Vita nello Spirito

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Domenica, 20 Giugno 2004 17:15

Introduzione alla spiritualità - 2 (a cura di P. Franco Gioannetti)

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Arrivati a questo punto della rubrica "Spiritualità" spostiamo la nostra attenzione ad una tematica che è in continuazione con ciò che abbiamo finora trattato.Inizieremo a parlare di "Accompagnamento spirituale", facendo riferimento ad un corso di Jean Vanier per un gruppo di formatori.

La spiritualità

a cura di P. Franco Gioannetti

Diciannovesima parte

L'accoglienza della debolezza
di Jean Vanier

Sul tema, dell’educazione alla libertà, quando penso al mondo da cui provengo e al mio popolo (1), mi vengono in mente due cose. La prima è che in ciascuno di noi, in ogni persona che soffre, c’è un'enorme resistenza al cambiamento. Ciò è alla stessa molto bello, perché prova l’esistenza delle nostre radici, ma questa resistenza al cambiamento può essere anche un rifiuto di crescita. Crescere, è avanzare in un mondo sconosciuto, dà insicurezza. E tutta la dialettica dell'essere umano si situa tra la sicurezza e l'insicurezza, tra le radici o i frutti. La grande questione è come trovare le condizioni necessarie perché qualcuno possa evolvere, crescere, e che la sua resistenza al cambiamento possa diminuire.

La seconda cosa, è la libertà di accogliere la nostra povertà. Abbiamo tutti molta paura di toccare la nostra vulnerabilità e la nostra fragilità profonda.

Carl Jung, che conoscete per fama, scriveva questa un giorno ad una donna cristiana: "io vi ammiro, voi, cristiani, perché identificate il Cristo al povero e il povero al Cristo, e quando date del pane ad un povero, lo date a Gesù. Ciò che non riesco a capire, è la difficoltà che avete a scoprire che Gesù è il povero in voi. Quando avete fame di guarigione o di affetto, perché non volete guardarlo? Quando vi scoprite nudi, quando vi scoprite stranieri a voi stessi, quando vi scoprite in prigione e malati, perchè non vedete questa fragilità come la presenza di Gesù in voi?"

Come c'è in ciascuno di noi un’enorme resistenza ai cambiamenti esteriori, cosi c'e' un'enorme resistenza a scoprire la nostra fragilità, le nostre ferite ed angosce più profonde. E d'altronde non si può accogliere la fragilità dell'altro che se si è accolta la propria fragilità.

Nota

1) Per "suo popolo" J. Vanier intende le persone della "Comunità dell’Arca".

 

 


Ventesima parte

La sofferenza di non essere amato
di Jean Vanier

Vi vorrei parlare un po' del mio popolo. E descrivendo le sue sofferenze, descriveremo le nostre sofferenze, perché scopriremo che non c'è molta differenza tra la persona che ha un handicap visibile e quella che crede di non avere handicap.

Abbiamo accolta Enrico cinque anni fa. E' un uomo piccolissimo, cieco, sordo, che non parla e il cui cervello è sicuramente molto deteriorato. La sua famiglia l'ha abbandonato all'ospedale psichiatrico all'età di quattro anni, e già a casa sua dovette vivere l'enorme sofferenza di essere rigettato da sua madre. Quando abbiamo conosciuto Enrico all'ospedale psichiatrico, non camminava, era sempre seduto per terra. Quando passava un adulto, Enrico gli si aggrappava. Tutto il suo corpo, tutto il suo essere, tutta la sua psiche, urlava la sete di essere toccato, di essere portato, di essere amato. Era tale il suo bisogno, da divenire insostenibi1e per l'adulto che cercava di lottare per separarsi da lui. Enrico è un uomo profondamente ferito nel suo corpo, ma la cui più grande ferita è il sentimento terribile di non essere amato.

Un giorno ero seduto in cappella, vicino ad un uomo della nostra comunità, e lo sentivo dire: "Ho il diavolo dentro di me". È molto sorprendente questo termine. Egli voleva dire: "Nessuno si è preoccupato per me, nessuno mi ha amato, dunque non sono amabile; e se non sono amabile vuol dire che ho il male dentro di me, ho il demonio in me".

Il dramma di quest'uomo, come quello di Enrico, è di non aver mai sentito queste parole: "Tu sei il mio figlio diletto, nel quale ho messo tutta la mia compiacenza, la mia gioia". Un bambino è un essere di una fragilità straordinaria. Non può niente da se stesso, la sola cosa che può faro è gridare. È la sua unica difesa.

Per poter crescere il bambino ha bisogno di un intermediario: è il padre o la madre. Se non c’è questo intermediario che gli manifesti tenerezza, il piccolo fa l’esperienza di non essere voluto. Ed in questo momento c’è l’angoscia. Poiché è fragile e senza difese, questo sentimento di non essere amato, abbandonato, lo conduce ad avere esperienza dell’angoscia. Non essere amato è un’esperienza di morte. È molto importante per poi comprendere il mistero dell’angoscia.

 

 

 


Ventunesima parte

Il mistero dell'angoscia
di Jean Vanier

Un po’ di tempo fa, discutevo con degli assistenti all'Arca e ho fatto loro questa domanda: "cosa fate quando siete davanti ad un uomo o a una donna molto angosciati?" Le angosce da noi si manifestano in molteplici modi: violenza, agitazione...Quasi tutti gli assistenti hanno risposto: "Ciò risveglia le mie angosce, divengo anch'io angosciato". Allora ho domandato loro: "Cosa fate, allora, con le vostre angosce?" E la risposta, quasi unanime, è stata: "Mi getto nel lavoro". Ma essere iperattivo di fronte a qualcuno che è angosciato non lo aiuta per niente.  La grande questione per ciascuno di noi è: "che faccio delle mie angosce?" E un'altra domanda si pone immediatamente: "C'è qualcosa di positivo nell'angoscia, che possa divenire fattore di crescita in Gesù Cristo".

Quando un bambino sente di essere una delusione per i suoi geni tori, entra nell'angoscia. La relazione è spezzata. Voi lo sapete, amare qualcuno non è fare qualcosa per lui. Amare qualcuno è, prima di tutto, rallegrarsi che egli sia, e per rallegrarsi della sua esistenza, amare di perdere del tempo con lui. E' questa la preghiera: perdere del tempo con Gesù.

Amare, è rivelare all'altro che egli è bello, rivelargli il suo valore. Insegnare, non è trasmettere delle informazioni all’altro, è rivelargli la luce che è in lui. È il ruolo di un ritiro: non trasmettere delle verità su Gesù, ma rivelare all’altro che queste verità sono in lui.

È drammatico quando un bambino sente di non essere causa di gioia, ma, al contrario, di essere causa di tensioni, di inquietudini e di lacrime. È drammatico per un bambino di sentire che non solo non è amabile, ma che è causa di sofferenza per i suoi genitori. C'è da noi un uomo il cui padre è morto quando il ragazzo era giovanissimo. E sua madre gli ha detto: "quando tuo padre ha scoperto che eri handicappato, ha avuto una crisi cardiaca ed è morto. Ciò vuol dire: "Sei stato tu ad uccidere tuo padre". Sono frasi insopportabili da sentire. Non bisogna stupirsi che delle persone si rinchiudano nella malattia mentale: la realtà è troppo dannosa.

Nella vita comunitaria, c'è spesso un fratello o una sorella che hanno l'impressione di fare arrabbiare tutti, di essere un po’ emarginato. Nella vita di Santa Teresa, c’è quella vecchia religiosa che Teresa ha finalmente cominciato ad amare. Quella vecchia religiosa aveva un temperamento da “porcospina”: di quei temperamenti che ti fanno capire: “non ti avvicinare, lasciami tranquilla”. In una comunità, c’è sempre qualcuno che mette attorno a sè delle barriere, da cui non riesce ad uscirne, e il pericolo, per noi, è di lasciarvelo. In realtà essi stanno urlando per essere amati, ma hanno una paura blu di essere amati, perchè essi dicono: “Se qualcuno si avvicina a me, e comincia una relazione, scoprirà ciò che sono e mi rifiuterà; io non sopporterò di essere rifiutato ancora una volta, perciò è meglio che non avvii nessuna relazione, per non avere il rischio dell’abbandono”. Queste sono persone che hanno sofferto troppo di ripetuti abbandoni.

Quando un bambino si sente abbandonato, solo, non amato, di fronte ai suoi limiti, entra nel mondo dell’angoscia. L’angoscia si traduce in abitazione interna: non si dorme più o si dorme tutto il tempo, non si mangia più o si mangia troppo, si ha l’impressione di avere un enorme buco all’interno di sè. L’angoscia è un sentimento insopportabile, che ha numerose conseguenze. Una di queste è la confusione. Si diviene incapaci di prendere una decisione, di fare un progetto. L’angoscia ci taglia dalla nozione del tempo. Non si ha più controllo sull’immaginazione. Si prende ad odiare il proprio corpo, di cui si ha un’immagine negativa. L’angoscia è una cosa talmente spaventosa che il bambino è obbligato a trovare dei mezzi per soffocare o diminuire questo sentimento di agitazione interna. È la nascita della malattia mentale: si creano delle barriere interne, per soffrire un po’ meno di angoscia. E il più dolorosa, da un certo punto di vista, è che il bambino abbandonato non può mai accusare i suoi genitori: è sempre colpa sua.

 

 

 


Ventiduesima parte

Portare la fragilità
di Jean Vanier

Mi ricordo di un nostro psichiatra che, parlando di un uomo molto perturbato, che aveva sofferto enormemente per rigetti nella propria vita, diceva: "quest’uomo si sente colpevole di esistere".

È l’attitudine delle persone che sentono di essere dannose dappertutto. Non possono immaginare che qualcuno le possa apprezzare. Hanno il sentimento che nessuno le possa amare, sono dei "poveracci" (dal francese "moche", cioè dei "poveri tipi", "brutte cose" "persone da poco" "bruttaccio", ecc.). nessuno può vivere con il sentimento di non valere niente. Allora sono gli altri a divenire "cattivi" ai suoi occhi: è questo il momento in cui nasce la condanna degli altri.

Vivendo con persone che hanno pesanti handicaps e che sono difficili da accettare, scopro che ciò che è più profondo in noi è il bisogno di essere perdonati, di essere amati nella nostra fragilità, nella nostra piccolezza.

La storia del figliol prodigo è una storia molto efficace. Il figlio più piccolo si identifica per un momento con i maiali ed è quando lui si è identificato con essi che inizia a sognare i servi della casa del padre, che sono trattati meglio di lui.

Quando avete davanti una persona fragile, bisogna vedere in lei qualcosa di bello, per dirle che è bella. E non è che quando è convinta che voi la vedete bella che può accettare di avere qualcosa di brutto (des trucs moches) in lei. Voi non potete mai fare un rimprovero a qualcuno, se questa persona non è assolutamente sicura che l'amate. Altrimenti ciò che è debole (moche) in lei, diviene barriera all'amore. E molte persone oggi portano in loro questa colpevolezza di esistere. Nelle nostre comunità, si può aumentare la colpevolezza delle persone aspettandosi troppo da loro, provando loro che non valgono niente("moche") perché sono incapaci di rispondere a tale attesa. Tutto il problema, è come aiutare le persone ad essere imperfette senza colpevolezza, ma facendo loro scoprire che sono in una dinamica di crescita. Come aiutarle a fare questo passaggio da un'immagine ferita di se stesse, ad un'immagine positiva. È il passaggio dalla sterilità alla fecondità. Si è obbligati ad approfondire questa nozione di sterilità, perché l'essere umano non può vivere sterile. Sterilità ed angoscia sono molto vicini.

Il bambino ha bisogno di un intermediario che l'aiuti a crescere, a non avere paura degli altri, dell'universo e a poter progredire. Il ruolo di questo intermediario è di portare la sua fragilità. Penso che quando qualcuno entra in monastero, voi, come maestri e maestre dei novizi, siete là per portare la loro fragilità.

Portare la fragilità è la speranza dell'invio. L'essere umano ferito ha bisogno di essere portato nel palmo della mano, altrimenti è invaso dalla sua fragilità e debolezza, e perde fiducia.

 

 


Ventitreesima parte

Gesù è il pastore che ci porta nel cavo della mano
di Jean Vanier

Di che cosa ha bisogno Enrico? Lui che non capisce, non vede, l'unico linguaggio che può imparare è il linguaggio del corpo, la qualità del toccare. L'angoscia ha penetrato tutto il corpo, che è iperteso. Quando si è amati, accettati, apprezzati, si è distesi, si sta bene nella propria pelle. Quando non ci si sente amati, si è tesi. Bisogna che Enrico scopra di essere amato attraverso il suo corpo. Ciò implica che noi passiamo molto tempo con il suo corpo, e che il nostro toccare gli riveli di essere bello, che si ha fiducia che lui può crescere.

È per mezzo del tatto che un bambino scopre di essere amabile. È la sua prima identità: "mamma e papà mi amano, sono contenti quando io ci sono". Tutto il mondo vicino al bambino gli rivela la sua bellezza, gli rivela la sua gioia per la sua esistenza. È un'esperienza molto forte. Affinché questo cambiamento da immagine negativa ad immagine positiva possa avvenire, bisogna che da qualche parte ci sia questa rivelazione: "Si è felici che tu ci sia". E questa rivelazione passa prima di tutto attraverso il corpo.

Molte poche persone hanno coscienza della bellezza del loro corpo, della sacralità del loro corpo che è tempio dello Spirito Santo. Il nostro corpo è un regalo che ci è dato perché possiamo amarci. La bellezza del corpo è la sua fragilità. Il nostro corpo è qualcosa di talmente straordinario, di talmente bello, che Gesù ha voluto averne uno.

Bisogna che noi riveliamo ad Enrico la bellezza del suo corpo. Ma non bisogna andare troppo svelti. Bisogna che egli scopra da se stesso di essere amato nel suo corpo e di essere capace di donare gioia.

 

 

 


Ventiquattresima parte

La crisi: un dono di Dio
di Jean Vanier

Vorrei dire una parola sulla crisi o sull'esplosione di violenza. Penso ad un assistente che proprio poco tempo fa, dopo lunghi anni di presenza, è ad un tratto entrato in un modo molto critico, molto nero: una grande perdita di energie, una rimessa in causa del suo celibato, delle grandi angosce e cose del passato, che egli arrivava più o meno bene a portare, risalendo alla superficie. In situazioni come quelle, si è molto poveri, perché quando l'angoscia invade una persona, non c'è più legge. E poi, per grazia di Dio, quell'assistente ha potuto vivere un ritiro di sette giorni, accompagnato da un prete molto disponibile all’ascolto, e l'ultimo giorno egli ha ritrovato una sorte di pace.

Credo che sia molto importante vedere la crisi come un dono di Dio. È una rivelazione di ciò che si è e che fino al presente si era nascosta a se stessi e agli altri, attraverso forze vitali e un diverso modo di vivere. All'improvviso è come un'esplosione che ci fuorvia. Bisogna vedere la crisi come qualcosa di molto importante a tutti i livelli: umani e divini. Non si progredisce senza crisi e non bisogna cercare di soffocarla per paura di una troppo grande rimessa in causa.

Bisogna essere convinti che la crisi è un dono di Dio, che è un passaggio che obbligherà la persona a situarsi ad un altro livello. Credo che il figlio prodigo abbia scoperto qualcosa che il figlio maggiore non scoprirà mai. Ha scoperto che era stato amato nella sua povertà. La crisi è molto spesso la presa di coscienza della nostra povertà.

Quando guardate la storia del Popolo Ebreo, vedete che è una storia di crisi, di fedeltà, di infedeltà, di perdono, e se non ci fossero stati quei momenti di crisi spettacolari, non ci sarebbe stato molto spazio perché la provvidenza si potesse manifestare. Credo che le manifestazioni di dio si facciano intorno a crisi, esplosioni, rotture, perché è la nostra realtà umana. Bisogna che noi siamo convinti che Gesù chiama a seguirlo non dei santi, ma dei peccatori, delle persone spezzate, fragili, che siamo noi.

La crisi è rivelatrice della fragilità. È il passaggio attraverso cui si faranno le guarigioni più profonde.

Nelle nostre comunità, quando si accoglie qualcuno dall'ospedale psichiatrico, i primi mesi di solito trascorrono non troppo male, fino al giorno in cui gli si dice che è accettato definitivamente. Ci sono delle persone che sanno tenere il campo fino al giorno in cui sono accettate. Quando si accoglie qualcuno che ha subito delle sconfitte, dei rigetti, qualcuno che conosce la propria fragilità, egli vive delle tensioni enormi prima dell'accettazione definitiva, poi si distende e lascia libero corso alle crisi. E ci si trova davanti la dolorosa realtà della persona.

 

 

 


Venticinquesima parte

La crisi: un dono di Dio (2)
di Jean Vanier

Vi sto per raccontare una storia che non è vera, ma che fa comprendere ciò che voglio dire.

Si tratta di una donna che visitava una prigione; incontra un prigioniero che nel corso della conversazione le dice: "Non ho visto nessuno che mi abbia ascoltato come lei". Alla seconda volta egli le racconta la sua storia e le dice: "Vi dico cose che non avevo ancora raccontato a nessuno". Nella terza visita egli dice di sentirsi cambiare dentro di sé, e dopo alcune visite afferma di voler sapere qualcosa su Gesù. E poi, alla decima visita, cade innamorato.

Qual è stato l’errore di quella donna? È stato che, invece di parlare delle esigenze della vita, di suo marito, dei suoi figli, ecc., si è lasciata abbindolare dall’appello affettivo dell’altro.

Quando intavolate un dialogo non siete liberi di fare qualsiasi commento. Voi avete delle esigenze. In quanto formatori-educatori non potete essere al servizio di uno del gruppo in particolare. Dovete essere di tutti coloro che fanno parte del gruppo che state seguendo e dovete anche tenere sempre presenti le vostre esigenze.

Se un giorno lasciate cadere le vostre esigenze per essere più vicini alla persona singola, rischiate di ingannarla per accogliere non importa chi e non importa come. Bisogna essere di un’onestà estrema e di un’estrema verità nell’accoglienza! Bisogna che siate molto vicini alle persone, ma unicamente per discernere con loro se è davvero quello il loro posto. È per questo che molto presto occorre che essi ne conoscano le esigenze.

Ho dato questo esempio perché la persona angosciata ha un modo di intrappolare che è fantastico, e qualche volta si è davanti ad un vero combattimento.

 

 

 


Ventiseiesima parte

La crisi: un dono di Dio (3)
di Jean Vanier

Succede che la persona che sembrava più in crisi è quella che deve restare, perché è quella che sta conducendo un combattimento interno difficile. È per questo che quando siete davanti a quelle esplosioni bisogna armarsi. È evidente che lo spirito del male fa di tutto perché un contemplativo non si radichi. Non ha alcun interesse che qualcuno resti. E quando si cresce nell’amore, si diviene sempre più fragili.

Il giorno in cui c’è stata l’esplosione, in cui c’è stato un corpo a corpo che è sempre sgradevole, la persona si calma; ella sa di essere amata. Ha avuto un’esplosione, ma questa esplosione è stata contenuta. La persona ha ormai meno paura di se stessa. Immagino che ciò non succede così da voi, ma ci sono delle cose analoghe: ad esempio, quando un novizio esce sbattendo la porta, che cosa fate? Lasciate cadere la cosa o gli correte dietro? Quando qualcuno fa una grossa sciocchezza, c’è un luogo in cui l’affrontate? Quando qualcuno comincia a fare delle cose irrazionali, bisogna che voi vi manifestate. Non si ha il diritto di lasciarlo così, altrimenti ciò aumenterà fino al giorno in cui egli saprà che nessuno lo ama ed egli si chiuderà nella sua malattia mentale. Quando qualcuno inizia a fare delle sciocchezze, si è pronti ad entrare nella lotta? Si è pronti ad entrare nel combattimento, forse un combattimento contro gli spiriti del male, perché l’angoscia è un luogo in cui lo spirito del male può facilmente entrare. È un luogo in cui c’è molta agitazione, in cui non si vede più chiaro. Nel Vangelo è scritto che satana entrò nel cuore di Giuda. Giuda era sicuramente in uno stato di angoscia. Quando qualcuno è angosciato può presto creare della zizzania. Quando il popolo giudeo si è messo a mormorare contro Mosè, ciò si è esteso...L’angoscia è un luogo privilegiato perché vi entri lo spirito del male. Ma, per grazia di Dio, si scopre pure che l’angoscia può essere il luogo dell’incontro con Gesù.

Nel libro "Anna et Mister Good", Anna dice: "Tutta la mia vita ho fuggito il sentimento della solitudine, d’isolamento, fino al giorno in cui ho scoperto che Dio era nascosto nella ferita del mio isolamento"…

 

 

 


Ventisettesima parte

Accogliere l'altro
di Jean Vanier

Perché qualcuno come Enrico, che vive nel mondo dell’angoscia, esca dal proprio isolamento, bisogna che qualcuno gli tenda la mano, e non solamente la mano ma anche il cuore. Accogliere qualcuno non è semplicemente aprire la porta, è essenzialmente aprire il cuore per dargli spazio. Enrico ha bisogno di trovare un luogo in cui potersi riparare, e questo luogo è il cuore di un’altra persona. La persona che è nell’angoscia è isolata. Ella aspetta di trovare questo spazio all’interno di qualcun altro, per scoprire di non essere sola. Questo passaggio da una coscienza negativa di sé ad una coscienza positiva, prenderà del tempo. Più qualcuno è ferito, più ha difficoltà a credere che si possa amarlo, e più egli proverà la persona per vedere se la ama veramente, perché non crede più alla parola, gli si è troppo mentito!

Questo bisogno di provare l’altro è qualcosa di molto profondo. Non si dà fiducia a non importa chi o non importa come, soprattutto quando si è stati ingannati una volta. Colui che è stato ferito ha una specie di fiuto dell’ipocrisia. Si parla di “psicologia del doppio messaggio”. Quando si sente un doppio messaggio, si perde fiducia. Mi spiego: un giorno, in Canadà ho auto un’intervista televisiva con dei giovani. Lo scopo dell’intervista era di far parlare i giovani delle loro esperienze. Erano dei giovani di 15-16 anni, che erano stati scelti a causa del loro passato difficile e doloroso. Ho iniziato ad abbordare i soggetti meno pericolosi, per arrivare ai problemi più dolorosi: la sessualità, la droga, le relazioni con i genitori. Si è abbordata la questione della droga e sui cinque o sei giovani presenti, tre avevano preso la droga. Ho chiesto loro come avessero vissuto ciò e quale fosse stata la reazione dei loro genitori. I genitori erano stati molto scontenti, in collera. Allora ho posto questa domanda: “Qual’è stata la reazione di fronte alla reazione dei tuoi genitori?” uno dei giovani mi ha guardato con una sorte di collera e mi ha detto: “Con quale diritto mio padre poteva parlarmi della droga, lui che era un alcolizzato?” era insopportabile per quel giovane toccare il doppio messaggio di suo padre che gli diceva: “sei un bruto perchè prendi la droga”, quando lui è un alcolizzato. Se suo padre gli avesse detto: “Figlio mio, io sono prigioniero dell’alcool, non fare come me”, ciò sarebbe stata la verità. Ma egli diceva una cosa e ne faceva un’altra.

Il doppio messaggio è molto sottile nel mondo religioso..

 

 

 


Ventottesima parte

Accogliere l'altro (2)
di Jean Vanier

Una povera donna viveva in una bidonville di San Paolo. In quella bidonville c'era molta prostituzione, violenza, e ogni giorno la donna scriveva alcune cose su dei pezzetti di carta. Un giorno i pezzetti di carta furono trovati e pubblicati. Ed ecco ciò che era scritto: "Oggi, domenica, è venuto il prete a dire la Messa. Ha predicato dicendo che Dio ama moltissimo i poveri. Come può succedere che Dio ami talmente i poveri, se il suo ministro non trascorre che una mezz’ora alla settimana con loro?" E’ un doppio messaggio: come può il prete, che sostituisce Dio, affermare che Dio ama i poveri se lui stesso desidera partire al più presto?

Colui che è ferito vuole sapere la concordanza o la discordanza che esiste tra la parola e la realtà. Il povero prova la relazione. E' per questo che occorre del tempo. Ma quando scopre di essere amato, allora, a poco a poco, questa immagine ferita di se stesso si trasforma. Uno dei primi segni di trasformazione che vediamo da noi, è quando la persona che ha un handicap, non dice più "io" e "voi", ma dice "noi". Non è più esclusa, appartiene agli altri, ha una famiglia. Nel vangelo di San Marco è scritto che Gesù amò e guardò il giovane ricco. Attraverso lo sguardo di Gesù, il giovane ricco ha avuto l'esperienza di essere amato. E questa esperienza non verbale è stata confermata dalla parola. Nell'amore c'è sempre il gesto e la parola. E' come nel sacramento: il gesto è confermato dalla parola.

Quando qualcuno scopre di essere amato, che la sua persona con tutte ciò che ha di più intimo, con tutte le sue fragilità e povertà è amato, tutto cambia. Ma spesso non ci crede.

La grande questione per l'Arca è: chi dovrà dare questo amore? Chi può diventare l'amico del povero, di colui che appartiene ad un'altra cultura, che ha altri interessi? Normalmente, si ha molta paura delle differenze. Il miracolo della comunità cristiana è che la differenza non è più un pericolo, ma un tesoro.

Come aiutare l'assistente a fare questo passaggio?

 

 

 


Ventinovesima parte

Il buon pastore
di Jean Vanier

Aiutandolo a scoprire che cosa significa essere pastore.

Nel nostro mondo che favorisce coloro che sono i primi e lascia da parte gli ultimi, è difficile divenire l’amico di colui che è l’ultimo. Ciò domanda un capovolgimento totale dei valori. Il primo ostacolo viene dai genitori. Bisogna che i loro figli abbiano dei diplomi, una sicurezza. Si sentono dei genitori dire: “E’ un peccato che sia all’Arca, avrebbe potuto fare così tanto bene!”. Per molti genitori il fatto che il loro figlio viva con dei deficienti non ha alcun senso, nessun significato umano. Quasi tutti i nostri assistenti, ad un certo punto, sono stati in conflitto con i loro genitori. E’ raro che dei genitori vedano il valore evangelico di questa vita.

Il più grande passaggio è quando l’assistente scopre il valore che c’è nel portare il fragile nella propria mano, quando comincia a scoprire che cosa significhi essere pastore. Nel decimo capitolo di S. Giovanni, Gesù dice di essere il Buon Pastore perché anche noi diveniamo dei buoni pastori. Chi è il cattivo pastore? Ezechiele ci dice che è colui che non porta la pecora affaticata, che pensa alle sue ferite, che non è vicino al piccolo. Il buon pastore conosce le sue pecore ciascuna per nome, cammina davanti a loro, dona la propria vita per esse. Conoscere il nome di qualcuno è conoscere il suo posto nella comunità, nella Chiesa, è riconoscere il suo dono; se questa persona non ci fosse ci sarebbe un vuoto. Conoscere il nome di una persona è riconoscere la sua chiamata, è conoscere la sua bellezza nascosta, raggiungerla nel suo segreto. E questo non avviene subito. Quando si accoglie qualcuno nelle nostre comunità, serve del tempo per conoscere il nome ed è solamente il giorno in cui si è scoperto il suo nome, il suo posto, la sua fecondità, che lui ha veramente scoperto la propria terra.

Quali sono le qualità proprie di un pastore? La sua qualità essenziale è di amare. Amare un altro è dono di Dio, soprattutto quando in lui c’è qualcosa che ci minaccia o che non ha speciale attrazione; amarlo e potergli rivelare il suo dono.

Una cosa che si fa di tanto in tanto nelle nostre comunità, è di riflettere tra assistenti di uno stesso focolare sul dono di ciascuno, di ogni persona che ha un handicap. Si cerca di vedere insieme ciò che essa apporta alla comunità. Spesso è difficile per una persona da sola, ma insieme si riesce a trovare. Spesso anche, quando qualcuno nella comunità va male, ci si ritrova tra alcuni dei responsabili per riflettere insieme su ciò che si potrebbe fare per la tale persona e lo si fa con spirito di unità, d’amore e di tenerezza. E molto spesso qualcosa è cambiato nella persona unicamente per il fatto che se ne sia parlato insieme, anche a sua insaputa a volte. In diverse occasioni si stava parlando insieme di qualcuno, e questa persona ha telefonato senza sapere che si stava parlando di lei. Essere là semplicemente per riflettere insieme, scoprire il dono della persona, la sua sofferenza, ciò che si potrebbe fare.

Lo specifico della persona angosciata, è di cercare di creare una breccia, di dividere, è il modo di guarirla è di fortificare l’unità attorno a lei.

E’ importante che viviate l’unità tra il maestro o la maestra dei novizi e l’Abate o l’Abbadessa, perché possono avvenire cose molto sottili tra i novizi, anche senza che essi stessi lo sappiano, per scovare le divisioni ed aggravarle.

E’ per questo che l’unità è il tesoro della comunità. E quando ci sono delle divisioni tra il maestro e l’abate, o nelle comunità, bisogna fare di tutto per ritrovare l’unità perduta: cominciare a dialogare, affrontare le situazioni; ciò obbliga talvolta a penetrare in un mondo di violenza, ma non si può lasciare a lungo la comunità nella divisione, perché se c’è divisione non c’è più fecondità. I genitori generano il loro bambino nell’unità, non nella divisione. E affinché una comunità sia un luogo di crescita, di tenerezza e d’amore, l’unità è indispensabile. Il ruolo dell’Abate, dell’abbadessa, è di essere il custode, la custode dell’unità e artigiani di pace. Un grande ruolo del pastore è di essere artigiano di pace.

 

 

 


Trentesima parte

L'ascolto
di Jean Vanier

La qualità dell’amore si manifesta attraverso la qualità dell’ascolto. Non è facile ascoltare: ascoltare, può forse essere arrestare qualcuno che parla, perché ci sono persone che dicono non importa che a causa dell’angoscia. C’è tutta una saggezza nell’ascolto. Ascoltare è dare spazio all’altro all’interno di sé, per accoglierlo, accogliere la sua parola, accogliere ciò che dice. Accogliere l’altro è lasciarlo penetrare all’interno di sé. Una delle cose che bisogna evitare quando qualcuno apporta un problema, è di dare soluzioni. Si ha sempre la tendenza, quando si è in autorità, a dare soluzioni o a volerne dare, quando, in realtà, ciò che la persona vuole non è una soluzione, ma la compassione. Lei vuole sentire: “io non ho soluzioni, ma ciò che vivi è importante e io sono pronto a camminare con te”. Dare una soluzione può essere un rinvio: “va dal medico, va a vedere un’assistente sociale, fa questo”. Ciò di cui la persona ha bisogno è l’amicizia, l’accompagnamento e l’ascolto. E quando si è pastore, si tratta di chiedere questa grazia, questo dono, questa saggezza dell’ascolto e di imparare a comprendere il linguaggio dell’altro. Si tratta di comprendere il linguaggio di Enrico che non è capace di un linguaggio verbale, è il linguaggio del grido, degli occhi, del viso.

Immagino che i monaci e le monache abbiano un loro linguaggio. Immagino che in un monastero ci sia il linguaggio per dire ciò che va male, o quando si è in crisi. Può accadere che non si abbia la possibilità o la voglia dire “sto male”, allora si trova il modo di dirlo: si sbatte la porta. Si tratta di essere molto attenti ai diversi linguaggi: il linguaggio del corpo vuol dire qualcosa e bisogna che sia compreso. Il linguaggio del grido non deve mai essere preso come qualcosa che disturba. Il grido è essenzialmente un messaggio da decodificare. Quando si sente gridare qualcuno, non bisogna dire: “è terribile”, ma bisogna domandarsi: “cosa vorrà dire?”.

Il ruolo del pastore è di essere attento alle grida, alla porta che sbatte. E’ attraverso il grido che la persona scopre se è, o non è amata. Il mio grado ti disturba o sei capace di ascoltarlo? Sono abbastanza importante per te? E’ in ciò che la persona scoprirà se sta di fronte ad un pastore o ad un mercenario. Il grido disturba il mercenario perché questo vuole l’ordine. La differenza tra un padre e un sorvegliante è che il sorvegliante cerca l’ordine. E se l’ordine è disturbato, il sorvegliante si disturba. Il padre vuole il bene di ciascuno dei suoi figli. L’ordine in quanto tale non gli interessa se non quando è al servizio delle persone. La regola è per le persone; non può essere un assoluto per se stessa. Quando qualcuno sta male, va contro l’ordine, scompiglia la legge, la regola, per manifestare il suo bisogno di incontrare il padre, perché il padre è sempre simbolo della legge.

 

 

 


Trentunesima parte

Il perdono
di Jean Vanier

Uno dei ruoli propri del pastore e del padre, è il perdono. Una delle funzioni di colui che è in autorità è ricevere l’aggressività. Tale aggressività può avere molteplici origini. Può venire dal fatto che il monaco, da piccolo, ha avuto delle difficoltà con suo padre, con l’autorità, e sta rigiocando ciò che non ha potuto vivere con suo padre e sua madre. E ciò andrà contro l’autorità nella comunità. Quando l’autorità è attaccata, bisogna sapere che non è sempre lei ad essere attaccata, ma qualcun altro: il padre, la madre, un’altra autorità.

La paternità è la liberazione del dono, ma troppo spesso le persone si sono trovate di fronte al paternalismo e non alla paternità. Il paternalismo è imporre qualcosa per mantenere il mio prestigio, il mio posto; è un bisogno affettivo che l’altro resti bambino. La paternità è orientata verso l’invio, è liberatrice. Il ruolo del padre è di liberare i doni del figlio e di rallegrarsene. La paternità è la scoperta che il figlio è differente dal padre; e ciò è spesso molto difficile per il padre, che vorrebbe suo figlio fatto a propria immagine; e quando il figlio fa delle cose differenti dal padre, il padre vede spesso ciò come un pericolo.

Le persone hanno spesso subito un’autorità soffocante, hanno avuto un’esperienza dell’autorità come un pericolo. Molti giovani hanno vissuto sia l’assenza del padre, oppure un padre paternalista che non ha avuto fiducia in loro e li ha soffocati. Non hanno avuto l’esperienza di una paternità liberatrice. Allora, necessariamente, l’autorità riceverà dei colpi. E’ il suo ruolo. Non si cercherà di uccidere l’autorità, perché ce ne sarebbe un’altra, ma si cercherà di ferirla, di diminuirne il potere.

Quando in una piccola comunità nessuno è responsabile, sono sempre i piccoli e i più deboli ad essere oppressi.

Divenire padre è molto esigente: è portare l’altro. Il ruolo del padre è fondamentale nella trasformazione dell’aggressività in tenerezza.

 

 

 


Trentaduesima parte

Il dono della fiducia
di Jean Vanier

Gesù dice: “colui che beve di quest’acqua, diverrà in lui stesso sorgente zampillante per la vita eterna”. Lo zampillare dell’acqua si fa ad una certa profondità e per raggiungere la sorgente bisogna talvolta usare la dinamite. Per divenire pastore, bisogna vivere alcuni passaggi: il passaggio più importante è di toccare la propria ferita. Allo stesso modo che non si può essere padre se non si è figlio, non si possono guarire le ferite dell’altro se non si è in contatto con le proprie ferite. Il figlio prodigo ha identificato se stesso ai maiali. Egli non giudica più nessuno. Tutto per lui è misericordia, tutto è grazia. Il figlio maggiore, lui, giudica, perché non ha toccato la propria ferita. Ha creato attorno a sé un mondo di barriere e rifiuta di guardarsi in profondità. Non si può afferrare la misericordia di Dio che al momento in cui si sia toccata la propria miseria. E quando si è toccato la propria miseria, non si può più giudicare nessuno.

La grande qualità del pastore è, avendo toccato le proprie ferite, quella di custodire la fiducia. E’ questa fiducia che trasmetterà all’altro. Ed è così che giungerà la guarigione. Aiuterà l’altro a scoprire che è possibile camminare nella notte, che è possibile vivere con l’angoscia e mantenere la fiducia. S. Paolo dice di aver pregato tre volte perché sparisse la spina nella sua carne ed ha inteso: “La mia grazia ti basta”; “La mia grazia è più forte della tua debolezza, della tua fragilità, della tua piccolezza. Ti amo come sei e ti amerò sempre. E’ ciò che Paolo ha sentito ed è ciò che trasmette. Nella tua povertà, nella tua fragilità, puoi continuare a camminare. Dio è vicino a te, non t’inquietare. Dio non ci guarisce da tutte le ferite, da tutte le nostre angosce. Colpisce molto vedere l’angoscia estrema nella quale Teresa di Lisieux ha vissuto alla fine della sua vita. Desidereremmo sempre un cristianesimo senza croce, ma non è così; desidereremmo sempre delle guarigioni. E’ importante guarire da ciò che impedisce di vivere nella fiducia; ma Dio lascia spesso delle ferite interne, delle difficoltà, e ciò che ci chiede è di continuare a camminare nella fiducia. La fiducia è il grande dono di Dio. Non si può trasmetterlo che quando lo si è vissuto; non si tratta di teoria. Il pastore non parla dall’alto di un piedistallo. E’ colui che può dire: “ho vissuto questo”. Per il pastore è necessario passare attraverso delle sofferenze, portare le sofferenze, per poter vivere la fiducia e perché la sua parola zampilli dalla verità della sua esperienza e non da un libro di spiritualità.

 

 

 


Trentatreesima parte

La debolezza: luogo dell'incontro
di Jean Vanier

Quando Gesù dice agli apostoli: “Andate, guarite gli ammalati, cacciate i demoni, ma non prendete né tunica né argento” è un simbolo: voi non avete niente, e tuttavia io farò questo attraverso di voi.

Quando Gesù dice agli apostoli: “il figlio dell’uomo dovrà soffrire molto, dovrà essere condannato, messo a morte e il terzo giorno risorgere” Pietro non lo sopporta. Prende Gesù a parte e gli dice: “Ciò non potrà succedere”: E per questo Gesù ha una specie di reazione vitale, perché è toccato nel profondo: “Va via da me Satana”. E quando Pietro nella corte del Sommo Sacerdote dice per tre volte: “Non conosco quest’uomo”, in fondo è vero. Non ha mai conosciuto Gesù fragile. Egli ha conosciuto un Gesù che fa risorgere Lazzaro, che moltiplica i pani. Ha conosciuto un Gesù potente ed egli ammirava questa potenza. Non sopporta Gesù debole: tutti i suoi schemi interni, tutta la sua psiche è scossa. Non penso che Pietro sia partito perché aveva paura di essere attaccato, messo in prigione, credo che la cosa sia molto più profonda: egli non sopportava la debolezza, non poteva credere al mistero del Messia sofferente.

Il cinquantatreesimo capitolo di Isaia, che è il capitolo sul Servo sofferente, inizia così: “Chi può credere ciò che noi abbiamo sentito? Il castigo che era caduto su di lui ci ha dato pace”. Maria è vicina alla croce. Ha vissuto l’esperienza della fragilità di Gesù. Lo ha portato nel suo seno, ha sentito il suo grido, è stata la testimone per eccellenza dell’impotenza dell’Onnipotente. E la vera compassione è di essere in legame con la fragilità e di scoprire che è il luogo dell’incontro con Dio. Sant’Agostino, parlando della donna adultera, dice che, al momento del suo incontro con Gesù, la misericordia e la miseria si sono abbracciate. La miseria è divenuta il luogo dell’incontro, come il peccato è il luogo dell’incontro del perdono.

Pietro è stato scosso dalla debolezza di Gesù e tuttavia è a lui che Gesù ha affidato il gregge. Non penso che si possa essere padre o madre, portare delle persone o assumere una responsabilità in comunità cristiane, a meno che non si abbia la certezza che ciò ci sia stato dato. Non è perché noi siano capaci, ma proprio perché non ne siamo capaci, che ciò ci è stato affidato.

La povertà dello spirito è accettare di trovarsi davanti a situazioni in cui non si vedono soluzioni. Il dramma sarebbe di vedere delle soluzioni. Succede che delle persone mi domandino: “Quando un mendicante bussa alla porta, che bisogna fare?” La sola risposta è che non bisogna sapere ciò che bisogna fare, perché se si avesse la soluzione miracolo, non si sarebbe angosciati e non si comunicherebbe più con l’angoscia dell’altro. Il mendicante è un grande angosciato che ha bisogno di trovare qualcuno che comunichi con la sua angoscia. Ed è questa comunione nell’angoscia che fa si che lo si possa avvicinare. Quando si può, è importante vivere nell’angoscia per divenire non degli esseri angosciati, ma degli esseri che dipendono da Dio. Il dramma, quando si sa cosa fare, è che non si ha bisogno di nessuno, né di Dio né degli altri: si resta nella situazione di potere, si ha ragione e l’altro torto. Essere responsabile è non sapere, essere nell’angoscia ma non capitolare: continuare a pregare, a cercare, aiutato dai fratelli.

Vorrei aggiungere una parola sulla relazione-duello. Dio non ha voluto che il bambino fosse allevato in una situazione duello: ci sono sempre due persone, la mamma ed il papà, due sensibilità differenti, unite insieme, poiché la differenza non è una minaccia, ma un tesoro. Come arrivare a questo? La situazione duello è sempre una situazione complessa, di dipendenza e di aggressività. E’ sempre una situazione rompicollo (casse-cou). Nelle nostre relazioni, siamo inviati dalla comunità e la comunità ci rende fecondi. Ma bisogna giocare il gioco di essere questa intermediario tra la comunità e la persona. Questo sembrerebbe semplice in teoria, ma in realtà ciò è complesso, a causa della complicità del nostro cuore e del bisogno della nostra affettività di trovare, in certi momenti, una fecondità umana.

Quando ci si trova costantemente davanti a situazioni difficili, a persone da portare, si pone una domanda: chi porta coloro che portano? Nelle comunità in cui si portano molte persone angosciate, bisogna che si faccia attenzione a sostenere coloro che portano gli angosciati perché quando si portano molte angosce, si diviene angosciati. La stessa questione si pone nelle vostre comunità: chi porta l’angoscia di un maestro dei novizi? Chi porta l’angoscia di un Padre Abate? Il rischio è sempre di abbandonare e di sostituire la legge alla misericordia. E’ ciò che succede in molte comunità in cui il pastore non è più un padre ma un mercenario. E’ molto difficile restare in questa situazione di padre che è di portare la fragilità dell’altro. Un padre è necessariamente qualcuno angosciato. All’esterno, una comunità può avere l’aria di non andare male, ma il padre conosce le divisioni, i blocchi esistono. Il pericolo delle nostre comunità, non è l’orgoglio, ma lo scoraggiamento. Quando si portano delle persone, si è molto vicini allo scoraggiamento, perché non c’è mai riuscita.

Quando entriamo in relazione con una persona che ha un handicap, come arriviamo a trovare la forza di assumere la sua aggressività? Credo che si possa farlo solo se si prende coscienza di un’alleanza che mi lega a questa persona. Dio vuole che camminiamo insieme e che cresciamo nell’amore gli uni verso gli altri e gli uni attraverso gli altri. Gesù permette che nelle nostre comunità ci siano talvolta dei grossi turbamenti perché noi pratichiamo il perdono. Il perdono è il grande dono di Dio all’umanità. Non bisogna mai stupirsi dei nostri peccati, della nostra fragilità, della nostra colpevolezza. In noi c’è il peccato originale. Ciò che costituisce la spiritualità profonda dell’Arca è questa presa di coscienza che Gesù ha legato il mio cuore al cuore di Enrico, che egli vuole che si viva qualcosa insieme, che si sia dei testimoni dell’Amore l’uno per l’altro. Io sono chiamato a portarlo, e lui è chiamato a svegliare il mio cuore.

E’ difficile credere a questa parola di Gesù: “Colui che accoglie uno di questi piccoli in nome mio accoglie me e colui che accoglie me, accoglie colui che mi ha inviato”. La tentazione per noi, è credere che Dio ci chiami a camminare attraverso opere luminose, siano esse di teologia, di liturgia, ecc. e che le opere molto povere e molto piccole non abbiano significato. E’ difficile pensare che l’accoglienza di un fallito è una via privilegiata per entrare nel cuore della Trinità, perché è proprio piccolo, così materiale, così insignificante umanamente parlando! E’ vero per ciascuno di noi. Come credere che attraverso Enrico si possa scoprire il mistero di Dio? Sembrerebbe così lontano dalla luce, così piccolo, così vicino alla materia, com’è possibile che Dio si manifesti attraverso tutto ciò? Ciò che è difficile, nella nostra vita comune, è tutto ciò che è piccolo, quotidiano, povero, i fratelli e le sorelle nella loro mediocrità, e tuttavia è proprio là, in questa accoglienza degli uni e degli altri, in questa accoglienza della mia povertà, che crescerò a poco a poco verso la liberazione. E questa liberazione viene nella fiducia assoluta che attraverso la mia fragilità, attraverso la fragilità degli altri, c’è la presenza di Dio.

Mi piace pensare al tredicesimo capitolo di San Paolo ai Corinzi, quando descrive i carismi: si possono spostare le montagne, parlare tutte le lingue degli uomini, ma se c’è la carità non siamo niente. Che cos’è la carità? E’ essere paziente, accettare tutto, sopportare tutto, credere tutto, sperare tutto. E’ molto povero vivere ogni giorno con qualcuno che è bloccato, e di non cessare di sperare che un giorno verrà il momento della grazia. E’ la che si situa la carità. La carità non è nelle grandi cose che riescono, è in questa povertà del quotidiano in cui si accoglie l’altro. La pazienza implica una continua avversità. E la liberazione si trova nella piccolezza: non fare cose straordinarie, ma fare cose molto ordinarie con un amore straordinario, perché ciò proviene dal Cuore di Dio.

E’ molto sottile il modo di entrare in contatto con qualcuno che è bloccato. Quando si vive in comunità, bisogna essere molto vigilanti perché spesso, per domandare perdono, l’altro fa un piccolissimo gesto.

L’educazione alla libertà è costruire se stessi e aiutare l’altro e fare questo pellegrinaggio all’interno del nostro proprio cuore. E’ un lungo pellegrinaggio, allo stesso tempo meraviglioso e doloroso. Il nostro cuore è molto nascosto in noi. Spesso è la nostra testa che funziona, tutto ciò che è razionale, ragionevole, prudente, e le energie del nostro cuore rimangono ben nascoste.

 

 

 


Trentaquattresima parte

Le fonti della violenza
di Jean Vanier

Per scoprire tutta la ricchezza del nostro cuore e la ricchezza del Vangelo, bisogna che noi lasciamo certe strutture molto valide. La pedagogia di Gesù è una pedagogia dello spogliamento, per penetrare a poco a poco nella povertà dello spirito.

Vorrei parlarvi di questi passaggi e in particolare del passaggio difficilissimo della scoperta dell’odio e della violenza e noi. La scoperta che abbiamo dei nemici e che cerchiamo più o meno di uccidere. Ci sono modi molto sottili di uccidere le persone. Ci sono persone che ne uccidono altre in modo visibile, ce ne sono che uccidono gli altri attraverso la virtù, con il sorriso, distruggendone la loro reputazione. È sottile il modo in cui all’interno di una comunità si possono uccidere delle persone perché ci disturbano. È difficile entrare in questo mondo all’interno di noi.

Si può avere paura della propria sessualità, ma in realtà la sessualità è molto meno dannosa dell’odio. Essa è più vicina alla coscienza, ma si risveglia più tardivamente dell’odio. L’odio è nascosto molto più profondamente nella nostra coscienza ed è difficile scoprire in noi l’aggressione, l’odio, il dominio, tutto quel mondo di violenza che si trova in noi. Quando un assistente arriva all’Arca e vi resta un po’, scopre qualcosa di molto profondo all’interno di sé: il cuore. Molte persone non sanno di avere un cuore capace di dare la vita. È un’esperienza molto forte per un assistente il giorno in cui intraprende una relazione profonda con uno più debole e che questi, con un gesto o un atteggiamento, gli dice: “ ho fiducia in te “. L’assistente non ha molta fiducia in sè, nessuno della sua famiglia e o dei suoi amici ha mai visto in lui una fonte di vita, e all’improvviso qualcuno li dice: “ ho bisogno di te, del tuo cuore “. È la rivelazione di avere un cuore e che questo cuore è fecondo. È lo stesso tipo di esperienza che voi avete quando un novizio ha fiducia in voi e ve la esprime. Egli non ha fiducia per obbedire alla Regola, ma ha fiducia nella vostra persona, nella vostra irradiazione e nel vostro cuore e in una certa misura questo novizio mette la propria vita tra le vostre mani. Quando si scopre che uno più piccolo ha fiducia in noi, si scopre il ministero dell’Amore. Si scopre di amarlo. Si scoprono pure assai presto i pericoli dell’amore, che può divenire possessivo, geloso, ma c’è questa esperienza dell’amore, di portare il più piccolo nel palmo della mano. Questa esperienza così dolce, così meravigliosa, ci rende fragili perché il nostro cuore è preso, non si è più nell’ordine della ragione. La nostra fragilità ci fa toccare anche la nostra capacità di aggressione, di odio e di paura. Questa stessa esperienza può essere vissuta in una relazione tra l’uomo e la donna che rende fragili, fa paura perché queste sono possibilità molto profonde all’interno di noi che sono risvegliate: le possibilità dell’amore. Il nostro cuore è il luogo della nostra fragilità ed è pure il luogo della presenza di Dio. Gesù abita in questa fragilità: è la sua dimora .

E’ molto importante per ciascuno di noi iniziare a penetrare un poco nel mondo della fragilità e della violenza e di scoprire le forme di odio che possono esistere in noi. Le scoprirete in voi, ma anche i novizi avranno delle aggressioni di cui sono molto colpevoli ed è importante decolpevolizzare l’odio, perché nel mondo religioso si perdono molte energie a soffocare l’odio e a rendersene colpevoli. Vi parlo di giovani che, da noi, sono molto colpevolizzati. E’ importante, quando è possibile, poter dir loro: “ se ero te, con ciò che tu hai vissuto, odierei i miei genitori”. Ciò affinché la colpevolezza non sia costantemente su di essi e possano gridare l’ingiustizia! E sarà solamente quando avranno urlato l’odio contro i loro genitori che si potrà dire: “ se i tuoi genitori erano così, anche loro hanno molto sofferto“. Si comprende il perdono nella misura in cui si è scoperta l’aggressione e se si soffoca tutto il tempo l’aggressione, si soffoca pure il perdono. importante gridare l’ingiustizia.

 

 

 


Trentacinquesima parte

La violenza silenziosa
di Jean Vanier

Si è parlato del pastore come colui che riceve l’aggressione. Quando egli la riceve, è molto importante che si interroghi per sapere se l’ha meritata, perché ci sono molte ingiustizie nell’esercizio del potere. C’è ciò che si chiama la “violenza silenziosa”, che proviene dal fatto che non si ama l’altro e che non si è attenti. È la violenza del ricco soddisfatto di se stesso, che non vede il povero. Nella parabola del ricco e di Lazzaro, il ricco è di una violenza estrema verso quel povero che muore di fame e che lui non vede. E sarebbe comprensibile che nascesse nel cuore di Lazzaro, al minimo una grande tristezza, al massimo un’immensa collera. E questa collera potrebbe essere molto grande se Lazzaro avesse un bambino piccolo morente di fame sulle braccia. È insopportabile per il povero affamato aspettare qualcosa dal ricco e che il ricco non gli dà.

Quando un assistente ha delle crisi, è molto facile per noi affermare: “è malato”. È più difficile guardare all’interno di noi e domandarci: “in che misura sono io a provocare questo, per la mancanza di ascolto, per la mia mancanza di tenerezza?” molto spesso il capo è un ricco, perché ha il potere: ha il potere di essere attento o di non essere attento ha il potere di guardare e amare o di continuare il proprio cammino.

Quando si riceve l’aggressione, bisogna portare sempre questa aggressione davanti al SS. Sacramento, per sapere ciò che è messo in causa nel modo di esercitare la nostra autorità. Spesso si possono ferire le persone ed opprimerle attraverso la nostra mancanza di attenzione.

La violenza silenziosa è una violenza molto potente; è la violenza che molti dei nostri uomini e donne hanno vissuto e che noi continuiamo a far vivere con la nostra mancanza di attenzione, la nostra mancanza di amore. È troppo facile condannarli, dicendo che sono malati. Forse siamo noi che siamo malati. Ma siccome noi abbiamo il potere, è sempre l’altro ad avere torto.

Con la parabola del Buon Samaritano, il prete e il levita commettono una violenza spaventosa passando dall’altro lato e non guardando l’uomo bastonato di santa ragione. Si ha paura di impegnarsi, non si sa che cosa fare. Bisogna guardare all’interno di noi stessi tutto questo mondo di violenza del ricco che ha paura di perdere qualcosa, questa resistenza al cambiamento che c’è in noi. Ci sono delle violenze silenziose che sono imparentate con la virtù. I farisei erano degli uomini molto virtuosi, ma in realtà molto violenti.

 

 


Trentaseiesima parte

La violenza: segno di salute
di Jean Vanier

Ci sono altre violenze che sono segni di salute. Ve ne darò un esempio. È una storia avvenuta all’Oise qualche anno fa. Si tratta di una donna vietnamita, che aveva sposato un soldato francese durante la guerra in Vietnam. Aveva lasciato la sua cultura ed era venuta ad abitare all’Oise. Suo marito aveva trovato un lavoro all’ospedale psichiatrico di Clermont ed era divenuto sorvegliante capo del servizio. Dovette parlare al medico psichiatra della pazzia di sua moglie e un giorno il medico segnò un ricovero, d’ufficio, senza aver visto la donna, sul semplice dire del marito, che era un uomo rispettabile. Un’ambulanza sbarcò a casa di quella donna, che fu presa per forza per essere condotta all’ospedale. Essa divenne isterica, urlò, e più urlava, più le persone si convincevano che fosse folle. Le dettero delle medicine molto forti e solamente dopo tre mesi s’accorsero che non aveva nulla. Le sue grida e la sua violenza erano sanissime.

Nella violenza c’è un segno di salute: la persona sta per dire qualcosa forse in modo balordo, ma forse è l’unico modo a sua disposizione per farsi capire. Delle persone sono talvolta obbligate a sbattere fortemente le porte per dire: “ancora non comprendi?”. Nella violenza che c’è in noi, nella violenza che c’è nell’altro, ci sono cose positive. E il grande discernimento è cercare di discernere ciò che è positivo da ciò che è negativo.

Non molto tempo fa ho visitato l’asilo di San Filippo. C’erano un centinaio di uomini in un cortile e un centinaio di donne nell’altro. La metà degli uomini era nuda e camminava in cerchio. Tutto era scassato, disordinato. C’erano degli enormi topi e in un angolo due bare attendenti clienti. Non comprendevo perché le persone non urlassero, fino al momento in cui ho visto tre celle in cui mettevano le persone violente. È un modo molto violento per uccidere l’aggressività. Si può ucciderla anche con medicine. Ma in realtà queste persone avrebbero avuto il diritto di essere in collera, perché quel luogo era insostenibile.

Il giorno dopo ho visto il Ministro della Sanità e gli ho detto ciò che avevo visto all’asilo. Egli era molto imbarazzato e mi ha detto: “vi dò la mia macchina e domani andrete al nuovo ospedale che stiamo costruendo”. Quel nuovo ospedale si trova sulla montagna, a 40 chilometri, e perciò le famiglie non potranno più venire. È un’altra forma di violenza.

Quando le persone si mettono in collera, ci sono dei modi pericolosi di colpevolizzarle. E nel mondo religioso questo modo di colpevolizzare la collera parlando di disunione, parlando del diavolo e del peccato, può essere molto grave. Ci sono delle ingiustizie cose che non sono buone, e che bisogna guardare. Quando un giovane cerca di dire ciò che percepisce come un’ingiustizia, lo fa forse in modo troppo forte, con una certa aggressività. La nostra tendenza è di dirgli “Riposati e andrà meglio”, e di non ascoltare la verità che sta per essere detta. Si può molto presto soffocare la persona dicendo: “questo non è il tuo posto”, quando di fatto è il suo posto, o obbligandola ad essere più saggia e allora si soffoca la creatività di Dio.

Si può soffocare il grido, dicendo che andrà meglio e la vita continua. Ma quando avviene l’esplosione, è troppo tardi, tutto è rotto, spezzato. Si è lasciato passare il momento di grazia, non si è sentito il grido e la storia della chiesa è piena di storie come questa, perché nel mondo religioso c’è l’enorme pericolo di soffocare il grido.

Molti giovani gridano oggi e le loro grida, la loro violenza, la loro ricerca di droga, ci sono perché non hanno trovato nella Chiesa ciò che cercano. Allora partono in India o altrove. Alle porte dei monasteri gravitano persone di grande fragilità, che cercano Dio, ma che sono talmente piccoli, talmente fragili, che non possono entrare nel mondo religioso così com’è; allora cercano e gridano, camminano, entrano negli ospedali e ne escono. Cercano un padre spirituale e non lo trovano. I giovani oggi hanno una sete immensa di sentire parlare di Dio, ma ciò che non vogliono sono le parole. Ne sono rimpinzati. Ciò che vogliono è un’esperienza dell’assoluto e ne muoiono. Se c’è una grande violenza dei giovani in rapporto al mondo religioso, è in rapporto ad un’immagine di Dio troncata, quella presentata dal giansenismo, dal puritanesimo. Essi non vogliono un Dio come quello. La violenza di oggi è che le persone non hanno visto che la caricatura del volto di Dio! Hanno visto la legge, non l’amore. Hanno visto il cristianesimo, non il volto povero di Gesù. Allora il loro cuore è pieno di collera.

Penso a un giovane di famiglia agiata che ha lasciato andare tutto per entrare nel mondo della rivoluzione. Lavora come scopina in un ospedale per essere più vicina ai poveri. Ha molta collera nel suo cuore. Nella sua famiglia ha una suora contemplativa, alla quale è molto vicina, e poi, tra loro due, c’è tutta una serie di buoni cristiani che la giudicano spaventosa. Colpisce molto vedere come, nella sua collera, nel suo odio, nella sua purezza, limpidezza, è vicina a sua sorella contemplativa. La collera di questa giovane è una bella collera, ma non ha trovato ancora il modo di utilizzarla. Nella collera, nel grido, ci sono cose molto importanti da capire.

 

 


Trentasettesima parte

Alla fonte della violenza, una ferita
di Jean Vanier

Mi piacerebbe parlare di una altra forma di violenza che forse non è positiva ma che proviene da un’immensa ferita.

Un giorno, in Canadà, sono andato in una prigione di “alta sicurezza”. In quelle prigioni non ci sono i più cattivi, ma i più maligni, coloro che scappano in fretta. Ero davanti ad un gruppo di 400 uomini e parlavo loro un pò del nostro popolo, della sua violenza, delle sue grida. Ho parlato per tre quarti d’ora, poi un uomo si è alzato, urlando, fuori di sé. Era un grido d’una estrema violenza, che ha creato tensione nel gruppo. Mi ha detto: “Tu l’hai avuta facile! Tu non sai niente di ciò che succede qui! Con che diritto puoi parlare? A quattro anni ho visto mia madre violentata davanti a me; a sette anni sono stato venduto per la prostituzione omosessuale da mio padre, perché potesse bere, e a 13 anni i poliziotti sono venuti a cercarmi. Se qualcun altro viene in questa prigione a parlarmi d’amore, gli darò un colpo di piede in testa”.

Sono rimasto molto pacifico per grazia di Dio e ho chiesto a Gesù di aiutarmi a trovare le parole. Ho potuto dirgli che aveva ragione, che era vero che non conoscevo niente della sua o della loro vita. E gli ho detto: “Ciò che voi dite è importante, e che molte persone vi condannano prima di comprendervi”. E gli ho chiesto: “Mi permettete di ripetere ciò che mi avete appena detto, quando parlerò all’esterno delle prigioni, perché la gente capisca le fonti della violenza?” Ha detto di sì. Allora ho continuato: “Se le persone all’esterno hanno bisogno di sentirvi, credo che non sia inutile che voi sentiate delle persone che vengono dall’esterno, perché un giorno dovrete lasciare la prigione e bisogna che sappiate ciò che succede altrove”. Ho terminato dicendo: “Io ho bisogno di sentirvi ancora. Accettate che ritorni per ascoltarvi e perché voi mi possiate ascoltare?” Allora egli ha detto di sì. Quando tutto è stato terminato sono sceso direttamente da lui e gli ho stretto la mano. E, per una specie di ispirazione, gli ho chiesto se era sposato. Mi ha risposto di sì. Allora mi ha chiesto se poteva parlarmi della moglie e improvvisamente è scoppiato in singhiozzi e mi ha parlato di sua moglie, che era su una sedia a rotelle a Montréal. Era un uomo di una immensa tenerezza, di una immensa vulnerabilità, e più si è vulnerabili, più si è in questua d’amore, più si mettono delle barriere attorno a questa fragilità e si urla. Quando sentite dire che c’è una rivolta in una prigione, l’origine spesso è che un uomo viene a sapere che sua moglie, è stata infedele. Egli non lo sopporta, è in una tale angoscia che deve trovare un colpevole, e il colpevole è la prigione. Allora crea una rivoluzione.

Mi ricordo di un uomo con il quale sono in corrispondenza. È in prigione per aver commesso un omicidio. Ero andato a trovarlo ed eravamo seduti uno di fronte all’altro, con i poliziotti dietro a me. Ha tirato fuori dalla tasca il dente di sua nipote e mi ha detto: “sai, i bambini non hanno paura di me, sono i grandi che hanno paura”. C’era una specie di nostalgia, di piccolezza, di tenerezza nelle sue parole. Egli aveva paura degli adulti. Ogni adulto lo minacciava, ma con un bambino poteva dar libero corso alla tenerezza.

 

 


Trentottesima parte

La violenza: un'aggressione mal situata
di Jean Vanier

C’è un altro tipo di violenza vissuta da ciascuno di noi più di quanto crediamo. È quella del direttore di officina che urla ingiustamente contro un operaio e l’operaio non può rispondergli per timore di essere messo alla porta. Egli accumula all’interno di se una collera, entra a casa e sua moglie è in ritardo per il pranzo. Allora esplode contro la moglie, non a causa di questo ritardo, ma a causa di quella collera accumulata che egli libera. La moglie non osa dire niente. Corre in cucina dove il bambino sta per “sgraffignare” qualcosa dal frigorifero. Allora lei urla contro il bambino che non osa dire niente perché ha paura di ricevere uno schiaffo. Il bambino esce, da una pedata al cane, il cane salta sul gatto e la storia finisce con la morte di un topo.

E’ ciò che si chiama l’aggressione mal situata. Si riceve un’aggressione, non si sa che cosa fare, allora si trova uno più debole sul quale si può porre questa aggressione senza che lui possa rispondere. È una maniera di liberare l’angoscia e la propria aggressione su di un debole.

Non so se voi avete fatto mai questa esperienza, ma io l’ho fatta spesso: si è in una riunione, si riceve una aggressione, ma non si arriva a parlarne. La si accumula all’interno e si va ad una seconda riunione. Ed è la che l’aggressione esce, perché sì è in una situazione in cui è possibile farla uscire.

E’ molto importante guardare quali sono le persone con le quali mi permetto di essere aggressivo, e quali sono quelle con le quali non me lo permetto. Si è sempre sorridenti con i visitatori e contro un fratello si lasciano andare le nostre potenzialità di aggressione.

Vorrei parlare di un’altra forma di aggressione. Penso ad un uomo, da noi, che odia il proprio corpo. È stato molto ferito da piccolo, molto aggredito dalla sua famiglia, messo in istituzioni. È incapace di guardarsi allo specchio, ne è disgustato. È un uomo che può essere molto violento, soprattutto a parole. Quando comincia ad urlare si sente da tutte le parti. Urla in particolare quando si tocca il suo handicap, quando gli si fa prendere coscienza della sua povertà, perché ben presto la sua povertà significa colpevolezza. Egli non sopporta la sua povertà, perché l’ha condotto ad essere rigettato; essa l’ha condotto all’isolamento ed all’angoscia.

In una discussione è molto facile provare a delle persone che sono meno intelligenti, che non capiscono niente o che sono dei poveracci. Si può facilmente mostrare alle persone i loro torti. Ci sono delle persone che non lo sopportano. Si può dire con facilità che si tratti di orgoglio, ma è molto più profondo di questo. Essi non sopportano ciò che è debole in loro, perché è quell’aspetto di se stessi che li ha sempre condotti al rifiuto.

Si può accettare ciò che è meno bello in noi solamente quando si è avuta un’esperienza di perdono, quando ci si sa amati nella nostra povertà. Un bambino che si sa amato si trova a proprio agio nella sua povertà, un adulto lo è raramente. Ci vuole del tempo prima che qualcuno abbia veramente l’esperienza di essere amato nella sua povertà. Di solito la nostra esperienza è che la nostra povertà ci esclude e ciò è particolarmente vero per le persone che hanno un handicap. Allora, toccando la nostra fragilità, vulnerabilità e la nostra colpevolezza ciò che è brutto in noi ci conduce ad esplodere, perché non lo si sopporta.

E’ molto importante vedere ciò che è successo con Gesù. La morte di Gesù è di una violenza incredibile, inimmaginabile. C’è uno scatenarsi, un infrangersi di odio e tuttavia Gesù è di una evidente bontà. Come accade che i farisei non lo sopportano? La ragione è semplice: i farisei avevano il potere, avevano il denaro, si erano costruiti tutto un mondo di prestigio religioso che Gesù attacca con violenza. Gesù è molto violento nel suo linguaggio. Egli attacca di fronte. Quando tratta da ipocriti i farisei è molto forte. Ciò vuol dire: voi utilizzate le cose di Dio per il vostro potere, per la vostra gloria . La reazione fu violenta perché Gesù parlava forte. Gesù faceva prendere coscienza ai farisei di ciò che era brutto in loro. E loro, invece di riconoscerlo e mettersi in ginocchio a chiedere perdono, come la donna adultera o Maria Maddalena, non hanno voluto ammettere la propria povertà. Ne erano incapaci. Bisognava che continuassero a giocare il gioco della apparenza. Essere davanti a Gesù li metteva in una grande angoscia. L’angoscia è il luogo in cui lo spirito del male entra facilmente. È per questo che quando si è nell’angoscia bisogna porsi la domanda di sapere se è Gesù o se è il diavolo che vi ci si mette. Quando Gesù ci mette di fronte alla nostra profonda povertà, l’angoscia risale alla superficie. Nel momento in cui l’ammirazione e la riconoscenza degli altri sono così importati per noi, si perde la nostra identità.

Conosco un uomo che era in prigione. Era stato eletto da 400 prigionieri per essere il loro delegato. Quando è uscito dalla prigione nessuno votava più per lui. Non aveva più identità.

Anche nel mondo religioso si può avere ben presto un’identità costruita dallo sguardo degli altri. I farisei avevano tale identità. Erano temuti, ammirati, ma dietro non c’era niente. Quando Gesù mostra loro che non c’è niente, la loro psiche ne rimane scossa e non lo sopportano. Si devono sbarazzare di quell’uomo che diviene troppo pericoloso mettendoli davanti alla propria angoscia e al proprio niente. Essi erano semplicemente dei poveri tipi, poveri quanto Maria Maddalena, quanto Barabba, ma avevano costruito attorno a loro un mondo di apparenza, di potenza e di gloria, e non sopportavano di essere amati nella loro piccolezza e fragilità.

 

 


Trentanovesima parte

Identificare il nemico
di Jean Vanier

Gesù è più chiaro sulla questione del nemico. È ciò che è veramente nuovo nella religione che ci dà:”Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi perseguitano”. “E’ facile amare coloro che vi amano, ma io vi dico: amate i vostri nemici”. È questo il cuore del mistero del vangelo. In certe realtà è impossibile amare un nemico, perché il nemico è colui che mette la mia vita in pericolo. Quando la mia vita è messa in pericolo ci sono tre reazioni possibili: la prima è la fuga; è il modo di proteggersi del mondo animale. La seconda è il camuffarsi, che è una specie di fuga. Ci si camuffa perché non ci vedano. Si cade nell’anonimato. L’ultima, è la difesa attiva che è l’aggressione.

Utilizziamo la fuga, il camuffamento o la aggressione a seconda dei nostri temperamenti. Abbiamo gesti istintivi di protezione, fisici e psichici allo stesso tempo, o gesti istintivi di attacco, che appartengono pure all’ordine della protezione. È fortissimo questo bisogno di proteggerci contro il nemico. Cercate di dire veramente bene di qualcuno che vi critica: è difficile. La critica dell’altro è sempre una forma di attacco e di protezione. Quando si criticano le idee degli altri, si sta convincendosi che le nostre sono buone. È impossibile amare il nemico, e il problema è che il nemico non è dall’altra parte delle frontiere: è all’interno del monastero, non all’esterno.

È importante identificare il nemico, di non restare in una sfocata aggressività, ma poter dire: “quello è il mio nemico, è lui che minaccia la mia vita perché minaccia la mia autorità, e mi minaccia nella mia vita affettiva, è un pericolo”.

Quando si ha una angoscia, la si trasforma spesso in paura; è un po’ come l’aggressione mal situata. Per esempio, è stata cambiata la liturgia del giorno senza avermene informato, allora metto tutta la mia angoscia là dentro. In realtà, ciò che è terribile, non è quel cambiamento di liturgia, è quella angoscia che è in me e che non ha obiettivo determinato. Ma è più facile trovarne la causa. La mia angoscia, la mia agitazione interiore, possono avere cause somatiche: ho dormito male, ho mangiato troppo ieri sera; può essere forse qualcosa di molto antico che ritorna alla superficie. Io l’ignoro, ma sono agitato e quando sono agitato cerco di mettere un nome alla mia agitazione, perché è più semplice, altrimenti mi colpevolizzo. C’è un grande problema nel cristianesimo: è l’agitazione →diavolo e pace →Dio; ma ci sono delle paci assolutamente diaboliche. Gesù non sempre ci dà la pace.

Quando dice al giovane ricco: “Vieni, seguimi”, non è piacevole, è pericoloso. Dio ci lascia talvolta lungamente nell’angoscia e non perché siamo infedeli o colpevoli. Ci fa guardare più da vicino questo mondo dell’angoscia e della pace. Come gestire le nostre angosce? Come utilizzarle? Come trovarvi un senso? Molto spesso si trasforma la nostra angoscia in paura e gli si dona un nome perché è più facile darci un nome che vivere nell’indeterminatezza. E in quel momento c’è il pericolo, perché si prende la liturgia come campo di battaglia, quando in realtà non è vero. Si tratta di ben altro e cioè che siamo stati feriti perché non ci hanno domandato il nostro parere. È molto importante mettere il nome giusto sulla giusta angoscia, perché altrimenti si giunge ad ogni tipo di incomprensione interna ed esterna.

Bisogna identificare chiaramente le nostre emozioni e le nostre angosce nel positivo e nel negativo. Ci sono emozioni negative: sono ferito perché non è stato domandato il mio parere e il Padre Abate o la Madre Abbadessa hanno preso quella decisione per un ufficio senza parlarmene. Accettiamo che ci siano delle collere giustificate. Se mi si è affidata una responsabilità e un responsabile superiore mette disordine nella mia aiuola, ho il diritto di mettermi in collera. È una normale attitudine di difesa. Ma bisogna sapere ciò che bisogna fare con la collera. Ci devono essere dei luoghi in cui si parla delle nostre collere, altrimenti esse si trasformano in angoscia.

Posso vivere o avere vissuto attorno a me grandi gelosie. Qualcuno è molto geloso nel noviziato perché ho parlato per un certo tempo con un altro. Bisogna che qualcuno aiuti quella persona a mettere un nome alla gelosia, a comprendere che cosa significhi. Non nel momento in cui il fuoco brucia, ma dopo. Spesso, delle gelosie risalgono a tempi passati. La persona sta rivivendo cose che aveva vissuto quando era piccola, e allora parliamo di queste cose. Quando una novizia vede la maestra delle novizie come una madre bisbetica, difficile, sta per rivivere qualcosa del suo passato. Mettiamo il nome giusto alla cosa: lei non ha qualcosa contro la maestra delle notizie, ma sta vivendo qualcosa in rapporto a sua madre.

È quando ho bene identificato il nemico che potrò amarlo. Finché sono in una specie di agitazione o resto nel vago, finché non voglio guardare, non arriverò mai ad amarlo. Una volta che l’ho identificato so che da solo non posso amarlo, ma che Gesù e il suo Santo Spirito possono aiutarmi. Passare dall’odio del nemico all’amore per il nemico è un lungo processo che percorre il cammino del perdono, del dialogo, dei cammini difficili che, se accetto di oltrepassare, mi condurranno ad una forma di guarigione o piuttosto ad imparare a vivere con le mie ferite.

C’era da noi una giovane che aveva grossi turbamenti. Ne ho parlato ad un analista ebreo convertito, i cui parenti sono morti ad Auszwicht e che era di passaggio da noi. Un uomo di grande saggezza. Ho proposto alla giovane di incontrarlo. Dopo averla vista per un’ora e mezza l’analista mi ha detto: “Sento che c’è un enorme pacchetto al di sotto. È meglio non penetrarvi troppo. Cercate di fortificare l’aspetto positivo, cercate che la vita copra il turbamento, e sostenetela poi perché possa vivere con esso, perché credo che sia impossibile entrare in tutti i suoi turbamenti”. Aiutare alcuni a entrare nelle loro ferite è pazzia. Non si può negare la malattia mentale in ciò che c’è di più terribile, né si può negare la psicosi, la schizofrenia; sono delle realtà dolorose.

Quando ci si trova di fronte a persone che hanno grandi ferite, bisogna aiutarle a trovare una via percorribile, cercare di fortificare gli aspetti positivi che sono in loro. Voi avete una grazia enorme nei monasteri, avete cioè una struttura chiara e precisa che permette talvolta di vivere con l’invivibile. Ed è per questo che voi siete un luogo talvolta per raccogliere grandi ammalati mentali che sono là nascosti e ai quali la vostra struttura permette di divenire dei veri santi, perché la santità non è l’eliminazione della nevrosi, è vivere con essa. C’è un po’ troppo oggi la tendenza di voler guarire tutti. Non è vero. Bisogna dare alle persone delle strutture, dar loro un piccolo appoggio; sicuramente ci saranno di tanto in tanto delle esplosioni, ma non inviate troppo presto queste persone dallo psichiatra, perché avrete un problema: può accadere che, grattando un po’, egli scopra qualcosa di molto grave.

Jung ha scritto questo di uno dei suoi clienti: “Ha iniziato a raccontarmi i suoi sogni ed io ero impazzito. Mi sono detto: se inizio ad entrare dentro là, succederà lo scompiglio; è meglio coprire. Allora gli ho detto che non avevo il tempo di prenderlo e gli ho consigliato di non cercare qualcun’altro, ma di cercare di trovare un lavoro”. Si ha paura della malattia, tuttavia si è tutti un po’ malati. C’è solamente una differenza di grado. Attualmente c’è troppo una tendenza a dire: “sei malato, vai dallo psichiatra, e quando sarai guarito tornerai da noi e andrà tutto bene”. Se questo ha l’aria un po’ diabolica, lo si invia dai carismatici perché sia liberato e poi andrà meglio. A sinistra c’è lo “psy” e a destra c’è l’esorcista. È troppo semplicista. Si vorrebbe che tutto il mondo camminasse diritto e non si permettono sufficientemente gli scandali, le grida. Io non dico che bisogna permetterli, ma è la realtà umana, e un convento in cui tutti camminassero bene rischierebbe di essere un convento mediocre. La persona umana, nella sua evoluzione deve passare attraverso grida spettacolari e si è la per portarla, ecco tutto. È bene avere un consigliere all’esterno, ma bisogna imparare a vivere con sé. Quanti secoli hanno vissuto i monasteri senza che ci siano stati dei buoni “psy”? Ed essi non si sono sbrogliati troppo male! Immagino che all’interno ci dovessero essere talvolta delle esplosioni, ma è la realtà umana. Parliamone e cerchiamo di vivere il perdono. Ho sempre paura che non si creda abbastanza al potere di guarigione delle nostre proprie comunità e alla nostra capacità di camminare con qualcuno. Non è questo per mettere in dubbio il ruolo dei professionisti, e degli psichiatri, che possono essere utili. È piuttosto per dare fiducia alla comunità, alla sua capacità di camminare con qualcuno, di essere impaziente di fronte alle grida e, dopo la crisi, di dialogare per andare verso un certo approfondimento, per aiutare la persona a scoprire il perché attraversa tale crisi; e con la pazienza, l’amore e la preghiera, a poco a poco le difficoltà diminuiscono. La grande cosa è come vivere e come aiutare l’altro a vivere con le ferite e con le proprie angosce.

 

 


Quarantesima parte

L'amore del nemico
di Jean Vanier

Una volta identificato il nemico, si può iniziare a imparare ad amare. Bisogna supplicare Dio che ci illumini per scoprire come entrare nel perdono e nell’amore del nemico. È il cuore del vangelo: amare l’amico. Il povero è il nemico del ricco e il ricco il nemico del povero. Colui che mi disturba diventa il mio nemico. Il tale novizio diviene il mio nemico perché è troppo dipendente da me. Non lo sopporto più. Ciò succede di frequente quando si è troppo vicini l’uno all’altro: scatta un processus di affettività, e avendolo fatto scattare si prende paura, perché richiede troppo. Viene a bussare tutto il tempo alla porta, mi scrive dei bigliettini e non so più che cosa fare. Allora lo respingo perché la sua vita affettiva poco regolata, inizia a farmi scoprire che io pure ho una vita affettiva non del tutto a posto, e ciò non lo sopporto. Se qualcuno mi ama troppo o non abbastanza, c’è lo stesso fenomeno di protezione o di paura. Quando sono troppo amato, il pericolo è di mandare a passeggio la persona, perché risveglia molte cose in me e diviene mio nemico. Il nemico è all’interno di me che non sopporta certe cose. Identifichiamo questo nemico: non è davvero lui, sono io, ho paura di me stesso e di ciò che è scattato all’interno di me.

 

È per questo che una chiara identificazione del nemico è il cammino della libertà. Il cammino della schiavitù è rifiutare la verità. Per veder chiaro all’interno di se stesso e nei rapporti umani che sono così complessi, - tra la paura della dipendenza e la paura del rifiuto -, è importante trovare qualcuno con cui parlarne. È tutto il mistero della paternità: non posso portare qualcuno che perché io stesso sono portato. Per trovare in me il cuore di padre, ciò che è più intimo, più vulnerabile, là dove Gesù dimora.

È un grande mistero. Se non si ritrova il nostro cuore di bimbo, non si può entrare nel Regno. Se non si ritrova il nostro cuore di bimbo, non si trova il nostro cuore di padre, perché il cuore del figlio e il cuore del padre sono la stessa cosa. Si trova la paternità solo al momento in cui si trova la nostra affiliazione. Divenendo padre, si diviene figlio. Il bambino rivela il bambino che è in noi ed è esattamente la stessa cosa sul piano spirituale. Il giovane rivela la nostra gioventù ed è per questo che non si può diventare padre che quando si è figlio. E si diviene figlio divenendo padre. Si pensa sempre che ci sia una separazione tra le due realtà, ma non è vero. La maturità è questa unificazione della piccolezza e della saggezza e finché non si è unita la saggezza e il bambino, si resta uno di quei saggi e di quei prudenti di cui Gesù dice che le cose sono loro nascoste. Perché ci siano rivelate le cose importanti bisogna essere piccoli: “Benedetto sei Tu, Padre, che hai nascosto queste cose ai grandi e le hai rivelate ai piccoli”. C’è un grande legame tra la saggezza del pastore, la saggezza del padre e la piccola ricchezza del bambino.

 

 


Quarantunesima parte

Le fonti dell'aggressività
di Jean Vanier

Vorrei approfondire un po’ questa questione dell’aggressività, delle fonti e delle vie di guarigione.

Vi ho detto che la persona che ha un handicap può svegliare in noi del piacere. Ed è vero che quando si vive con qualcuno come Enrico ci sono dei momenti molto privilegiati. Uno di questi momenti privilegiati è quello del bagno. C’è una specie di dono, di fiducia della persona che si offre nel bagno. Quando si fa il bagno a qualcuno tutti i giorni è un argomento privilegiato di comunione e di presenza. È il momento in cui cose molto profonde vengono risvegliate in noi: scopriamo la bellezza del nostro proprio corpo e la nostra capacità di portare qualcuno; scopriamo una vera tenerezza per il corpo dell’altro, un corpo fragile, ferito, povero, piccolo. Immagino che voi abbiate avuto la stessa esperienza quando curate dei malati o quando siete vicino a qualcuno che muore. È un momento di grazia essere vicino a quel corpo che si indebolisce e che bisogna lavare e nutrire. È una grazia eccezionale avere in una comunità dei grandi ammalati, dei grandi vecchi, perché ciò ci conduce a scoprire il nostro stesso corpo. Ciò ci fa entrare nel mistero della tenerezza e scopriamo di quanta tenerezza abbia bisogno il nostro corpo per essere tutto di Dio.

Se ci sono dei momenti in cui qualcuno, come Enrico, accoglie il toccare, ci sono pure dei momenti in cui lui o altri vi sono refrattari. Ci sono persone con le quali non si può parlare prima che al mattino abbiano preso il loro caffé. Da voi non si parla, ma potete presentirlo dal modo con cui vengono a colazione. Voi sentite che ci sono enormi spine attorno alla persona. Ci sono persone che vivono una specie di torpore, di collera, e se li toccate guai a voi! Che cosa succede? È il risveglio delle angosce passate, degli incubi notturni. Quando qualcuno ci rifiuta, non vuole lasciarsi toccare e urla di angoscia e in certi momenti non lo si sopporta più. E se siamo stanchi, resi fragili, meno resistenti, l’angoscia sale ancora più presto i noi.

Quando ero direttore della comunità, ho scoperto che potevo evitare incontri difficili perché, essendo responsabile, ci si dà da fare sempre per essere in buona forma al momento opportuno. Si dice all’altro di rivenire a vederci quando noi siamo in forma, non necessariamente quando lui è in forma. Quando si è responsabili, si ha un potere enorme: si ha il potere di dire: “La conversazione è terminata, arrivederci a domani”.

Ciò che ho scoperto vivendo tutti i giorni alla foresteria, è che si è talvolta di fronte a situazioni che ci spingono a limiti insopportabili e dai quali non si può scappare. Quando si è spinti al limite e non si ha più la possibilità di scappare, si risvegliano nel nostro interno le forze dell’odio. Queste forze zampillano dall’angoscia e si scopre che si è capaci di fare del male ad un piccolo, che si è capaci di uccidere un debole. È un’esperienza molto dolorosa toccare ciò. Abbiamo all’interno di noi energie che ci fanno molta paura.

Negli Stati Uniti, una delle sindromi più comuni negli ospedali per bambini, è il bambino battuto dalla madre. Ciò succede soprattutto presso le madri sole. Esse vivono in un luogo di lavoro aggressivo, sono rese fragili dalla loro salute; rientrando a casa devono acquistare il cibo, preparare i pasti. Un bambino la provoca, non vuole mangiare, fino al momento in cui non ne può più e lo picchia. Essa è obbligata a condurlo all’ospedale e risente in quel momento una terribile colpevolezza, di fronte a questa capacità di odio che è stata scatenata.

Quest’esperienza dell’odio è molto potente. È anteriore alle esperienze sessuali propriamente dette. Un bambino può, in certi momenti, provare odio per sua madre. Vorrebbe che essa non esistesse perché le impedisce di fare delle cose e ad un certo punto il bambino non la sopporta più. È un’esperienza terribile per il bambino volere che allo stesso tempo sua madre ci sia, perché è lei che lo nutre, e che non ci sia. Ne può cadere ammalato. Credo che una delle origini delle psicosi è che il bambino non sopporta questa capacità di odio, mette delle barriere attorno sé per non odiare. Questa capacità di odio, di non sopportare qualcuno, io la chiamo “il lupo che è in noi”. È un momento molto importante per parlare del lupo.

 

 


Quarantaduesima parte

Il "lupo" che è in noi
di Jean Vanier

Ho scoperto, un po’ di tempo fa, che il dottor Dolto, psicanalista dei bambini, dice: “è molto importante dire al bambino che egli ha in sé una bestia, perché se dite al bambino che c’è una bestia in lui, questo vuol dire che egli non è una bestia, ma che c’è una bestia, che può andarsene o essere addomesticata”. Quando un bambino prende coscienza delle sue capacità di odio, può identificarsi al lupo. Non bisogna dire : “siamo un lupo”, ma: “c’è un lupo in noi”. Il che è molto differente. La grande scoperta è che Gesù è venuto ad addomesticare il lupo nell’agnello. Tutta la sua opera è là. La nostra capacità di odio, la nostra capacità di uccidere, sono così difficili da sopportare che le si spinge molto lontano, nell’inconscio. Cioè si mette il lupo nella cantina. Nessuno lo guarda. Quando si parla, si guardano i piedi gli uni degli altri, perché si ha paura che, se ci si guarda, se si inizia a parlare, i lupi escano! Allora si giunge a situazioni di gentilezza. Si obbedisce alla regola, ci si evita nella misura del possibile, si ha una paura enorme delle esplosioni. Quando ci sono lupi in cantina, questi appaiono in maniera molto subdola nelle critiche, in frasi del genere: “è molto gentile, ma…” E’ un modo di uccidere la reputazione dell’altro. Ci sono diversi “clans” nella comunità e tutto diviene un pretesto per diventare un campo di battaglia. Si sentono i lupi gironzolare.

Il blocco è una cosa molto difficile da vivere e da sopportare. È un tensione che sale da dentro fino alla gola e non si arriva più a parlare, si è bloccati. Questi blocchi ci sono dati dalla natura, per evitare che esca l’aggressività. La natura è fatta bene, ma bisogna essere coscienti di ciò che succede. Bisogna ascoltare le nostre emozioni, senza passarvisi sopra troppo tempo, ma per imparare a riconoscerle e a identificarle. Bisogna sapere ciò che succede dentro di noi, senza dire troppo presto che è buono o cattivo.

Allora, che cosa bisogna fare dei nostri “lupi”? C’è tutta una scuola oggi che, è una scuola di sincerità: bisogna dire tutto. In realtà, che cosa succede quando si dice tutto? E’ che coloro che hanno i migliori cannoni guariscono. Dicono tutto, sono liberati, ma ci sono una quantità di cadaveri in comunità! Ci sono persone che hanno talmente paura dell’aggressione – lo si vede nelle comunità, esse non sopportano l’aggressione ed è probabilmente perché quando erano bambini hanno avuto esperienze di aggressione-separazione-divorzio – e quando ci sono aggressioni in comunità, perdono la testa, e entrano in una grande angoscia. Non possono sopportare questa aggressione, è troppo pericoloso. Allora stanno continuamente cercando degli espedienti perché non appaia nessuna aggressione e succede che si giunga a situazioni di tensioni enormi, senza dialogo, fino al giorno in cui c’è la grande esplosione.

Allora che cosa bisogna fare della nostra aggressione? È una grande domanda. La risposta è che se non si ha avuto esperienza di aggressione, non si ha esperienza di perdono. Ho fatto questa esperienza con un uomo della nostra comunità che aveva aggredito sessualmente un bambino. La persona che l’aveva visto non aveva potuto reagire, perché aveva troppa paura della violenza di quell’uomo, ma era venuta a vedermi. Era evidente che non si poteva lasciar passare questo, anche se il nostro intervento rischiava di far scattare una atto di violenza. Ci si è riuniti tra responsabili ed è stato chiaro che avrei dovuto intervenire io. Prima di farlo, ho telefonato al nostro psichiatra, che in quel momento era un ebreo: gli ho raccontato ciò che era successo e in che modo contavo di confrontarmi con quell’uomo. Ed egli mi ha detto questo: “quell’uomo ha sofferto molto e tutti le volte che ha fatto una sciocchezza è stato escluso. Ciò che è importante, è che abbia una esperienza di perdono. Se andate a confrontarvi con lui, rimanete là fino al momento della riconciliazione”. Era molto bello. Vi sono andato e l’ho confrontato. Ha cercato di gettarsi su di me, ma essendo un po’ più grande di lui ho potuto contenerlo. Ha cercato di scappare, ma mi sono messo davanti alla porta e lui è andato dall’altro lato della camera, urlando, furioso, perché l’avevo toccato nella sua fragilità e lui non lo sopportava. Mi sono seduto davanti alla porta e gli ho fatto comprendere che non ero di fretta, ma che volevo parlare con lui, e che avevo bisogno di capire ciò che lui doveva dire, che era evidente che lui soffriva molto e che bisognava che mi spiegasse un po’ che cosa aveva vissuto. All’inizio era stato un po’ secco, ma man mano che il tempo passava, aveva preso un atteggiamento un po’ più dolce. Siamo rimasti a lungo insieme e alla fine c’è stata una piccola riconciliazione, e abbiamo preso un appuntamento per rivederci. Quello psichiatra mi ha insegnato molto. È veramente il vangelo: quando si è in collera con il proprio fratello, non bisogna lasciar tramontare il sole senza essere riconciliati.

La questione è di trovare i piccoli mezzi per camminare verso questa riconciliazione, perché è attraverso la riconciliazione e il perdono che a poco a poco il lupo che è in noi si addomestica. Ci vuole molto tempo. Fino al momento che ho io il potere, comando io, canalizzo il lupo. Scoprire il lupo che è in me, scoprire che sono capace di uccidere qualcuno, è un’esperienza molto dolorosa. Ma allo stesso tempo è un’esperienza molto importante.

All’Arca, ci sono persone violente e quando si parla tra assistenti dell’effetto della violenza su di noi, diciamo sempre che noi non sopportiamo la violenza. Ma che cosa non sopportiamo? Non è proprio la violenza dell’altro la paura che mi colpisce, ma qualcosa di più profondo. È il risveglio della mia stessa violenza davanti alla sua violenza, questa specie di collera che fuoriesce, e appare il lupo. Una cosa importante: è che questa apparizione del lupo è molto umiliante. Ci fa toccare ciò che noi siamo al fondo. E in quel momento non si può criticare il ricco, non si può più criticare nessuno, perché si scopre che tutto ciò è in noi, si scopre la nostra capacità di fare il male, si scopre, e si tocca in profondità la nostra stessa ferita. Davanti ad un cuore ferito, c’è una barriera, c’è lupo enorme pronto a gettarsi su tutta la persona, che rischierebbe di toccarci. Ciò spiega i fenomeni di collera in noi e il nostro modo di guardare le persone a distanza. I farisei erano degli uomini estremamente gentili, ma il loro lupo si risvegliava quando Gesù li obbligava a mettere il dito sulle loro ferite.

 

 


Quarantatreesima parte

Addomesticare il lupo
di Jean Vanier

Si può scoprire il perdono solamente perché c’è stato il perdono! Se copro l’aggressione, non c’è possibilità di perdono: c’è un blocco e non si parla. È dopo l’esplosione che posso veramente chiedere perdono. La guarigione avviene attraverso il perdono, ed è un lungo cammino: perdonare ed essere perdonati settanta volte sette. Una cosa molto importante è prendere un pò in giro il lupo. Non bisogna mai prenderlo troppo sul serio, ma bisogna identificarsi a lui. Tutto il problema è come prendere distanza in rapporto al lupo e alle nostre emozioni psicologiche. Quando si ha mal di fegato, non ci si identifica con il fegato, ci si cura! Le persone che soffrono di depressione non riescono a mantenere le distanze. Dicono: “io sono depresso” e si identificano con la loro depressione. Come imparare a mantenere le distanze in rapporto alla depressione, come pure verso l’esaltazione? Come imparare a mantenere le distanze verso il lupo e a non prenderlo sul serio? C’è una piccola canzone che potete cantare: “Chi ha paura del lupo cattivo?” Prendere questa distanza, altrimenti si cade tra le zampe del lupo, lo si lascia prendere il sopravvento su di noi e la collera sale….

Quando si scopre il lupo in noi, si è umiliati, perché ci si scopre come tutti. E più si avanza nella responsabilità, più il lupo esce dalla cantina, più se ne prende coscienza. È doloroso e allo stesso tempo si scopre che si è solidali con tutta l’umanità. Si ha bisogno di aiuto e questo ci obbliga a metterci in ginocchio e a pregare di più.

Finalmente, è attraverso la comunità, attraverso l’accompagnamento, attraverso la preghiera, che molto lentamente il lupo si addomestica.

L’aggressività si guarisce anche attraverso il mistero della ferita. Se ho un’esperienza profonda di essere amato da Gesù, di essere toccato da lui nella mia ferita, se questa ferita è il luogo in cui Lui si rivela a me, non ho più niente da difendere. Più si diventa responsabili, più bisogna dare spazio a Gesù, affinché egli possa raggiungerci nella nostra ferita. Non si perde tempo nella preghiera silenziosa! Si lascia che Gesù ci tocchi in ciò che più è spezzato, ferito, più vulnerabile in noi: è il mistero della preghiera. È questo, uno degli elementi per guarire assolutamente indispensabile.

Gesù è un finissimo pedagogo. Ci conduce ciascuno in modo differente. Ci sono persone che hanno temperamenti canini, che gridano tutto il tempo per essere guarite da Gesù e che non sono mai guarite. La loro vita passa attraverso l’umiliazione. È molto umiliante avere delle esplosioni, avere crisi di gelosia: è vivere con le proprie ferite. Scoprire che ci sono delle ferite in noi, ci trascina in una grande umiltà.

C’è tutta una saggezza umana per imparare ad usare la nostra energia aggressiva. Quando si scopre in noi una sovrabbondanza di energie, che si trasforma in aggressività, è importante scoprire il modo di utilizzarla in altra maniera.

La celebrazione è un’altra cosa importante per canalizzare delle energie: nella nostra vita c’è una grande saggezza. Da noi, all’Arca, abbiamo molti momenti di celebrazione di risate e di distensione insieme, che aiutano le persone angosciate a non essere aggressive.

Dio è un pedagogo straordinario. Pone dei semi e poi lascia germogliare le cose. Risponde alle nostre domande e quando non risponde vuol dire che bisogna attendere! Non risponde sempre direttamente, ma bisogna talvolta mettersi in gruppo, avere fiducia gli uni con gli altri. Per il responsabile è una discesa nell’umiltà, la povertà e la scoperta che siamo peccatori, ma che siamo perdonati ed è questo che ci dà la forza di avanzare.

 

La redazione augura a chi ha seguito questa rubrica un cammino umile, fecondo, carico di speranza.

Letto 5914 volte Ultima modifica il Domenica, 20 Febbraio 2011 17:39

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