Mondo Oggi

Fabrizio Foti

Fabrizio Foti

Architetto
Area Mondo Oggi - Rubrica Ecclesiale
Domenica, 10 Dicembre 2006 09:17

SEGNO DI FEDELTÀ

 

SEGNO DI FEDELTÀ

 

 

«Non siamo qui per far numero, ma per far segno». Lo si sente ripetere spesso dai cristiani d’Algeria. E lo ribadisce con forza anche mons. Henry Teissier, 76 anni, arcivescovo di Algeri, che di questa Chiesa è stato ed è, in prima persona, segno di coraggio e fedeltà. Ha vissuto tante dure prove, mons. Teissier, specialmente negli anni del terrorismo, quando ha visto, uno dopo l’altro, uccisi i suoi confratelli e consorelle. E, nonostante la commozione che ancora oggi accompagna il ricordo, non cessa di ribadire la sua missione di fedeltà come cifra più profonda e autentica della presenza della Chiesa in terra d’Algeria.

«È quanto ci aveva detto Paolo VI in un incontro con i vescovi dell’Africa del Nord.

La Chiesa è sacramento della salvezza, segno di salvezza per il mondo. Non si domanda a un segno di essere numeroso, ma di essere fedele. Questa è una parola molto significativa per noi. Bisogna essere un segno fedele. Siamo pochi, ma se siamo segno dentro la società algerina abbiamo fatto la nostra missione».

 

Che cosa significa essere segno in un Paese musulmano, tragicamente ferito dal terrorismo islamico e ancora oggi percorso da correnti islamiste ostili alla presenza di cristiani?

La Chiesa d’Algeria è piccolissima; dopo l’indipendenza del Paese quasi tutti i cristiani europei hanno lasciato il Paese. Oggi siamo poche migliaia, di molte nazionalità, più un piccolo gruppo di cristiani algerini. Se guardiamo ai numeri di questa piccola Chiesa in questo vasto Paese, grande sei volte l’Italia, con trenta milioni di abitanti, allora la nostra presenza è insignificante. Noi, però, speriamo di essere Chiesa non solo per noi stessi, ma per il popolo algerino, con il quale cerchiamo di vivere in relazione stretta, soprattutto attraverso un grande lavoro sul piano sociale e culturale. Grazie a questo impegno e alle relazioni quotidiane che viviamo nel contesto in cui abitiamo, ciascuno di noi è per la popolazione algerina «

la Chiesa». E allora i cristiani, che a molti appaiono lontani, stranieri, legati solo alle immagini dei media che spesso li presentano in situazioni di tensione o conflitto, divengono più vicini, familiari. Noi vogliamo essere una Chiesa della relazione con la società algerina. Vogliamo dare a questa società la possibilità di vedere che esistono cristiani fedeli a Gesù e al suo Vangelo, fedeli alla preghiera e al servizio dei fratelli; non solo una Chiesa che serve i cristiani, ma che serve e ama il popolo algerino, che vive in comunione con la gente, prega e fa sacrifici per tutti. Speriamo di essere non solo

la Chiesa in Algeria, ma

la Chiesa d’Algeria in relazione, cioè, con la società algerina, Chiesa del popolo algerino.

 

È questo che intendete quando parlate di dialogo islamo-cristiano?

A noi non piace troppo parlare di dialogo islamo-cristiano, perché il dialogo ci appare come una cosa astratta, lontana dalla realtà quotidiana. Noi preferiamo piuttosto parlare di incontro islamo-cristiano, perché ogni giorno viviamo con i nostri amici algerini e condividiamo le attività della giornata e talvolta anche momenti spirituali. Per noi sono tutte occasioni di incontro. Incontro che avviene soprattutto lavorando insieme per il bene comune, grazie al quale vorremmo che si capisca che non siamo nemici, ma siamo qui per essere fratelli. Quello che speriamo è che attraverso l’amicizia si possa parlare di comunione tra musulmani e cristiani. Naturalmente noi siamo credenti, i nostri amici musulmani lo sono pure, e non si può vivere in comunione senza trovare la strada per dare un’espressione alla cosa che è più importante per noi, ovvero la nostra vita sul cammino di Gesù e del Vangelo. Allo stesso modo, noi cerchiamo di capire come i nostri fratelli musulmani vivono la loro fedeltà al Corano e alla loro fede islamica.

 

Spesso vi si definisce una Chiesa nella debolezza, ma molto più frequentemente, seppure in un contesto difficile e talvolta ostile, si sentono i cristiani parlare di condivisione della speranza…

È vero che noi siamo Chiesa nella debolezza, ma soprattutto siamo insieme al popolo algerino per condividere la speranza. Dopo la grave crisi del terrorismo, che è stata una dura prova per tutta la popolazione, oggi viviamo grandi difficoltà sul piano sociale: mancanza di casa e di lavoro, mancanza di prospettive soprattutto per i giovani… Molti cercano una speranza. Anche noi come cristiani non possiamo rinunciare a sperare e a dare speranza al popolo. Sappiamo che c’è una chiamata di Dio per ogni persona umana, per gli algerini musulmani come per i cristiani. E sappiamo che si può cercare un futuro insieme, con lo Spirito Santo che conduce ogni uomo sul cammino della sua vocazione umana che è la stessa. Non ci sono due cammini diversi. C’è una vocazione umana comune ad amare il fratello, che vale per ogni uomo e ogni donna. È qui che bisogna cercare la speranza. Molti amici musulmani, durante la crisi, ci hanno chiesto di partire perché qui era troppo pericoloso. La maggior parte di noi, però, ha deciso di restare. Molti, poi, ci hanno ringraziato. «La vostra presenza con noi ci spinge a conservare la speranza», ci dicevano. Abbiamo molte cose da fare insieme, un futuro comune; non siamo nemici come vorrebbero i fondamentalisti, siamo fratelli nel cammino comune verso la casa del Signore.

 

Lei stigmatizza spesso la mancanza di conoscenza reciproca come terreno su cui fermentano incomprensioni, equivoci e scontri tra musulmani e cristiani. Come andare oltre per promuovere conoscenza e dialogo?

Noi cristiani siamo spesso rinchiusi su noi stessi, sul credo della Chiesa, sul nostro patrimonio di tradizione, e così via… Lo stesso vale anche per la comunità musulmana, chiusa sulle proprie tradizioni, sul Corano che dà la verità, che è la verità. Ma noi, cristiani e musulmani, siamo insieme nel mondo. Per noi cristiani è importante sapere come camminare con i nostri fratelli musulmani e anche per loro è necessario conoscere qual è il cammino di noi cristiani, quale chiamata abbiamo ricevuto da Gesù e dal suo Vangelo. Spesso i musulmani guardano alla Chiesa come a una cosa lontana che non ha niente a che fare con loro. Dobbiamo attraversare le frontiere della differenza per trovare il dono di Dio che sta nella vita dei nostri fratelli. È così che costruiamo il Regno, che è comunione non soltanto tra i cristiani ma tra tutti i figli di Dio. È un cammino di amicizia, che dobbiamo cercare con tutti coloro che sono più aperti, ma anche con quelli che pensano che siamo nemici. Bisogna aiutarli a capire che siamo fratelli e lavorare insieme per il bene comune.

 

Il governo algerino ha recentemente approvato una nuova legge che regolamenta i culti non cristiani e che prevede pene molto severe per chi viene accusato di proselitismo. Come giudica questo provvedimento, molto restrittivo della libertà religiosa?

È una legge che ha di mira soprattutto i cristiani evangelici, che fanno presentazione pubblica del cristianesimo nelle strade, distribuiscono apertamente

la Bibbia, promuovono conversioni… Per questo il governo ha preso misure che per noi sono difficili da accettare, perché si parla di prigione per tutti coloro che presentano il cristianesimo ai musulmani: questo non è accettabile e non è una soluzione. Certamente bisogna trovare modi di relazione rispettosa tra cristiani e musulmani e allontanarsi da forme di proselitismo propagandistico. Io stesso ritengo che la comunicazione spirituale possa avvenire a un altro livello. Per questo, siamo solidali con i nostri fratelli evangelici, ma vogliamo anche distinguerci. D’altro canto, speriamo che il governo trovi altre soluzioni, che non siano l’arresto e la prigione.

Pensa che la penetrazione di correnti islamiche più tradizionaliste, se non addirittura fondamentaliste, all’interno del governo abbia ispirato questo provvedimento e, in prospettiva, il Paese potrebbe di nuovo sprofondare nella violenza?

 

In passato c’erano gruppi islamici fondamentalisti, che accettavano come principio l’uso della violenza in nome di Dio. Oggi ci sono ancora gruppi di fondamentalisti, che tuttavia non propugnano più la lotta armata, ma sono più orientati alla fedeltà alla legge musulmana e ai precetti del Corano. Oggi ci troviamo di fronte a queste nuove correnti di fedeltà e pietà. Si tratta di uno sviluppo proprio della società che non solo dobbiamo accettare, ma anche in questo ambito siamo chiamati a cercare la possibilità di un incontro.

 

 

 

Anna Pozzi

Mondo e Missione/Novembre 2006

Martedì, 21 Novembre 2006 11:24

Il Gesù storico

 

Il Gesù storico

È partito il corso di aggiornamento su "Gesù di Nazareth tra storia e fede" organizzato dall'Istituto Superiore di Scienze Religiose "Ecclesia Mater" e dall'Ufficio per la Pastorale Scolastica e l'IRC del Vicariato di Roma. Oltre 120 gli iscritti.

Giovedì 26 ottobre, nel corso della lezione inaugurale, mons. Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, ha sottolineato che «la cristologia costituisce il cuore di ogni teologia perché segna il punto iniziale di ogni riflessione critica della fede su se stessa e rappresenta pure il suo punto finale come esperienza della contemplazione e dell'adorazione della figura divina». Dopo aver ribadito l'importanza della ricerca storica su Gesù e le varie tappe che ha attraversato, Mons. Fisichella ha rilevato che sarà comunque compito della riflessione teologica «riportare Gesù ai Vangeli. In altri termini, Gesù dovrà avere senso per le situazioni concrete di vita, perché lo scopo del Vangelo è appunto quello di essere segno intramontabile, in mezzo alle generazioni, della salvezza rivelata da Gesù».

Il 9 novembre, la seconda lezione è stata tenuta dal prof. Giorgio Jossa, docente alla Università "Federico II" di Napoli e alla Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale. Il docente ha ripercorso le tappe della ricerca sul Gesù storico dalla fine del Settecento fino al secondo dopoguerra, arrestandosi sulla soglia della "Third Quest". Rispondendo poi alle numerose domande dei presenti  ha chiarito che «è sbagliato separare il Gesù storico dal Cristo della fede». A proposito delle difficoltà e della legittimità della ricerca storica, ha poi ribadito che lo storico deve fermarsi di fronte a qualcosa che non può essere ricostruito dalla sua ricerca, perché gli evangelisti raccontano una storia kerygmatica, interpretata alla luce della fede.

 

Anno Accademico dell'"Ecclesia Mater". Il 6 novembre ha preso l'avvio il nuovo Anno Accademico dell'Istituto Ecclesia Mater. Mons. Luigi Moretti, Vescovo ausiliare di Roma, nel suo intervento ha lodato il grande sforzo che è stato realizzato per corrispondere ai nuovi criteri del "Processo di Bologna" con la riforma dei cicli di studio. Il Decano della Facoltà di Teologia della Università Lateranense, il prof. Mons. Renzo Gerardi, ha spiegato, nella sua prolusione, che scopo della riforma, tra l'altro, è di mettere ordine nell'insegnamento superiore che ha visto finora una "frammentazione", che andava a scapito della qualità, potendo distinguere tra Facoltà teologiche, Istituti - incorporati, aggregati, affiliati - e Istituti Superiori di Scienze Religiose, Istituti di Scienze Religiose, Scuole di Formazione Teologica. La riforma prevede anche una verifica della qualità, che impegna Santa Sede e Università, la formazione di una vera e propria rete accademica, la distinzione n  etta e precisa, a favore della qualità degli studi, tra percorso accademico nelle Facoltà e Istituti collegati e percorso non accademico proposto nelle varie Scuole di formazione.

Mons. Giuseppe Lorizio, Preside dell'Istituto, nel suo intervento ha delineato il progetto formativo dell' "Ecclesia Mater" alla luce del Convegno di Verona. Per il testo completo del discorso:

www.vicariatusurbis.org/ecclesiamater

 

È nata la Newsletter dell'Associazione Teologica Italiana (ATI). Nel primo numero, del 12 ottobre, il Presidente, mons. Piero Coda, sottolinea che  si tratta di un «piccolo passo, cui speriamo ne seguano altri, per moltiplicare la nostra capacità di condividere e confrontare i nostri sforzi e i nostri percorsi, per ritrovare modi di fare teologia insieme, per dare sempre meglio all'ATI un volto comune, in un arricchimento di verità di indirizzi e iniziative, che porti il suo contributo alla Chiesa e alla teologia in Italia». Per iscriversi:

www.teologia.it

 

Formazione a Verona. Ambito Affettività Sul piano degli interventi pastorali, è emersa innanzitutto l'importanza di un compito culturale per la Chiesa. Ad essa è chiesto il servizio della verità, decisivo di fronte all'attacco all'identità dell'uomo che nella vita affettiva trova un punto di fragilità forte. Ci si aspetta dalla Chiesa una riflessione "alta" che non abbassi il livello e che sappia "rendere ragione" della bellezza dell'esperienza cristiana nella vita affettiva. Una proposta condivisa e prioritaria è quella di una formazione non settoriale, che sappia cogliere tutta la persona nella varietà delle sue condizioni esistenziali. Molto sentita è l'esigenza di una pastorale unitaria che non divida i contesti di vita. Pare insufficiente occuparsi dei soli passaggi "consolidati" del percorso di iniziazione cristiana: occorre accompagnare la vita tutta. A questo proposito va evidenziato che in quasi tutti i gruppi sia stata sottolineata l'importanza della direzione spiri  tuale come accompagnamento della persona. D'altra parte è stato anche rilevato che i sacerdoti sono anch'essi "figli del nostro tempo" e quindi spesso poco attrezzati a rispondere a questo difficile compito.

Da questo punto di vista l'esigenza di formazione, che è avvertita a tutti i livelli, va concepita prima di tutto come formazione di tipo antropologico e fruibile non solo da giovani, adulti e famiglie, ma destinata anche a consacrati, presbiteri e seminaristi oltre che ad educatori ed operatori della pastorale. Particolarmente auspicabile al proposito è una maggiore valorizzazione della presenza educativa della donna, con la sua risorsa di femminilità e di attenzione alla vita.

 

Libri. J.N. Aletti, M. Gilbert, J.L. Ska, S. De Vulpillieres, Lessico ragionato dell'esegesi biblica. Le parole, gli approcci, gli autori, Queriniana, Brescia 2006; 168 pp., Euro 15,00.

 

Gli Autori sono noti esegeti e professori di sacra Scrittura: essi intendono venire incontro a chi si accinge allo studio o alla semplice lettura dei testi biblici, per facilitare la comprensione delle parole tecniche, dei concetti fondamentali e, in generale, del linguaggio che riguarda la Bibbia. La prima parte è dedicata alla presentazione dei libri della Bibbia, alla loro trasmissione, al canone della Scrittura, alle lingue usate, alle versioni, ai manoscritti. La seconda parte riguarda il linguaggio utilizzato nell'esegesi moderna e la sua

evoluzione: fornisce il lessico dell'approccio diacronico e storico-critico. La terza parte presenta il lessico dell'esegesi sincronica, secondo le diverse modalità di analisi: narrativa, retorica, epistolare. Nell'ultima parte vengono presentati i vocaboli specifici usati con frequenza nell'analisi letteraria generale, i termini ebraici, greci, inglesi e tedeschi che un lettore può incontrare in opere che riguardano la Bibbia.

 

La mailing list cui viene inviato questo numero è stata fornita dal "Comitato per gli Studi Superiori di Teologia e di Religione Cattolica"

della CEI.

 

OFTeL - Pubblicazione quindicinale dell'Istituto "Ecclesia Mater" della Pontificia Università Lateranense.

Direttore: Mons. Giuseppe Lorizio - Direttore responsabile: Fabrizio Mastrofini. Comitato di redazione: Mons. Giuseppe Lorizio, Mons. Nunzio Galantino, don Pierluigi Sguazzardo, don Filippo Morlacchi.

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ausilio di spedizioni collettive.

 

 

 

OFTEL - OSSERVATORIO FORMAZIONE TEOLOGICA DEI LAICI NEWSLETTER PROMOSSA DALL'ISTITUTO ECCLESIA MATER DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE

DIRETTORE: GIUSEPPE LORIZIO - DIRETTORE RESPONSABILE: FABRIZIO MASTROFINI NUMERO 2 - 15 NOVEMBRE 2006

 

ROMA-MOSCA: SALE ANCORA

LA TENSIONE SUL NODO DELL’UNIATISMO

 

“E’ una posizione aggressiva: dal vaticano ci aspettiamo  dei passi concreti, non delle dichiarazioni poi puntualmente smentite dai fatti”: non usa mezzi termini il vescovo ortodosso di Egorievsk Mark Golovkov, vicepresidente dell’Ufficio relazioni estere del Patriarcato di Mosca. Il riferimento è alle modalità con cui il Vaticano sta gestendo la situazione della Chiesa greco-cattolica in Ucraina. Si tratta di quella che spregiativamente viene chiamata Chiesa uniate, il cui leader, cardinale Lubomyr Husar, chiede che la sua Chiesa venga elevata a rango di patriarcato, con sede a Kiev. Di fatto dalla città di L’viv l’arcivescovado è già stato spostato nella capitale dell’antica ‘Rus cristiana, patria spirituale degli apostoli Cirillo e Metodio. E Benedetto XVI, il 22 febbraio, ha inviato una lettera a Husar, “arcivescovo maggiore di Kyiv-Halic”, per ricordare le persecuzioni di 60 anni fa subite dai greco-cattolici, che oggi diventano “stimolo per la comunità greco-cattolica ad approfondire il suo intimo e convinto legame con il successore di Pietro”.

Se Kiev dovesse essere elevata a rango di patriarcato, agli occhi di Mosca vorrebbe dire che secondo Roma, i discendenti dei primi evangelizzatori cristiani non sarebbero gli ortodossi, ma i cattolici che nel XVI secolo si sono riuniti al Papa. Una richiesta quella del cardinale Husar, osteggiata da diversi personaggi della Curia romana attenti al dialogo ecumenico. Anche il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, ha dichiarato più volte la non opportunità della cosa, aggiungendo che nulla era stato deciso in proposito dal Pontefice.

Per spiegare il clima teso che esiste in Ucraina a causa di questi eventi, il vescovo Mark ricorda che era stato raggiunto un accordo di collaborazione “ma poi i nazionalisti uniati della Chiesa greco-cattolica non hanno voluto tener fede ai patti e hanno preso con la violenza  molte chiese ai nostri preti, i quali oggi non possono celebrare in quei villaggi dove la maggioranza della popolazione è ortodossa”. Inoltre, accusa, “corre voce che

la Chiesa uniate si consideri come

la Chiesa di tutti gli ucraini. Più volte il cardinale Husar ha dichiarato che in Ucraina ci dovrebbe essere un unico Patriarca, in comunione con Roma, cioè lui. E a questa cosa sono contrari tutti i Patriarchi della Chiesa ortodossa. Il Vaticano, che sostiene anche economicamente

la Chiesa uniate, ha il dovere di intervenire”. Fino a quando questo punto non sarà chiarito, dice Mark, la sostanza delle relazioni non cambia. E nessuna visita tra il Papa e il patriarca Aleksji II può prospettarsi all’orizzonte.

 

 

vi.pri

Jesus/maggio 2006

Lunedì, 24 Luglio 2006 11:54

“IO ERITREO CAPPELLANO A MILANO”

“IO ERITREO CAPPELLANO A MILANO”

Tra le cappellanie della comunità straniera, quella eritrea a   Milano è una delle più vecchie e consolidate, frutto del continuo flusso migratorio degli eritrei che hanno cercato nell’ex Paese colonizzatore sicurezza da guerre, persecuzioni e carestie.

I primi arrivi datano verso la fine degli anni Sessanta. Alora ad assisterli ci sono alcuni giovani frati cappuccini, in Italia per completare gli studi. La loro è un’assistenza non solo spirituale. I religiosi aiutano gli immigrati nel trovare casa, lavoro, per avere i permessi di soggiorno, ecc. E  non guardano alla fede.  Aiutano tutti: i cattolici (una minoranza)  e i non cattolici (la maggioranza). 

“L’assistenza agli eritrei – spiega padre Habtemariam Ghebreab, l’attuale cappellano – è nata ufficialmente 24 anni fa quando l’allora arcivescovo Cardinal Carlo Maria Martini, riconobbero il nostro sforzo per aiutare gli eritrei e ci permise di dare vita a un’assistenza”. Da allora, alla sua guida si sono alternati quattro cappuccini: Andemariam Tesfamicael, Stefano Tedla, Teclemariam Haile (conosciutissimo a Milano con il nome di padre Marino) e, appunto, Habtemariam Ghebreab . Padre Habtemariam, 62 anni, è nato in un villaggio vicino ad Asmara. Ha studiato in Africa e si è specializzato alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Prima di tornare in Italia nel 2002, è stato in Etiopia (dove ha diretto il seminario di Addis Abeba ed è stato maestro dei novizi) e in Eritrea (dove è stato coadiutore parrocchiale a Keren e Asmara). “A dire il vero – spiega padre Habtemariam – sono tornato per caso. Ero venuto qui per cure mediche, poi i superiori mi hanno chiesto di rimanere per dare una mano a padre Marino. Quando padre Marino si è ammalato, ho preso il suo posto. Anche se lui continua a collaborare con me”.

A Milano, il cappellano è il punto di riferimento per 200 famiglie eritree cattoliche. “Prima dell’indipendenza dell’Eritrea – ricorda -, la cappellania offriva assistenza spirituale ai cattolici, ma anche ai copto-ortodossi che venivano da noi per Messe e battesimi. Poi, nel 1993, si è costituita la comunità copta a Milano e da allora gli ortodossi hanno avuto il loro pastore”. 

La gran parte dei cattolici sono giovani immigrati, molti fuggiti dal loro Paese e arrivati qui dalla Libia. Ma ci sono anche persone arrivate in Italia molti anni fa. 

“Noi – osserva padre Habtemariam – cerchiamo di aiutarli come possiamo. Un tempo padre Marino li assisteva in tutto: dalle pratiche burocratiche alla casa, al lavoro ai rapporti con le istituzioni. Ora è diventato più difficile perché il numero degli immigrati è cresciuto e lavoro e casa sono merce rara per tutti”. 

L’assistenza è quindi prevalentemente spirituale. “Ogni domenica mattina – spiega – celebro una Messa in lingua zigrina. La celebrazione è accompagnata dai canti in gheez, una lingua arcaica dal quale sono nate le più importanti lingue di Etiopia ed Eritrea. Il sabato poi tengo lezioni di tigrino (per i bambini eritrei o meticci) e di catechesi ai giovani”. 

Padre Habtemariam ormai si è integrato in Italia. Oltre al suo servizio rivolto alla comunità eritrea collabora con i confratelli cappuccini del convento di viale Piave. “Devo essere sincero – ammette – non ho faticato molto ad ambientarmi. Un po’ perché molte abitudini degli eritrei sono state mutuate dai colonizzatori italiani. Ma anche perché nei conventi ad Asmara e Addis Abeba avevo già convissuto con missionari italiani e conoscevo bene il loro stile di vita : in Italia poi lavoro come in Eritrea: Nel senso che i miei parrocchiani sono tutti eritrei come lo sarebbero in una parrocchia a Keren, Asmara, Massaia, ecc.

Essere qui o là non fa molta differenza: L’unico vero problema è che qui i fedeli sono sparsi in una grande città come Milano. E non sempre è facile tenere i contatti con loro”.

Enrico Casale

LA STORIA DEL CONCILIO DI ALBERIGO E MELLONI, UNA "RILETTURA IDEOLOGICA".

LA CELEBRAZIONE DEL VATICANO II DEL VESCOVO DI IMOLA

 

Adista notizie n° 89

 

In Emilia Romagna il 40.mo anniversario dalla conclusione del Concilio Vaticano II è passato praticamente sotto silenzio. Le autorità episcopali della regione, infatti, hanno evitato di promuovere iniziative commemorative, confermando così l'attuale orientamento delle gerarchie ecclesiastiche di ridimensionare la portata storica dell'ultima assise conciliare. Tuttavia a Imola, il 7 dicembre, su iniziativa dell'Azione cattolica cittadina, è stata celebrata una veglia solenne a memoria del Concilio. Hanno presieduto la funzione mons. Tommaso Ghirelli, vescovo di Imola e mons. Santo Bartolomeo Quadri, arcivescovo emerito di Modena e già Padre conciliare. A proposito della celebrazione di questa ricorrenza, il giorno precedente, sulle pagine del "Corriere di Imola", era apparso un articolo, firmato dallo stesso mons. Ghirelli, nel quale il vescovo, che intendeva ricordare il significato del Vaticano II nella vita della Chiesa, ha però utilizzato gran parte del suo intervento per sferrare un duro attacco alla produzione storiografica sul Concilio di Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni: "È tuttora in atto in Italia - ha scritto Ghirelli - un tentativo di rilettura ideologica, a partire dalla biografia di Giovanni XXIII e in particolare dalla ricostruzione dell'impostazione da lui data al Concilio, sia nella fase preparatoria, sia nel corso della prima sessione. Si cerca di mettere in cattiva luce

la Gerarchia cattolica, mostrandola divisa in se stessa. La ricaduta politica di tale operazione è intuibile. Essa fa capo a studiosi di storia della Chiesa come Giuseppe Alberigo e ad opinionisti come Alberto Melloni. Non occorre dire che simili operazioni si condannano da sole, perché seguono il metodo della ‘storia a tesi'".

Melloni – che è ordinario di Storia contemporanea nell'Università di Modena-Reggio Emilia, e non solo semplice opinionista del Corriere della Sera come sembra intendere il vescovo – in una lettera di precisazione al direttore del giornale ha ricordato che i cinque corposi volumi della Storia del Vaticano II (edita in Italia da "Il Mulino") sono frutto del lavoro comune di 39 studiosi di diversi Paesi, tra i quali docenti in università cattoliche, e anche pontificie: "Il lavoro storico di questi studiosi - scrive Melloni - è fatto di ricerca faticosa, di punti di vista non coordinati e contigui, e trova critici (come mons. Ghirelli), ma anche estimatori: proprio in questi giorni il cardinale croato Josip Bozanic aveva invitato il prof. Alberigo a tenere la commemorazione del Concilio nella diocesi di Zagabria; e il card. Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca, ha elogiato il lavoro fatto dall'Istituto per le scienze religiose di Bologna, nel quale sia Alberigo che il sottoscritto prestiamo opera".
All'attacco sferrato dal vescovo di Imola contro gli autori della monumentale "Storia del Concilio Vaticano II", ha risposto anche il Coordinamento regionale dell'Emilia Romagna di "Noi Siamo Chiesa", con un comunicato stampa pubblicato dal "Corriere di Imola" l'8 dicembre. Parlare di "rilettura ideologica del Concilio Vaticano II" e di tentativo di "mettere in cattiva luce

la Gerarchia" appare, scrive il movimento ecclesiale, "ingeneroso e malizioso nei confronti di due storici d'alto livello, che hanno realizzato l'opera attingendo ad una sconfinata documentazione. Gli autori hanno messo così in luce l'effettiva dialettica conciliare fra la maggioranza dei Padri aperta al cambiamento ed una minoranza curiale già all'origine contraria alla celebrazione dell'assise e poi riottosa a qualsiasi forma di cambiamento paventata nella Basilica di San Pietro. Lo scontro interno alla compagine vescovile, lo dicono i documenti e le testimonianze dei Padri, c'è stato eccome. Negare tutto ciò significa sostenere l'operazione di buona parte dell'attuale Curia vaticana impegnata a rileggere in chiave conservatrice un Concilio, certamente frutto di numerosi compromessi, ma parimenti ricco di molteplici segnali di discontinuità rispetto alla Chiesa pre-conciliare". (giovanni panettiere)

 

Martedì, 28 Febbraio 2006 11:18

EGITTO INQUIETO

EGITTO INQUIETO

 
di JEROME ANCIBERRO

 

NEL PAESE NORDAFRICANO, È DIFFICILE

LA CONVIVENZA DEI CRISTIANI COPTI CON

LA MAGGIORANZA MUSULMANA.
QUESTO ARTICOLO, FIRMATO DA JÉRÔME ANCIBERRO,

È STATO PUBBLICATO

SUL SETTIMANALE FRANCESE “TÉMOIGNAGE CHRÉTIEN”.

TITOLO ORIGINALE: “COPTES.

QUEL AVENIR

POUR

LES CHRÉTIENS D’EGYPTE?”

Quattro fedeli musulmani sono stati trucidati e una sessantina feriti il 21 ottobre ad Alessandria d’Egitto in occasione di scontri tra la polizia e manifestanti che protestavano contro la diffusione di un dvd giudicato ostile all’islam. La manifestazione si è formata dopo la preghiera musulmana del venerdì intorno alla chiesa di Saint Georges sulla quale sono stati sparati dei proiettili. È in questa chiesa che due anni fa è stata data l’unica rappresentazione di una pièce teatrale, riprodotta oggi sul suddetto dvd, che racconta la storia di un giovane convertito all’islam e incitato, da un correligionario, ad uccidere dei preti. Le autorità e alcuni responsabili musulmani negano di avere una responsabilità negli scontri. Le tensioni erano percepibili ad Alessandria già alcuni giorni prima di questi avvenimenti.



L’analisi

Alcuni trafiletti informano di fatti diversi più o meno violenti, di manifestazioni o di moti legati alle tensioni tra i cristiani d’Egitto e una parte della popolazione musulmana. Ci si può ricordare anche dei massacri del 1981 a Zawiya-al-Hamra, nella periferia del Cairo, perpetrati da gruppi di estremisti islamici, o dei moti di al-Kocheh nel gennaio 2000 durante i quali 25 persone, per lo più copte, avevano trovato la morte in vere battaglie combattute tra comunità. In modo più episodico, voci di rapimenti di donne cristiane convertite con la forza all’islam sono sufficientemente prese sul serio dai cristiani del popolo per dar luogo a tensioni talvolta violente. Nel dicembre 2004, il capo spirituale della Chiesa copta ortodossa, il papa Chenouda III, si era d’altronde ritirato in un monastero in segno di protesta contro l’arresto di diverse decine di manifestanti cristiani che si indignavano per la conversione “forzata” all’islam della moglie di un prelato cristiano… Si diffondono anche voci inverse (di rapimenti di giovani donne musulmane da parte di copti). I copti, - la parola significa “cristiano d’Egitto” e viene dal greco Aiguptios, “egiziano” – sarebbero attualmente tra i sei e i dieci milioni, su una popolazione totale di 72 milioni di egiziani. Nulla, se non la religione, li distingue dai loro compatrioti musulmani. La maggior parte di essi, circa il 90%, è legata alla Chiesa copta ortodossa, una Chiesa cristiana autocefala (indipendente) attualmente guidata dal papa Chenouda III, “patriarca di Alessandria”. La dottrina della Chiesa copta ortodossa è formalmente monofisita, cioè non riconosce che una sola natura (divina) nella persona di Cristo. Esiste anche una Chiesa copta cattolica legata a Roma, che raggruppa circa 200.000 fedeli, che ha anch’essa alla guida un “patriarca d’Alessandria” (Stephanos II Ghattas) così come una Chiesa copta protestante evangelica che rivendica circa 100.000 fedeli.

Riconosciuti dalle autorità e largamente integrati nel tessuto sociale ed economico del Paese, i copti restano sotto-rappresentati in politica, anche se alcune prestigiose personalità, come l’ex segretario generale dell’Onu, Boutros Boutros Ghali, provengono da questa comunità. Oggi sono soltanto tre dei 444 deputati del Parlamento egiziano. E nulla fa pensare che le prossime elezioni legislative faranno cambiare le cose (le elezioni si svolgono in tre turni dal 9 novembre al 7 dicembre, ndt). Di fronte alle discriminazioni di fatto, che rendono per esempio molto difficile l’accesso a certi impieghi o a posizioni di responsabilità, sottoposti alle stesse difficoltà economiche dei loro compatrioti musulmani, molti copti hanno scelto l’emigrazione.

Alcuni osservatori pensano che i recenti gesti simbolici del governo egiziano nei confronti dei copti (ritrasmissione televisiva delle messe di Natale e di Pasqua, creazione di un giorno festivo ufficiale per Natale), sarebbero dovuti a delle pressioni del governo statunitense, esso stesso influenzato dalla lobby copta della diaspora. Ma in un contesto nazionale segnato da tensioni economiche e politiche in cui l’affermazione intransigente dell’identità musulmana può talvolta fungere da valvola a tutte le frustrazioni, i copti, che vogliono coltivare una identità religiosa marcata, costituiscono un bersaglio visibile. Una questione di tutt’altra importanza rispetto alla semplice diffusione di un dvd…

 

SANT'ANGELO A SCALA: PROVE DI PACE TRA IL NUOVO VESCOVO E

LA COMUNITÀ DI DON VITALIANO

 

Adista Notizie n° 67

 

Il passaggio alla diocesi di Avellino della parrocchia di Sant'Angelo a Scala, fino al maggio scorso sotto la giurisdizione dell'abbazia di Montevergine (v. Adista n. 45/05), sembra aver portato novità importanti per gli abitanti del paese dove, per 10 anni (fino alla fine del 2002), è stato parroco don Vitaliano della Sala.
Contro la rimozione di don Vitaliano e per il rifiuto dell'abate di Montevergine, mons. Giovanni Tarcisio Nazzaro, di ascoltare le loro ragioni, i santangiolini, avevano intrapreso, da ormai tre anni, una radicale (e originale) forma di protesta: contro il vescovo, ma anche per denunciare l'atteggiamento ostile tenuto dal parroco succeduto a don Vitaliano, don Luciano Porri, avevano smesso non solo di frequentare la parrocchia, ma addirittura di entrare in chiesa, preferendo recarsi a messa nelle parrocchie dei paesi vicini. Una forma di boicottaggio che aveva contrapposto la parrocchia di Sant'Angelo alla Curia diocesana in maniera che sembrava insanabile. Oggi, però, grazie alla mano tesa dal nuovo vescovo, il conflitto sembra sulla via della ricomposizione.

Un primo, importante segnale, in questo senso è arrivato il 23 settembre scorso: i cittadini di sant'Angelo sono tornati a sedersi in chiesa per assistere ad una celebrazione del vescovo di Avellino, don Francesco Marino, arrivato a Sant'Angelo per presentare alla comunità il successore di don Luciano Porri (che ha improvvisamente abbandonato la parrocchia e si trova ora in Svizzera), don Antonio De Feo, che è anche parroco in un paese vicino a Sant'Angelo, Capriglia Irpina.

Prima della messa, mons. Marino, insieme a don Antonio e a don Vitaliano, si è recato nella chiesa del Rosario, sede dell'associazione 'O Ruofolo, l'associazione fondata dai dei fedeli "ribelli" all'abate Nazzaro che in questi anni ha promosso e sostenuto le iniziative a favore del parroco rimosso. Per mons. Marino l'accoglienza è stata calorosissima: in onore del vescovo era stata infatti preparata una festa con tanto di banda musicale, striscioni di benvenuto e fuochi d'artificio. "Continuate ad avere fede in Dio - ha detto il Vescovo - e accogliete il nuovo amministratore parrocchiale. Cerchiamo l'unità di tutta la comunità con l'aiuto di Dio". Il vescovo ha quindi voluto sentire dagli abitanti di Sant'Angelo le ragioni del forte dissenso che in questi tre anni li aveva contrapposti all'abate di Montevergine, invitando poi tutti ad abbandonare i vecchi rancori per aprire una nuova fase nei rapporti con

la Curia. Mons. Marino si è poi spostato nella chiesa di San Giacomo dove ha celebrato messa insieme al nuovo parroco, don Antonio De Feo, ed al vecchio, don Vitaliano Della Sala. Insieme, tutti e tre sull'altare, a sigillare l'avvenuta riconciliazione.
"Abbiamo deciso di porgere la mano - ha detto Massimo Zaccaria dell'associazione 'O Ruofolo - soprattutto perché finalmente siamo stati ascoltati. Abbiamo avviato un dialogo con i vertici della Chiesa e questo lascia ben sperare per il futuro".

 

 “MA IL VENTO CONTINUA…”. LETTERA CIRCOLARE DI MONS. PEDRO CASALDALIGA

Adista documenti N°22 del 19 marzo 2005

 

SÃO FELIX DO ARAGUAIA Un "vecchio vescovo che continua a sognare": così si definisce dom Pedro Casaldáliga, nella lettera scritta a conclusione - felice - della vicenda della sua successione episcopale, per ringraziare della "valanga" di messaggi di solidarietà, ricevuti insieme a "molte domande e molti sfoghi" sui mali del mondo e della Chiesa. Mali che tuttavia non cancellano la speranza: cadono ripetutamente, è vero, i mulini a vento, ma non cade il vento. Di seguito la lettera, in una nostra traduzione dal portoghese.

Mi è arrivata un'autentica valanga di messaggi di solidarietà, preoccupati, alcuni anche indignati e, infine, molti esultanti. Mai come in questo caso dovrei rispondere personalmente a tutti, messaggio per messaggio, cuore a cuore. Sono anche arrivate, in questa vigilia di attesa, molte domande, molti sfoghi: su questo nostro mondo neolibe-rista, sulla nostra santa e problematica Chiesa. Giro doman-de e ansie allo Spirito di Colui che è la "nostra Pace". E credenti e agnostici, sereni e ribelli, donne e uomini, si considerino "risposti" con affetto immenso. Così, tanto facilmente, i vescovi pensionati sbrigano le faccende…!
Abbiamo ricevuto tanta solidarietà nei confronti della rivendicazione del popolo Xavante, bloccata nelle mani di una giustizia lentissima. L'altra occasione di solidarietà, verso la nostra piccola Chiesa di São Felix do Araguaia, è stata logicamente la successione episcopale. Non voglio entrare nei dettagli perché si è già scritto abbastanza su questo incidente ecclesiale. Vogliamo insistere sul fatto che il problema non riguardava un vescovo, una Chiesa. Il problema è di tutta

la Chiesa e per la nomina di tutti i vescovi, ed è una rivendicazione di maggiore corresponsabilità e collegialità. Per essere fedeli al Vangelo e per darne testimonianza al mondo. Per fortuna il nuovo vescovo di São Felix do Araguaia, frei Leonardo Ulrich Steiner, è un francescano vero, fraterno, dialogante, popolare. Ed il cammino continua. E anche io continuerò qui, sulla riva dell'Araguaia, accompagnando a distanza le lotte dei nostri popoli e lavorando, nella speranza pasquale, al tramonto della vita.
L'impero vuole "un mondo senza tirannia". Anche noi, soprattutto senza la tirannia dell'impero. L'impero vuole "la diffusione della libertà". Noi rispondiamo indignati che questa libertà è soprattutto per il mercato e per alcuni signori Paesi.

C'è tirannia, troppa, a tutti i livelli della vita sociale, economica, politica, culturale. Secondo il rapporto annuale dell'Onu, c'è ancora 1 miliardo e 100 milioni di persone che sopravvivono con meno di 1 dollaro al giorno. Continuano a morire di fame ogni giorno 30mila bambini poveri. Negli ultimi 40 anni il Pil mondiale è raddoppiato mentre si è triplicata la disuguaglianza economica. 900 milioni di persone - la settima parte della popolazione mondiale - soffrono di discriminazione etnica, sociale o religiosa. 170 milioni di persone vivono fluttuando nella migrazione. Il 44% della popolazione latino-americana vive in quartieri miserabili. L'Africa continua a sanguinare, nell'indifferenza e nello sfruttamento. E ci sono Paesi nel nostro mondo segnati nelle "liste di proscrizione", magari per una possibile guerra preventiva…
Però si "sta ben vincendo il male" nel nostro mondo ferito. Abbiamo celebrato di nuovo il Forum Sociale Mondiale; Via Campesina cresce e lotta; abbiamo smascherato e in parte fermato l'Alca; Israele e il popolo palestinese dialogano di passi concreti; la sinistra alza la testa in vari Paesi della nostra America e dell'Europa e cresce "il malessere (e la protesta) per la democrazia neoliberista". Se partiti e sindacati si demoralizzano sempre più, cresce però il movimento popolare con le sue manifestazioni su scala nazionale, continentale e mondiale. Ha preso avvio il Protocollo di Kyoto. E siamo sempre di più quelli che gridiamo, con Ignacio Ramonet, "sì alla solidarietà fra i 6 miliardi di abitanti del nostro pianeta; no al G-8 e al Consenso di Washington; no al dominio del 'poker del male' (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione per

la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, Organizzazione Mondiale del Commercio); no all'egemonia militare di un'unica superpotenza, no alle guerre di invasione e no al terrorismo…". E riassume Ramonet, e noi con lui, che "resistere è dire no, ed è anche dire sì ad un altro mondo possibile e sognarlo e contribuire a costruirlo".

Anche un'altra Chiesa è possibile e in molte parti e in molti modi la stiamo edificando: nelle comunità di preghiera, di fraternità, di impegno; nell'XI Incontro intraecclesiale delle Comunità ecclesiali di base (Ceb's) che si realizzerà in Brasile e nel rianimarsi delle Ceb's in Brasile, nel Continente, nel mondo; nel Forum mondiale di Teologia e di Liberazione celebrato insieme al Forum sociale mondiale; nella celebrazione del giubileo del martirio del nostro san Romero e della memoria militante di tutti i nostri martiri; nell'op-zione per i poveri e per le loro cause; nella denuncia profetica dei "genocidi sociali" e dell'iniquità dell'impero e delle sue oligarchie; in un ecumenismo reale e quotidiano; nel dialogo interreligioso; nel sostegno al processo conciliare come rivendicazione evangelica crescente e migliore commemorazione dei 40 anni dal Vaticano II; vivendo la nostra fede in modo adulto e corresponsabile per "la vita del mondo".

E qui ci va una confidenza ecclesiale, da vecchio vescovo che continua a sognare. Una volta, in occasione di un problema di salute di Giovanni Paolo II, si è parlato e scritto molto sul profilo del prossimo papa. Penso che si dovrebbe parlare molto di più - parlare e fare - del profilo del nuovo papato, di una ristrutturazione radicale di quello che chiamiamo

la Sede Apostolica, di un nuovo modo di vivere il ministero di Pietro: sensibile, come il cuore di Gesù, al clamore della povertà, della sofferenza, della deriva; senza Stato pontificio e con una curia leggera e di servizio; profeticamente spoglio di potere e di fasti; appassionato di ecumenismo e di dialogo interreligioso; deassolutizzato e collegiale; decentralizzatore e veramente "cattolico" nel pluralismo culturale e ministeriale; mediazione religiosa - in collaborazione con altre mediazioni, religiose e no - al servizio della pace, della giustizia, della vita.

Van Gogh, malgrado avesse visto cadere nella sua vita tanti mulini, reali o simbolici, scriveva a suo fratello Theo: "ma il vento continua". Dopo aver visto, anche noi, cadere tanti mulini, nella società e nella Chiesa, continuiamo a proclamare - nella speranza e nell'impegno - che "il vento continua"…

L'ETERNO CONFLITTO TRA POLITICA E PROFEZIA. UN CONVEGNO A ROMA

 

 

Adista –notizie- n°89 del 25 dicembre 2004

 

 

ROMA. "Quello odierno non è un tempo di profeti. Nessuno sta in vedetta per scrutare segni dei tempi, ci si lascia distrarre da segnali di avvenimenti". In queste parole di Mario Tronti, filosofo della politica, l'invito a riflettere sulla profezia come bisogno, come dover essere della politica. Un convegno su "Politica e profezia", organizzato il 3 dicembre dalla Presidenza del Consiglio provinciale di Roma, ha voluto offrire, nelle parole del presidente Adriano Labbucci, un luogo di confronto e di dibattito "non-neutro" su questi temi, prendendo spunto dagli interrogativi posti da Massimo Cacciari nel suo libro "Della cosa ultima" (Adelphi 2004). Secondo Cacciari, il rapporto tra profezia e politica è ed è sempre stato agonico, conflittuale, perché la prima "denuncia come idolatrica ogni costruzione umana del futuro, ogni immagine offerta sulla terra della Gerusalemme celeste". Un contrasto che si sta però perdendo, a causa della crisi odierna dello spirito profetico, che lascia il 'politico' solo sulla scena del mondo ad amministrare e a rassicurare l'uomo. Si tratta, secondo Cacciari, di una crisi inevitabile, legata alla pienezza del mondo e della storia annunciate da Cristo: inevitabilmente esaurita, nelle sue parole, la riserva escatologica contenuta nel discorso profetico.
In parziale disaccordo Mario Tronti, per cui secolarizzazione e spoliticizzazione sono invece processi che procedono di pari passo, e che parallelamente devono essere pensati. Se si deve parlare di una 'fine' della storia, si tratta di una fine "provvisoria": il vero problema è leggere i segni per capire dove e in che modo essa ripartirà.
Da parte ecclesiale, si è invece sottolineata la vivacità e la necessità della profezia e dello spirito profetico nel mondo di oggi. Don Tonio Dell'Olio, coordinatore nazionale di Pax Christi, ha ricordato il carattere eminentemente "politico" dei profeti biblici e dei loro messaggi. "La profezia", ha aggiunto, "non è una dottrina quanto uno stile, un carattere" profetico che si esprime in alcuni atteggiamenti chiave: l'indignazione, la sobrietà della vita, la difesa dell'orfano, della vedova, dello straniero, l'amore della giustizia, la denuncia dell'ipocrisia, l'annuncio della pace. "I valori, la fede, la profezia sono quella luce che permette di distinguere in controluce le banconote vere da quelle false, nel corso della politica". Banconote false, ha ricordato Dell'Olio, come le parole dell'attuale ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, con la sua promessa, fatta più di un anno fa e mai concretizzata, di azioni legislative per assicurare agli immigrati il diritto di voto.
Rispondendo ad alcuni interrogativi posti da Tronti, padre Carlo Molari, teologo, ha affermato che la profezia tiene in guardia dal "rischio costante che la fede scada in una pratica, in una legge morale, in mera religione". Il ruolo profetico, oggi, non è più appannaggio di singoli, quanto di comunità, di realtà collettive. Le fedi, ha aggiunto, tutte le fedi, ciascuna nella sua specificità, creano "spazi profetici" importanti all'interno della politica, senza tuttavia poter offrire a questa "soluzioni miracolose".

 

Lunedì, 14 Febbraio 2005 21:12

SESSUALITÀ ED EUCARISTIA

Seconda parte

SESSUALITÀ ED EUCARISTIA: IL DONO DEL CORPO
Adista –documenti- n°90 del 25 dicembre 2004

 

Castità è accogliere il principio di realtà
La castità non è innanzitutto la soppressione del desiderio, almeno secondo la tradizione di san Tommaso d'Aquino. Il desiderio e le passioni contengono verità profonde su chi siamo e su cosa abbiamo bisogno. Il semplice sopprimerli farà di noi esseri morti spiritualmente o persone che un giorno si autodistruggeranno. Dobbiamo educare i nostri desideri, aprire gli occhi su quello che veramente chiedono, liberarli dai piccoli piaceri. Abbiamo bisogno di desiderare più profondamente e con maggiore chiarezza.
San Tommaso ha scritto qualcosa che viene facilmente fraintesa. Diceva che la castità è vivere secondo l'ordine della ragione (II,II,151.1). Suona molto freddo e cerebrale, come se essere casto fosse una questione di potere mentale. Ma per Tommaso ratio significa vivere nel mondo reale, "in conformità con la verità delle cose reali" (Josef Pieper, The Four Cardinal Virtues, Notre Dame, 1966, p. 156). Cioè vivere nella realtà di quello che sono io e di quello che sono le persone che amo realmente. La passione e il desiderio possono portarci a vivere nella fantasia. La castità ci fa scendere dalle nuvole, facendoci vedere le cose come sono. Per i religiosi, o a volte per gli scapoli, ci può essere la tentazione di rifugiarsi nella fantasia perniciosa che siamo eteree figure angeliche, che non hanno nulla a che vedere col sesso. Questo può sembrare castità, ma è una perversione della stessa. Ciò mi ricorda uno dei miei fratelli che andò a dire messa in un convento. La sorella che gli aprì la porta lo guardò e disse: "Ah, è lei padre, stavo aspettando un uomo".
È difficile immaginare una celebrazione dell'amore più realista dell'Ultima Cena. Non ha niente di romantico. Gesù dice ai suoi discepoli semplicemente e liberamente che è arrivata la fine, che uno di loro lo ha tradito, che Pietro lo rinnegherà, che gli altri fuggiranno. Non è una scena da lume di candela in un ristorante, questo è realismo portato all'estremo. Un amore eucaristico ci fa scontrare in pieno con la complessità dell'amore, con i suoi successi e la sua vittoria finale.
Quali sono le fantasie nelle quali può farci cadere il desiderio? Due, direi. Una è la tentazione di pensare che l'altra persona sia tutto, tutto quello che cerchiamo, la soluzione a tutti i nostri aneliti. Questo è un capriccio passeggero. L'altra è non vedere l'umanità dell'altra persona, per farne semplicemente carne da consumo. Questo è lussuria. Queste due illusioni non sono fra loro tanto diverse come può sembrare a prima vista. L'una è il riflesso esatto dell'altra.
Suppongo che tutti noi abbiamo conosciuto momenti di totale incapricciamento, quando qualcuno diventa l'oggetto di tutti i nostri desideri e il simbolo di tutto quello cui abbiamo anelato, la risposta a tutte le nostre necessità. Se non arriviamo ad essere uno con questa persona, allora la nostra vita non ha senso, è vuota. La persona amata giunge ad essere per noi la risposta a quel grande e profondo bisogno che scopriamo dentro di noi. Pensiamo a questa persona tutto il giorno.
Come diceva tanto bene Shakespeare: "Di giorno le mie membra e di notte la mia mente non trovano pace né per me né per te". O, per essere un poco più attuali, la faccia dell'amato è come lo screensaver del nostro computer. Nel momento in cui uno si prepara a pensare ad un'altra cosa, ce l'ha lì. È come una prigione, una schiavitù, ma una schiavitù che non vogliamo lasciare. Divinizziamo la persona amata e la mettiamo al posto di Dio. Certamente quello che stiamo adorando è una nostra proiezione. Forse ogni vero amore passa per questa fase ossessiva. L'unica cura per questo è vivere giorno per giorno con la persona amata e vedere che non è Dio, ma solamente suo figlio o sua figlia. L'amore comincia quando siamo guariti da questa illusione e ci troviamo faccia a faccia con la persona reale e non con la proiezione dei nostri desideri. (...).


Benedetta intimità!
Cosa cerchiamo in tutto questo? Cosa ci spinge ad incapricciarci? Posso parlare solo per me. Direi che quello che c'è sempre stato dietro le mie turbolenze emozionali è stato il desiderio di intimità. È l'anelito ad essere totalmente uno, di dissolvere i limiti fra se stessi e l'altra persona per perdersi nell'altro, per cercare la comunione pura e totale. Più che passione sessuale, credo che sia l'intimità che la maggioranza degli esseri umani cerca. Se viviamo attraversando crisi di affettività, credo che allora dobbiamo accettare il nostro bisogno di intimità
La nostra società è costruita intorno al mito dell'unione sessuale come culmine dell'intimità. Questo momento di tenerezza e di unione fisica totale è quello che ci porta all'intimità totale e alla comunione assoluta. Molta gente non ha questa intimità perché non vive una situazione matrimoniale, o perché si tratta di coppie non felici, o perché sono religiosi o sacerdoti. E possiamo sentirci esclusi ingiustamente da quella che è la nostra necessità più profonda. Ci sembra ingiusto! Come può escluderci Dio da questo desiderio profondo?
Credo che ogni essere umano, sposato o single, religioso o laico, deve accettare le limitazioni all'intimità che può conoscere al momento. Il sogno di comunione piena è un mito che porta alcuni religiosi a desiderare di essere sposati e molti sposati a desiderare di stare con una persona diversa. L'intimità vera e felice è possibile solo se ne accettiamo i limiti. Possiamo proiettare nelle coppie di sposati un'intimità totale e meravigliosa, che è impossibile, ma che è la proiezione di nostri sogni. Il poeta Rilke capì che non si può avere vera intimità all'interno di una coppia fino a quando non ci si rende conto che in qualche modo si rimane soli. Ogni essere umano conserva solitudine, uno spazio intorno che non può essere eliminato: "Un buon matrimonio è quello in cui ognuno dei due nomina l'altro guardiano della propria solitudine, e gli mostra fiducia, la più grande possibile… Una volta che si accetta che anche fra gli esseri umani più vicini continua ad esistere una distanza infinita, può crescere una forma meravigliosa di vivere uno a fianco all'altro se si riesce ad amare quella distanza che permette ad ognuno di vedere nella totalità il profilo dell'altro stagliato contro un ampio cielo" (John Mood Rilke on Love Other Difficulties, translations and Considerations of Rainer Maria Rilke, New York 1933 27ff.. quoted by Hederman op. cit. p. 81). (...).
Per gli sposati è possibile una meravigliosa intimità se, come dice Rilke, si accetta che siamo guardiani della solitudine dell'altra persona. E quelli di noi che sono single o celibi, possono anche scoprire un'intimità con gli altri profondamente bella. Intimità viene dal latino intimare, che significa stare in contatto con la parte più interna di un'altra persona. In quanto religioso, il mio voto di castità mi rende possibile essere incredibilmente intimo con altre persone. Il fatto di non avere intenzioni recondite, e il mio amore non dovrebbe essere divoratore o possessivo, fa sì che io possa avvicinarmi moltissimo al fondo della vita della gente.
La trappola opposta all'incapricciamento non è fare dell'altra persona Dio, ma renderla un semplice oggetto, qualcosa con cui soddisfare le necessità sessuali. La lussuria ci chiude gli occhi alla persona dell'altro, alla sua fragilità e alla sua bontà. San Tommaso dice, scrivendo sulla castità, che il leone vede il cacciatore come cibo, e la lussuria ci rende cacciatori, predatori che vedono qualcosa da divorare. Vogliamo semplicemente un poco di carne, qualcosa da poter divorare. Una volta di più la castità è vivere nel mondo reale. La castità ci apre gli occhi per vedere che quello che abbiamo davanti è sì un bel corpo, ma quel corpo è qualcuno. (...). Quello che spesso sono state attentamente pianificate.


La lussuria ha a che fare con il potere, più che col sesso
Si può avere l'impressione che la lussuria sia passione sessuale fuori controllo, desiderio sessuale selvaggio. Però Sant'Agostino, che comprese il sesso molto bene, credeva che la lussuria avesse a che vedere con il desiderio di dominare altre persone piuttosto che con il piacere sessuale. La lussuria è parte della libido dominandi, l'impulso di aumentare il nostro potere di controllo e convertirci in Dio. La lussuria ha più a che vedere con il potere che con il sesso. (...).Il primo passo per superare la lussuria non è sopprimere il desiderio, ma restaurarlo, liberarlo, scoprire che il desiderio è per una persona e non per un oggetto. Molti dei tristi scandali di abusi sessuali sui minori sono venuti da sacerdoti o religiosi che erano incapaci di confrontarsi in relazioni adulte con uguali. Potevano cercare solo relazioni in cui loro detenevano il potere e il controllo. Volevano rimanere invulnerabili. Nell'Ultima Cena Gesù prende il pane e lo dà ai discepoli dicendo: "questo è il mio corpo offerto per voi". Egli consegna se stesso. Invece di prendere il controllo su di loro, si consegna ai discepoli perché facciano di lui quello che vogliono. E noi sappiamo quello che ne faranno. È l'immensa vulnerabilità dell'amore vero.
La lussuria e il capriccio passeggero possono sembrare due cose molto differenti e tuttavia sono l'una il riflesso dell'altra. Nel capriccio uno converte l'altra persona in Dio, e nella lussuria uno in persona si fa Dio. (...).
Così la castità è vivere nel mondo reale, guardando all'altro come lui, o lei, e a me come io sono. Non siamo né esseri divini né semplici pezzi di carne. Entrambi siamo figli di Dio. Abbiamo la nostra storia. Abbiamo fatto voti e promesse. L'altro è impegnato in una coppia o con un coniuge. Noi come sacerdoti o religiosi siamo consegnati ai nostri ordini o diocesi. È così come ci troviamo, impegnati e legati ad altri impegni, che possiamo imparare ad amare con il cuore e gli occhi aperti.
Questo è duro perché viviamo nel mondo di internet della World Wide Web. È il mondo della realtà virtuale, dove possiamo vivere in mondi di fantasia come se fossero reali. Viviamo in una cultura in cui risulta difficile distinguere tra fantasia e realtà. Tutto è possibile nel mondo cibernetico. Per questo la castità è difficile. È il dolore di scoprire la realtà. Come possiamo rimettere i piedi per terra?


Tre passi per amare
Suggerirei tre passi. Dobbiamo imparare ad aprire gli occhi e a vedere i volti di quelli che ci stanno davanti. Con quale frequenza apriamo realmente gli occhi per guardare il volto delle persone e vederle per come sono? Brian Pierce, un domenicano degli Stati Uniti, sta per pubblicare un libro che paragona il pensiero di Meister Eckhart, il mistico domenicano del XIV secolo, con quello di Thich Nhat Hanh, un buddista del XX secolo. Per entrambi l'inizio della vita contemplativa è stare nel momento presente, quello che il buddista chiama "coscienza". È reale solo il momento presente. Sono vivo in questo momento, e pertanto è in questo momento che posso incontrarmi con Dio. Devo imparare la serenità di smetterla di essere inquieto per il passato e per il futuro. Ora, il momento presente, è quando comincia l'eternità. Eckhart chiede, "Cosa è oggi?". E lui risponde "eternità".
Nell'Ultima Cena Gesù afferrò il momento presente. Invece di inquietarsi per quello che aveva fatto Giuda, o perché i soldati si stavano avvicinando, egli visse il momento presente, prese il pane e lo spezzò e lo offrì ai discepoli dicendo, "questo è il mio corpo, offerto per voi". Ogni eucarestia ci immerge in questo presente eterno. È in questo momento che possiamo farci presenti all'altra persona, silenziosi e quieti in sua presenza. Ora è il momento in cui posso aprire gli occhi e guardarla. È perché sono tanto occupato correndo da tutte le parti, pensando a quello che succederà dopo, che può capitare che non veda il volto che ho di fronte, la sua bellezza e le sue ferite, le sue gioie e le sue pene. La castità, insomma, implica aprire gli occhi!
In secondo luogo, posso apprendere l'arte di star solo. Non posso star bene con la gente a meno che non sia capace di starci bene solo alcune volte. Se la solitudine mi fa paura, allora accoglierò altra gente non perché mi diletti in essa, ma come soluzione al mio problema. Vedrò la gente semplicemente come un modo per riempire il mio vuoto, la mia spaventosa solitudine. Pertanto non sarò capace di rallegrarmi con loro per il loro stesso bene. Perciò è quando uno sta con un'altra persona, che è veramente presente, e quando sta solo che s'impara ad amare la solitudine. Se non è così, quando uno sta con un'altra persona, si attaccherà a lei e la soffocherà!
Infine, ogni società vive delle sue storie. La nostra società ha le sue storie tipiche. Spesso sono storie romantiche. Il ragazzo conosce la ragazza (o a volte il ragazzo conosce il ragazzo), si innamorano e vivono felici per sempre. È una bella storia che capita di frequente. Però se pensiamo che è l'unica storia possibile vivremo con possibilità molto ridotte. La nostra immaginazione ha bisogno di essere alimentata con altre storie che ci parlino di modi di vivere e amare. Abbiamo bisogno di aprire ai giovani l'enorme diversità di forme nelle quali possiamo trovare significato e amore. Per questo erano tanto importanti le vite dei santi. Ci mostravano che c'erano diversi modi di amare eroicamente. Come persone sposate o singole, come religiosi o laici. Mi sono commosso molto per la biografia di Nelson Mandela, The long road to freedom. È un uomo che ha dato tutta la sua vita per la causa della giustizia e dell'abbattimento dell'apartheid, e questo ha significato che non ha avuto la parte di vita matrimoniale che anelava, visto che ha passato anni in carcere.
Così il primo passo della castità è scendere dalle nuvole. Molto rapidamente menzionerò altri due passi. Il secondo passo, in breve, è aprirci all'amore, perché non restino piccoli mondi su cui ripiegarsi. L'amore di Gesù si mostra a noi quando prende il pane e lo spezza perché possa essere condiviso. Quando scopriamo l'amore non dobbiamo conservarlo in un piccolo armadio privato per il nostro diletto personale, come una segreta bottiglia di whisky, salvaguardata dagli sconosciuti per nostro uso esclusivo. Dobbiamo condividere i nostri amori con i nostri amici e con coloro che amiamo. In questo modo l'amore particolare si espande e va incontro all'universalità.
Soprattutto è possibile allargare lo spazio perché Dio abiti in ogni amore. In ogni storia d'amore concreta può vivere il mistero totale dell'amore, che è Dio. Quando amiamo profondamente qualcuno, Dio sta già lì. Più che vedere i nostri amori in competizione con Dio, questi ci offrono luoghi in cui possiamo montare la sua tenda. Come Bede Jarret diceva a Hubert van Séller, "Se ritieni che l'unica cosa che puoi fare è ritirarti nel tuo guscio, non vedrai mai quanto Dio sia amoroso…. Devi amare P. e cercare Dio in P. … Goditi la sua amicizia, paga il prezzo del dolore che porta con sé, ricordalo nella tua Messa e lascia che Egli sia la terza persona in questo amore". (...). Se separiamo il nostro amore verso Dio dal nostro amore per le persone concrete, entrambi diventeranno aspri e malaticci. Questo è quello che significa avere una doppia vita.
Il terzo passo, forse il più difficile, è che il nostro amore deve liberare le persone. Ogni amore, che sia tra persone sposate o singole, deve essere liberante. L'amore tra marito e moglie deve aprire grandi spazi di libertà. E questo è tanto più vero per noi che siamo sacerdoti o religiosi. Dobbiamo amare perché gli altri siano liberi di amare gli altri più di noi stessi. Sant'Agostino chiama il vescovo amico dello sposo, amicus sponsi. In inglese diciamo "the best man" nel matrimonio. Il "best man" non cerca di far innamorare di lui la sposa, e neppure le damigelle d'onore! Sta ad indicare altro.

 

(...). Dio è sempre quello che ama di più di quello che è amato. Può darsi che sia proprio questa la nostra vocazione. Auden ha detto: "Se l'amore non può essere paritario, che sia io quello che ama di più" (Collected Shorter Poems 1927-1957 London 1966 p. 282).
Questo implica rifiutarsi di lasciare che le persone diventino troppo dipendenti da qualcuno e non occupare il posto centrale delle loro vite. Uno deve sempre cercare altre forme di sostegno alla gente, altri pilastri, affinché noi possiamo smettere di essere tanto importanti. Così la domanda che uno deve sempre farsi è: il mio amore sta rendendo questa persona più forte, più indipendente, o la sta rendendo più debole e dipendente da me?
Bene, mi avvio alla conclusione dopo un'ultima riflessione. Imparare ad amare è un compito difficile. Non sappiamo dove ci porterà. La nostra vita ne sarà stravolta. Capiterà che ci faremo male. Sarebbe più facile avere cuori di pietra che cuori di carne, però allora saremmo morti! Se siamo morti non possiamo parlare del Dio della vita. Però come trovare il coraggio di vivere passando per questa morte e resurrezione?
In ogni eucarestia ricordiamo che Gesù ha sparso il suo sangue per il perdono dei peccati. Questo non significa che doveva placare un Dio furioso. Né significa solamente che se sbagliamo possiamo andare a confessare i nostri peccati ed essere perdonati. Significa molto di più. Significa che, in ogni nostra battaglia per essere persone che amano e sono vive, Dio è con noi. La grazia di Dio è con noi nei momenti di caduta e di confusione, per metterci di nuovo in piedi. Nello stesso modo in cui con la domenica di Pasqua Dio ha convertito il venerdì santo in un giorno di benedizione, possiamo stare sicuri che tutti i nostri tentativi di amare daranno frutto. E perciò non abbiamo nulla da temere! Possiamo addentrarci in questa avventura, con fiducia e coraggio.