PROFETI A SERVIZIO DI QUESTA CHIESA
Un elemento sul quale vale la pena di riflettere - all’indomani del Convegno ecclesiale di Verona - è la percezione diffusa di una distanza, che ancora rimane, fra mondo missionario e Chiesa italiana. L’Italia ha un grande tesoro di «testimoni della speranza» - migliaia di donne e uomini inviati «alle genti» - ma a Verona tale tesoro è rimasto sepolto nel campo.
È un peccato di omissione grave. Una Chiesa che nei documenti addita la «missio ad gentes» come paradigma per la pastorale non può, in un evento importante, che si tiene ogni dieci anni, chiudersi in un orizzonte provinciale, assillata pressoché solo dai problemi di casa sua.
La Chiesa italiana dice di voler «aprire il libro delle missioni» e tuttavia sembra avere una gran paura a imparare dalle Chiese del Sud del mondo. Generosa quanto ad aiuti economici (sempre meno in persone), appare invece poco disposta a ricevere, a lasciarsi interpellare e cambiare dall’incontro con altre realtà.
Non basta, però, lamentarsi. Non me ne vorranno padre Curci, direttore di Nigrizia, autore di un j’accuse circa la scarsa rappresentanza della componente missionaria al Convegno. Non me ne vorrà l’anonimo estensore di un commento su Misna che, dopo aver giustamente osservato che a Verona «è mancata una riflessione profonda sulla vocazione tutta missionaria della Chiesa» e che «dei documenti presentati dagli istituti, fondazioni e movimenti missionari per la preparazione del Convegno non si sono trovate vere tracce negli ambiti di discussione», conclude affermando che «il movimento missionario italiano ha subito un altro smacco». Le rivendicazioni corporative sono sterili, specie se diamo l’impressione di difendere la presenza missionaria in termini di «quote».
Se a Verona la missione è rimasta in ombra, una parte di responsabilità non va attribuita anche al mondo missionario?
A costo di ripeterci: è scarsa la capacità dei missionari di rendere significativa l’esperienza in missione e di tradurla in termini «pastoralmente e culturalmente rilevanti».
Da un lato, sentendo alcuni missionari parlare, mi pare che sia spesso insufficiente il grado di conoscenza effettiva della realtà ecclesiale italiana di oggi. (Qualche esempio? Circolano molti stereotipi e banalizzazioni sul «Progetto culturale» e un tema cruciale come la «questione antropologica» è ignorato o misconosciuto). Dall’altro lato, c’è la fatica oggettiva, e per molti aspetti comprensibile, che gli stessi missionari compiono nel rielaborare il proprio vissuto. Più comodo scegliere la via della testimonianza simil-agiografica, con un po’ di aneddoti sdolcinati sui poveri oppure la strada, anch’essa in discesa, della denuncia politica contro le multinazionali, Bush e via demonizzando.
Come rivista vorremmo dedicare un surplus di impegno a far sì che prenda piede nelle nostre comunità cristiane uno stile di ascolto delle realtà geograficamente lontane, ma assai vicine in termini di problematiche pastorali. Penso a temi quali l’iniziazione cristiana, il catecumenato, la ministerialità della Chiesa, il dialogo con le altre religioni, che oggi appaiono altrettante sfide anche per l’ultima delle parrocchie del Belpaese.
Sarà - questo - il nostro modo di esercitare «profezia», parola di cui spesso ci riempiamo la bocca. Se vogliamo esserlo davvero anche in Italia, a servizio di questa nostra Chiesa, dobbiamo evitare di salire in cattedra o di correre avanti, esigendo che gli altri ci seguano, in tempi e modi che decidiamo noi. Il teologo don Franco Giulio Brambilla a Verona ha detto: «Il Nuovo Testamento non conosce profeti isolati, semmai pionieri che fanno da battistrada e trascinano dietro di sé la comunità credente». Vale per tutti, missionari compresi.
di Gerolamo Fazzini
Mondo e Missione/Dicembre 2006