Mondo Oggi

Fabrizio Foti

Fabrizio Foti

Architetto
Area Mondo Oggi - Rubrica Ecclesiale

DON SALVATORE BUSSU: LE COPPIE DI FATTO SONO GIÀ UN FATTO. E UN DIRITTO INELUDIBILE

NUORO. "Sono maturi i tempi per una legge sui diritti delle persone che formano le coppie di fatto". Ad affermarlo, don Salvatore Bussu, direttore per quasi 25 anni dell'Ortobene (il settimanale della diocesi di Nuoro), che, in un articolo comparso sul numero del 21 gennaio ("Una sensibilità solidarista non può ignorare le coppie di fatto"), affronta la questione delle unioni di fatto a partire dai diritti individuali, sanciti dalla nostra Costituzione, entrando così nel vivo di una discussione fortemente condizionata dalla chiusura della gerarchia ecclesiastica. "Nella chiesa di Dio - scrive Bussu - esiste un'opinione pubblica (Pio XII) e quindi la possibilità di esprimere opinioni diverse (non sempre in sintonia con i cattolici di sicura fede [!] che scrivono sui nostri giornali), quando si parla di cose che non riguardano ‘la fede e i costumi'". Fatta questa premessa, don Salvatore aggiunge che "in uno Stato laico, dove si incontrano culture diverse, nel rispetto delle identità di ciascuna, credenti e non credenti devono cercare piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile, consapevoli delle necessarie mediazioni da compiere".
Del resto, rileva l'ex direttore dell'Ortobene, chi ritiene che una legge che regolamenti le unioni civili sia "un attentato alla famiglia fondata sul matrimonio" dovrebbe dare "un'occhiata al nostro ordinamento giuridico". Scoprirebbe che "la convivenza di fatto, qua e là, viene già riconosciuta": "L'articolo 572 del codice penale, per esempio, considera il convivente una persona della famiglia e lo tutela in caso di maltrattamenti fisici o morali; l'articolo 30 dell'ordinamento penitenziario (L. 354/1975) ammette la possibilità per il detenuto di avere permessi che gli consentano di fare visita non solo al familiare, ma anche al convivente in caso di pericolo di vita; l'articolo 199 del codice di procedura penale, poi, prevede la facoltà di non testimoniare per chi ‘pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso'; infine – prosegue don Salvatore - la legge sull'adozione prevede l'affidamento del minore, ‘temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, ad un'altra famiglia sia legittima sia naturale'". Ma ciò che desta sconcerto nel dibattito attorno alle unioni di fatto, è l'omissione da parte dei politici dell'esistenza di una normativa, vigente da una decina d'anni e inerente al sistema pensionistico, che permette, "oltre che ai conviventi dei giornalisti, anche a quelli dei parlamentari, benefici assistenziali – tipo una cassa mutua – che derivano dal contratto di lavoro, e ne traggono vantaggio pure quelli che si oppongono alle coppie di fatto. Ne usufruisce un deputato su quattro". Oltre ad offrire un quadro puntuale della normativa vigente, don Bussu invita a ripartire dalla nostra Costituzione: "Se è vero che la Costituzione riconosce un plusvalore alla famiglia fondata sul matrimonio (art. 29), è pur vero che essa ‘riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale'" (art. 2).

L'intervento di don Bussu, che prima di essere pubblicato su l'Ortobene aveva già trovato ospitalità sul quotidiano La Nuova Sardegna, è stato pubblicato anche su Settimana di Bologna (la rivista dei dehoniani rivolta agli operatori pastorali), sulla Voce del logudoro, settimanale diocesano di Ozieri, e sul Nostro tempo, settimanale cattolico di Torino e Milano. Segno che nelle Chiese locali la disponibilità al confronto sul tema delle coppie di fatto è più ampia di quanto non appaia dalle posizioni del papa e dei vescovi.

Partendo dallo stesso presupposto "costituzionale" dell'articolo di don Bussu, anche padre Bartolomeo Sorge, nel numero di febbraio di Aggiornamenti Sociali, invita a guardare alla Costituzione anche se in essa non c'è esplicito riferimento al Patto sociale di solidarietà. Secondo Sorge, "l'ignoranza delle unioni di fatto della Carta repubblicana non esime lo Stato dal dovere - esso pure costituzionalmente garantito - di riconoscere e tutelare i diritti inalienabili di ogni cittadino". Cita ancora l'art. 2, padre Sorge, in riferimento ad un pronunciamento della Corte costituzionale sulle "altre formazioni sociali": "un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare, anche a sommaria indagine, costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (sentenza n.237/1986)".

Invitando lo Stato a riconoscere i "diritti individuali inalienabili" padre Bartolomeo Sorge rivolge ai cattolici una raccomandazione: " i cristiani difenderanno la famiglia fondata sul matrimonio, non solo usando tutti gli strumenti democratici di cui dispongono come cittadini, ma soprattutto testimoniandone il valore con la parola e con la vita".

da Adista notizie n°10 del 10 Febbraio 2007

Martedì, 06 Febbraio 2007 16:27

IO, WELBY E LA MORTE

IO, WELBY E LA MORTE

di Carlo Maria Martini

Il Sole 24 Ore - 21 gennaio 2007

Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di età. Pur essendo vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli con sufficiente serenità e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però, con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di "accanimento terapeutico", mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza terapeutica" e di "troppo lunga attesa terapeutica". Si tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. È un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanità" e che segnala una discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. Sarebbe quindi importante trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono la sanità a privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione degli esami necessari. Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le decisioni da prendere al termine di una malattia grave. Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una particolare risonanza. Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell'eutana-sia. Ma situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale.

La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico è assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.

È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella "rinuncia... all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo" (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l'accani-mento terapeutico "non si vuole... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire" (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278) assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale.

Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.

Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare non di "sospensione dei trattamenti" (e ancor meno di "staccare la spina"), ma di limitazione dei trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.

Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure - in quanto ritenute sproporzionate dal paziente - , dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia. Un'impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista. L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza. È soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l'insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.

da Adista documenti n°10 del 3 Febbraio 2007

SINODO PER L'AFRICA SENZA L'AFRICA. DURE CRITICHE DI UN COMBONIANO AI ‘LINEAMENTA'

VERONA. Il cammino di preparazione al prossimo Sinodo dei vescovi africani, che si terrà di qui a due anni, è partito con il piede sbagliato. Il Vaticano ha infatti pubblicato la scorsa estate i Lineamenta per la prima assise della Chiesa del ‘Continente dimenticato' da 15 anni a questa parte (v. Adista n. 59/06): ma a leggerli con attenzione – come fa p. Francesco Pierli, missionario in Kenya, sull'ultimo numero di Raggio, il mensile delle missionarie comboniane – si scopre che il documento è debole proprio in quei tre campi che dovrebbero essere qualificanti per il prossimo Sinodo: la ricchezza della Chiesa africana, il ruolo delle donne e quello dei laici.
Il Sinodo, scrive Pierli, cade in un momento propizio e la scelta del tema dell'incontro, "La Chiesa in Africa a servizio della Riconciliazione, della Giustizia e della Pace", "non potrebbe essere più appropriata": "Un Sinodo potrebbe contribuire a mettere l'accento sul positivo che già esiste e a correggere l'immaginario comune troppo negativo" del Continente.

Ma, al di là del titolo, il rischio è che, come già nel primo Sinodo africano nel 1994, "l'Africa come tale, ma soprattutto l'Africa cristiana, con le sue vivaci comunità, con le sue migliaia di parrocchie, le sue centinaia di diocesi, la sua organizzazione continentale… sia lasciata alla finestra". Il confronto con l'esperienza passata non è vano, perché già tredici anni fa "la Chiesa locale africana con la sua organizzazione e il suo ricco magistero fu completamente dimenticata nella preparazione". I Lineamenta per il 2009 non fanno sperare niente di buono da questo punto di vista: la grande ricchezza di elaborazione teologica, pastorale e morale delle Chiese africane è completamente "dimenticata" e "tutto il magistero citato nei Lineamenta è quello del papa e delle congregazioni romane". Per Pierli si tratta di "un grave peccato di omissione oltre che un insulto pesante alle Chiese locali africane, alle Università cattoliche e agli altri centri accademici".

Questo atteggiamento di Roma sa di "colonialismo, quando tutto veniva deciso nelle metropoli europee", e la sua conseguenza sarà, secondo il missionario, un boicottaggio silenzioso: "Se le Chiese locali non vengono coinvolte nella gestione del Sinodo con le strutture che hanno, a livello continentale come a livello regionale, anche il prossimo Sinodo resterà un fatto esterno alla vita di milioni di persone. A livello simbolico, è significativo che la sede scelta per questo secondo incontro – come già avvenne per il primo – sia Roma e non una città africana. Pierli, su questo punto, spera in un ripensamento del papa, perché il Sinodo diventi veramente "degli africani" e non soltanto "per gli africani".

Ma non è solo questione di metodo: "Il protagonismo ecclesiale della donna in Africa è straordinario, come pure la sua crescita a livello sociale e politico. Ma trovo che nei presenti Lineamenta l'attenzione alla donna sia debole. Eppure la maggioranza dei ministeri in Africa sono in mani femminili". Una situazione che il Sinodo dovrebbe riconoscere dedicando "più attenzione e spazio" al tema, "ma anche dando voce diretta alle donne": "Perché devono essere ancora gli uomini a parlare per le donne? […] È la Chiesa più vicina ai fondamentalisti islamici che ai segni dei tempi attraverso i quali Dio parla a tutti, Chiesa compresa?".

Stesso discorso per il ruolo dei laici, a cui i Lineamenta dedicano molte parole. Ma "quello che manca", fa notare Pierli, "sono le direttive ai vescovi e ai preti, affinché non soffochino, nella pratica, le iniziative dei laici". "Il rapporto fra il ministero ordinato e i ministeri laicali", conclude il missionario, "è ancora fortemente sbilanciato dalla parte della gerarchia, dando dei laici l'immagine di minorenni bisognosi di essere imboccati". (alessandro speciale)

da Adista Notizie n°7 del 27 gennaio 2007

Martedì, 06 Febbraio 2007 16:18

ELOGIO DELLA «LAICITÀ RISPETTOSA»

ELOGIO DELLA «LAICITÀ RISPETTOSA»

Benedetto XVI ha cambiato idea sui rapporti tra Turchia e Europa? Si sa che nel 2004 aveva emesso forte riserve sull’adesione della Turchia all’Unione Europea. Ora, il primo ministro Tayyip Erdogan ha affermato che «il Papa è favorevole all’ingresso della Turchia in Europa». Padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, ha precisato: «La Santa Sede vede con favore questo cammino di riavvicinamento tra Europa e Turchia»; tuttavia, non essendo una entità politica, «non entra nel merito della questione delle trattative per l’adesione all’UE». E mons. Mamberti ha aggiunto: «La Turchia deve rispondere a tutti i criteri politici e alle condizioni di libertà religiosa richiesti dall’Europa».
La libertà religiosa è stata la parola chiave del discorso del Papa al Corpo diplomatico: «La Costituzione turca riconosce ad ogni cittadino i diritti alla libertà di culto e alla libertà di coscienza», che è «l’espressione fondamentale della libertà umana». Questa libertà è frutto della laicità. La Turchia ha fatto «la scelta di un regime di laicità, distinguendo chiaramente la società civile e la religione, così da permettere a ciascuna di essere autonoma nel proprio ambito, sempre rispettando la sfera dell’altra». Le religioni (si pensi all’islam) non devono cercare di esercitare direttamente un potere politico: questa non è la loro vocazione. Devono soprattutto rinunciare assolutamente a «giustificare il ricorso alla violenza come espressione della pratica religiosa».

Unico Paese musulmano ad aver scelto la laicità, la Turchia «si trova in una situazione di ponte fra l’Oriente e l’Occidente, fra il continente asiatico e quello europeo, di incrocio di culture e religioni». Il Papa non è però ingenuo: sa bene che questa laicità è fortemente contestata da una larga porzione della società turca di tendenza islamista, e perciò insiste sulla libertà religiosa.

D’altra parte, come per i suoi predecessori, la pace mondiale è la sua preoccupazione maggiore. Benedetto XVI ripete che non può essere garantita che col «rispetto delle decisioni delle istituzioni internazionali», cioè dell’Onu. «La vera pace ha bisogno della giustizia, per correggere le disuguaglianze economiche e i disordini politici che sono sempre dei fattori di tensioni e minacce in tutta la società». Raggiunge così il pensiero di molti intellettuali del mondo islamico, che vedono nelle disuguaglianze economiche e la prepotenza politica le cause maggiore dei disordini mondiali e, in parte, anche del terrorismo.

Nel suo incontro con il ministro per gli Affari religiosi, Ali Bardakoglu, il pontefice ha insistito su ciò che accomuna cristiani e musulmani: «Appartengono alla famiglia di quanti credono nell’unico Dio e che fanno riferimento ad Abramo, secondo le rispettive tradizioni». Quindi abbiamo una comune missione: «Siamo chiamati ad operare insieme, così da aiutare la società ad aprirsi al trascendente», per «offrire una risposta credibile alla società odierna riguardante il significato e lo scopo della vita». Questa testimonianza «ci sospinge a cercare un comune itinerario», alla «ricerca di valori fondamentali»: giustizia, solidarietà, libertà, pace, difesa dell’ambiente e delle risorse della terra.

Per raggiungere questo scopo, ci vuole «un dialogo autentico, basato sulla verità, rispettando le differenze e riconoscendo quanto abbiamo in comune», un dialogo che è «una necessità vitale da cui dipende in gran parte il nostro futuro». Riprendendo una sua idea chiave, il Papa non separa dialogo interreligioso e interculturale. Il dialogo racchiude tutte le dimensioni della vita. Proprio per questo il pontefice ha unificato in un solo dicastero vaticano i due gruppi che si occupano di dialogo (il Pontificio consiglio per il dialogo inter-religioso è stato accorpato a quello per la cultura, ndr). Ecco il fondamento religioso comune, riaffermato da Benedetto XVI: un dialogo in verità, basato sulla dignità della persona umana, sulla conoscenza reciproca, l’affetto mutuo e la fiducia.

Tale è il triplice messaggio del Papa in Turchia: progetto di società laica rispettosa della società civile come dei credenti; impegno per la pace basata sulla giustizia e la legalità internazionale; solidarietà tra credenti per testimoniare i valori della trascendenza in un mondo secolarizzato.

di Samir Khalil Samir
Gesuita e islamologo

Mondo e Missione/Gennaio 2007

Martedì, 06 Febbraio 2007 16:14

DA “PERSONA INDESIDERATA” A GRADITO OSPITE

DA “PERSONA INDESIDERATA” A GRADITO OSPITE
“Da Papa indesiderato  è diventato un Papa che ci mancherà”. Questa l’affermazione del noto giornalista televisivo turco Mithat Bereket, che racchiude in sé il sentimento più comune nella popolazione - sia essa musulmana o cristiana – dopo la visita di Benedetto XVI in Turchia. Ed è proprio così: la sua affabilità, la sua umiltà e i suoi gesti semplici ma benevoli, nei confronti delle autorità civili e religiose ma anche della gente comune, dei fedeli cristiani ma anche dei poliziotti, hanno saputo conquistarsi il cuore di tutti. E pensare che, anche tra i cristiani, non pochi erano quelli dimostratisi diffidenti verso questo Pontefice freddo, distaccato, poco amante della Turchia e dei turchi. Nelle case e per strada era comune sentir dire: “L’altro Papa sì che era buono e sorridente, magari fosse venuto tra noi Giovanni Paolo II….Questo non lo vogliamo!” Secondo un sondaggio, del resto, solo il 10% dei turchi ne approvava la visita, il 38% era decisamente contrario, un altrettanto 38% si dimostrava indifferente e il 14% preferì non esprimersi.

Poi ci si erano messi anche i mass media e certe frange estremiste a gonfiare, a criticare, a dare un’immagine distorta e falsata di questo personaggio scomodo e invadente. Sui giornali era uno stillicidio continuo nello sminuire e calunniare questo leader del mondo cristiano, per il discorso pronunciato in settembre a Ratisbona e per aver emesso, ancora da cardinale, un giudizio “pesante” nei confronti di una Turchia che chiedeva di entrare in Europa.

Così ha attanagliato molti la paura che potesse succedere qualcosa contro di lui, che non venisse accettato né tanto meno “perdonato”, che dicesse e facesse cose che avrebbero scatenato un nuovo putiferio.

Tutti si erano già preparati al peggio e diversi cristiani hanno persino rinunciato ad andare a incontrarlo per il timore della propria e altrui incolumità. Ora sono amaramente pentiti. Tutto è andato molto meglio  delle aspettative e sono dispiaciuti di non aver potuto vedere dal vivo quest’uomo così riservato ma attento a ciascuno, sorridente e pacato; di non poter stringergli la mano e ringraziarlo per il coraggio di essersi recato nella loro terra, nonostante tante minacce e proteste.

“La libertà dei suoi gesti ha insegnato anche a non aver paura di vivere pienamente la nostra libertà”, commenta invece chi non si è lasciato intimorire e ha partecipato alla calorosa celebrazione eucaristica ad Efeso, presso la casa della Madonna, sentendosi in un clima molto familiare e sereno. Contento di aver visto quel personaggio così illustre – sempre solennemente bardato e contornato da noti personaggi ecclesiali in un’irraggiungibile Roma, celebrare con tanta semplicità, per quello sparuto gregge di cristiani radunati intorno a lui come ad un affabile parroco.

Così i cristiani – cattolici e ortodossi – si sono sentiti amati, valorizzati, rafforzati. Era proprio quello che si aspettavano e hanno capito subito la sua vicinanza dal momento in cui ha cominciato la celebrazione con il segno di croce e la benedizione pronunciata in turco. Ora ognuno è tornato alla propria quotidianità, alle proprie fatiche e preoccupazioni, ma con una grinta in più.

“Volevamo dimostrare al Santo Padre il nostro affetto e chiedevamo a lui che ce lo ricambiasse in qualche modo, che ci facesse capire che ci è vicino, che siamo nel suo cuore- commenta la giovane Rakel, con uno sguardo luminoso e un sorriso che sprizza gioia -. E ora di questo ne siamo certi. La sera del 29 novembre, quando si è affacciato alla finestra della Nunziatura, dove ci eravamo recati a sorpresa per fargli festa, abbiamo sentito il calore del suo abbraccio, del suo augurarci la buonanotte, nel dirci che sa delle nostre fatiche, ma che lui sarà con noi oggi più di prima. A molti sono venute le lacrime agli occhi. Ora abbiamo una nuova speranza per affrontare il nostro futuro”.

Anche il ritrovarsi tutti insieme – stretti più che mai – nella cattedrale di Istanbul, alternando canti in aramaico, arabo, turco, inglese e latino, ha creato una comunione che già è dono dei ponti che il Pontefice ha voluto gettare durante questa sua visita in Turchia.

Ha sorpreso tutti questa “nuova versione” di Ratzinger. Anche l’incontro con i diversi leader musulmani ha dato una nuova immagine del capo religioso  dei cattolici. Più amabile e amichevole. Ha colpito il suo far propria la frase di Ataturk, posando ad Ankara la corona di fiori sulla tomba del Padre dei turchi: “Pace in patria, pace nel mondo”; ha stupito il suo sventolare con gioia una grande bandiera turca; ha lasciato senza parole la sua preghiera silenziosa fatta alla Moschea blu, congiungendo le mani proprio come fanno i musulmani.

“Oggi va di moda fomentare lo scontro – osserva Antuan, novizio gesuita turco che con gioia ha seguito il Papa passo dopo passo in questa sua visita -. Benedetto XVI ci ha dato un prezioso esempio per comprendere come camminare sulla strada del dialogo. Molti sono ancora i passi che devono essere fatti per arrivare a una piena libertà religiosa in Turchia; sono frutti a lungo termine, ma sono sicuro che non tarderanno a maturare dopo questa visita. Il Papa – conclude – ci fa fatti incontrare e conoscere meglio, nel segno della pace e del rispetto: i cattolici con gli ortodossi e gli armeni; i cristiani con i musulmani, i turchi con gli europei. Ora penso che gli uni abbiano uno sguardo diverso nei confronti degli altri. Questo, per ora, è il frutto più bello”.

di Mavi Zambak
Mondo e Missione/Gennaio 2007

"NE ABBIAMO ABBASTANZA": ORGANIZZAZIONI CATTOLICHE FRANCESI CHIEDONO AI GOVERNI UNA SOLUZIONE AL DRAMMA MEDIORIENTALE

PARIGI. Basta. Basta spargimento di sangue innocente, basta gesti di vendetta, odio e divisione, basta giustificazioni fasulle della comunità internazionale. Il grido di dolore viene dai presidenti e dai responsabili di una quindicina di movimenti ed organismi cattolici francesi, che il 24 novembre scorso hanno rivolto ai governi delle nazioni un appello a riunirsi per mettere fine al conflitto che insanguina il Medio Oriente. Il 15 dicembre scorso, essi sono stati ricevuti all'Eliseo dal prefetto Michel Blangy, direttore del Gabinetto del presidente della Repubblica, da Roch-Olivier Maistre, responsabile degli affari religiosi e da Michel Boche, responsabile del Medio Oriente. Tra i firmatari dell'appello, p. Luc Crepy (presidente della Conferenza francese dei Superiori maggiori), sr. Monique Gugenberger (presidentessa della Conferenza francese delle superiore maggiori), Ghaleb Bencheikh (presidente della sezione francese della Conferenza mondiale delle religioni per la pace), Thérèse Lebrun (preside-rettore della Università Cattolica di Lille), Pierre Debergé (rettore dell'Institut Catholique di Tolosa), mons. Jean-Pierre Grallet (presidente di Giustizia e Pace Francia), mons. Marc Stenger (presidente di Pax Christi Francia), Michel Camdessus (presidente delle Settimane sociali di Francia). Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell'appello, in una nostra traduzione dal francese. (l. e.)
da Adista n°6 del 20 gennaio 2007

ASCOLTO, CONFRONTO, PROPOSTA: PRESENZA CARITAS PIÙ CONVINTA

Il Forum sociale mondiale arriva per la prima volta in Africa. Dopo i diversi incontri tenuti a Porto Alegre (Brasile) dal gennaio 2001 e la tappa di Mumbay (India) del 2004, il variegato panorama delle organizzazioni che cercano alternative all’attuale ordine sociale ed economico mondiale si è dato appuntamento a Nairobi, dal 20 al 25 gennaio 2007 (come gli anni precedenti in concomitanza con il forum economico di Davos, in Svizzera, al quale partecipano esponenti dei governi, della finanza e dell’economia liberista).

Tra i vari organismi che hanno promosso il Fsm vi è

la Conferenza episcopale brasiliana. Anche Caritas lnternationalis ha aderito alle ultime edizioni e nel corso degli anni molte Caritas nazionali hanno visto questa occasione di incontro come importante momento per lanciare il proprio messaggio di solidarietà e cambiamento. Caritas Italiana parteciperà per la seconda volta al Fsm con una delegazione formata da una trentina di rappresentanti delle Caritas diocesane, coinvolte nell’ambito dei percorsi di educazione alla mondialità promossi in Italia.

La presenza al Forum è un’occasione per testimoniare la carità come dimensione essenziale dell’essere chiesa in rapporto al mondo. Il Forum è infatti un luogo privilegiato di ascolto dei poveri, ma anche spazio di confronto con organizzazioni della società civile, ong, associazioni e movimenti di base, esponenti delle differenti religioni.

La partecipazione al Forum è coordinata da Caritas Internationalis, attraverso Caritas Amecea (

la Caritas dell’Africa orientale) e avviene dunque nell’ambito di una rete consolidata. Sarà un’opportunità di confronto con altre reti di persone e organizzazioni, grazie al dialogo e al riconoscimento delle reciproche differenze.

Al Forum di Nairobi Caritas Italiana intende portare una testimonianza sul proprio operato in ambito internazionale, dando voce ai partner locali, in particolare africani, e aprendo una finestra sulle esperienze delle Caritas diocesane italiane.

Guardare con occhi nuovi

Fra i temi proposti, insieme a Caritas Europa, ci sono il rapporto fra migrazioni e sviluppo, la lotta al traffico degli esseri umani, la pace e riconciliazione, la gestione delle risorse minerarie, la mobilitazione della società civile nel dialogo politico. Grazie alla presenza di due operatori a Nairobi, Caritas Italiana sostiene il lavoro preparatorio di Caritas Amecea e della chiesa del Kenya, con cui collaborerà ai seminari sulla lotta all’Aids e sulla cancellazione del debito estero dei paesi poveri.

La realizzazione del Forum sociale mondiale a Nairobi è un’occasione molto importante per parlare del continente e per porre l’attenzione sui gravi problemi che vivono gli africani. Ma è anche un’opportunità per guardare, con occhi nuovi, la realtà dei paesi africani, molto diversi tra loro, confrontandosi con culture, storie, abilità e tradizioni ricchissime. Sarà interessante ascoltare il punto di vista africano sull’attuale sistema economico mondiale e sentire dai diretti protagonisti come riescano a inventarsi quotidianamente un lavoro o un modo per sopravvivere. Sarà un allenamento per vincere gli stereotipi e superare le semplificazioni che spesso accompagnano l’approccio all’Africa.

L’ultimo giorno del Forum rappresenterà una novità rispetto al passato: l’obiettivo è definire un Piano d’azione per il 2007 e 2008, con proposte d’impegno concrete. Un altro mondo è possibile, ripartendo dall’Africa.

di Maurizio Marmo

Italia Caritas/Dicembre 2006-Gennaio 2007

Martedì, 23 Gennaio 2007 11:42

IL VOLTO RELIGIOSO DELL‘ORIENTE

lntervista I A colloquio con l’autrice del «Dio dell’Asia»

IL VOLTO RELIGIOSO DELL‘ORIENTE

Quindici finestre su altrettanti Paesi: dal Xinjiang musulmano alla Mongolia interna dove il Dalai Lama viene venerato in segreto; dalle sciamane della Corea del Sud al culto assassino di Aum Shinrikyo in Giappone. E poi ancora Filippine, Singapore, Malaysia. Indonesia... Nel volume Il Dio dell’Asia la giornalista Ilaria Maria Sala presenta uno spaccato molto originale dell’esperienza religiosa in Oriente.

Perché un libro sul Dio dell’Asia in un momento in cui in Occidente all’Asia si guarda principalmente per il suo peso economico o il suo ruolo politico? Da dove nasce questo interesse per le religioni?

Credo che guardare all’Asia principalmente in termini economici, o politici, riduca la conoscenza che si può avere di questa regione immensa a una didascalia. E’ quello che abbiamo fatto fin troppo: l’Asia come «tigre economica» o patria di quei pretestuosi «valori asiatici» che invaliderebbero l’universalità dei diritti umani. Ho pensato che fosse dunque interessante esplorare in modo più approfondito alcuni dei Paesi asiatici nei quali mi muovo, cercando di dare al racconto uno spessore il più ampio possibile. In questo senso, trovo che osservare in che cosa credono le persone, e in che modo la loro devozione si esprime, consenta di abbracciare con lo sguardo molte delle caratteristiche che compongono una determinata realtà. Per fare un esempio: un Paese complesso e affascinante come il Giappone è stato a lungo analizzato in termini di «miracolo» economico prima, e stagnazione economica dopo. Questo però ha fatto sì che quando ci siamo trovati davanti all’attacco terroristico al gas nervino nella metropolitana di Tokyo non avessimo gli strumenti adatti a capire come, in un Paese tanto moderno, fosse potuta emergere una setta religiosa di tale ferocia.

Dal libro emerge lo sguardo di una persona attenta al fenomeno religioso. Quanto conta il «fattore R» nella definizione dell’identità dei singoli e dei popoli?

L’identità è un terreno sdrucciolevole quant’altri mai….. E ho l’impressione che spesso, quando cerchiamo di definirci, cadiamo in numerosi clichè, o ci intrappoliamo da soli in definizioni delle quali poi ci pentiamo, nelle quali presto non ci riconosciamo più. La religione, invece, offre un «contenitore» spesso sufficientemente ampio da consentirci di essere noi stessi e di aggrapparci ad appigli culturali che forniscono molte risposte nei momenti di transizione o dubbio. Oggi in Mongolia, per esempio, molti dicono: «Sono buddhista perché sono mongolo», il che mi sembra una frase molto eloquente perché pronunciata in un Paese che ha subito per settant’anni un dominio sovietico che diffidava - in modo violento - tanto dell’identità mongola che della religione buddhista. Molto è andato perso, eppure oggi le persone non vivono in modo drammatico la consapevolezza della distruzione culturale che la loro nazione ha subito, dato che pensano che grazie alla ricostruzione dei templi, alla riapertura dei seminari, alla ricostituzione delle biblioteche lamaiste, questo patrimonio possa essere recuperato e reso nuovamente vivo. Lo stesso avviene in molti altri Paesi, anche se di nuovo ci si accorge di come l’identità possa essere un’invenzione - come quando gli uiguri dello Xinjiang, regione centrasiatica sotto dominio cinese, si rifugiano in un islam molto più totalizzante di quanto non lo sia mai stato nella storia locale, per affermare la propria diversità dai cinesi, invasori e atei.

Uno dei temi ricorrenti nel libro è il rapporto fra politica e fedi. In molti casi è un rapporto all’insegna della diffidenza, del controllo, della restrizione... Perché?

Come è risaputo, la fede offre una libertà senza confini. Quante volte abbiamo letto di persone in carcere, o imprigionate da gravi infermità e sofferenze, il cui spirito si libra privo di costrizioni grazie alla forza data loro dalla fede! E questo è sempre un elemento che terrorizza il potere, e quanto più abbiamo a che fare con un potere ossessionato dal controllo, anti-democratico, tanto più questo diffida di cittadini che possano avere anche un altro tipo di lealtà, superiore a tutto quello che è terreno. E’ per la forza della fede che il messaggio cristiano è stato spesso visto come sovversivo, dai tempi dei romani ai giorni nostri nei Paesi dittatoriali, o che un seguace del movimento spirituale Falun Gong, fuorilegge in Cina, è capace di fare astrazione delle persecuzioni e continuare a praticare la meditazione e gli altri precetti di questo giovane culto con una caparbietà che spiazza le autorità.

Cosa colpisce di più una giornalista occidentale in Asia da vari anni rispetto ai fenomeni religiosi incontrati, al netto del facile esotismo?

Direi che senz’altro quello che colpisce maggiormente, oltre all’incredibile varietà dell’esperienza umana, è il modo in cui oggi in Asia l’ipotesi di un progetto politico laico sembri convincere pochi. Il potere cinese Io impone, eppure è giocoforza notare che la quasi totalità dei dissidenti, a parte gli aderenti a Falun Gong, si professano cristiani, o, in rari casi, buddhisti: come se l’idea di un progetto politico innovativo non sia più credibile senza una moralità che sia di natura spirituale, non solo ideologica.

La Malaysia e le Filippine si professano religiose, a livello governativo; stessa cosa fa l’Indonesia, e perfino il Laos, che da Paese ateo e comunista si è voluto tramutare in Paese buddhista e comunista... Per non parlare del culto, strutturato come una religione, che vige intorno ai leader della Corea del Nord: certo, si tratta in alcuni casi di contraddizioni evidenti, ma a mio giudizio proprio per questo rivestono un forte interesse, umano e giornalistico.

Le religioni - tutte - oggi si trovano a fare i conti con la modernità che avanza. Ci sono, a tuo avviso, elementi costanti o rischi «trasversali»? E se si, quali?

Sì, credo che ci siano, e sono legati all‘imponente ubriacatura da materialità, da consumi, che stiamo scambiando per crescita economica. L’altro elemento, a mio giudizio più insidioso ancora, è la presenza ormai costante di un rumore di sottofondo dato dalla televisione, sempre accesa, dalle varie musichette di plastica che sembrano accompagnare ogni pasto, ogni incontro, onnipresenti nelle sale da tè più tradizionali così come negli Starbucks che hanno ricoperto l’Asia. Il rischio che vi avvedo io è che circondarsi di questo brusio sempre più forte e perenne appiattisca tutte le esperienze, in particolare metropolitane. Per quanto riguarda le religioni, è chiaro che questa materialità ossessiva porti a rendere obsoleta, per alcuni, la splendida immaterialità della fede - tranne in quei casi, frequenti, in cui si prega per un arricchimento non spirituale ma tutto materiale... Conto sul fatto che sia una fase passeggera, che anche quest’ossessione con gli oggetti, le «cose», possa essere riassorbita con il tempo, che ci risveglieremo dal nostro intorpidimento catodico...

Leggendo i vari capitoli dedicati alla Cina, emerge la delicatissima situazione dei vari gruppi religiosi (dai musulmani ai tibetani e al Falun Gong). Quanto in Occidente si sa di queste realtà? C’è, a tuo parere, una consapevolezza della situazione?

Decisamente no, ed è un’inconsapevolezza che trovo tragica. Quasi nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, sa che esistono otto milioni di uiguri nello Xinjiang, musulmani e perseguitati. I tibetani sono visti alla stregua dei panda: da proteggere, perché carini, misteriosi e affascinanti, non in quanto persone come noi i cui diritti vengono violati. E spesso molti in Occidente provano una sorta di diffidenza istintiva nei confronti delle religioni, trovano che il governo cinese abbia in questo campo un atteggiamento «razionale», anche se a volte pecca per eccesso di repressione... L’ intera questione è vista in modo riduttivo, con scarsa conoscenza della realtà, il che si traduce in una reale solitudine delle persone, che si ritrovano a vedersela con le limitazioni e persecuzioni di cui sono vittime. Maggiore attenzione internazionale a questi problemi potrebbe portare a una solidarietà più forte, e forse a maggiori pressioni internazionali affinché

la Cina osservi gli impegni che si è presa pubblicamente per rispettare le sue minoranze.

Il diritto alla libertà religiosa fa parte o meno dei diritti umani fondamentali? Oppure dobbiamo accettare la tesi di chi dice che i diritti umani hanno delle variabili «locali» imprescindibili?

I diritti umani, a mio avviso, sono universali, e il diritto alla libertà religiosa è un diritto fondamentale. E non do nessun credito al particolarismo culturale invocato da certi governi repressivi per giustificare atteggiamenti coercitivi. Un indonesiano, un cinese o un italiano soffrono allo stesso identico modo sotto tortura. E l’infondatezza di questo argomento è data anche dal fatto che a invocare tali presunti «localismi» che esonererebbero dal rispettare i diritti umani fondamentali sono sempre e solo i potenti. Mai le loro vittime.

di Gerolamo Fazzini

Mondo Missione/Dicembre 2006

Martedì, 23 Gennaio 2007 11:38

LIBANO, CRISTIANI IN FUGA DALL’INCERTEZZA

Medio oriente

LIBANO, CRISTIANI IN FUGA DALL’INCERTEZZA

La recente, ennesima, fase del conflitto arabo- israeliano ha riportato alla ribalta, con nuova evidenza, il processo di progressivo abbandono del Medio Oriente da parte delle minoranze cristiane. Si tratta di un fenomeno non nuovo, in corso da decenni e riguardante Paesi diversi, ma che rischia di diventare più rapido in seguito alle incursioni israeliane sul Libano, alle distruzioni di abitazioni e di infrastrutture, al rafforzamento delle fazioni radicali (in particolare degli Hezbollah, il Partito di Dio).

La preoccupazione è forte soprattutto tra i vescovi maroniti, la comunità cristiana più forte in Libano: essi temono che di fronte alle distruzioni causate dalla guerra e ai successi del radicalismo islamico, i cristiani abbandonino in massa il Paese dei cedri. In un recente appello, chiedono che le organizzazioni internazionali siano efficienti e rapide nel soccorrere la popolazione, aiutandola ad affrontare la riapertura delle scuole, la mancanza di medicine, i rigori del prossimo inverno. Monsignor Paul Matar, arcivescovo maronita di Beirut, ha dichiarato: «I cristiani vogliono abbandonare il Paese non per paura, ma a causa del futuro incerto». E’ questa impossibilità di prevedere un futuro per sé e per i propri figli che spinge molti libanesi cristiani (spesso la parte più istruita della popolazione) a emigrare verso Stati Uniti, Europa, Africa, nella convinzione di essere di fronte a un deteriorarsi irreversibile delle condizioni di vita.

Il Libano, considerato in passato un rifugio sicuro per i cristiani in Medio Oriente e un ponte tra Oriente «musulmano» e Occidente «cristiano», rischia di svuotarsi dei cristiani. Nel 1932, data del primo e ultimo censimento la popolazione libanese era per il 63% costituita da cristiani, in maggioranza maroniti; il 35% era di musulmani; il 2% di altre minoranze. Secondo stime attuali, i cristiani sarebbero meno del 32%. La loro diminuzione è dovuta a fattori diversi: la nascita dello Stato d’Israele nel 1948 e le conseguenti guerre tra Israele e alcuni Paesi arabi, lo sviluppo del radicalismo islamico, l’indifferenza dei cristiani d’Occidente nei loro confronti. A tutti questi motivi, si sono aggiunti negli ultimi anni l’aumento del costo della vita e l’instabilità della politica libanese.

di Federico Tagliaferri

Popoli/Ottobre 2006

Martedì, 23 Gennaio 2007 11:37

PROFETI A SERVIZIO DI QUESTA CHIESA

PROFETI A SERVIZIO DI QUESTA CHIESA

Un elemento sul quale vale la pena di riflettere - all’indomani del Convegno ecclesiale di Verona - è la percezione diffusa di una distanza, che ancora rimane, fra mondo missionario e Chiesa italiana. L’Italia ha un grande tesoro di «testimoni della speranza» - migliaia di donne e uomini inviati «alle genti» - ma a Verona tale tesoro è rimasto sepolto nel campo.

È un peccato di omissione grave. Una Chiesa che nei documenti addita la «missio ad gentes» come paradigma per la pastorale non può, in un evento importante, che si tiene ogni dieci anni, chiudersi in un orizzonte provinciale, assillata pressoché solo dai problemi di casa sua.

La Chiesa italiana dice di voler «aprire il libro delle missioni» e tuttavia sembra avere una gran paura a imparare dalle Chiese del Sud del mondo. Generosa quanto ad aiuti economici (sempre meno in persone), appare invece poco disposta a ricevere, a lasciarsi interpellare e cambiare dall’incontro con altre realtà.

Non basta, però, lamentarsi. Non me ne vorranno padre Curci, direttore di Nigrizia, autore di un j’accuse circa la scarsa rappresentanza della componente missionaria al Convegno. Non me ne vorrà l’anonimo estensore di un commento su Misna che, dopo aver giustamente osservato che a Verona «è mancata una riflessione profonda sulla vocazione tutta missionaria della Chiesa» e che «dei documenti presentati dagli istituti, fondazioni e movimenti missionari per la preparazione del Convegno non si sono trovate vere tracce negli ambiti di discussione», conclude affermando che «il movimento missionario italiano ha subito un altro smacco». Le rivendicazioni corporative sono sterili, specie se diamo l’impressione di difendere la presenza missionaria in termini di «quote».

Se a Verona la missione è rimasta in ombra, una parte di responsabilità non va attribuita anche al mondo missionario?

A costo di ripeterci: è scarsa la capacità dei missionari di rendere significativa l’esperienza in missione e di tradurla in termini «pastoralmente e culturalmente rilevanti».

Da un lato, sentendo alcuni missionari parlare, mi pare che sia spesso insufficiente il grado di conoscenza effettiva della realtà ecclesiale italiana di oggi. (Qualche esempio? Circolano molti stereotipi e banalizzazioni sul «Progetto culturale» e un tema cruciale come la «questione antropologica» è ignorato o misconosciuto). Dall’altro lato, c’è la fatica oggettiva, e per molti aspetti comprensibile, che gli stessi missionari compiono nel rielaborare il proprio vissuto. Più comodo scegliere la via della testimonianza simil-agiografica, con un po’ di aneddoti sdolcinati sui poveri oppure la strada, anch’essa in discesa, della denuncia politica contro le multinazionali, Bush e via demonizzando.

Come rivista vorremmo dedicare un surplus di impegno a  far sì che prenda piede nelle nostre comunità cristiane uno stile di ascolto delle realtà geograficamente lontane, ma assai vicine in termini di problematiche pastorali. Penso a temi quali l’iniziazione cristiana, il catecumenato, la ministerialità della Chiesa, il dialogo con le altre religioni, che oggi appaiono altrettante sfide anche per l’ultima delle parrocchie del Belpaese.

Sarà - questo - il nostro modo di esercitare «profezia», parola di cui spesso ci riempiamo la bocca. Se vogliamo esserlo davvero anche in Italia, a servizio di questa nostra Chiesa, dobbiamo evitare di salire in cattedra o di correre avanti, esigendo che gli altri ci seguano, in tempi e modi che decidiamo noi. Il teologo don Franco Giulio Brambilla a Verona ha detto: «Il Nuovo Testamento non conosce profeti isolati, semmai pionieri che fanno da battistrada e trascinano dietro di sé la comunità credente». Vale per tutti, missionari compresi.

di Gerolamo Fazzini

Mondo e Missione/Dicembre 2006