comprendere qualche dinamica meno visibile delle cause della crisi epocale che stiamo attraversando (che è una crisi essenzialmente relazionale), e imbastire un ragionamento che renda ragione della speranza, che vorrei fosse la vera nota dominante di tutto il saggio.

Una riflessione a tutto tondo sulle relazioni umane, soprattutto su quelle orizzontali faccia a faccia (...), è dunque il filo conduttore del saggio. Sulla vasta gamma della relazionalità umana, come vedremo, l’economia si è concentrata essenzialmente su una sola forma, quella assimilabile all’eros,
trascurando la philia (amicizia), emarginando totalmente l’‘agape, la relazionalità improntata a gratuità, per la carica che l’agape ha di potenziale sofferenza dovuta alla mancanza di controllo pieno su di essa. La classica tripartizione dell’amore umano in eros, philia e agape sarà, non a caso, un altro tema dominante, e chiave di lettura, presente nelle pagine che seguono. Voglio poi specificare subito che questo libro non contiene nessun appello a combattere i mercati o a costruire una società libera dai mercati. Il tentativo che invece si nasconde in questo libricino è tentare di addurre alcune buone ragioni a sostegno dell’importanza e dell’urgenza di incontrare il mistero drammatico dell’altro e della communitas, senza però tornare in un mondo pre-moderno e senza mercati o uscire in una delle tante forme di comunitarismo di oggi. La storia umana ci mostra, infatti, che dove non arriva il mercato non è normalmente l’amore scambievole a prendere il suo posto; soprattutto nelle grandi comunità, il vuoto del contratto è spesso riempito da rapporti di potere, dove il più forte sfrutta il più debole. Anche nel mercato ritroviamo forti e deboli, ma spesso sappiamo riconoscerli e vogliamo superare le asimmetrie. Sono convinto che un mondo senza mercati e contratti non è una società decente; ma una società che ricorre solo a mercati e contratti per regolare i rapporti umani lo è ancor meno. Molta parte del discorso che svolgeremo in questo saggio si muove sul terreno compreso tra «solo» e «senza».

Il mercato, questa «zona franca» dove possiamo incontrarci senza sacrificio, in modo mediato e mutuamente vantaggioso, è una conquista della civiltà e uno strumento di civiltà che, qualche volta, può anche allearsi con la gratuità, e diventare mezzo per una convivenza umana più libera e addirittura più fraterna. Le tante esperienze di economia sociale, civile, di comunione, di ieri e di oggi, ci dicono esattamente questo: il mercato può diventare luogo di vero incontro con l’altro e di benedizione, purché si apra alla gratuità, purché non fugga dalla ferita dell’altro.

Infine (…)non occorre dimenticare il ruolo potenzialmente civile delle mediazioni: anche la protezione dalla ferita dell’altro, assicurata dal sistema mediato e decentrato dei prezzi e dalla mediazione della legge, può svolgere una funzione positiva e civilizzante, soprattutto in quelle società dove il mercato è sottosviluppato, e le esperienze dell’uguaglianza e della libertà sono sempre minacciate. Esiste però un punto critico, una soglia, oltrepassata la quale la relazione anonima dei mercati produce anomia, solitudine e smarrimento dei legami identitari: è mia impressione che le opulente società occidentali abbiano già oltrepassato questa soglia, che delimita anche il territorio dell’umano.

di Luigino Bruni
Docente di Economia politica Università Bicocca - Milano
MM/10/07


Giovedì, 28 Febbraio 2008 00:22

Etiopia: il risveglio

Lo straniero che si affaccia per la prima volta sulla scena etiopica coglie immediatamente il senso di sicurezza e di normalità che si respira nelle grandi città. È l’eredità di uno stato con una tradizione bi-millenaria. Ma i controlli sistematici negli aeroporti, nei ristoranti e nei principali alberghi della capitale, Addis Abeba, testimoniano di una certa tensione. Le autorità non scartano l’eventualità di un attentato terroristico, visto che l’esercito è impegnato in Somalia a rintuzzare le iniziative armate di gruppi del radicalismo islamico.

Altro sentimento dominante: una certa rassegnazione della popolazione che, dopo la morte del Negus, Hailé Selassié (regnò ininterrottamente dal 1930 al 1974), subì il terrore rosso di Menghistu Hailé Mariam. Oggi, a diciassette anni dalla caduta del regime marxista del derg, che aveva racchiuso il paese in una cappa di piombo, la vita culturale e notturna di Addis Abeba sta timidamente riprendendo.

Tuttavia, rimane il trauma causato dalle elezioni politiche del maggio 2005, che si chiusero con la netta sconfitta dei candidati della coalizione al governo, il Fronte democratico e rivoluzionario del popolo etiopico (Fdrpe). Dopo aver modificato a proprio favore l’esito delle urne, la Coalizione ha fatto largo uso della repressione per mantenersi al potere. Per la commissione d’inchiesta del parlamento, il bilancio delle manifestazioni del novembre 2005, che contestavano gli “aggiustamenti” del voto, fu di 193 morti. Arrestati anche i principali esponenti dell’opposizione, tra cui il presidente della Coalizione per l’unità e la democrazia (Cud), Hailu Shawel.

A luglio, il regime s’è inventato un colpo di teatro: il giorno 16, ha condannato all’ergastolo i 37 oppositori arrestati; il giorno 20, li ha liberati, dopo un’umiliante confessione, nella quale hanno «riconosciuto» la propria responsabilità negli incidenti del 2005. In questo modo, si è tentato di abbassare la temperatura politica prima dell’inizio delle celebrazioni del passaggio al terzo millennio.

D’altra parte, le divisioni in seno all’opposizione hanno tranquillizzato l’Fdrpe, tutto concentrato a realizzare opere infrastrutturali e convinto, in questo modo, di vincere le elezioni amministrative, la cui data non è ancora stata fissata. Va detto che l’atteggiamento dei principali partner dell’Etiopia, a cominciare dagli Usa, spinge una parte dell’opposizione a cercare una strada di compromesso con la maggioranza di governo.

E il fatto che gli stati europei abbiano ignorato la risoluzione del parlamento Ue, che chiedeva sanzioni mirate contro il primo ministro Meles Zenawi, rafforza la convinzione generale che il governo goda del sostegno dell’Occidente.

Zenawi, comunque, non può ignorare del tutto le preoccupazioni della popolazione. La più immediata è l’inflazione: l’indice generale viaggia attorno al 20%, ma per grano, mais e sesamo i tassi sono rispettivamente del 30, 150 e 100%. Inoltre, presto o tardi, bisognerà rispondere alla frustrazione degli amhara (da sempre il gruppo dirigente del paese), che abitano la capitale e i dintorni, e che sono indignati del fatto che il potere sia in mano ai tigrini (il 7% della popolazione). L’animosità è tale che, negli ultimi anni, alcuni fedeli hanno più volte tentato di lapidare il patriarca della chiesa ortodossa etiopica, Abuna Paulos, originario del Tigray (la regione più settentrionale) come Meles.

Le autorità negano ogni favoritismo etnico o regionale, invocando la costituzione federale e sottolineando che quest’anno più di due terzi del budget va agli stati della federazione.

Focolai di conflitto
Se nelle principali città si respira un’atmosfera tranquilla (i turisti sono passati da 139mila a 227mila tra il 1997 e il 2005), nella periferia dell’immenso paese (quasi quattro volte l’Italia) covano numerosi focolai di guerriglia. Il gruppo guerrigliero più attivo è il Fronte nazionale di liberazione dell’Ogaden (Fnlo), di etnia somala, sorto nel 1984 a Mogadiscio e i cui effettivi sono stimati in qualche centinaio di combattenti. Il governo attribuisce all’Fnlo l’attacco al sito dell’impresa cinese Zhongyuan Petroleum Exploration, che lo scorso aprile ha causato 75 morti. A questo aggiunge l’attentato nello stadio della città di Jijiga, in maggio: una bomba ha ucciso 11 persone.

Governo e osservatori stranieri evocano spesso i legami dell’Fnlo con l’Unione delle corti islamiche della Somalia, e anche con i jihadisti somali di Al-Ittihad Al-Islamiya, sospettata di essere legata ad Al-Qaida. Ma il metodo scelto per combattere i secessionisti dell’Ogaden rischia di spingere le popolazioni locali, musulmane, tra le braccia dei ribelli.

In ogni caso, né l’Fnlo, né i ribelli afar, né il Fronte di liberazione oromo (Flo), poco attivo, né il Fronte patriottico Arbanyotsh, presente nell’area di Gondar, né il Fronte di liberazione del Tigray (Tlf), rivale del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) di Meles, sono in grado di rovesciare il governo. La situazione, però, potrebbe aggravarsi, se persistesse la tensione con l’Eritrea (Asmara sostiene le guerriglie etiopiche e gli islamisti somali; non si esclude una ripresa della guerra) e se si prolungasse la presenza armata etiopica in Somalia.

All’inizio di giugno, osservatori militari dell’Onu hanno rilevato l’installazione di batterie lanciamissili etiopiche lungo la frontiera eritrea e il concentrarsi verso Badme di contingenti di fanteria, scortati da mezzi blindati. Le relazioni tra Asmara e Washington traballano, tanto che gli Usa stanno pensando d’inserire l’Eritrea nella lista dei paesi “terroristi”. E questo è un fattore favorevole a un eventuale nuovo scontro Asmara-Addis Abeba, tanto più che Usa ed Etiopia sono alleati in Somalia, dove alcuni marines addestrano un’unità d’élite etiopica.

Il pericolo è che si crei un nuovo bubbone di tipo iracheno e che si offra ad Al-Qaida l’occasione di sfruttare le frustrazioni somale contro i “crociati” etiopici per fare proseliti in seno all’organizzazione Al-Sahabab. L’avventura somala è molto criticata ad Addis Abeba: viene chiamata “la guerra di Meles”. L’esercito etiopico, forte di non meno di 150mila uomini e rodato da anni di combattimenti ininterrotti su vari fronti, è il più potente del Corno d’Africa.

Un peggioramento delle cose non è, comunque, ineluttabile.

Anzi, la situazione potrebbe migliorare, se Washington riconoscesse che la presenza etiopica in Somalia è controproducente. Il politologo francese Gérard Prunier osa addirittura sperare in un possibile mercato comune del Corno d’Africa, «se prevarrà una certa logica».

Crescita del Pil verso il 10%
In attesa di sviluppi, la sicurezza alimentare – ogni anno crescono di 2 milioni le nuove bocche da sfamare – costituisce una sfida permanente, in un paese che ha conosciuto grandi carestie e non è al riparo da nuove catastrofi. In settembre, Medici senza Frontiere ha lanciato l’allarme sulla situazione nell’Ogaden. Non bisogna dimenticare che l’Etiopia soffre di un deficit cerealicolo cronico di 600mila tonnellate l’anno, anche se la produzione negli ultimi cinque anni è passata da 8,7 a 11,6 milioni di tonnellate.

Tra le cause dell’insicurezza alimentare vanno annoverati i bassi rendimenti agricoli, l’arretratezza delle tecniche di produzione e l’eccessivo frazionamento delle terre coltivate. La demografia galoppante sortisce l’effetto di diminuire la superficie della terra disponibile per ogni nucleo familiare. Anche nelle zone più produttive, come al sud, si trovano sacche di malnutrizione. Un altro handicap è costituito dal regime fondiario: la terra appartiene allo stato e i contadini non ne hanno che l’usufrutto; ciò riduce la possibilità per agricoltori e allevatori di accedere a finanziamenti per sviluppare la propria attività.

Eppure, il potenziale agricolo, grazie all’abbondanza delle precipitazioni, è considerevole. L’accordo dello scorso maggio con la Starbucks, la catena del caffè regina in America e nel mondo, ha aperto all’Etiopia – primo produttore africano di caffè, con una raccolta media annua di 300mila tonnellate – una strada per accrescere le entrate in valuta pregiata. L’accordo, infatti, riconosce la proprietà intellettuale dei piantatori e l’etichettatura delle qualità arabiche sidamo o harar. Anche i semi oleosi e l’orticoltura conoscono uno sviluppo spettacolare. Lo stesso si può dire della floricoltura intorno ad Addis Abeba e nella Rift Valley.

L’Etiopia è anche ricca di paradossi. Nonostante le tensioni interne e alle frontiere, il paese non ha mai conosciuto un boom economico paragonabile a quello del 2007. Nell’ultimo anno la crescita del prodotto interno lordo (Pil) è stata del 9,6% e, secondo le previsioni, nel 2007-2008 manterrà lo stesso ritmo. Il Fondo monetario internazionale, lo scorso giugno, ha rilevato che le performance economiche degli ultimi anni hanno contribuito a «ridurre significativamente la povertà». Ma il boom non deve far dimenticare la fragilità di un’economia con un deficit commerciale strutturale, che dilata il baratro del debito.

Puntare alla crescita
Pur con tutti i suoi limiti, l’Etiopia attira sempre più capitali stranieri. Gli investimenti diretti dall’estero sono passati da 149 milioni di dollari nel 2001 a 365 milioni oggi. La Cina, che già ha costruito molto nella periferia della capitale, ha investito 150 milioni di dollari nella realizzazione di una dependance dell’Unione africana (Addis Abeba è la sede dell’Ua): il progetto prevede 225mila nuovi alloggi entro il 2010.

La crescita crea anche inconvenienti. In luglio, Ethiopian Telecoms non è riuscita a soddisfare la domanda di carte Sim. Gli ingorghi del traffico sono all’ordine del giorno nella capitale e sulla strada che porta al porto di Gibuti. La linea ferroviaria, che è in fase di ristrutturazione grazie ai fondi Ue, potrà diventare un’alternativa al trasporto merci su gomma solo tra qualche anno. Gli industriali si lamentano per la frequente penuria di materie prime e per l’approvvigionamento intermittente di acqua ed elettricità.

Intanto, presso il mercato di Addis Abeba si allungano le file davanti ai cinema che presentano film etiopici. Opere non sempre di buona qualità, ma che testimoniano il dinamismo di un’industria in pieno sviluppo, anche attraverso la produzione di Dvd e videocassette. In espansione il turismo e in crescita le rimesse degli emigrati: 1,1 miliardi di dollari nei primi 9 mesi del 2007.

Grazie alle abbondanti piogge che si abbattono sugli altopiani, il paese dispone del secondo potenziale idroelettrico in Africa, dopo quello del bacino del Congo. Il governo è deciso a sfruttare questa opportunità, sia per soddisfare i bisogni interni, sia per vendere elettricità a Sudan, Kenya, Gibuti e Yemen. Le centrali elettriche di Gilgel Gibe II, Amerti-Neshe, Takeze e Anabeles saranno ultimate entro tre anni e potranno esprimere un potenziale di 880 megawatt (Mw), cioè il doppio della capacità attuale. In settembre, l’italiana Salini ha iniziato la costruzione di Gilgel Gibe III (1.870 Mw), con un investimento di 1,6 miliardi di dollari.

Venendo al settore minerario, sono in vigore 50 permessi di esplorazione che riguardano oro, platino, minerali di ferro, carbone, pietre preziose e metalli di base. Ma l’Etiopia, che ha una struttura geologica simile al Sudan e allo Yemen, aspira a diventare anche produttrice di petrolio e gas. La britannica White Nile sta sondando il territorio lungo il fiume Omo, nel sud; presto anche il centro del paese sarà oggetto di specifiche esplorazioni.

Il governo sta investendo massicciamente nelle risorse umane. L’obiettivo è di arrivare al 100% di scolarizzazione primaria (oggi 79%) entro il 2015, ma anche di sostenere la formazione professionale e l’insegnamento universitario. Nel 1991 c’era una sola università: oggi ve ne sono 8 e altre 13 sono in costruzione. Nello stesso tempo, c’è un problema di “fuga dei cervelli”, che ha assunto proporzioni spettacolari. Un recente studio evidenzia che un terzo dei medici ha lasciato il paese negli ultimi dieci anni.

In un’Africa dalle strutture statuali deboli, l’Etiopia, disponendo da secoli di un’amministrazione pubblica disciplinata, ha dimostrato di essere capace di generare una forte crescita economica. Occorre far sì che questa crescita sia duratura. Ma per dare continuità alla crescita è necessario che chi è al potere eserciti l’arte del compromesso, presupposto della pace. Uno storico etiopico emigrato ci spiega che «nella lingua amharica non c’è un termine che corrisponda alla parola “compromesso”». Vorrà dire che saranno i bisogni a imporre un cambio di mentalità.


François Misser
Nigrizia / Novembre 2007


Quanti soldi spende l’Ue? E dove indirizza i fondi, provenienti per la gran parte dalle casse degli stati membri (in ragione della ricchezza nazionale) e per il rimanente da risorse proprie? Due anni fa erano state definite le Prospettive finanziarie 2007-2013, che costituiscono, in sostanza, la programmazione finanziaria pluriennale dell’Unione allargata; ogni anno, poi, viene definito un budget d’esercizio, la cui bozza iniziale spetta alla Commissione, che lascia la decisione finale alle “contrattazioni fra le due autorità di bilancio, ossia Parlamento e Consiglio.

Rispetto al passato, il bilancio2008 lascia intravedere una novità significativa «il budget proposto - ha spiegato Daha Grybauskaité, commissaria incaricata della programmazione finanziaria - rappresenta un tornante storico per la Ue le spese legate a sviluppo e occupazione costituiscono la voce principale del bilancio comunitario» e, per la prima volta in cinquant’anni, «supereranno quelle per agricoltura e risorse naturali». Insomma, un bilancio più moderno per un’Europa che guarda avanti (grattacapi politico-istituzionali a parte!).

Il peso delle singole voci
A maggio ha preso avvio l’iter budgetario che nei prossimi mesi coinvolgerà il Consiglio (dove sono rappresentati i governi degli stati membri) e il Parlamento, per concludersi .- salvo sorprese - a dicembre. La commissione lituana ha sottolineato con enfasi alcune novità nella struttura dei conti Ue e, di conseguenza, delle politiche comunitarie, «a conferma del fatto che l’esecutivo intende ricentrare il budget sulle sfide globali che si pongono dinanzi all’Europa». Secondo il documento contabile, gli impegni di spesa per il 2008 sono stabiliti in 129,2 miliardi di euro (1,03% del prodotto interno lordo Ue). Le spese per crescita sostenibile, impiego e coesione fra le regioni, necessarie anche per dar corso alla Strategia di Lisbona, si attestano attorno a 57 miliardi (44,2% del bilancio), contro i 55 miliardi per agricoltura, allevamento e attività per la tutela del patrimonio naturale (43,6%).

Le cifre attestano che, in realtà, le uscite previste per il settore primario rimangono ferme fra quest’anno e il prossimo, mentre crescono in percentuale gli stanziamenti per formazione permanente (+9%), ricerca (+ 11%), reti transfrontaliere ed energia (14%). Lievitano inoltre le spese per la gestione dei flussi migratori (390 milioni euro in più nel 2008, cifra ancora lontana dalle reali necessità) e per rafforzare le “azioni esterne” (+6,9 miliardi); ma le voci “cittadinanza, libertà e sicurezza” e “ruolo mondiale dell’Ue” non vanno oltre (rispettivamente) l’1 e il 5,4% del totale. Le spese amministrative e per il personale sono al 5,7%.

Tra le voci finanziate dal bilancio appaiono (per fare qualche esempio) il fondo sociale europeo (formazione e risorse umane); i fondi per lo sviluppo regionale; le infrastrutture viarie e le reti di collegamento; il programma Erasmus per gli studenti le sperimentazioni scientifiche, la formazione e mobilità dei ricercatori; la promozione della cultura e dei media; la tutela della biodiversità; la protezione dei consumatori e la salute dei cittadini; il sostegno alle piccole e medie imprese; gli aiuti umanitari verso i paesi poveri che, per quanto modesti rispetto al bilancio totale, restano pur sempre i più elevati al mondo.

La Commissione ha ribadito, attraverso la Grybauskaité, l’impegno, assunto nel dicembre 2005 al termine della maratona per le Prospettive finanziarie, verso una «revisione complessiva del bilancio, che ricalibri il peso assegnato alle singole voci». Ora si attendono i fatti.

di Gianni Borsa inviato agenzia Sir a Bruxelles
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007

Mercoledì, 13 Febbraio 2008 12:58

Lo show del G8, chi controlla l'economia?

Serve o non serve? Si è trasformato in uno show di burocrati, come sostiene l’ex presidente francese Giscard D’Estaing, oppure il G8, cioè il vertice dei sette paesi più industrializzati del mondo più la Russia, è ancora il salotto buono da dove si governa l’economia mondiale? L’ultima edizione, in Germania a inizio giugno, ha messo in moto una corrente di pensiero sulla sua inutilità, che accomuna economisti radicali, ex premier conservatori e guru ecologisti.

Il gruppo era nato, anni fa, come G7 l’idea era quella di un salotto di una trentina di persone, per discutere senza peli sulla lingua di economia, ammettendo errori e correzioni di prospettiva All’ultimo G8 i leader erano accompagnati da duemila persone in un turbinio di riunioni, vertici nel vertice e incontri bilaterali, ormai la chiave per governare un pianeta sempre più turbolento; anche la scelta del tema (clima e problemi dell’ambiente) ha rasentato la farsa. I problemi di ruolo si erano posti già quando ai sette era stata aggiunta la Russia, l’ottavo convitato che ha sparigliato la carte, spostando la discussione sul piano geopolitico e mettendo in crisi l’approccio economicistico prevalente tra i sette paesi a .più forte crescita. In ogni caso, da quando la crescita economica ha preso la strada della globalizzazione, il G8 rischia di implodere e di lasciare sul campo un sacco di vittime.

L’epoca della disgiunzione
Intanto oggi bisogna. chiedersi chi controlla chi e se si può parlare di un “sistema” che ha sostituito quello uscito dal secondo conflitto mondiale, che mirava a ottenere, e per un certo tempo ci è riuscito, stabilità nei tassi di cambio e nel commercio mondiale. Il G7 è nato proprio quando qualcuno ha alzato il dito per annunciare che il sistema non teneva più e gli squilibri potevano fare grossi guai, naturalmente al ricchi. Il G7, insomma, è stato un tentativo di proteggersi, più che un’azione virtuosa di governare il cambiamento. Per questo oggi l’ex presidente francese, uno degli inventori del G7, è così critico.

In più, dietro le quinte di un palcoscenico che cede da più parti si affacciano ormai attori e problemi nuovi. Centrale, nel gruppo degli Otto, e prima dei Sette, è sempre stata l’attenzione per il cosiddetto “ciclo americano” cioè il ruolo globale dell’economia Usa, dalla cui tenuta dipendeva tutto il resto. Oggi però la realtà è diversa e in giro si colgono una sfida globale alla prima potenza e uno spostamento dell’asse del governo mondiale dell’economia. Qualche economista lo chiama decoupling, disgiunzione tra economia americana ed economia globale. Il dibattito è aperto, ma assomiglia ancora a un rebus, con soluzioni non facili.

Di certo c’è che la crescita americana è in declino, l’eurozona accelera, mentre Cina e India continuano a marciare a ritmi forsennati. Nella spesa globale la quota di mercati emergenti (Cina, India, Brasile, Messico e Corea,. tutti paesi che nel GB non hanno nemmeno uno strapuntino in fondo alla fila) è cresciuta dal 1990 ad oggi dal 20 al 37% Tuttavia il consumatore americano è ancora il più forte in assoluto (la Cina, per esempio, manda negli Usa il 21% del suo export). Allora solo quando lo Zio Sam si stancherà, si vedrà se l’economia mondiale potrà farne a meno. Adesso tutto rimane sospeso, perché debito americano e crescita delle quote dei nuovi mercati finanziari sono strettamente correlati. La disgiunzione può essere una linea di condotta per il futuro, ma non è detto che sia la soluzione per migliorare il sistema economico mondiale nel senso della giustizia e dei diritti. Il rischio è che si cambi solo l’arredamento del salotto.

di Alberto Bobbio
Italia Caritas/Luglio Agosto 2007


Giovedì, 07 Febbraio 2008 10:26

Nella prigione del dollaro

A San Salvador, capitale del paese centroamericano, tutte le mattine il centrocittà viene invaso da una marea di ambulanti, che occupano le strade tra povertà, cantilene e commerci, più o meno legali. Mentre il macellaio squarta la carne ai piedi della chiesa in stile coloniale, nella strada di fronte, accanto alla succursale della banca nazionale, s’improvvisa un ristorante all’aperto di piatti tipici, largo quanto il marciapiede. Il centro storico e questo mercato improvvisato sono diventati un tutt’uno, immersi in una moltitudine ondeggiante, che si muove come al ritmo d’un vecchio bolero popolare salvadoregno.

In Salvador, la dollarizzazione dell’economia è arrivata il 10 gennaio 2001, accompagnata da varie promesse, come l’aumento degli investimenti stranieri e delle esportazioni di prodotti nazionali. Da allora invece sono aumentati soltanto il costo della vita e la disoccupazione, con sullo sfondo un paesaggio sociale che si deteriora giorno dopo giorno. La mancanza di lavoro si è tradotta in un aumento del settore informale, che evidenzia la incongruenza tra la dollarizzazione e il Dna di un paese povero come El Salvador. Come risposta ai problemi economici, il governo di Elías Antonio Saca ha approvato il tanto discusso «articolo 15» che penalizza la vendita informale. A metà maggio, i 17.000 ambulanti della capitale hanno realizzato manifestazioni di protesta, chiedendo l’abrogazione della legge e la liberazione di Vicente Ramirez (dirigente dell’«Associazione dei lavoratori, venditori e piccoli commercianti salvadoregni», accusato di atti terroristici) sotto lo slogan «Siamo venditori, non terroristi».

In un paese come questo, la dollarizzazione ha significato non soltanto la moltiplicazione della povertà, ma anche l’impossibilità di svalutare la valuta nazionale. Pertanto, l’unico modo per accrescere la competitività del paese a livello internazionale (cioè per aumentare le esportazioni) è quello della «deflazione» (ridurre i prezzi delle merci). Per diminuire i prezzi delle merci occorre però precarizzare ancora di più le condizioni dei lavoratori, dando sempre più potere alle maquilas del settore tessile e alle multinazionali della frutta, che non pagano neppure il salario minimo. Nella situazione attuale, con le importazioni che superano le esportazioni, il mercato nazionale è letteralmente invaso da prodotti importati, specialmente nordamericani, dalle scarpe fino ai prodotti cerealicoli a basso prezzo (perché sovvenzionati) e geneticamente modificati. Questa invasione ha spazzato via l’autosufficienza alimentare: i contadini salvadoregni non producono più per il mercato interno, perché i cereali importati costano meno; questa situazione spinge i contadini ad abbandonare le campagne (dove ormai si concentra il 97% della povertà). D’altra parte, migliaia di artigiani e di piccoli produttori del settore calzaturiero sono rimasti disoccupati: le scarpe statunitensi costano meno, perché sono prodotte in quantitativi enormi e quasi sempre in Asia, dove i salari sono ancora più bassi che nel Salvador.

Sugli effetti quotidiani prodotti dalla dollarizzazione parliamo con la dottoressa Beatrice Alamanni de Carrillo, procuratore generale per i diritti umani della Repubblica del Salvador. «Come difensore dei diritti umani in Salvador - ci spiega - posso dirle che, per la gente, la dollarizzazione è stato un colpo terribile che si è ripercosso sulla vita quotidiana di ognuno. In pratica, si è passati all’equivalenza tra colon salvadoregno e dollaro Usa, una cosa insostenibile, perché le retribuzioni sono sempre calcolate in colones. Questo significa che i salari hanno perso 8 volte di valore, un fatto insostenibile per la gran maggioranza della popolazione. Con un salario minimo pari a 140 dollari è impossibile sopravvivere. Purtroppo, la tragedia della dollarizzazione pare un fatto irreversibile. Occorre affrontarla con interventi economici adeguati e con molta creatività».

La minoranza ricca del Salvador, assieme alla classe politica attualmente al potere, hanno voluto a tutti i costi la dollarizzazione dell’economia, per tutelarsi da un’eventuale salita al potere del Fmln («Farabundo Martì per la liberazione nazionale», la ex guerriglia ora diventata un partito politico di opposizione). Attraverso la dollarizzazione costoro possono controllare il paese anche dall’esterno, manovrando i flussi e deflussi di capitale. In sintesi, la dollarizzazione dell’economia non ha fatto che accrescere gli squilibri preesistenti, traducendosi a livello di macroeconomia in una camicia di forza, dato che l’economia salvadoregna ormai funziona come un «pilota automatico» alle dipendenze dei poteri economici statunitensi.


Di José Carlos Bonino
MC Luglio-Agosto 2007



IL GLOSSARIO DI «RADIO DI CARTA»

  • Dollarizzazione: è la sostituzione della valuta nazionale con il dollaro statunitense; oltre che a EI Salvador, la dollarizzazione è ufficiale in Ecuador e a Panama.

  • Deflazione: in economia, è la diminuzione del livello generale dei prezzi, l’opposto dell’inflazione; le imprese, non riuscendo a vendere i beni e i servizi prodotti, ne riducono i prezzi, ciò comporta una riduzione dei ricavi che esse cercano di compensare attraverso una riduzione dei costi (del lavoro, dei beni intermedi, eccetera); gli effetti negativi della deflazione tendono quindi a diffondersi, provocando una situazione di depressione economica.



Martedì, 29 Gennaio 2008 22:50

Povertà, una patologia

La povertà, nel nostro paese, è un fenomeno tutt’altro che residuale. Interessa, secondo le statistiche ufficiali, oltre l’11% delle famiglie e il 13% degli individui residenti. Se si aggiunge l’area della vulnerabilità sociale, quella dei cosiddetti “quasi-poveri”, soggetti poco sopra la soglia di povertà relativa, si arriva a sfiorare il 20%: quasi una famiglia italiana su cinque è indigente, o le manca poco per esserlo tecnicamente. Un dato strutturale preoccupante, una patologia sociale conclamata.

La prima ragione di questo allarmante (e protratto) stato di cose è che l’Italia manca di un piano di lotta alla povertà. Sono esistite ed esistono misure di contrasto settoriali, mai una visione d’insieme. Dai governi del dopoguerra il problema è stato preso diverse volte in esame. La storia dell’Italia repubblicana è disseminata di buone intenzioni in materia, mai però tradottesi in un piano esplicito, serio, organico.

Caritas Italiana e Fondazione Zancan presenteranno in autunno Rassegnarsi alla povertà?, settimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale. Hanno anticipato a fine luglio, in una conferenza stampa a Montecitorio, il messaggio centrale del lavoro di quest’anno: la politica e la società italiana devono farsi carico di realizzare un piano di lotta alla povertà, per arginare le ricadute negative che questo vuoto comporta nella vita di tanti individui e famiglie e per circoscrivere il rischio di un progressivo allargamento dell’area dell’esclusione sociale.

Tante risorse per pensioni e sanitàIn Italia la spesa annua per l’assistenza sociale non è irrilevante. Il suo volume complessivo è di 44 miliardi 540milioni di euro (dato 2006), circa 750 euro pro capire. In Italia utilizziamo un quarto del prodotto interno lordo per la protezione sociale, in armonia con quanto accade in altri paesi europei (Grecia, Regno Unito, Finlandia), ma significativamente meno rispetto ad altri stati (Belgio, Austria, Francia, Germania, Danimarca e Svezia).

Il profilo di questa spesa manifesta inoltre evidenti squilibri interni: più della metà (56,1%) è destinata alla voce “pensioni in senso stretto e Tfr”; il resto è ripartito tra le voci “assicurazioni del mercato del lavoro” (6,6%), “assistenza sociale” (11,9%), “sanità” (25,4%). Gran parte delle risorse, insomma, vanno all’ultima fase della vita, molte meno alla prima fase e al sostegno delle responsabilità familiari. Negli ultimi dieci anni, inoltre, sono aumentati il carico pensionistico (dal 55,7 al 56,1%) e sanitario (dal 20,8 al 25,4%), mentre sono diminuite le risorse per assicurazioni del mercato del lavoro (dal 9 al 6,6%) e assistenzasociale (dal 14,6 all’11,9%).

I due principali centri di spesa sociale sono lo stato e i comuni. Dei 750 euro impegnati per italiano, circa 664 sono gestiti dallo stato o da amministrazioni da esso controllate. Degli 86 spesi dai comuni, 21 se ne vanno per ulteriori trasferimenti monetari e circa 65 sono effettivamente spesi per servizi. Soltanto l’8,6% dei 750 euro di spesa pro capite, in definitiva, viene erogato in servizi, mentre ben il 91,4% si concretizza in trasferimenti monetari al soggetto in difficoltà. È l’enorme problema consegnatoci in eredità dalla non attuazione dell’articolo 24 della legge 328/2000: prevale l’incapacità istituzionale e sociale di operare sulla base dei bisogni effettivi, non solo in relazione ai diritti acquisiti.

All’interno della spesa sociale dei comuni, poco più di 363 milioni di euro (il 6,8% della spesa sociale complessiva) viene destinato all’area della povertà. Eppure, come detto, le famiglie che vivono in condizioni di povertà sono 2 milioni 585 mila (l’11,1% del totale) e raccolgono tantissime persone: 7 milioni 577 mila (il 13,1% del totale, tra essi molti bambini). Troppo spesso, insomma, la responsabilità di crescere i figli si scontra con le difficoltà economiche di famiglie a basso reddito. Il 26,2% dei nuclei con cinque o più componenti vive in condizioni di povertà (nel mezzogiorno il 39,2%); avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8% (nel sud 42,7%).

La povertà delle famiglie è una grande sfida. Le realtà familiari numerose sono le più esposte: brutalmente si può dire che ogni figlio porta con sé una crescita del rischio di impoverimento. L’Italia, coscientemente o meno, incoraggia le famiglie a non fare figli: nessuno sceglie liberamente di impoverirsi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo agli ultimi posti nel mondo per fecondità familiare. Oggi la tendenza interessa anche i nuclei ricostituiti in seguito alla rottura di altre famiglie. Si rischia di entrare in una condizione di povertà soprattutto quando la famiglia diventa monogenitoriale, quindi molto spesso monoreddito: il fenomeno interessa quasi sempre madri sole con figli.

Dai trasferimenti monetari ai serviziPer dare vita a un piano organico di lotta alla povertà, occorre prima porsi alcune domande (e darsi alcune risposte). Cosa intendere per piano di lotta alla povertà? Quali centri di responsabilità devono essere coinvolti? Per quali povertà varare il piano? Quali infrastrutture organizzative, professionali e di processo impiegare? Con quante risorse?

Oltre a un piano di attività, serve un piano strategico, capace di avviare un percorso di condivisione e integrazione tra responsabilità (oltre che tra risorse). Questo percorso (politico, amministrativo, sociale) deve articolare diversamente il governo “orizzontale” e “verticale” delle responsabilità: su scala orizzontale, i livelli istituzionali (stato, regioni, enti locali) e altri soggetti interessati sono chiamati a condividere priorità e condizioni di fattibilità (risorse comprese) in sede di conferenza unificata; su scala verticale, le parti regionali e locali definiscono altrettanti piani di azione, dimensionando obiettivi e risorse in ragione dei risultati attesi di riduzione del bisogno, tenendo conto di come esso caratterizza il proprio territorio.

Soprattutto, però, occorre delineare due scelte strategiche, di medio e lungo periodo. Anzitutto, va impostato il passaggio da una logica imperniata sui trasferimenti monetari a un sistema che valorizzi i servizi (per un migliore governo della quantità delle risorse); la prevalenza di trasferimenti monetari caratterizza infatti i sistemi di welfare a ispirazione “socio-assistenziale”, cioè tradizionale, nei quali la cosiddetta “assistenza” è intesa come insieme di provvidenze economiche, erogate per “diritti acquisiti” e non necessariamente per “bisogni verificati”. E non basta, dunque, a garantire inclusione sociale e promozione dei diritti, né ad alimentare il necessario rapporto tra diritti e doveri di cittadinanza sociale.

La seconda scelta riguarda il passaggio da una gestione centrale a una decentrata: nodo non sufficientemente presente nel dibattito politico e giuridico, ma di portata storica e strutturale. Occorre studiare modalità per concretizzare il trasferimento di risorse e per definire i gradi di libertà nella finalizzazione delle risorse stesse, non solo riguardo ai trasferimenti connessi a forme di non autosufficienza, ma anche a quelli che interessano la famiglia e che devono essere “sostituibili” con servizi ad essa rivolti.

Il deficit di solidarietà intergenerazionale, infatti, è in Italia un problema sempre più evidente e stridente. La distribuzione e l’orientamento della spesa sociale lo amplifica, visto lo sbilancio di risorse destinato a favore dell’ultima fase della vita. La quasi inesistente capacità di rappresentanza delle nuove generazioni rispetto alla generazione anziana rende questo problema scarsamente presente nel dibattito civile e politico. Ma i segnali di sofferenza e insofferenza sono sempre più forti, anche su scala europea

Una “grande opera” inattuata Dopo il 2000, in base alla legge 328, si è aperta una breve stagione di sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (Rmi). Essa ha evidenziato che per i soggetti svantaggiati, senza occupazione e reddito avrebbe più senso parlare di Piani di inserimento con sostegno al reddito (Pisr), enfatizzando il fine principale (l’inserimento sociale) e non il mezzo temporaneo (il reddito minimo). Altra conferma che è necessario superare l’approccio per “misure” e sostituirlo con l’approccio per “problemi”.

Un piano nazionale di lotta alla povertà dovrebbe inoltre equivalere a una “prenotazione” dei livelli essenziali di assistenza sociale. Tale operazione produrrebbe profonde conseguenze sulle infrastrutture organizzative, professionali e di processo che prendono in carico, nel nostro paese, la condizione di bisogno sociale.
La povertà di individui e famiglie, i servizi da assicurare e i livelli essenziali di assistenza rappresentano, in altre parole, un banco di prova per un sistema di welfare oggi sostanzialmente fermo e incapace di modificare i propri elementi strutturali. Il blocco costituito da una gestione immobile delle risorse e l’assenza di volontà politica di riorientarle (per evitare la crisi di consenso da parte di alcuni gruppi, interessati a mantenere le cose come sono) inducono a lavorare con i “resti”, ovvero i finanziamenti ad hoc, che nascono da una finanziaria e sperano di essere incrementati dalla successiva.

Un piano condiviso di lotta alla povertà può rappresentare una grande occasione per il nostro paese per affrontare i principali nodi, non risolti, dell’intero sistema di welfare. È una “grande opera” inattuata: va quindi considerato non solo per il suo valore in sé (etico, culturale e politico), ma anche come occasione per rimettere in corsa il paese. E per contrastare la crisi di fiducia che nega, soprattutto alle nuove generazioni, la speranza del futuro.

di Tiziano Vecchiato
Italia Caritas / Settembre 2007



Non è un fenomeno “naturale”, non va delegata al privato sociale «Come considerare la presenza di una fascia così consistente di poveri, in un società ricca come la nostra? Considerarla fatalisticamente, come una componente “naturale” dello sviluppo economico che lo stato dovrebbe limitarsi ad arginare, impedendo che divenga esplosiva e pericolosa per l’ordine pubblico, ma senza illudersi di poterla eliminare? Oppure ritenerla un fenomeno da affidare agli interventi volontaristici e umanitari, che lo stato dovrebbe incoraggiare e promuovere, ma senza intromettersi in prima persona? Caritas e Fondazione Zancan ritengono che la teoria della “povertà naturale” è una spiegazione di comodo, che si rifà a una concezione della società vecchia e superata La povertà non esiste in natura ma è conseguenza di situazioni in cui “la politica non frequenta la giustizia”.

Caritas e Zancan escludono inoltre che il problema della povertà possa essere risolto delegandolo al solidarismo privatistico. Gli interventi del privato- sociale e della stessa Chiesa sono indubbiamente utili e necessari, ma sono di loro natura Integrativi dell’intervento pubblico e per lo più settoriali.

Non hanno pertanto né la capacità né. il potere di affrontare globalmente il problema della povertà e delle sue cause, né quello di garantire ai poveri risposte sul piano dei diritti».

(monsignor Giuseppe Pasini, Presidente Fondazione Zancan, presentazione del rapporto “Rassegnarsi alla povertà?” )

Ancora prigionieri. Una famiglia in Zambia, paese che, come molti altri stati poveri, soprattutto in Africa, continua a risentire in modo rilevante del peso del debito estero.

Nella definizione dei temi fondamentali per un’agenda di riduzione dell’ingiustizia e della povertà nel mondo, il tema del debito merita ancora di essere considerato come prioritario. Dopo la grande mobilitazione dell’anno del Giubileo, l’attenzione dell’opinione pubblica è stata sollecitata negli ultimi anni da iniziative spesso più ad effetto che di reale efficacia. Ma in termini concreti, il totale del debito dei paesi in via di sviluppo, che nel 1999, prima dell’avvio dell’iniziativa “rinforzata” Hipc (Heavily Indebted Poor Countries è il nome dell’iniziativa internazionale per la cancellazione del debito, ndr) era pari a 2.347 miliardi di dollari, è oggi (dato aggiornato al 2004) pari a 2.597 miliardi; i paesi dell’Africa subsahariana, che nel 1999 pagavano 13,6 miliardi di dollari per rimborsare questo debito, ne hanno pagati nel 2004 15,23.

Questi dati bastano a dare una prima indicazione sullo stato dei fatti: l’iniziativa internazionale di cancellazione del debito non ha risolto il problema. Ha semmai contribuito a evitare una situazione ancora più pesante, senza però trovare la via di uscita sostenibile invocata come una delle ragioni per procedere alla cancellazione. Ora si tratta di fare ogni sforzo perché le iniziative già adottate siano portate avanti in modo efficace e perché vengano introdotti correttivi per gli elementi che ne limitano l’efficacia. In questo, l’attenzione della società civile è fondamentale, se si vuole mantenere una giusta tensione su una questione che continua a influire in modo drammatico sulle condizioni di vita della maggior parte della popolazione mondiale.

Difficoltà dai governi

L’iniziativa di conversione del debito promossa dalla chiesa italiana, attraverso la Fondazione Giustizia e Solidarietà (nella quale sono coinvolti numerosi soggetti, tra cui Caritas italiana), è stata portata avanti con un impegno faticoso ma efficace, in continuità con la campagna ecclesiale per la riduzione del debito, lanciata nell’anno giubilare a seguito del pressante appello di Giovanni Paolo II. Questa iniziativa ha trovato le sue prime concretizzazione in Guinea (dove il fondo di conversione del debito è attivo dal giugno 2003) ed è giunta anche in Zambia a una fase operativa.

Proprio in Zambia la mancanza di un accordo tra i paesi debitori ha impedito a lungo di negoziare gli accordi bilaterali di cancellazione del debito e anche successivamente i due governi (zambiano e italiano) hanno frapposto numerose difficoltà all’ipotesi di creare un fondo di conversione del debito, come nel caso della Guinea. Per questa ragione, alla fine del 2004, il consiglio di amministrazione della Fondazione aveva stabilito di aprire un Fondo di riduzione della povertà, in accordo con la chiesa zambiana e amministrato secondo gli stessi criteri inizialmente individuati per la gestione del Fondo di conversione del debito, cioè con una larga rappresentanza della società civile zambiana. L’idea era che l’avvio unilaterale di questo fondo servisse anche come stimolo ai due governi. Dell’ammontare destinato dalla Fondazione
allo Zambia, pari a 10 milioni di euro, la metà è stato in un primo momento attribuita a questo fondo, in attesa di vedere se i due governi avrebbero dato seguito all’impegno circa il monitoraggio delle risorse liberate dalla cancellazione.

Rendere conto ai cittadini

Oggi, a un anno di distanza, entrambe le prospettive sembrano aver trovato concretizzazione: il Fondo Giustizia e Solidarietà per la riduzione della povertà (Isprf) è attivo e ha già identificato i primi progetti cui offrire un sostegno finanziario; i due governi hanno firmato nel gennaio 2006 un’intesa per la costituzione di un comitato di informazione, che avrà il compito di mettere a disposizione la documentazione riguardante l’impiego delle risorse liberate in seguito alla cancellazione del debito da parte del governo italiano (ai sensi della legge 209 del 2000) e in cui siederanno i rappresentanti dei due governi, un rappresentante della fondazione e un rappresentante della struttura operativa della chiesa zambiana, come garanzia di collegamento con la società civile locale.

Quest’ultima circostanza è significativa: il monitoraggio dell’uso delle risorse liberate con la cancellazione del debito è stato, negli anni scorsi, materia di accesa discussione nel dibattito pubblico in Zambia e ora per la prima volta i rappresentanti della società civile vengono coinvolti nello scambio di informazioni tra governi. Si tratta di un risultato politicamente importante: si afferma infatti il principio per cui è ai cittadini, in primo luogo dei paesi che beneficiano della cancellazione, che occorre rendere conto dell’uso delle risorse liberate. Un concetto diaccountability verso il basso, ben diverso dalle condizioni unilateralmente poste dai governi creditori o dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Società civile coinvolta

Il comitato di informazione non ha collegamento funzionale con il Fondo di riduzione della povertà istituito in collaborazione con la chiesa zambiana, ma le due iniziative rispondono allo spirito originario della campagna giubilare, in particolare all’dea di un coinvolgimento diretto della società civile nella trasformazione della schiavitù del debito in nuove opportunità di sviluppo. Proprio in seguito alla costituzione del comitato di informazione, il consiglio di amministrazione della Fondazione ha avviato la riflessione sull’impiego della seconda metà dei 10 milioni.

Pochi mesi di attività del Jsprf sono sufficienti per tracciare un primo bilancio. Il comitato di gestione è presieduto da una rappresentante della chiesa zambiana e comprende rappresentanti delle principali reti di società civile, inclusa la più
grande federazione di produttori agricoli (i piccoli contadini sono il primo “ target sociale” delle attività del
fondo); nel comitato siedono anche due rappresentanti delle espressioni della chiesa italiana in Zambia (missionari e volontari). Il comitato, riunitosi per la prima volta nel novembre 2005, ha dato impulso all’intervento nei primi quattro distretti (Petauke, Kasempa, Isoka e Gwembe). È in corso una riflessione che potrebbe condurre all’allargamento delle aree coperte, senza tuttavia venire meno a un principio di concentrazione delle azioni, necessario per evitare interventi a pioggia, poco efficaci e di difficile gestione. Al momento sono stati finanziati 9 progetti per 485 mila euro: si tratta soprattutto di progetti di supporto alle attività economiche (produzione, stoccaggio, trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli), ma non mancano iniziative di microfinanza e di miglioramento dei servizi scolastici. Oltre progetti già approvati sono oltre 160 le proposte depositate da diversi attori della società civile e si può prevedere nei prossimi mesi un’accelerazione nel ritmo degli stanziamenti.

Massimo Pallottino
Italia Caritas/Maggio 2006

Evoluzione del debito internazionale(dati in mld di dollari)

1982

1996

1999

2001

2003

2004

Paesi in via
di sviluppo

Debito
estero totale (DET)

715,79

2044,97

2346,64

2260,52

2554,14

2597,06

Servizio
del debito pagato

108,38

262,55

352,22

365,52

419,77

373,80

Di
cui interessi

62,85

96,15

113,88

110,33

101,18

103,14

Asia orientale
e Pacifico
(DET)

88,17

494,03

538,61

501,98

525,54

536,54

Europa e Asia
centrale
(DET)

88,46

368,32

503,45

507,78

676,00

728,47

America Latina
e Caraibi
(DET)

333,14

638,47

771,83

749,18

779,63

773,46

Medio Oriente
Nord Africa
(DET)

82,33

163,18

155,80

142,14

158,83

155,47

Asia
Meridionale
(DET)

47,35

149,62

161,99

156,25

182,79

184,72

Africa
sub-sahariana
(DET)

76,34

231,35

214,96

203,19

231,36

218,41

Fonte: elaborazione sui dati della Banca Mondiale

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