Altro sentimento dominante: una certa rassegnazione della popolazione che, dopo la morte del Negus, Hailé Selassié (regnò ininterrottamente dal 1930 al 1974), subì il terrore rosso di Menghistu Hailé Mariam. Oggi, a diciassette anni dalla caduta del regime marxista del derg, che aveva racchiuso il paese in una cappa di piombo, la vita culturale e notturna di Addis Abeba sta timidamente riprendendo.
Tuttavia, rimane il trauma causato dalle elezioni politiche del maggio 2005, che si chiusero con la netta sconfitta dei candidati della coalizione al governo, il Fronte democratico e rivoluzionario del popolo etiopico (Fdrpe). Dopo aver modificato a proprio favore l’esito delle urne, la Coalizione ha fatto largo uso della repressione per mantenersi al potere. Per la commissione d’inchiesta del parlamento, il bilancio delle manifestazioni del novembre 2005, che contestavano gli “aggiustamenti” del voto, fu di 193 morti. Arrestati anche i principali esponenti dell’opposizione, tra cui il presidente della Coalizione per l’unità e la democrazia (Cud), Hailu Shawel.
A luglio, il regime s’è inventato un colpo di teatro: il giorno 16, ha condannato all’ergastolo i 37 oppositori arrestati; il giorno 20, li ha liberati, dopo un’umiliante confessione, nella quale hanno «riconosciuto» la propria responsabilità negli incidenti del 2005. In questo modo, si è tentato di abbassare la temperatura politica prima dell’inizio delle celebrazioni del passaggio al terzo millennio.
D’altra parte, le divisioni in seno all’opposizione hanno tranquillizzato l’Fdrpe, tutto concentrato a realizzare opere infrastrutturali e convinto, in questo modo, di vincere le elezioni amministrative, la cui data non è ancora stata fissata. Va detto che l’atteggiamento dei principali partner dell’Etiopia, a cominciare dagli Usa, spinge una parte dell’opposizione a cercare una strada di compromesso con la maggioranza di governo.
E il fatto che gli stati europei abbiano ignorato la risoluzione del parlamento Ue, che chiedeva sanzioni mirate contro il primo ministro Meles Zenawi, rafforza la convinzione generale che il governo goda del sostegno dell’Occidente.
Zenawi, comunque, non può ignorare del tutto le preoccupazioni della popolazione. La più immediata è l’inflazione: l’indice generale viaggia attorno al 20%, ma per grano, mais e sesamo i tassi sono rispettivamente del 30, 150 e 100%. Inoltre, presto o tardi, bisognerà rispondere alla frustrazione degli amhara (da sempre il gruppo dirigente del paese), che abitano la capitale e i dintorni, e che sono indignati del fatto che il potere sia in mano ai tigrini (il 7% della popolazione). L’animosità è tale che, negli ultimi anni, alcuni fedeli hanno più volte tentato di lapidare il patriarca della chiesa ortodossa etiopica, Abuna Paulos, originario del Tigray (la regione più settentrionale) come Meles.
Le autorità negano ogni favoritismo etnico o regionale, invocando la costituzione federale e sottolineando che quest’anno più di due terzi del budget va agli stati della federazione.
Focolai di conflitto
Se nelle principali città si respira un’atmosfera tranquilla (i turisti sono passati da 139mila a 227mila tra il 1997 e il 2005), nella periferia dell’immenso paese (quasi quattro volte l’Italia) covano numerosi focolai di guerriglia. Il gruppo guerrigliero più attivo è il Fronte nazionale di liberazione dell’Ogaden (Fnlo), di etnia somala, sorto nel 1984 a Mogadiscio e i cui effettivi sono stimati in qualche centinaio di combattenti. Il governo attribuisce all’Fnlo l’attacco al sito dell’impresa cinese Zhongyuan Petroleum Exploration, che lo scorso aprile ha causato 75 morti. A questo aggiunge l’attentato nello stadio della città di Jijiga, in maggio: una bomba ha ucciso 11 persone.
Governo e osservatori stranieri evocano spesso i legami dell’Fnlo con l’Unione delle corti islamiche della Somalia, e anche con i jihadisti somali di Al-Ittihad Al-Islamiya, sospettata di essere legata ad Al-Qaida. Ma il metodo scelto per combattere i secessionisti dell’Ogaden rischia di spingere le popolazioni locali, musulmane, tra le braccia dei ribelli.
In ogni caso, né l’Fnlo, né i ribelli afar, né il Fronte di liberazione oromo (Flo), poco attivo, né il Fronte patriottico Arbanyotsh, presente nell’area di Gondar, né il Fronte di liberazione del Tigray (Tlf), rivale del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) di Meles, sono in grado di rovesciare il governo. La situazione, però, potrebbe aggravarsi, se persistesse la tensione con l’Eritrea (Asmara sostiene le guerriglie etiopiche e gli islamisti somali; non si esclude una ripresa della guerra) e se si prolungasse la presenza armata etiopica in Somalia.
All’inizio di giugno, osservatori militari dell’Onu hanno rilevato l’installazione di batterie lanciamissili etiopiche lungo la frontiera eritrea e il concentrarsi verso Badme di contingenti di fanteria, scortati da mezzi blindati. Le relazioni tra Asmara e Washington traballano, tanto che gli Usa stanno pensando d’inserire l’Eritrea nella lista dei paesi “terroristi”. E questo è un fattore favorevole a un eventuale nuovo scontro Asmara-Addis Abeba, tanto più che Usa ed Etiopia sono alleati in Somalia, dove alcuni marines addestrano un’unità d’élite etiopica.
Il pericolo è che si crei un nuovo bubbone di tipo iracheno e che si offra ad Al-Qaida l’occasione di sfruttare le frustrazioni somale contro i “crociati” etiopici per fare proseliti in seno all’organizzazione Al-Sahabab. L’avventura somala è molto criticata ad Addis Abeba: viene chiamata “la guerra di Meles”. L’esercito etiopico, forte di non meno di 150mila uomini e rodato da anni di combattimenti ininterrotti su vari fronti, è il più potente del Corno d’Africa.
Un peggioramento delle cose non è, comunque, ineluttabile.
Anzi, la situazione potrebbe migliorare, se Washington riconoscesse che la presenza etiopica in Somalia è controproducente. Il politologo francese Gérard Prunier osa addirittura sperare in un possibile mercato comune del Corno d’Africa, «se prevarrà una certa logica».
Crescita del Pil verso il 10%
In attesa di sviluppi, la sicurezza alimentare – ogni anno crescono di 2 milioni le nuove bocche da sfamare – costituisce una sfida permanente, in un paese che ha conosciuto grandi carestie e non è al riparo da nuove catastrofi. In settembre, Medici senza Frontiere ha lanciato l’allarme sulla situazione nell’Ogaden. Non bisogna dimenticare che l’Etiopia soffre di un deficit cerealicolo cronico di 600mila tonnellate l’anno, anche se la produzione negli ultimi cinque anni è passata da 8,7 a 11,6 milioni di tonnellate.
Tra le cause dell’insicurezza alimentare vanno annoverati i bassi rendimenti agricoli, l’arretratezza delle tecniche di produzione e l’eccessivo frazionamento delle terre coltivate. La demografia galoppante sortisce l’effetto di diminuire la superficie della terra disponibile per ogni nucleo familiare. Anche nelle zone più produttive, come al sud, si trovano sacche di malnutrizione. Un altro handicap è costituito dal regime fondiario: la terra appartiene allo stato e i contadini non ne hanno che l’usufrutto; ciò riduce la possibilità per agricoltori e allevatori di accedere a finanziamenti per sviluppare la propria attività.
Eppure, il potenziale agricolo, grazie all’abbondanza delle precipitazioni, è considerevole. L’accordo dello scorso maggio con la Starbucks, la catena del caffè regina in America e nel mondo, ha aperto all’Etiopia – primo produttore africano di caffè, con una raccolta media annua di 300mila tonnellate – una strada per accrescere le entrate in valuta pregiata. L’accordo, infatti, riconosce la proprietà intellettuale dei piantatori e l’etichettatura delle qualità arabiche sidamo o harar. Anche i semi oleosi e l’orticoltura conoscono uno sviluppo spettacolare. Lo stesso si può dire della floricoltura intorno ad Addis Abeba e nella Rift Valley.
L’Etiopia è anche ricca di paradossi. Nonostante le tensioni interne e alle frontiere, il paese non ha mai conosciuto un boom economico paragonabile a quello del 2007. Nell’ultimo anno la crescita del prodotto interno lordo (Pil) è stata del 9,6% e, secondo le previsioni, nel 2007-2008 manterrà lo stesso ritmo. Il Fondo monetario internazionale, lo scorso giugno, ha rilevato che le performance economiche degli ultimi anni hanno contribuito a «ridurre significativamente la povertà». Ma il boom non deve far dimenticare la fragilità di un’economia con un deficit commerciale strutturale, che dilata il baratro del debito.
Puntare alla crescita
Pur con tutti i suoi limiti, l’Etiopia attira sempre più capitali stranieri. Gli investimenti diretti dall’estero sono passati da 149 milioni di dollari nel 2001 a 365 milioni oggi. La Cina, che già ha costruito molto nella periferia della capitale, ha investito 150 milioni di dollari nella realizzazione di una dependance dell’Unione africana (Addis Abeba è la sede dell’Ua): il progetto prevede 225mila nuovi alloggi entro il 2010.
La crescita crea anche inconvenienti. In luglio, Ethiopian Telecoms non è riuscita a soddisfare la domanda di carte Sim. Gli ingorghi del traffico sono all’ordine del giorno nella capitale e sulla strada che porta al porto di Gibuti. La linea ferroviaria, che è in fase di ristrutturazione grazie ai fondi Ue, potrà diventare un’alternativa al trasporto merci su gomma solo tra qualche anno. Gli industriali si lamentano per la frequente penuria di materie prime e per l’approvvigionamento intermittente di acqua ed elettricità.
Intanto, presso il mercato di Addis Abeba si allungano le file davanti ai cinema che presentano film etiopici. Opere non sempre di buona qualità, ma che testimoniano il dinamismo di un’industria in pieno sviluppo, anche attraverso la produzione di Dvd e videocassette. In espansione il turismo e in crescita le rimesse degli emigrati: 1,1 miliardi di dollari nei primi 9 mesi del 2007.
Grazie alle abbondanti piogge che si abbattono sugli altopiani, il paese dispone del secondo potenziale idroelettrico in Africa, dopo quello del bacino del Congo. Il governo è deciso a sfruttare questa opportunità, sia per soddisfare i bisogni interni, sia per vendere elettricità a Sudan, Kenya, Gibuti e Yemen. Le centrali elettriche di Gilgel Gibe II, Amerti-Neshe, Takeze e Anabeles saranno ultimate entro tre anni e potranno esprimere un potenziale di 880 megawatt (Mw), cioè il doppio della capacità attuale. In settembre, l’italiana Salini ha iniziato la costruzione di Gilgel Gibe III (1.870 Mw), con un investimento di 1,6 miliardi di dollari.
Venendo al settore minerario, sono in vigore 50 permessi di esplorazione che riguardano oro, platino, minerali di ferro, carbone, pietre preziose e metalli di base. Ma l’Etiopia, che ha una struttura geologica simile al Sudan e allo Yemen, aspira a diventare anche produttrice di petrolio e gas. La britannica White Nile sta sondando il territorio lungo il fiume Omo, nel sud; presto anche il centro del paese sarà oggetto di specifiche esplorazioni.
Il governo sta investendo massicciamente nelle risorse umane. L’obiettivo è di arrivare al 100% di scolarizzazione primaria (oggi 79%) entro il 2015, ma anche di sostenere la formazione professionale e l’insegnamento universitario. Nel 1991 c’era una sola università: oggi ve ne sono 8 e altre 13 sono in costruzione. Nello stesso tempo, c’è un problema di “fuga dei cervelli”, che ha assunto proporzioni spettacolari. Un recente studio evidenzia che un terzo dei medici ha lasciato il paese negli ultimi dieci anni.
In un’Africa dalle strutture statuali deboli, l’Etiopia, disponendo da secoli di un’amministrazione pubblica disciplinata, ha dimostrato di essere capace di generare una forte crescita economica. Occorre far sì che questa crescita sia duratura. Ma per dare continuità alla crescita è necessario che chi è al potere eserciti l’arte del compromesso, presupposto della pace. Uno storico etiopico emigrato ci spiega che «nella lingua amharica non c’è un termine che corrisponda alla parola “compromesso”». Vorrà dire che saranno i bisogni a imporre un cambio di mentalità.
François Misser
Nigrizia / Novembre 2007