Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La Passione nei quattro Vangeli

di Michel Berder

 

 

 

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù. Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli, la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21). Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca.

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca, la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo.

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

* Professore al Seminario interdiocesano di Vannes e al SIET di Bretagne-Mayenne

(da Il mondo della Bibbia, n. 32)

Rileggere il Corano alla luce della modernità è una sfida che si impone all’islam. Invece che un attentato all’ortodossia, l’operazione potrebbe essere vivificante e creare le condizione per una vera riforma dell’islam.

Questa presenza attiva della Vergine nella Chiesa è misteriosa e sfugge a indagini precise. E’ possibile solo evocarla attraverso qualche tema biblico. Ne scelgo tre: Vergine-Madre, Tempio di Dio, Strumento di salvezza.

La strada dell'ecumenismo,
la pazienza dell'unità

di Enzo Bianchi





Il dialogo fra cattolici e ortodossi procede a rilento ma occorre fiducia. A noi occidentali è chiesto di avere comprensione e lungimiranza, ai nostri fratelli di superare la tentazione del nazionalismo. Affinché torniamo a respirare insieme.

Le relazioni ebraico-cristiane
alla luce dell'ultima edizione
dell'Encyclopaedia Judaica

di Emanuela Zurli

A che punto sono le relazioni ebraico-cristiane? Per accertarlo si potrebbe verificare se nella seconda edizione dell'Encyclopaedia Judaica, pubblicata nel 2006, si trovano voci che nella prima, uscita nel 1972, non erano state considerate. Ebbene, nell'ultima edizione una nuova voce è dedicata proprio alle “relazioni ebraico-cristiane". Un denso testo di circa diciassette colonne ne ripercorre nei dettagli la storia, dall’inizio, con la promulgazione - ad opera del Concilio Vaticano II di Nostra Aetate (la Dichiarazione su “Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane", 28 ottobre 1965) fino agli ultimi sviluppi. Nel paragrafo n. 4, di neanche settanta righe, dedicato al “Legame della Chiesa con la stirpe di Abramo", il documento conciliare conteneva il germe di una ricchissima serie di iniziative e di contatti che avrebbero sempre più coinvolto, da un lato, le maggiori rappresentanze di molte Chiese cristiane (prima di tutto la Cattolica e quindi le Protestanti, costituenti gran parte del World Council of the Churches e, solo con molto ritardo, quelle ortodosse) e, dall'altro, le principali associazioni ebraiche presenti nella International Jewish Committee on Interreligious Consultations.

Sorsero così commissioni composte di membri delle due religioni che a più riprese, e in attuazione dei documenti applicativi di Nostra Aetate (basti ricordare gli incontri annuali della International Catholic-Jewish Liaison Committee, ILC, o dell'International Council of Christians and Jews, ICCJ, le cui basi erano state poste prima del Concilio), si sarebbero impegnate su fronti comuni. 'Ira di essi ricordiamo, seguendo l’Encyclopaedia Judaica: la condanna dell'antigiudaismo (che le diverse Chiese hanno ammesso di aver predicato), dell'antisemitismo (che, come dichiarò nel corso dell'incontro dell'ILC tenutosi a Praga nel settembre del 1990 il futuro cardinale Cassidy, "esige un atto di Teshuvah [pentimento, ndr] e di riconciliazione" da parte cristiana) e di ogni forma di discriminazione. Non meno forte l'impegno profuso da varie associazioni, nazionali ed internazionali, nell'approfondimento del comune patrimonio religioso di ebrei e cristiani come delle diverse, rispettive tradizioni o, ancora, nella promozione - in alcuni contesti e secondo modalità differenti di momenti di preghiera condivisa. E non solo: la sempre maggiore intesa tra le due religioni avrebbe portato alla progettazione di interventi concernenti la più vasta comunità mondiale su temi quali la violenza, il razzismo e i diritti umani.

Nel corso di alcuni decenni il neonato ”dialogo ebraico-cristiano" avrebbe così raggiunto, come scrive N. Solomon nella conclusione della voce "relazioni ebraico-cristiane”, “uno stato di maturità". Una maturità ampiamente dimostrata anche da questo testo dell'Encyclopaedia Judaica che, redatto nella sua prima parte da S. P Colbi, non manca di sottolineare, per ognuna delle questioni di volta in volta trattate, la sempre maggiore disponibilità delle diverse Chiese - in particolare della Cattolica - nei confronti del popolo ebraico (come attestato dalla prima visita di un Papa alla sinagoga di Roma, effettuata da Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986) e delle sue esigenze, anche politiche (come dimostrato dall'interessamento, ad esempio di Paolo VI, per la situazione di Gerusalemme e dei luoghi santi e dall'instaurazione dei rapporti diplomatici tra Santa Sede e Stato di Israele nel 1993). Allo stesso modo è evidenziato il riconoscimento, da parte cristiana, delle proprie gravi responsabilità nei confronti delle sofferenze degli ebrei. Si pensi, ad esempio, che l’affermazione di Cassidy, citata nella relazione sull’incontro di Praga, è definita “il primo documento pubblicato con la partecipazione dell'autorità vaticana che abbia ammesso, anche se in modo obliquo, la colpa cattolica in relazione all'olocausto”.

Accanto al loro consolidato e progressivo miglioramento l'Encyclopaedia Judaica denuncia anche, però, gli ostacoli tuttora incontrati dalle relazioni ebraico-cristiane. Nella parte finale della voce ad esse dedicate, N. Solomon non manca di ricordare, oltre alla tensione tra le due comunità creata da singoli episodi (come l'apertura del convento di Auschwitz, la beatificazione di Edith Stein e di Maximilian Kolhe. alcuni atti politici o "infelici sermoni pasquali” di alcuni Papi), due persistenti motivi di attrito: il proselitismo nei confronti degli ebrei. praticato da piccole sette evangeliche indipendenti e, soprattutto, il non ancora pieno riconoscimento, da parte di alcune Chiese, dell'importanza sia politica sia teologica di Israele. Viene inoltre ribadito che l’antisemitismo sarà inintenzionalmente favorito fino a quando non saranno abbandonare la "teologia sostitutiva" e le ultime tracce di "insegnamento del disprezzo", per lasciare definitivamente il posto alla "nuova teologia" ed alla "nuova comprensione degli ebrei e dell'ebraismo". È quindi con l'auspicio che il nuovo corso intrapreso dalle diverse Chiese "diventi parte del normale insegnamento e catechesi… tra i cristiani di tutto il mondo" che Solomon chiude l'articolo.

Su certe critiche mosse dal noto studioso e rabbino di Oxford, che certamente non rappresenta l'unica posizione dell'ebraismo sull'argomento, una parte del mondo cristiano - non meno differenziato, al suo interno, di quello ebraico - forse non sarebbe d'accordo. Per concludere riteniamo, comunque, che l'articolo dell'Encyclopaedia Judaica possa essere considerato un'eloquente testimonianza del fatto, per riprendere quanto affermato nel suo ultimo libro da un'altra significativa voce dell'ebraismo, Tullia Zevi (Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dal 1983 al 1998), che "ebrei e cristiani ora procedono sul binario sicuro della collaborazione e del dialogo".

(da Centro Card. Bea Newletter, n. 2, autunno 2007)
Il diritto alla diversità,
anche nella Chiesa

di Marcelo Barros


Nell’attuale contesto ecclesiale e teologico della Chiesa cattolica, è stato per molti una bella sorpresa il fatto che il documento di Aparecida non solo abbia contemplato le posizioni teologiche dominanti nella gerarchia ecclesiastica, ma abbia anche trattato con rispetto e considerazione le pastorali sociali e le Comunità ecclesiali di base (…). Non ci sono dubbi che la Conferenza di Aparecida sia stata, almeno riguardo al clima ecclesiale e alla presenza di una certa diversità di posizioni nell’episcopato, più aperta della quarta Conferenza (Santo Domingo, 1992) e questo non poteva non riflettersi in qualche modo sul documento finale.

I settori più aperti della Chiesa hanno gradito questi accenni di apertura, che saranno certamente utili nel cammino ecclesiale latinoamericano e caraibico, pur non mutando sostanzialmente il modello di Chiesa e di pastorale dominanti. (…). C’era da aspettarsi che questa apertura teologica e pastorale riecheggiata in alcuni momenti ad Aparecida (…) incontrasse le obiezioni di altri settori dell’episcopato.

Il testo ufficiale divulgato dal Vaticano con l’approvazione del papa contiene più di 200 emendamenti al testo originale approvato dai vescovi. Il teologo cileno Ronaldo Muñoz enumera 34 variazioni che hanno indebolito o alterato il testo. (…) Poiché il Vaticano non ha riconosciuto pubblicamente di aver modificato il documento (secondo la legge canonica vigente, la Curia romana ha autorità per farlo), era normale che all’inizio si attribuisse la responsabilità ai due vescovi che erano, all’epoca della Conferenza di Aparecida, presidente e segretario del Celam. Questi ultimi avevano dichiarato di aver introdotto solo variazioni di stile e di punteggiatura, ma il testo è stato modificato in punti fondamentali, come nei paragrafi sulle comunità ecclesiali di base e le pastorali popolari. (…) Con l’aumento delle pressioni, i due ex dirigenti si sono difesi affermando che i mutamenti provenivano da autorità della Curia romana. Hanno anche chiarito che, poiché queste autorità del Vaticano hanno agito in nome del papa, avevano tutto il diritto di cambiare il testo approvato dai vescovi rappresentanti di tutto l’episcopato latinoamericano e caraibico.

Questi pronunciamenti non hanno impedito la diffusione di lettere individuali e collettive all’attuale direzione del Celam, affinché questa intervenga per il ripristino del testo originalmente approvato dai vescovi. Dietro a tali richieste c’è non solamente il desiderio di esprimersi contro la mancanza di rispetto verso l’episcopato da parte di chi ha alterato il testo, ma soprattutto la speranza che l’attuale direzione del Celam sia non solo aperta e sensibile alla giustizia, ma anche sufficientemente libera di prendere posizione contro la violazione del testo della conferenza, per quanto dietro a tale atto vi siano autorità del Vaticano.

Chi conosce l’attuale realtà del Vaticano e della Chiesa cattolica sa che è quasi impossibile che la questione sia rivista e il testo originale recuperato. Per quanto molti sappiano cosa è accaduto e vedano segnali chiari di chi sta dietro le alterazioni del testo, nessuno parlerà chiaramente e dopo qualche giorno i mormorii passeranno. Tutto tornerà alla calma dei regimi autoritari e al silenzio delle complicità tattiche e delle omissioni, vissute sempre per salvare ciò che sarà ancora possibile salvare. In ogni modo, le manifestazioni e gli scritti pubblicati sulla violazione del documento finale di Aparecida sono stati molto positivi perché hanno dato vita ad un dibattito che non è così comune in ambito cattolico e che può rivelarsi fecondo, soprattutto se le persone non si limiteranno a una discussione giuridica, ma cercheranno anche di approfondire quello che c’è dietro l’alterazione del documento sul piano dell’ecclesiologia e della pastorale.

Dietro alle parole e ai testi

Discutere il modello di Chiesa e di spiritualità vigenti nella Chiesa cattolica romana e nell’episcopato latinoamericano e caraibico è una questione dolorosa e apparentemente inutile, sia perché il pensiero ecclesiologico dominante a Roma e nella maggioranza dei settori gerarchici della Chiesa cattolica è molto chiaro e non ammette dubbi, sia perché l’impressione generale è che, in America Latina, nessuno è in grado di cambiare tale realtà. Tuttavia ci sono sempre minoranze profetiche convinte che la propria missione sia quella di mantenere accesa la fiaccola della speranza e di non permettere che la Parola di Dio venga messa in catene. Un’analisi anche rapida della storia della Chiesa nel XX secolo mostra come, al tempo del pontificato di Pio XII (dal 1938 al 1958), il Vaticano e la gerarchia cattolica respirassero un clima di chiusura e ostilità a qualunque cambiamento, quasi come l’attuale clima vaticano. Tuttavia, pur in quell’inverno ecclesiale, vennero generati tutti quei semi di apertura e rinnovamento che, subito dopo, sarebbero stati assunti e ufficializzati dal Concilio Vaticano II. Movimenti come quello biblico, liturgico, ecumenico, o come l’Azione Cattolica, si svilupparono all’epoca di Pio XII in mezzo a difficoltà e repressioni, ma la loro perseveranza permise loro di collaborare al rinnovamento di tutta la Chiesa, quando fu possibile contare sul "papa buono" che convocò il Concilio.

Attualmente, l’importante è che le comunità e le persone che le accompagnano non rinuncino alla propria missione profetica. Tutti sanno che non serve a nulla, in sé, scrivere o protestare contro l’alterazione del testo perché, purtroppo, questo modo di procedere non è estraneo a un certo modo di concepire il magistero ecclesiale. (…).

Violare un testo approvato da un’assemblea rappresentativa è impensabile in regimi democratici e all’interno di Chiese dalla concezione ecclesiologica sinodale. Tuttavia, se la Chiesa cattolica è ancora considerata una società sacra, in cui l’autorità è sempre ritenuta al di sopra della comunità, è comprensibile che chi detiene il potere si senta in diritto di intervenire in maniera permanente per sanare quello che non gli appare coerente o opportuno. Il papa e la curia romana possono sempre mutare un testo già approvato da una conferenza di vescovi. In America Latina, si può deplorare questo tipo di intervento o auspicare un diverso modo di procedere, ma se nel quotidiano della prassi ecclesiale si accetta tale modello di Chiesa, non si dovrebbe protestare contro la violazione del testo. Per quanto i cambiamenti vengano realizzati di nascosto e senza che vi sia chiarezza sui responsabili, essi sono legittimi anche se non giusti. (…).

Secondo l’ecclesiologia romana vigente, i fratelli e le sorelle che hanno firmato appelli per il ripristino del testo originale (…) difficilmente l’otterranno, dal momento che tale concessione dovrebbe essere data dalla stessa autorità ecclesiastica di cui si contesta il modo di agire (…). È importante lottare per il recupero del testo originale. È un diritto delle comunità sapere quello che l’insieme dell’episcopato latinoamericano ha detto realmente su di esse. Tuttavia, dobbiamo andare alla radice del problema e denunciare l’ecclesiologia che soggiace non solo all’atto della violazione ma alla struttura mentale che rende possibili tali atteggiamenti.

La realtà di una Chiesa eterogenea

(…) Chi vive il proprio impegno nel cammino ecclesiale latinoamericano vorrebbe aiutare la Chiesa a compiere al meglio la propria missione liberatrice e a collocarsi nella grande comunità delle persone che lavorano e tentano di dare vita a un nuovo mondo possibile. Per questo è importante chiarire il contesto ecclesiale e teologico latente dietro ciascuno dei due testi in questione: il documento originale e il testo adulterato.

(…) La Chiesa cattolica romana, come tutte le altre confessioni cristiane, è uno spazio pluriculturale, in cui pastori e fedeli si trovano su posizioni teologiche e umane diverse. Anche se l’attuale papa riuscisse a eliminare ogni traccia della più piccola diversità ancora esistente in alcuni settori del Vaticano, anche se egli si relazionasse solo con collaboratori scelti a sua immagine e somiglianza, anche così sarebbe difficile impedire la diversità di opinioni e di visioni teologiche nel seno delle Chiese locali.

Chi ha violato il testo approvato dall’episcopato latinoamericano per impedire che in esso restasse un riferimento più positivo alle Cebs e alla pastorale popolare non riuscirà a cambiare la visione dei vescovi che, nella conferenza, hanno affermato che le Cebs rappresentano un grande beneficio per le Chiese locali. (…).

D’altro lato, i vescovi, gli assistenti e gli altri partecipanti alla Conferenza che hanno tentato di includere le Cebs e le pastorali nel testo finale di Aparecida sanno che, dietro tale questione, c’è in gioco il modello di Chiesa vissuto a partire da Medellín e oggi diventato ancora più necessario e urgente (…).

Questi vescovi sanno che il documento di Aparecida deve testimoniare l’esistenza delle Cebs e il bene che esse fanno all’insieme della Chiesa perché questa è la verità e perché sottolineare questo aiuta tutti, ma, sia che il documento si occupi della questione sia che eviti di affrontarla, il cammino delle Cebs andrà avanti lo stesso. Se non ne parlerà, sarà senza dubbio lo stesso episcopato a dover rendere conto a Dio di questa omissione storica. Tuttavia, con ogni delicatezza e rispetto, dobbiamo ammettere che, in sé, le comunità non hanno bisogno di mendicare una qualche citazione elogiativa o la benedizione forzata di pastori che non hanno sensibilità per la propria missione episcopale. In fondo, coloro che stanno lottando per il ripristino del testo originale stanno difendendo i vescovi latinoamericani, i quali, in maggioranza, hanno senso pastorale e meritano rispetto quando votano e firmano un documento emesso a loro nome.

Il diritto di essere Chiesa nella diversità

I fratelli e le sorelle che, malgrado tutte le difficoltà, portano avanti la discussione e lottano perché il documento finale di Aparecida rifletta quanto avviene nei settori popolari delle Chiese offrono una testimonianza di amore e fedeltà alla Chiesa, come pure di profondo rispetto per i pastori. Esprimono il fatto che la Chiesa non è data solo dalla curia romana e da certi settori della gerarchia. Contro qualunque desiderio di rottura o di disobbedienza ecclesiale, cercano brecce nella struttura rigida ancora vigente per proseguire nel cammino proposto dal Vaticano II e da Medellín (…).

Solo una vera spiritualità dà la forza per un esercizio che richiede tanta pazienza e resistenza. Lottando pacificamente perché il riferimento alle Cebs e alle pastorali popolari venga assunto dal testo ufficiale di Aparecida, stanno ottenendo una grande vittoria: ricordano ad alcuni capi della Chiesa che hanno il diritto di pensare quello che vogliono, ma che sono chiamati a coordinare un corpo ecclesiale diversificato ed eterogeneo. Per questo, almeno per senso di giustizia, devono rendersi conto che esistono molti fedeli e pastori che pensano in modo diverso e meritano di essere rispettati e anche accompagnati pastoralmente.

Di fatto, se, durante la Conferenza di Aparecida, le discrepanze teologiche e anche di carattere socio-politico sono state meno intense o visibili di quanto avvenuto a Puebla (1979), non è perché tali differenze non esistano più. La ragione sembra risiedere nel fatto che, attualmente, i vescovi con un’opzione per il cammino proposto dal Concilio Vaticano II sono un’infima minoranza nell’insieme degli episcopati nazionali e questo "resto di Israele" ha meno forza e, salvo alcune onorevoli eccezioni, non è stato votato per la Conferenza. È chiaro che questi vescovi più aperti avrebbero dovuto essere votati dai confratelli in ogni Paese, giacché nessuno di essi sarebbe mai stato scelto da Roma che, tuttavia, ha la pretesa di rappresentare tutti. Per questo, all’interno della realtà monolitica artificialmente creata dai vertici ecclesiastici, il dialogo dei vescovi con alcuni teologi inseriti in gruppi come Amerindia e con alcuni laici impegnati in servizi di pastorale più aperti non è stato solo sorprendente ma è apparso come un’alba ancora immersa nell’oscurità ma già gravida della luce di un nuovo giorno ecclesiale (…). In un certo modo, i diversi eventi ecclesiali avvenuti ad Aparecida durante la Conferenza sono stati l’annuncio di un giorno in cui, senza escludere il diritto dei vescovi di fare una conferenza propria, le Chiese d’America Latina potranno realizzare una grande assemblea ecumenica del popolo di Dio, con la rappresentatività e l’autorità per offrire orientamenti per il cammino delle Chiese.

L’orizzonte teologico e pastorale del documento finale

(…) Per il fatto di essere votato da tutta l’assemblea e di dover incorporare in qualche modo suggerimenti e proposte dei più diversi settori cattolici del continente, il documento finale di una Conferenza come quella di Aparecida non riesce a raggiungere una grande unità formale, presentando anche elementi eterogenei. Questo fatto è positivo, nel senso che riflette la diversità delle Chiese e dei settori ecclesiali nel continente. Al contrario, leggendo il testo attuale, la domanda che sorge è se, per mantenere l’unità di testo, non si sia finito per mettere da parte molte delle proposte più interessanti giunte dai diversi settori ecclesiali del continente.

Nell’insieme del documento, alcuni paragrafi riflettono un’ecclesiologia missionaria nella linea di una Chiesa di servizio e impegnata con l’umanità. In altri passaggi, il documento offre un’altra impressione, come se il progetto contenuto nel testo fosse ancora quello di una Chiesa della Cristianità che vuole riprendersi il suo ruolo egemonico e culturale nella società. Per questo, l’incidente dell’eliminazione dei testi più avanzati diventa più grave. Indebolisce paragrafi più aperti e permette che il testo possa esser letto come un insieme che ha dietro di sé una tendenza ecclesiologica estremamente conservatrice.

La sfida della grande missione continentale

La proposta di vari settori ecclesiali di rivitalizzare un grande movimento missionario a livello latinoamericano è stata non solo accettata ma sostenuta dal papa e incorporata nel testo. Come dice p. José Comblin, resta da capire chi lo farà e come. Tuttavia, anche prima di distribuire compiti, è fondamentale capire cosa il documento intende per missione.

Purtroppo, le espressioni usate dal documento finale vanno più nel senso di una Chiesa della Cristianità che nella prospettiva che oggi, in America Latina, ci piace chiamare "lascasiana". Ciò si concretizza oggi in una missione che rispetti pienamente l’altro, il diverso, che veda il volto divino presente nell’oppresso e abbia la convinzione che, sulla base del Vangelo, la prima missione di chi è discepolo di Gesù riguardi la vita e la salute delle persone che soffrono. Questa missione lascasiana, oggi, include il dialogo interculturale e interreligioso e ha come obiettivo il Regno, il progetto divino per il mondo, e non solo la Chiesa.

Nel momento attuale, è fondamentale che questa grande missione avvicini i popoli del continente nella prospettiva della patria grande bolivariana e orienti tutte le forze della Chiesa in direzione della difesa di una cultura della pace, contro la guerra, le spese militari, la pena di morte e il capitalismo che provoca la morte di tanti poveri. È parte essenziale di questa missione una nuova coscienza ecologica di comunione solidale con la terra, l’acqua e tutta la natura.

(…) Sarebbe impossibile per la Chiesa realizzare questa missione in modo profondo se essa si concepisse come una istituzione multinazionale, centralizzata e centrata su un potere sacro che crede di rappresentare Dio. Solo una Chiesa che accetti di essere evangelizzata per essere evangelizzatrice e assuma un cammino di conversione istituzionale può pensare ad una missione come questa. Solo se essa si organizzasse come vera comunione di Chiese locali avrebbe coerenza sufficiente per proporre agli altri i valori del Regno indicati da Gesù Cristo ed impegnarsi per la giustizia e la democrazia in questo continente. Per questo, un presupposto fondamentale di questa missione è ricostituire nella Chiesa cattolica la piena ecclesialità delle Chiese locali, con uno sforzo nuovo di rinnovamento dell’ecclesiologia catto-lico-romana.

Nel 1973, la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Mondiale delle Chiese, nella riunione di Salamanca, sviluppò la visione di una "comunità conciliare". Nozione ripresa dall’Assemblea del Cmi a Nairobi: "La Chiesa una deve essere vista come una comunità conciliare di Chiese locali, esse stesse autenticamente unite. In questa comunità conciliare, ogni Chiesa locale possiede, in comunione con le altre, la pienezza della cattolicità e dà testimonianza della stessa fede apostolica. Essa riconosce che tutte le altre Chiese fanno parte della stessa Chiesa di Cristo e che la loro ispirazione emana dallo stesso Spirito" (…). È un linguaggio ben diverso dal modo in cui il testo di Aparecida parla della Chiesa (…). Sarebbe stato bello se il Documento conclusivo di Aparecida riprendesse perlomeno, 40 anni dopo, quello che i vescovi latinoamericani dell’epoca affermarono a Medellín: "Che si presenti sempre più nitido, in America Latina, il volto di una Chiesa autenticamente povera, missionaria e pasquale, svincolata da ogni potere temporale e coraggiosamente impegnata nella liberazione di ogni essere umano e di tutta l’umanità" (Medellín 5, 15a).

(…) Da molti anni, in America Latina, abbiamo cercato di credere in Gesù e di seguirlo aderendo alla fede di Gesù e non solo alla fede in Gesù. In questa prospettiva, ricevere la fede di Gesù come il contenuto più intimo della nostra fede ci apre in maniera fondamentale al progetto di Dio che significa concretamente vita per tutte le creature dell’univer-so. È una prospettiva di missione e di vita ecclesiale regnocentrica e non cristocentrica. È quello che ci hanno insegnato maestri come Jon Sobrino ed è l’orientamento attuale dell’Asett, l’Associazione Ecumenica dei Teologi e delle Teologhe del Terzo Mondo. A partire da questo sostrato di impegno con la realtà, la missione può assumere un carattere più propriamente religioso di testimonianza del Regno di Dio, rappresentato nelle comunità ecclesiali e nei valori proposti dalle Chiese. Tali valori sono la valorizzazione dell’al-tro e del diverso, come pure la spiritualità del dialogo e del riconoscimento della presenza e dell’azione divine nelle altre culture e nelle altre religioni. È così che la cristologia, anziché dividerci dagli altri, ci rende possibile vivere una prassi liberatrice a partire dal pluralismo culturale e religioso.

(da Adista, 2007)

Domenica, 16 Marzo 2008 17:09

Cipriano (Lorenzo Dattrino)

CIPRIANO

di Lorenzo Dattrino



Cecilio Cipriano nacque verso il 210 a Cartagine, da famiglia non cristiana. La sua cultura conobbe molti sbocchi, secondo il costume del tempo, e abbracciò lo studio del latino, del greco e della retorica, ma del diritto, a differenza di Tertulliano, non sembra avere cognizioni approfondite. Divenne presto famoso come retore. Non fece viaggi, e rimase quasi continuamente entro gli orizzonti urbani e nelle consuetudini d’una agiata famiglia.

La conversione al cristianesimo ebbe la sua origine nell’incontro con un presbitero della città, di nome Ceciliano. Era l’anno 245. L’avvenimento sorprese tutta la città. La prima conseguenza di quella conversione fu la decisione di privarsi dei suoi beni patrimoniali: se di tutti o solo in parte, non si può dire. Nel 249, dopo la morte del vescovo Donato e a soli tre anni dalla sua conversione, fu eletto vescovo di Cartagine per acclamazione popolare. In quegli stessi anni è da porre l’inizio di una rara coscienza e di una instancabile dedizione a favore delle classi più povere. Era ormai da un trentennio che la chiesa cartaginese godeva di pace.

Nel 250 si scatenava la persecuzione di Decio. Furono imposti atti pubblici, da cui risultasse l’adesione di ogni cittadino al culto ufficiale: i renitenti erano condannati alla confisca dei beni, all’esilio oppure al lavoro nelle miniere. Sembra che la pena di morte fosse comminata soltanto ai vescovi. Molte, purtroppo, furono le apostasie, anche da parte di alcuni membri del clero. Cipriano ritenne opportuno o necessario ritirarsi nell’ombra, in luogo vicino alla città, e di là seguire e controllare gli avvenimenti. Si mantenne in vigile contatto con alcuni presbiteri,da lui scelti per il governo della sua chiesa attraverso un frequente invio di lettere.

Al cessare della persecuzione, dovuta unicamente alla morte di Decio, Cipriano poté ritornare a Cartagine nella primavera del 251. Sorse allora la questione della riammissione dei lapsi nella comunione della chiesa. I «caduti», appoggiati da parte del clero ostile a Cipriano, e sostenuti dagli stessi «confessori della fede», sopravvissuti alle torture, esigevano la riammissione. Cipriano ricorse a misure di grande prudenza, mettendosi in contatto anzitutto con altri vescovi dell’Africa e con Roma, in quel momento senza vescovo e governata, come abbiamo visto, dal Presbyterium, di cui faceva parte preminente il prete Novaziano Le decisioni prese dal concilio di Cartagine del 251 furono le seguenti: a) coloro che avevano sacrificato, denominati sacrificati dovevano fare penitenza, in previsione di esser riconciliati soltanto però in punto di morte; b) coloro che erano riusciti a ottenere un attestato dell’avvenuto sacrificio, senza però avervi partecipato, denominati perciò libellatici, erano ammessi alla penitenza e alla riconciliazione.

Intanto a Roma Novaziano, deluso per l’elezione di papa Cornelio, provocava lo scisma che da lui prese il nome, inteso a sostenere il rigorismo più esigente in rapporto ai lapsi. Cipriano e Cornelio rimasero fermi per una condotta di comprensibile riammissione.

Superato questo periodo di inquietudine interna, si abbatteva sulla città una sventura d’altro genere, la peste. La carità eroica, con cui Cipriano si prodigò per i colpiti dal contagio, induce a ricordare quella a noi più nota, in cui rifulse la carità di san Carlo e di Federico Borromeo a Milano. Passata anche questa sciagura, insorse un’altra penosa questione riguardo al battesimo conferito dagli eretici.

Il papa di quel tempo, Stefano I (254-257), sosteneva che non si doveva rinnovare quel battesimo. La tesi contraria era affermata da Cipriano, unitamente ai vescovi dell’Africa e dell’Asia Minore. C’era il rischio che si passasse alla provocazione di uno scisma: lo impedì la morte di papa Stefano nell’agosto del 257. Frattanto cominciava a infierire la tremenda persecuzione voluta dall’imperatore Valeriano. L’anno seguente (258), dopo un anno d’esilio, Cipriano moriva a Cartagine, martire della fede.



a) Le opere

«L’attività letteraria di Cipriano è strettamente legata agli avvenimenti della sua vita e del suo tempo. Tutti i suoi scritti sono dovuti a circostanze particolari e mirano a fini pratici. Cipriano era un uomo d’azione. Si curava più della direzione delle anime che di speculazione teologica. Non possedeva la profondità di Tertulliano, né il suo talento letterario e la sua ardente passione: era dotato di saggezza pratica». (1) Tra le sue numerose opere, sceglieremo le più singolari:

A Donato. Piùche una lettera, lo scritto si risolve in una pagina autobiografica. L’autore, da poco convertito, espone all’amico, specie nella prima parte, il mutamento prodottosi in lui per effetto della conversione alla fede cristiana. li destinatario non va confuso con Donato, vescovo di Cartagine. Si tratta di un amico, compagno della conversione. Ecco il brano più significativo di tutto lo scritto.


Lettura

La gioia della conversione

«Una volta io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tulle le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano davanti, ero in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita. Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse veramente difficile e pesante per i miei sentimenti di quel periodo ciò che la misericordia di Dio mi prometteva per portarmi alla salvezza. Ritenevo fosse difficile poter nuovamente rinascere e deporre le abitudini precedenti, anche se il battesimo nell’acqua della salvezza mi rinnovava a vita nuova. Ritenevo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l’anima senza mutare nel suo fisico. Continuavo a dirmi: come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto a un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi da quelle abitudini che ho indebitamente contratto e che da molto tempo mi dominano con arroganza, perché sono invecchiate con me? Queste abitudini sono legate a radici molto profonde [...j. Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero anch’io legato dai moltissimi vizi della mia vita passata e non avrei mai creduto di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualche cosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me. Ma sopraggiunse l’aiuto dell’acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall’alto si diffuse una luce nel mio animo purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai uomo nuovo. Dopo questo avvenimento ciò che era colpito dal dubbio divenne, in un modo che io non saprei descrivere, improvvisamente certezza; quello che era impenetrabile mi apparve accessibile e luminoso».

(A Donato 3,4. Tr. di G. Toso, Opere di Cipriano, Torino 1980, pp. 82-84)


• De lapsis (Gli apostati). Quest’opera, universalmente conosciuta, porta un titolo che, letteralmente, si riferisce ai «caduti» durante l’infierire della persecuzione di Decio; il titolo stesso, però, è reso più comunemente col termine di «apostati» o anche di «rinnegati». Lo scritto fu composto nella primavera del 251, quando era cessata la persecuzione e Cipriano era ritornato in sede a Cartagine dopo quattordici anni di esilio.
L’opuscolo passa in rassegna tre categorie in base al comportamento tenuto dai cristiani durante quel periodo di prova: i più fedeli, confessori della fede pur in mezzo ai tormenti; i caduti nell’apostasia; i «libellatici», che s’erano procurato astutamente il certificato di adesione. Lo scritto fu redatto in previsione del sinodo che i vescovi dell’Africa avevano deciso di organizzare nel maggio del 251 sui criteri da adottare in rapporto alla caduta dei cristiani. Cipriano ammetteva che «i caduti dovevano venire riconciliati. Egli insisteva però sulla necessità di una penitenza severa e prolungata: fin tanto che sulla conversione non avevano garanzie sufficienti, non bisognava riconciliare, salvo in punto di morte». (2)

• De catholicae ecclesiae unitate (L’unità della chiesa). Si tratta di una lettera pastorale, scritta in occasione dello scisma di Novaziano. Anche a Cartagine era in atto uno scisma, capeggiato dal prete Novato e dal diacono Felicissimo, tutti e due oppositori di Cipriano. Roma e Cartagine subivano dunque contemporaneamente le due deviazioni. Era l’anno 251. In seguito Cipriano riprese l’opuscolo con alcuni ritocchi, sicché, almeno per alcune parti, oggi si riconoscono due redazioni: la seconda fu scritta quando già si svolgeva la controversia sulla validità del battesimo conferito dagli eretici, come sosteneva il papa Stefano. Quest’opera può essere considerata come il primo trattato sulla chiesa. L’atteggiamento e il pensiero di Cipriano formano l’oggetto di conclusioni ancora molto discusse da parte degli studiosi. Ne vedremo il processo e il contenuto nel giudizio conclusivo.

• De dominica oratione (La preghiera del Signore). Contiene soprattutto il commento sulle singole petizioni del Pater noster. Precedono alcune premesse generiche sul modo di pregare e sulle doti che devono essere proprie di ogni preghiera. La conclusione afferma la necessità di accompagnare la preghiera con le buone opere, il che dona al breve opuscolo il pregio di un carattere sociale e comunitario.

• L’epistolario. È una raccolta di 81 lettere, delle quali ben 16 inviate allo stesso Cipriano da vari corrispondenti. Le lettere abbracciano tutte le fasi che distinguono i periodi più singolari della sua ricca esistenza. Sono divise in gruppi, secondo l’argomento, i destinatari e le occasioni che le hanno dettate. Vi è trattata la questione dei lapsi e lo scisma creato prima da Novato e poi da Novaziano. Vi è la corrispondenza con i vescovi di Roma, Cornelio e Stefano. Infine la questione sul battesimo conferito dagli eretici. L’importanza maggiore di questo epistolario affiora dalle notizie storiche, fornite da chi aveva vissuto tutte le vicende in prima persona.


b) La dottrina

Cipriano resta uno dei personaggi di maggior rilievo nella storia della chiesa cristiana antica. In rapporto ai grandi contenuti della fede, soprattutto in relazione ai misteri della Trinità e dell’incarnazione, la sua dottrina risulta irreprensibile. Ma è specialmente nei confronti della chiesa e del battesimo, dove appare particolarmente la sua sollecitudine, che hanno luogo alcune riserve. È stata infatti posta questa domanda: Cipriano riconosceva o no il diritto di Roma a intervenire negli affari di un’altra chiesa locale? Dalle risposte date dai vari studiosi, mi pare che quella di J. Daniélou sia tra le più evidenti: «Nel pensiero di Cipriano c’è certamente dell’ambiguità. O, più esattamente egli viene a trovarsi sulla confluenza di due correnti, alle quali rende ugualmente testimonianza, ma non ne vede ancora le possibilità di conciliazione. È attaccato all’unità della chiesa universale e in particolare al primato romano. Ma, d’altronde, è intimamente conscio dei diritti dell’episcopato locale. Papa Stefano dal canto suo, ha piena coscienza del suo diritto di intervenire negli affari delle altre chiese. E, d’altronde, Cipriano, in occasione precedente, sollecitandolo a intervenire, gli aveva riconosciuto questo diritto (...).

Se, al di là dei problemi particolari, cerchiamo di mettere in luce il significato della controversia, se ne vede l’importanza. Essa riguarda infatti la questione del principio e delle modalità del primato romano. Il conflitto non verte su questo primato in sé. Cipriano ne è uno dei grandi testimoni. Bensì verte sulla sua estensione. Quel che Cipriano rifiuta è un intervento in un settore che, a suo parere, è di pertinenza della chiesa locale. D’altra parte non c’è dubbio che la violenza della condanna scagliata da Stefano rivela una tendenza del vescovo di Roma a un abuso di autorità. Nella misura in cui difendeva la legittimità delle diverse tradizioni liturgiche, Cipriano protestava legittimamente contro le tendenze centralizzatrici di Roma. Ma nella misura in cui trattava una questione dogmatica, Stefano era nel giusto, affermando il diritto proprio di intervenire. L’avvenire dimostrerà che aveva ragione». (3)


Per l’approfondimento

Edizioni

PL 4; CSEL 3,1-2; CCL 3,1-2.

Traduzioni

G. Toso, Opere di san Cipriano, Torino 1980 (contiene: A Donato; La condotta delle vergini; Gli apostati; L’unità della chiesa cattolica; La preghiera del Signore; A Demetriano; La pestilenza; Le buone opere e l’elemosina; La virtù della pazienza; La gelosia e l’invidia; A Fortunato; Atti proconsolari; Lettere).

Studi

P. Brezzi, La riconciliazione ecclesiastica nella disciplina penitenziale secondo Tertulliano, Origene e Cipriano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», Nuova Serie, vol. IV, 1952, pp. 105-127; L. Dattrino, L’ecclesiologia di san Cipriano, in «Lateranum» 50 (1984), 127- 150; G. Mongelli,La chiesa di Cartagine contro Roma durante l’episcopato di san Cipriano, in «Miscellanea francescana» 59 (1959), 104-201; E Trisoglio, San Cipriano: un governatore di anime, in «Latomus» XX (1961), 342-243; 549-567.


Note


1) J. Quasten, Patrologia, I, p. 578.

2) J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, p. 244.

3) J. Daniélou, Nuova storia della chiesa, p. 247-248.

Il XX secolo è stato definito il secolo della Chiesa e, certamente, stiamo assistendo a movimenti di pensiero, nel campo ecclesiastico, che sconvolgono le vie tradizionali. Non siamo, tuttavia, dispensati dall'interrogare il nostro passato confessionale. Il problema dell'unita' della Chiesa non è una prerogativa del nostro secolo, anche se oggi assume delle proporzioni di primaria importanza.

Salvezza in Cristo e vita cristiana

di Pietro Rossano


L’EVENTO CRISTIANO




Gesù Cristo

1. Il cristianesimo prende origine da Gesù Cristo, personaggio storico, nato, vissuto e morto nella antica Palestina situata all’incontro di tre continenti e civiltà, l’Asia, l’Africa e l’Europa. Dall’anno della sua nascita prende origine il calendario moderno.

2. Gesù Cristo nacque a Betlemme da una vergine di nome Maria, della stirpe d’Israele, che lo aveva concepito per un intervento straordinario dello Spirito di Dio, e trascorse la più lunga parte della sua esistenza nel silenzio e nel lavoro quotidiano, nel piccolo villaggio di Nazaret.

3. Aveva circa 30 anni quando iniziò con autorità tra i suoi conterranei una predicazione pubblica, portando a tutti ed a ciascuno questo annuncio decisivo: « Dio vi chiama a convertirvi, a credere in lui e ad entrare nel suo Regno ». un invito pressante al rinnovamento spirituale, ma anche un annuncio di liberazione e di gioia: in Gesù, Dio si rivolge agli uomini per invitarli ad entrare in comunione con lui, e ricevere da lui la felicità alla quale aspirano.

4. Proclamò beati gli umili, i miti, i giusti, i misericordiosi, gli amanti della pace, i semplici e i sinceri; richiese il coraggio della rottura con ogni forma di peccato, anche a costo dei massimi sacrifici, dischiudendo gli orizzonti della vita futura: « Che giova all’uomo, disse, guadagnare anche tutto il mondo se poi reca danno all’anima sua? ». Insegnò a ciascuno a sentirsi piccolo davanti a Dio, a considerare gli altri come fratelli e ad essere pronto a perdonare, così come Dio realmente perdona a ogni uomo- In tal modo diede a tutti una speranza, e la possibilità di rivolgersi con fiducia a Dio.

5. Benedisse il lavoro e la famiglia, condivise il dolore e le esperienze della vita, considerò di pari dignità l’uomo e la donna, predilesse i bambini, apprezzò i valori dell’amicizia e della nazione. Prima di morire diede ai suoi discepoli questo distintivo: « Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati: da questo gli uomini conosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete a vicenda ».

6. Per condiscendenza verso le sofferenze degli uomini e per significare che la salvezza di Dio era presente in lui, operò molti prodigi, guarendo ciechi dalla nascita, facendo camminare storpi e paralitici, risuscitando morti; dimostrava così con i fatti di essere veramente l’inviato di Dio sulla terra.

7. Di sé e della sua missione rivelò personalmente ai discepoli quello che potevano capire, promettendo dopo la sua morte l’invio, da parte di Dio, dello Spirito, che li avrebbe introdotti nella pienezza della comprensione e della verità. Chiamò sempre Dio suo Padre, e parlò di sé come del Figlio, inviato dal Padre, con poteri eguali ai suoi, ma sottomesso in tutto alla sua volontà, della quale disse di nutrirsi come di cibo.

8. Lo scopo della sua esistenza era il compimento di una missione che egli spontaneamente adempiva in spirito di obbedienza e di amore. Disse di essere venuto « non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per gli uomini ». Raffigurò se stesso nell’immagine del pastore buono che dona la vita per le sue pecorelle, e paragonò la sua morte al grano di frumento che si dissolve nella terra al fine di risorgere e portare molti frutti.

9. Le sue parole e il suo comportamento urtarono la suscettibilità dei capi religiosi del popolo, i quali decisero di sopprimerlo; ma egli, pur consapevole dei pericoli che si addensavano sulla sua via, non fece nulla per evitarli, fino al giorno in cui, catturato, fu consegnato prigioniero al governatore romano Ponzio Pilato. Questi, per debolezza e per calcolo, lo condannò al supplizio infamante della croce, sulla quale morì affidando la propria vita al Padre e perdonando ai crocefissori. L’ufficiale romano che aveva guidato il picchetto di esecuzione dopo averlo visto spirare esclamò: « Veramente quest’uomo era il figlio di Dio ».

10. Fu seppellito da alcuni discepoli, e sulla tomba i nemici presero misure di sicurezza; ma ciò nonostante al terzo giorno il sepolcro fu trovato vuoto e Gesù apparve risorto, come aveva promesso, e si manifestò più volte e con evidenza ai discepoli, i quali in seguito diedero testimonianza di averlo veduto risorto con i propri occhi, e toccato con le proprie mani. Poi un giorno, alla loro presenza, si levò verso il cielo e scomparve, ponendo termine alla sua missione visibile sopra la terra. Annunciò che sarebbe tornato solennemente alla fine dei tempi, per raccogliere i frutti del seme da lui gettato, e dare a ciascuno secondo le sue opere.

11. Le parole e i gesti principali di Gesù sono stati raccolti dai discepoli nei quattro libretti dei Vangeli; essi costituiscono per i cristiani la parte più preziosa del Nuovo Testamento, (1) e contengono l’annuncio e la testimonianza che gli Apostoli diedero di lui. Dai Vangeli la sua figura continua a emergere nella storia, ponendo a tutti gli uomini il problema capitale della sua persona e della sua missione: « E voi chi dite che io sia? ».


Nota

1) Sulla Sacra Scrittura dei cristiani, la Bibbia, e sulle due parti dell’Antico e Nuovo Testamento di cui si compone, vedasi il n. 3 del c. « La sapienza cristiana » e il n. 31 del c. « La vita cristiana ».

A proposito dell’Antico Testamento è normale che ci si chieda se, nella varietà del suo formarsi per una lunga serie di secoli e attraverso situazioni storiche, politiche e sociali quanto mai diverse, esso conservi – e come – una sua unità.