Il sacramento della musica
di Marcelo Barros
Stato del Gioas, Brasile centro-occidentale, qualche anno fa. Un'assemblea di capi indigeni venuti da tutto il paese. In un intervallo dell'incontro, noto un indio solitario e triste. Mi avvicino e gli domando perché se ne sta così mesto.
L’uomo mi risponde d’impeto: "Perché non sto cantando". Gli dico che, se vuole, può senz’altro cantare. Mi guarda attonito e replica: "Ma io posso cantare solo se posso danzare".
Io a insistere che può cantare e danzare. E lui mi guarda ancor più sbalordito: "Io posso cantare e danzare soltanto nel villaggio, con la mia comunità".
Imparai così che per molti popoli indigeni la musica è un modo di mantenere l'equilibrio personale, un importante strumento di integrazione comunitaria e un vero sacramento dell’intimità con il divino.
Fra i vari segni ed elementi di una spiritualità cosmica che sto presentando lungo questo anno, vorrei invitarvi a riflettere sul senso spirituale della musica, e sul suo contributo per un ulteriore approfondimento della relazione con Dio, in comunione con le culture oppresse.
Business o preghiera
Chi vive in uno stile di vita occidentale si trova immerso in una coltura visiva, ma anche in una atmosfera riempita di suoni. Siamo costantemente esposti al rumore di apparecchi elettronici: computer, radio tivù e amplificatori. I mezzi di trasporto hanno clacson e suoni propri.
Ascoltiamo musica nello studio del dentista, in aereo e, in alcuni paesi, perfino nella stazione dei pullman. Ma questa musica elettronica non sempre riesce a condurci alla melodia profonda del cuore.
Nelle religioni antiche, la musica nasce dalla preghiera e serve a portare il fedele al più intimo di sè stesso, a unificare il suo cuore e così condurlo alla divinità. In certe tradizioni indù, la meditazione comincia con la melodia monotonica dell'Ommm, che deve regolare la respirazione e pacificare tutto l'essere. Anche nel buddismo, il mantra può mutare gradualmente lo stato di spirito del devoto.
Nel medioevo cristiano, i monaci ritenevano che il canto gregoriano li proteggesse dai pensieri negativi e li reintegrasse nella comunità terapeutica di fede. A quei tempi, le persone avevano coscienza del potere trasformante della musica. Mettevano in musica le parole delle Scritture perché rimanessero incise più a fondo nella memoria dei devoti e perché l'effetto di quelle parole fosse più intenso. Nel secolo XI, il monaco Guido da Arezzo codificò le sette note. La teoria musicale non comprendeva unicamente la composizione e l'esecuzione di musiche, ma le proporzioni architettoniche e la struttura della società. Si supponeva che la musica regolasse persino la salute del corpo e potesse spiegare il funzionamento dell'universo.
La musica è oggi una delle merci più redditizie dello show-business. Ma è necessario andare al di là della cultura dello spettacolo e ricuperare lo spirito della festa. In questo percorso, la comunione con le popolazioni tradizionali ha molto da insegnarci. Un capo indigeno mi ha fatto scoprire che il cantare umano unisce il cuore al Grande Spirito e alla sua melodia divina solo quando si integra nella grande sinfonia della natura. Lì la musica fa di ogni suono della vita un bell'accompagnamento strumentale e obbedisce alla melodia interiore che ogni essere umano custodisce nel più profondo di sé. Questa verità è attestata da sant'Agostino che già nel secolo IV insegnava: "L'uomo nuovo conosce il canto nuovo. Il cantare è segno di letizia e, se consideriamo la cosa più attentamente, anche espressione di amore. Colui dunque che sa amare la vita nuova, sa cantare anche il canto nuovo" (Discorso 34 sul Salmo 149).
(da Nigrizia, novembre 2003)