lntervista I A colloquio con l’autrice del «Dio dell’Asia»
IL VOLTO RELIGIOSO DELL‘ORIENTE
Quindici finestre su altrettanti Paesi: dal Xinjiang musulmano alla Mongolia interna dove il Dalai Lama viene venerato in segreto; dalle sciamane della Corea del Sud al culto assassino di Aum Shinrikyo in Giappone. E poi ancora Filippine, Singapore, Malaysia. Indonesia... Nel volume Il Dio dell’Asia la giornalista Ilaria Maria Sala presenta uno spaccato molto originale dell’esperienza religiosa in Oriente.
Perché un libro sul Dio dell’Asia in un momento in cui in Occidente all’Asia si guarda principalmente per il suo peso economico o il suo ruolo politico? Da dove nasce questo interesse per le religioni?
Credo che guardare all’Asia principalmente in termini economici, o politici, riduca la conoscenza che si può avere di questa regione immensa a una didascalia. E’ quello che abbiamo fatto fin troppo: l’Asia come «tigre economica» o patria di quei pretestuosi «valori asiatici» che invaliderebbero l’universalità dei diritti umani. Ho pensato che fosse dunque interessante esplorare in modo più approfondito alcuni dei Paesi asiatici nei quali mi muovo, cercando di dare al racconto uno spessore il più ampio possibile. In questo senso, trovo che osservare in che cosa credono le persone, e in che modo la loro devozione si esprime, consenta di abbracciare con lo sguardo molte delle caratteristiche che compongono una determinata realtà. Per fare un esempio: un Paese complesso e affascinante come il Giappone è stato a lungo analizzato in termini di «miracolo» economico prima, e stagnazione economica dopo. Questo però ha fatto sì che quando ci siamo trovati davanti all’attacco terroristico al gas nervino nella metropolitana di Tokyo non avessimo gli strumenti adatti a capire come, in un Paese tanto moderno, fosse potuta emergere una setta religiosa di tale ferocia.
Dal libro emerge lo sguardo di una persona attenta al fenomeno religioso. Quanto conta il «fattore R» nella definizione dell’identità dei singoli e dei popoli?
L’identità è un terreno sdrucciolevole quant’altri mai….. E ho l’impressione che spesso, quando cerchiamo di definirci, cadiamo in numerosi clichè, o ci intrappoliamo da soli in definizioni delle quali poi ci pentiamo, nelle quali presto non ci riconosciamo più. La religione, invece, offre un «contenitore» spesso sufficientemente ampio da consentirci di essere noi stessi e di aggrapparci ad appigli culturali che forniscono molte risposte nei momenti di transizione o dubbio. Oggi in Mongolia, per esempio, molti dicono: «Sono buddhista perché sono mongolo», il che mi sembra una frase molto eloquente perché pronunciata in un Paese che ha subito per settant’anni un dominio sovietico che diffidava - in modo violento - tanto dell’identità mongola che della religione buddhista. Molto è andato perso, eppure oggi le persone non vivono in modo drammatico la consapevolezza della distruzione culturale che la loro nazione ha subito, dato che pensano che grazie alla ricostruzione dei templi, alla riapertura dei seminari, alla ricostituzione delle biblioteche lamaiste, questo patrimonio possa essere recuperato e reso nuovamente vivo. Lo stesso avviene in molti altri Paesi, anche se di nuovo ci si accorge di come l’identità possa essere un’invenzione - come quando gli uiguri dello Xinjiang, regione centrasiatica sotto dominio cinese, si rifugiano in un islam molto più totalizzante di quanto non lo sia mai stato nella storia locale, per affermare la propria diversità dai cinesi, invasori e atei.
Uno dei temi ricorrenti nel libro è il rapporto fra politica e fedi. In molti casi è un rapporto all’insegna della diffidenza, del controllo, della restrizione... Perché?
Come è risaputo, la fede offre una libertà senza confini. Quante volte abbiamo letto di persone in carcere, o imprigionate da gravi infermità e sofferenze, il cui spirito si libra privo di costrizioni grazie alla forza data loro dalla fede! E questo è sempre un elemento che terrorizza il potere, e quanto più abbiamo a che fare con un potere ossessionato dal controllo, anti-democratico, tanto più questo diffida di cittadini che possano avere anche un altro tipo di lealtà, superiore a tutto quello che è terreno. E’ per la forza della fede che il messaggio cristiano è stato spesso visto come sovversivo, dai tempi dei romani ai giorni nostri nei Paesi dittatoriali, o che un seguace del movimento spirituale Falun Gong, fuorilegge in Cina, è capace di fare astrazione delle persecuzioni e continuare a praticare la meditazione e gli altri precetti di questo giovane culto con una caparbietà che spiazza le autorità.
Cosa colpisce di più una giornalista occidentale in Asia da vari anni rispetto ai fenomeni religiosi incontrati, al netto del facile esotismo?
Direi che senz’altro quello che colpisce maggiormente, oltre all’incredibile varietà dell’esperienza umana, è il modo in cui oggi in Asia l’ipotesi di un progetto politico laico sembri convincere pochi. Il potere cinese Io impone, eppure è giocoforza notare che la quasi totalità dei dissidenti, a parte gli aderenti a Falun Gong, si professano cristiani, o, in rari casi, buddhisti: come se l’idea di un progetto politico innovativo non sia più credibile senza una moralità che sia di natura spirituale, non solo ideologica.
La Malaysia e le Filippine si professano religiose, a livello governativo; stessa cosa fa l’Indonesia, e perfino il Laos, che da Paese ateo e comunista si è voluto tramutare in Paese buddhista e comunista... Per non parlare del culto, strutturato come una religione, che vige intorno ai leader della Corea del Nord: certo, si tratta in alcuni casi di contraddizioni evidenti, ma a mio giudizio proprio per questo rivestono un forte interesse, umano e giornalistico.
Le religioni - tutte - oggi si trovano a fare i conti con la modernità che avanza. Ci sono, a tuo avviso, elementi costanti o rischi «trasversali»? E se si, quali?
Sì, credo che ci siano, e sono legati all‘imponente ubriacatura da materialità, da consumi, che stiamo scambiando per crescita economica. L’altro elemento, a mio giudizio più insidioso ancora, è la presenza ormai costante di un rumore di sottofondo dato dalla televisione, sempre accesa, dalle varie musichette di plastica che sembrano accompagnare ogni pasto, ogni incontro, onnipresenti nelle sale da tè più tradizionali così come negli Starbucks che hanno ricoperto l’Asia. Il rischio che vi avvedo io è che circondarsi di questo brusio sempre più forte e perenne appiattisca tutte le esperienze, in particolare metropolitane. Per quanto riguarda le religioni, è chiaro che questa materialità ossessiva porti a rendere obsoleta, per alcuni, la splendida immaterialità della fede - tranne in quei casi, frequenti, in cui si prega per un arricchimento non spirituale ma tutto materiale... Conto sul fatto che sia una fase passeggera, che anche quest’ossessione con gli oggetti, le «cose», possa essere riassorbita con il tempo, che ci risveglieremo dal nostro intorpidimento catodico...
Leggendo i vari capitoli dedicati alla Cina, emerge la delicatissima situazione dei vari gruppi religiosi (dai musulmani ai tibetani e al Falun Gong). Quanto in Occidente si sa di queste realtà? C’è, a tuo parere, una consapevolezza della situazione?
Decisamente no, ed è un’inconsapevolezza che trovo tragica. Quasi nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, sa che esistono otto milioni di uiguri nello Xinjiang, musulmani e perseguitati. I tibetani sono visti alla stregua dei panda: da proteggere, perché carini, misteriosi e affascinanti, non in quanto persone come noi i cui diritti vengono violati. E spesso molti in Occidente provano una sorta di diffidenza istintiva nei confronti delle religioni, trovano che il governo cinese abbia in questo campo un atteggiamento «razionale», anche se a volte pecca per eccesso di repressione... L’ intera questione è vista in modo riduttivo, con scarsa conoscenza della realtà, il che si traduce in una reale solitudine delle persone, che si ritrovano a vedersela con le limitazioni e persecuzioni di cui sono vittime. Maggiore attenzione internazionale a questi problemi potrebbe portare a una solidarietà più forte, e forse a maggiori pressioni internazionali affinché
la Cina osservi gli impegni che si è presa pubblicamente per rispettare le sue minoranze.
Il diritto alla libertà religiosa fa parte o meno dei diritti umani fondamentali? Oppure dobbiamo accettare la tesi di chi dice che i diritti umani hanno delle variabili «locali» imprescindibili?
I diritti umani, a mio avviso, sono universali, e il diritto alla libertà religiosa è un diritto fondamentale. E non do nessun credito al particolarismo culturale invocato da certi governi repressivi per giustificare atteggiamenti coercitivi. Un indonesiano, un cinese o un italiano soffrono allo stesso identico modo sotto tortura. E l’infondatezza di questo argomento è data anche dal fatto che a invocare tali presunti «localismi» che esonererebbero dal rispettare i diritti umani fondamentali sono sempre e solo i potenti. Mai le loro vittime.
di Gerolamo Fazzini
Mondo Missione/Dicembre 2006