Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Giustizia e Carità. Affrontare le sfide del futuro:
i rapporti ebraico-cattolici nel 21° secolo
Dichiarazione congiunta

18a Riunione del Comitato Internazionale di Raccordo tra Cattolici ed Ebrei

Buenos Aires 5-8 luglio 2004. Incontro dell’ International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC) sul tema: “Giustizia e Carità. Affrontare le sfide del futuro: i rapporti ebraico-cattolici nel 21° secolo”.

I rapporti tra la Chiesa cattolica ed il popolo ebraico hanno sperimentato grandi cambiamenti dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate (1965), che ha sottolineato le radici ebraiche del Cristianesimo e il ricco patrimonio spirituale condiviso da Ebrei e Cristiani. Nell’ultimo quarto di secolo, il Papa Giovanni Paolo II ha approfittato di tutte le occasioni che si sono presentate per promuovere il dialogo tra le due comunità di fede, che considera inerente alle nostre identità. Questo dialogo ha generato un’intesa e un rispetto reciproci. Speriamo di continuare ad arrivare a circoli sempre più ampi e di toccare le menti ed i cuori di Cattolici ed Ebrei e dell’intera comunità.

La 18ª Riunione del Comitato internazionale di raccordo tra Cattolici ed Ebrei ha avuto luogo a Buenos Aires dal 5 all’8 luglio 2004. Questo incontro, celebrato per la prima volta in America Latina, ha avuto come tema centrale Tzedek and Tzedakah (Giustizia e Carità) nei loro aspetti teorici e nelle loro applicazioni pratiche. Le nostre decisioni sono state ispirate dal comandamento divino “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lev 19,18; Mt 22,39). Dalle nostre diverse prospettive, abbiamo rinnovato il nostro impegno nei confronti della difesa e della promozione della dignità umana in base all’affermazione biblica per la quale ogni essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Ricordiamo la difesa dei diritti umani di Papa Giovanni XXIII per tutti i figli di Dio enunciata nella sua enciclica Pacem in Terris (1963) e le rendiamo un tributo speciale per aver iniziato questo scambio fondamentale nei rapporti ebraico-cattolici.

Il nostro impegno reciproco nei confronti della giustizia ha una profonda radice in entrambi i Credo religiosi. Ricordiamo la tradizione di aiutare la vedova, l’orfano, il povero e lo straniero derivanti dal comandamento di Dio (Es 22,20-22; Mt 25,31-46). I Maestri di Israele hanno sviluppato un’ampia dottrina di giustizia e carità per tutti, basata su una profonda comprensione del concetto di Tzedek. Costruendo sulla tradizione della Chiesa, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, Redemptor Hominis (1979), ricordava ai Cristiani che un vero rapporto con Dio richiede un forte impegno nel servizio nei confronti del nostro prossimo.

Anche se Dio ha creato l’essere umano nella diversità, lo ha dotato della stessa dignità. Condividiamo la convinzione per cui ogni persona ha diritto ad essere trattata con giustizia ed equità. Questo diritto include il fatto di condividere la grazia e i doni di Dio (hesed).

Vista la diffusione della povertà, dell’ingiustizia e della discriminazione, abbiamo il dovere religioso di preoccuparci per i poveri e per coloro che sono stati privati dei propri diritti politici, sociali e culturali. Gesù, radicandosi profondamente nella tradizione ebraica dei suoi tempi, ha fatto dell’impegno nei confronti dei poveri una priorità del Suo ministero. Il Talmud afferma che il Santo, sia Benedetto, ha sempre cura dei bisognosi. Attualmente questa preoccupazione deve comprendere ampi gruppi in tutti i continenti: gli affamati, gli orfani, le vittime dell’AIDS, tutti coloro che non ricevono cure mediche adeguate e quelli che non sperano in un futuro migliore. Nella tradizione ebraica, la forma superiore di carità consiste nell’abbattere le barriere che impediscono ai poveri di uscire dalla loro condizione di povertà. Negli ultimi anni la Chiesa ha sottolineato la propria scelta preferenziale per i poveri. Gli Ebrei e i Cristiani hanno lo stesso dovere di lavorare per la giustizia con carità (Tzedakah), arrivando così alla pace (Shalom) per tutta l’umanità. Fedeli alle nostre rispettive tradizioni religiose, vediamo questo impegno comune nei confronti della giustizia e della carità come la cooperazione dell’uomo con il piano divino per costruire un mondo migliore.

Alla luce di questo impegno comune, riconosciamo la necessità di trovare una soluzione per queste grandi sfide: la crescente disparità economica tra i popoli, la grande devastazione ecologica, gli aspetti negativi della globalizzazione e il bisogno urgente di lavorare per la pace e la riconciliazione.

Sono quindi benvenute le iniziative congiunte delle organizzazioni internazionali cattoliche ed ebraiche che hanno iniziato a lavorare per risolvere i problemi dei poveri, degli affamati e degli ammalati, dei giovani, di coloro che non hanno accesso all’educazione e degli anziani. Sulla base di queste azioni di giustizia sociale ci vogliamo impegnare a raddoppiare i nostri sforzi per soddisfare i bisogni più pressanti di tutti attraverso il nostro impegno comune nei confronti della giustizia e della carità.

Man mano che ci avviciniamo al 40° anniversario della Nostra Aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che ha ripudiato l’accusa di deicidio contro gli Ebrei, ha riaffermato le radici ebraiche del Cristianesimo e ha condannato l’antisemitismo, prendiamo nota dei molti cambiamenti positivi che la Chiesa cattolica ha operato nei suoi rapporti con il popolo ebraico. Questi ultimi 40 anni di dialogo fraterno contrastano in maniera sostanziale con quasi duemila anni di “insegnamento del disprezzo”, con tutte le sue dolorose conseguenze. Prendiamo energia dai frutti degli sforzi collettivi, che includono il riconoscimento del rapporto unico e continuo tra Dio e il popolo ebraico e il rifiuto totale dell’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni, incluso l’antisionismo come espressione più recente dell’antisemitismo.

Da parte sua, la comunità ebraica ha evidenziato un desiderio crescente di portare a termine un dialogo interreligioso ed azioni congiunte su questioni religiose, sociali e comunitarie a livello locale, nazionale e internazionale, come illustra il nuovo dialogo diretto tra il Gran Rabbinato di Israele e la Santa Sede. La comunità ebraica, inoltre, ha compiuto numerosi passi a livello di programmi educativi sul Cristianesimo, sull’eliminazione dei pregiudizi e sull’importanza del dialogo ebraico-cristiano. La comunità ebraica ha poi preso coscienza, deplorandolo, del fenomeno dell’anticattolicesimo in tutte le forme in cui si manifesta nella società.

Nel 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti, dichiariamo la nostra decisione di impedire la rinascita dell’antisemitismo che ha condotto al genocidio e alla Shoah. Su questo punto siamo uniti e seguiamo gli indirizzi delle principali conferenze internazionali su questo problema che sono state realizzate recentemente a Berlino e presso le Nazioni Unite a New York. Ricordiamo le parole del Papa Giovanni Paolo II, che ha affermato che l’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità.

L’aspetto degno dell’arte dell’agiografo sta nel fatto d’ottenere (se l’ottiene) di narrare tramite la sua iconografia la verità evangelica nel mondo, non semplicemente di raffigurare il mondo senza l’influenza in esso della Grazia Divina.

di fra Timothy Radcliffe op

Mi è stata richiesta una riflessione sulla spiritualità della missione nell'era della globalizzazione. Cosa significa essere missionari a Disneyland? Di fronte all'invito a tenere questa conferenza, il cui argomento è appassionante, ho provato un sentimento di gioia, ma nel contempo anche di esitazione, perché non sono mai stato un missionario nel senso corrente del termine. Al Capitolo generale elettivo dell'ordine in Messico, i fratelli hanno definito i criteri di selezione dei candidati alla carica di maestro dell'ordine. Si riteneva essenziale che il candidato avesse maturato un'esperienza pastorale al di fuori del proprio paese. E poi hanno eletto me, che avevo lavorato solo in Inghilterra in qualità di accademico. Io non so se tutte le congregazioni agiscano in modo così eccentrico, ma questo dato chiarisce perché io mi senta così inadeguato a tenere questa conferenza.

Don Tonino Bello, vescovo

di Felice Di Giandomenico

E’ impossibile descrivere in poche righe ciò che Sua Eccellenza Mons. Antonio Bello, per tutti Don Tonino, ha rappresentato per la Chiesa e per tutti coloro che vivono ai margini di una società troppo spesso disattenta ai reali e penosi problemi della “gente comune”.
Nato ad Alessano in provincia di Lecce nel 1935, fu ordinato sacerdote nel 1957 a soli 22 anni.
Nel 1982 divenne vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi.
Nonostante l’alto incarico ecclesiale, Don Tonino era affabile e disponibile con chiunque bussava alla sua porta per chiedere una parola di conforto, un aiuto materiale, un momento di ristoro per l’anima. Ogni singola situazione veniva presa a cuore, affrontata con determinazione.
A chi gli chiedeva che cosa lo affliggesse di più, Don Tonino rispondeva: “Mi fa soffrire molto l'impossibilità di giungere a dare una mano a tutti. Ho un'agenda sovraccarica di persone che chiedono una visita, un sostegno, un appuntamento, del denaro, una soluzione ai loro problemi... Si vorrebbe avere occhi e mani per ognuno, ma non si riesce, e questo è il rammarico più grande”.
Una frase che risuonava spesso sulle labbra di Don Tonino era: “Coraggio, non temere”.
In uno suo scritto intitolato “Le mie notti insonni”, Don Tonino elenca una serie piuttosto lunga di paure che contaminano l’uomo moderno, minando anche il suo rapporto con Dio.
Paure frutto spesso di un progresso che, dopo gli entusiasmi iniziali, si ritorce sull’uomo che vive nell’illusione di mantenersi al passo con i tempi dimenticando che “E’ dal cuore umano che nasce e si sviluppa la nube tossica delle paure contemporanee”
Ma esiste un antidoto contro le paure, il Vangelo dell’antipaura come amava definirlo Don Tonino: “Alzatevi…Levate il capo” (Lc 21, 25-28.34-36). E’ il Vangelo che si legge la prima domenica di Avvento in cui Gesù esorta alla preghiera e alla fiducia nella liberazione definitiva da ogni timore, da ogni paura, da ogni negatività.
Forse anche per la sintonia con la spiritualità francescana (faceva parte dell'Ordine Francescano Secolare) Don Tonino amava lasciarsi guidare dal Vangelo "sine glossa", senza sconti sulla verità né diluizioni o prudenze carnali. Non a caso si definiva “Un buono a nulla. Ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona a Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno”.
Don Tonino era anche un vero innamorato dell’Immacolata e, in molti suoi scritti, questo amore diventava una continua dichiarazione d’amore nei confronti della Mamma Celeste.
Dal 22 al 29 luglio 1991, predicò un Corso di Esercizi Spirituali in occasione del 40° Pellegrinaggio della Lega Sacerdotale Mariana a Lourdes da cui venne tratto lo stupendo volume “Cirenei della gioia”. Condivise con i sacerdoti malati quel momento in cui il cuore umano si affida senza riserve alla grazia di Dio, chiedendo l’intercessione della Vergine Santa, offrendo al Signore la propria debolezza e precarietà terrena.
Don Tonino era abituato a prolungate soste davanti Tabernacolo, da cui traeva energia e ispirazione e molte delle lettere che spediva a coloro che, spesso addolorati e affranti si rivolgevano a lui, nascevano proprio nel cuore di una veglia notturna quando era a tu per tu con Dio.
Anche riguardo al tema della sofferenza, Don Tonino rimase sempre aderente allo spirito evangelico che ne sottende il senso. Aveva a che fare con i malati, i disabili, con coloro che nessuno considerava e che rimanevano silenziosi nel loro dolore; dolori diversi ma pur sempre urenti, che lacerano l’anima, che hanno la voce soffocata dall’indifferenza collettiva, che creano cicatrici evidenti nel cuore di chi li deve subire. Ma per Don Tonino, la sofferenza trova un senso vero solo se condivisa amorevolmente con Dio. Dice infatti: “C’è anche il caso, comunque, ed è molto frequente, che il dolore rafforzi l’intimità col Signore: il quale viene riscoperto non tanto come estremo rifugio di consolazione, ma come colui che "ben conosce il patire" e che sa solidarizzare fino in fondo con tutta la nostra esperienza”.
Parole profetiche. Colpito da un male inguaribile mantenne sempre fede ai suoi impegni di pastore d’anime con entusiasmo ma, soprattutto, con un’umanità davvero straordinaria, nonostante le sofferenze che lo tormentavano. La malattia di Don Tonino era una di quelle che non perdona, che produce dolori tremendi, che sfianca il corpo e debilita lo spirito.
Eppure non cessò un solo attimo di affrontare anche sofferenze che non gli appartenevano direttamente, lasciando sempre spazio a chi chiedeva aiuto o desiderava una risposta convincente sull’assurdità del dolore. Consumò lentamente i suoi ultimi mesi di vita tra la sua gente, tra i suoi poveri, tra gli inascoltati gridi della “gente comune”. La morte colse prematuramente Don Tonino il 20 aprile del 1993 a 58 anni.

HA DETTO

“Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’ anima mia, fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sono composto, perché ti piaccia in tutto, o mio Dio”.

“Io non risolvo il problema degli sfrattati ospitando famiglie in vescovado. Non spetta a me farlo, spetta alle istituzioni: però io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove, insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa”.

“Vedete, noi siamo qui , Probabilmente allineati su questa grande idea, quella della nonviolenza attiva. Noi qui siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà.Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.


Andiamo fino a Betlemme,
come i pastori.
L'importante è muoversi.
E se invece di un Dio glorioso,
ci imbattiamo nella fragilità
di un bambino,
non ci venga il dubbio di aver
sbagliato il percorso.
Il volto spaurito degli oppressi,
la solitudine degli infelici,
l'amarezza di tutti gli
uomini della Terra,
sono il luogo dove Egli continua
a vivere in clandestinità.
A noi il compito di cercarlo.
Mettiamoci in cammino senza paura.
(don Tonino Bello)

Disposti a pagare il prezzo

di
Marcello Barros

Nel Forum, come quello tenutosi a Nairobi, la cosa più importante non è tanto raggiungere un consenso o elaborare dei bei documenti finali, quanto fare in modo che i partecipanti possano mettersi in discussione e le organizzazioni di base ne possano uscire rafforzate. Sicuramente tutti i partecipanti a questo Forum sono stati colpiti dall’estrema povertà della maggior parte della popolazione di Nairobi, e dal fatto che i missionari vivono con loro come gesto concreto di solidarietà, volto a concretizzare un cammino di trasformazione. Questa situazione scandalosa, che colpisce la maggior parte dell’umanità, sembra far sentire il suo grido in America Latina, Africa, Asia, rimandandolo alle chiese, affinché escano dal loro letargo dogmatico e religioso per non essere poi condannate, come complici di omissione, di fronte al genocidio che il neo-liberismo sta operando nel mondo.

Al Forum ci si è chiesti, molto provocatoriamente, se i teologi della liberazione si mantengano fedeli all’ispirazione originale, oppure se molti hanno abbandonato il loro impegno per i poveri per convertirsi a una teologia liberale, capace di dialogare con e scuole europee,svincolandosi dall’impegno per realizzare una trasformazione sociale e di liberazione.

La questione posta dal teologo asiatico Rowan Silva interpella tutti noi:”Se non siamo disposti a pagare il prezzo di essere a fianco dei poveri e degli oppressi, la nostra teologia è inutile”. Silva ha insistito su una nuova teologia che entri in relazione con le religioni. Ha ricordato che in Asia, il cristianesimo ha bisogno di un “battesimo di immersione” nelle acque delle grandi religioni asiatiche, come pure di andare al calvario con i poveri.

Forse per questo, le persone hanno affermato che la spiritualità “per un nuovo mondo possibile” non è ristretta alle istituzioni religiose, ma deve essere libera e indipendente dai dogmi e dalle strutture religiose.

Il Forum si è concluso senza fissare un appuntamento futuro. Nei corridoi, tante persone si sono domandate perché i più famosi teologi della liberazione non fossero presenti a un evento così importante. La risposta più immediata riguardava l’aspetto economico. In modo particolare, il costo del biglietto aereo.

A parte ciò, fin dagli anni’80, in ambito cattolico, la discussione teologica è stata vista con sospetto, fino a essere perseguitata dal Vaticano e, in determinati ambienti, dalle gerarchie locali. Ci si chiede: in che modo si può creare uno spirito di lavoro comune e di interesse al dialogo, come è emerso al Forum? Tale problema suggerisce, soprattutto ai cattolici, quanto questo Forum abbia una natura più ecumenica. Anche se si deve riconoscere che la maggior parte dei partecipanti era di estrazione cattolica e la questione ecumenica è stata trattata solo in maniera minore.

Il giorno dopo la chiusura del Forum di teologia, è cominciato il 7° Forum sociale mondiale, che, più dei precedenti, ha aiutato i partecipanti a confrontarsi direttamente con situazioni di povertà, che molti nordamericani, europei e anche latinoamericani non avevano mai visto prima. Nel Forum mondiale non si è parlato di spiritualità, anche se un partecipante si è posto la seguente questione: “Non appartengo a nessuna religione, non mi pongo la questione su Dio, ma ho visto tanti poveri partecipare al Forum. Osservando la creatività di questa gente, mi sono interpellato nel mio essere più profondo. Non so se tutto ciò significhi”spiritualità”, ma credo che sia questa energia di solidarietà che mi sfida a cambiare il mio modo di vivere”.

(da Nigrizia, marzo 2007)

Lunedì, 29 Ottobre 2007 20:57

L’unità dell'amore (Giovanni Vannucci)

L’unità dell'amore

di Giovanni Vannucci


Cristo ha portato la Legge alla sua perfetta maturazione dischiudendo alla coscienza l’immenso orizzonte in cui l’amore di Dio, l’Invisibile, e del prossimo, il Visibile, si unificano in un’unica espressione nel cuore dell’uomo. «Ama il Signore tuo Dio con tutto te stesso; ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37-39). Al comandamento e, in conseguenza, all’impulso di Cristo, il cuore umano oppone due formidabili resistenze: «l’egoismo», nelle sue molteplici sfumature, e «la grettezza morale», cioè la mancanza di generosità nelle piccole e grandi cose.

L’egoismo è il primo nemico dell’amor di Dio, chi ama appassionatamente se stesso non può logicamente amare Dio: chi ama cerca sempre cosa può dare all’amato; l’egoista si domanda sempre cosa può ancora ricevere. L’amore verso l’Invisibile è un amore del tutto altruista. Chi ama Dio vuole unicamente piacere a Lui solo, per piacere a Dio niente è mai troppo duro da compiere, troppo amaro da sacrificare, e dona se stesso totalmente, senza mezze misure, senza meschine preoccupazioni. Per lui amare è tutto, che importa se il suo amore sarà corrisposto o meno? Egli è pago d’amare con tutto il cuore, con tutte le sue capacità; a questa divina ebbrezza mai arriverà l’egoista, in lui la preoccupazione di se stesso ostacolerà ogni slancio. In lui l’amore di Dio diverrà timore; la volontà di ascesa si trasformerà in ricerca di meriti; il pentimento delle colpe commesse si muterà in penosa attrizione di rimorso, causata dalla paura; l’Iddio misericordioso diverrà il Dio tremendo; l’egoista, misurando sul suo metro lo stesso Dio, verrà a trovarsi nelle condizioni di antagonista; per l’egoista una sola via è possibile: quella del più nero pessimismo e scetticismo. Ripiegato su se stesso, non pecca, ma solo per non rischiare, perciò non acquisisce neppure del merito. Potrà osservare tutti i dieci comandamenti di Mosè, ma gli sarà impossibile aprirsi al comandamento dell’amore, perché il suo cuore è colmo solo della preoccupazione di sé.

Infinite sono le sfumature dell’egoismo: si nascondono in ogni crepa della coscienza, si valgono di ogni farisaica impostura; chi ama sa scoprirle in se stesso e spietatamente le distrugge. Una delle più pericolose maschere dell’egoismo è il vittimismo. Chi passa il tempo a compiangersi, chi va in cerca di motivi di malcontento, chi si sente il centro d’attrazione di ogni possibile disgrazia, non raggiungerà mai l’amore. Per lui non esiste alcuna possibilità di volo; ripiegato in se stesso, autoirrorantesi di lacrime, si ritiene oggetto dell’universale interesse e non capisce come la vita lo sorpassi in corsa.

Se l’egoismo si oppone all’amor di Dio, la grettezza morale si oppone a quello del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». La farisaica domanda sorge subito: «Chi è il mio prossimo?». L’egoista è anche gretto, ingeneroso, non può amare Dio, perché troppo occupato ad amare se stesso; non può amare il prossimo suo, perché non ha prossimo. Chiuso nella torre di avorio delle sue personali preoccupazioni, può giungere alla falsa generosità dell’elemosina, traendo da essa un piacere, ma non perché senta il bisogno del prossimo come un suo bisogno, come una diretta relazione di Carne e di Charitas. Il gretto può essere formalmente virtuoso, austero puritano, ipocritamente religioso, non solo per la stima che gli altri possono avere di lui, ma per un suo interiore compiacimento. A lui sono ignote tutte le generosità, le coraggiose imprese, tutti i rischi.

L’uomo è chiamato ad attuare l’amore, non il timore. Amore giocondo verso l’invisibile Iddio, senza sottigliezze metafisiche, amore grato per ogni cosa bella, per ogni cosa buona, amore sereno e fiducioso, paziente e generoso verso tutte le forme di vita, non esclusa la propria, considerata come una potenza spirituale in ascesa; amore forte e coraggioso che trae dalle avversità l’alimento per la sua nutrizione e per il suo sviluppo; amore naturale che non costa sforzo, che non si esaurisce nel dare, ma trae dalla sua stessa grandezza sempre nuovi doni. L’uomo si matura sotto il raggio dell’amore, come il frutto sotto quello del sole. Il «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» non è più un poetico dolcissimo comandamento, ma diviene un semplice modo di essere nella vita.

se stesso. Quando l’uomo avrà fatto dell’amore verso Dio e dell’amore per il prossimo un solo amore, l’umanità realizzerà se stessa nella pienezza della Luce.

Ogni amore che non saldi i due amori in un solo amore è limitante, soffocante e null’altro è se non amore di sé. Quando diciamo d’amare e, in nome di quest’amore, violiamo la personalità dell’altro, consumiamo solo una rapina, anche se col beneplacito del rapinato. Afferriamo per le ali la farfalla, invece di contemplarla, con amore, libera sui fiori; imprigioniamo in gabbie, non importa se d’oro, gli usignoli creati per la dolcezza delle notti. La prima lettera dell’amore si chiama «libertà»; Dio amandoci ci dona questa libertà, totalmente; ci dà tutto, si affida a noi senza difesa, non ci impone il suo amore, lo mette alla nostra portata, attendendo che impariamo a viverlo per la nostra gioia e la gioia di tutti gli esseri.

La conoscenza di tutte le conoscenze, la chiave di tutte le chiavi è questa: conoscere nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che ci siede accanto; fare della tortura del nostro fratello la nostra tortura, fare della gioia del nostro fratello la nostra gioia. Allora la divina realtà dell’amore trionfante irradierà le coscienze, non vi sarà più né mio né tuo, né padrone né servo, né oppresso né oppressore, non vi sarà più il male perché il male è uno solo: quello che soffre l’altro e che tu, per nessuna cosa al mondo, vorresti causare né causerai.

(Giovanni Vannucci, «L’unità dell’amore» in Risveglio della coscienza, Sotto il Monte, ed. CENS, 1984, 30a domenica del tempo ordinario - Anno A, pp. 180-182).
Spiritualità e liturgia, Oriente e Occidente:
nel tempo, nell'eternità

di Tomàs Spidlìk







Durante il concilio Vaticano II, un osservatore venuto dall’Oriente fu accompagnato per Roma da un esperto occidentale, per fare la conoscenza delle opere pastorali. È naturale che in tali occasioni si sia tentati di vantarsi, almeno modestamente. Venne quindi un’ugualmente modesta reazione dall’altra parte: «Anche voi aspettate la venuta di Gesù Cristo, o volete anticipatamente fare tutto già qui a Roma?».

In modo meno grazioso, ma come una seria obiezione, sentiamo lo stesso rimprovero dai teologi orientali: i latini non pregano «maranatha», «Vieni Signore Gesù» (Ap 22,20), ma temono il dies irae, calamitatis et miseriae. Pur ammettendo la serietà della questione, dobbiamo tuttavia fin dall’inizio mettere in guardia che la sua formulazione non è tanto semplice. Sia in Occidente sia in Oriente si manifestano diverse tendenze contraddittorie.l

Le diverse posizioni escatologiche

Assai vicini alla posizione orientale sembrano i protestanti che si rifanno a Karl Barth. Il primato nella vita spirituale spetta alla fede. Essa si esercita nel tempo e ci prepara alle realtà sperate, che però rimangono trascendenti, al di là del tempo. Il regno escatologico non si costruisce nel presente: «In questo tempo qua, cioè nella successione degli avvenimenti, in ciò che chiamiamo storia, la Chiesa non ha niente da aspettare».2 In tal senso, poteva scrivere un altro protestante: «Non vi è un progresso nel corso della storia né dal punto di vista morale, né dal punto di vista sociale, né dal punto di vista spirituale. Esistono, certamente, progressi tecnici, ma è soltanto in questo dominio che esistono dei miglioramenti. In tutti gli altri settori dell’attività umana vi sono dei cambiamenti, dei passi in avanti (nel senso di un’evoluzione), ma nessun miglioramento nel vero senso».3

È naturale che anche fra i protestanti si siano levate varie voci contro una posizione così radicale. Lo testimoniano le discussioni che ci furono durante la seconda assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese a Evanston (USA 1954; ndr). Parecchi giudicarono il precedente atteggiamento troppo pessimistico, perché sembrava non tener conto «dell’opera attuale dello Spirito Santo nelle Chiese e nel mondo» e non vedere i concreti segni visibili della nostra speranza già attorno a noi.4

A questa tendenza dei protestanti, che sosteneva una rottura fra la vita presente e quella futura, già a prima vista si opponeva l’insegnamento cattolico sui «meriti», cioè sulla dipendenza della vita futura dalla condotta terrena. Eppure, anche fra i cattolici, c’era una corrente, chiamata «teologia escatologica», opposta alla «teologia dell’incarnazione».5

Nello spirito della teologia escatologica di L. Bouyer,6 la vita spirituale dev’essere tutta concentrata sulla venuta gloriosa di Cristo negli ultimi giorni del mondo. Bisogna prestare attenzione alla condanna del mondo e alla vittoria sopra il male per mezzo della croce. Questo è stato lo scopo dell’incarnazione di Cristo, e questo dev’essere quindi anche lo scopo principale della vita cristiana di ogni giorno, piuttosto che sognare una conquista del mondo presente.

Teologi rinomati come G. Thils, D. Dubarle e molti altri professano al contrario la teologia dell’incarnazione nel senso seguente: il male esiste ancora nel mondo, ma è già vinto; la croce di Cristo è inseparabile dalla risurrezione ed è la vista della risurrezione che deve condurre i nostri sforzi positivi per salvare la vita del mondo e tutti i suoi valori. Era la tendenza appoggiata fortemente da Teilhard de Chardin.

Degli orientali ortodossi citiamo, per il momento, soltanto ciò che viene presentato come tipicamente caratteristico per la spiritualità russa.7 A. von Harnack considera la Chiesa russa come l’esempio di una religione dell’aldilà, che «tocca appena terra con i piedi» e vuole gioire della «pregustazione della vita celeste».8 Soprattutto l’ala estrema del raskol, i cristiani senza pope, voleva rendere il popolo libero, senza impedimenti, tutto rivolto ai fini ultimi.9 A causa di questo, essi hanno manifestato una resistenza eccezionale alla sofferenza.

Una lunga serie di motivi ha contribuito a formare questa mentalità escatologica. N. Berdjaev propone i suoi: «Nella vita dei popoli, in generale, ci sono due miti che possono diventare dinamici: il mito delle origini e il mito della fine. Presso i russi ha dominato il secondo: il mito escatologico». Il XIX secolo è esemplare a questo proposito. Vi ritroviamo una ricerca appassionata del progresso, della rivoluzione mondiale, del socialismo (un escatologismo profano) e, allo stesso tempo, una coscienza profondamente acuta della vanità, della malvagità, della meschinità che questo progresso, questa civiltà e questa rivoluzione danno.10

Un’altra ragione, proposta questa volta da S. Bulgakov, è il carattere storico del pensiero russo, per il quale lo scopo della storia è di superare la storia e riflettere il trascendente.11 La terza ragione può essere compresa a partire dall’atteggiamento verso la verità. Se la verità è sentita come viva, allora la maniera della sua conoscenza sarà l’incontro con una persona, la persona di Cristo, la sola verità in pienezza. «La visione faccia a faccia – scrive V. Lossky – è una comunione per così dire esistenziale con Cristo, in cui ciascuno trova la pienezza, conoscendo Dio personalmente ed essendo personalmente conosciuto da Dio».12

La prima sorgente di tali opposizioni

Osservando la varietà di questi diversi escatologismi, ci chiediamo come si possa trovare un giusto equilibrio, una sintesi coerente. Ma è davvero necessario cercarla? Sarà forse meglio ammettere con V. Solov’ëv che tutte queste tendenze provengono da un falso presupposto: la divisione in due mondi, che non è cristiana anche se può sembrarlo. È un’affermazione insolita, coraggiosa. Ma mi viene in mente di comparare, in questo contesto, Solov’ëv con il grande filosofo ebreo Filone di Alessandria. Questi, studiando le brillanti riflessioni dei filosofi antichi su Dio, concluse che essi sono tutti «atei», perché non conoscono il Theos della Bibbia. Fu all’inizio della nostra era. E oggi?

Il nostro Credo cristiano comincia con la giusta professione: «Credo in un solo Dio Padre, creatore del cielo e della terra». E lo stesso simbolo di fede termina con un’altra professione: «Credo nella vita eterna». Purtroppo, l’antico errore si ripete qui: i suoi interpreti non avvertono a sufficienza che il senso cristiano della vita eterna è essenzialmente diverso dalle attese escatologiche predicate altrove. Da una tale confusione come possiamo aspettare un’escatologia autentica? Proviamo quindi a seguire la riflessione di Solov’ëv, come è proposta nel suo opuscolo Fondamenti spirituali della vita.13

La risurrezione, problema personale di Solov’ëv

Per seguire più facilmente le sue riflessioni, dividiamole schematicamente secondo il loro contenuto.

1. Il male domina nel mondo. Il pensatore lo ha scoperto progressivamente nella sua vita. Proveniva da una famiglia devota, ma frequentando l’università ha perso la fede perché vi si insegnavano le teorie darwinistiche. Dice scherzando: le bestie antidiluviane insegnate dalla teoria evoluzionista hanno avuto la meglio sul «catechismo antidiluviano» della mia nonna. Constatiamo che il male si manifesta dovunque, è universale. Un sasso respinge un altro sasso, un animale mangia un altro animale, e tra gli uomini uno trova il suo posto nella vita grazie alla morte degli altri. Aiutano poco le prediche sulla carità. La vita esige il combattimento e i combattimenti causano la morte, considerata come «unica vera giustizia».

2. L’esistenza del bene. Dopo la prima constatazione pessimistica, facciamo però anche una diversa esperienza: se ci fosse solo il male, il mondo non esisterebbe. Dunque, ci deve essere anche il bene. Come si manifesta? Prima di Darwin, che insegnava la lotta per la vita, il grande naturalista svedese Linneo aveva scoperto nella natura ciò che chiama entelecheia. Egli aveva osservato che uno si offre per far vivere un altro: vediamo, ad esempio, che le foglie di un albero cadono perché il frutto ha bisogno di sole, che la mano protegge l’occhio, che la mamma si offre per il bambino... Queste offerte generose salvano la vita nella natura.

Da ciò si è formato il principio della condotta morale umana: l’egoismo è male, il bene è sacrificarsi per gli altri. In questo senso educhiamo già i bambini. Quando uno muore per la patria gli si fa un monumento: «Qui un soldato è morto per la patria», «Qui un medico è morto curando i malati» ecc. Ma nonostante i grandi elogi di tali atti eroici sorgono anche dubbi: quanti sacrifici si fanno per le istituzioni pubbliche, ma gli stati sono forse diventati migliori? Assomigliano alla divinità Moloch che mangiava i propri figli. Un uomo onesto si chiede: ho il diritto di sacrificare un altro per vivere bene, onorare i soldati che sono morti in guerra perché io possa godere della pace? Dostoevskij ne I fratelli Karamazov fa dire a Ivan: «Io rifiuterei di andare in paradiso se costasse una sola lacrima di un povero bambino». Perché esigere sacrifici degli altri per vivere? La conclusione che ne segue è che la morale laica non è capace di risolvere il problema del male.

3. La soluzione religiosa ci viene in aiuto. Tutte le religioni concordano in questa fede fondamentale: nella vita presente non esiste la giustizia, ma in futuro, dopo la morte, entreremo nella vita eterna, nella quale si troverà la giusta ricompensa per ogni bene. Si direbbe che questa consolazione religiosa possa venire accettata con soddisfazione da tutti gli uomini. Ma succede una cosa strana: parecchi la disprezzano o cercano di ignorarla, soprattutto più fra gli uomini che fra le donne. Forse la ragione è anche psicologica. La donna per secoli è stata abituata a faticare per ciò che passa: preparare un cibo che è subito consumato, pulire cose che saranno di nuovo sporcate, e così via. L’uomo invece, quando fa una cosa, pensa: «Voglio che questo rimanga». Le promesse religiose non attirano la maggioranza della gente. Ed è giusto così: la vita presente è mia, perché sacrificarla per un’altra?

4. La novità cristiana. Riflettendo su questi problemi, Solov’ëv cadde di nuovo nei dubbi. Cercò di rendersi conto di che cosa si possa trovare di nuovo nel cristianesimo. Osserviamo la vita di Gesù Cristo stesso. Egli ha offerto la sua vita per gli altri, è quindi un grande eroe dell’umanità; è passato da questa vita e ora siede alla destra del Padre, e lo stesso promette a coloro che osservano i suoi comandamenti. Si può credere che vi sia un elemento davvero nuovo rispetto alle altre religioni? Può darsi che l’idea di paradiso che ci forniscono gli autori cristiani sia più nobile delle immaginazioni degli altri, ma la sostanza rimane sempre la stessa.

Si tratta di obiezioni così gravi che Solov’ëv stesso non sapeva come risolverle. Cominciò a studiare le religioni, era in pericolo di perdere di nuovo la fede pensando: perché siamo così orgogliosi noi cristiani, se lo scopo della nostra religione è uguale a quello che propongono gli altri? Ma alla fine trovò la risposta giusta: si convertì proprio come il Faust di Goethe, quando suonavano le campane di Pasqua. Il che significa: Cristo dopo la morte non è entrato in un’altra vita, ma è ritornato nella stessa sua vita, ha divinizzato la vita che aveva prima. Questo fatto è una totale novità rispetto a tutte le religioni. Se Cristo non fosse risorto dai morti, la nostra religione sarebbe vana, dice san Paolo (cf. Gal 2,20).

Concludendo, possiamo dire che la fede nella risurrezione è il messaggio decisivo per gli uomini che vivono nel mondo. È la professione di una sola vita, che è eterna. Ciò però si armonizza poco con le prediche che sentiamo nelle nostre chiese, che ci vogliono commuovere con le bellezze del cielo riservate alle anime separate dal corpo. Pur credendo nella risurrezione dei corpi, non riescono a dirci che cosa questo significhi per la vita presente. Come allora comprenderla? Elenchiamo le diverse opinioni.

La vita nel tempo infinito?

La visione beata delle anime separate dal corpo nel cielo è stata oggetto di molte discussioni. Ma è più facile immaginarsela della vita dell’uomo risorto nel corpo. Essa, come pare, suppone un dinamismo evolutivo, che si realizza nel tempo. Perciò l’immaginazione popolare si rappresenta l’eternità come un tempo infinitamente lungo, un tempo senza timori che si possa fermare, che tutto passi. Ciò deve consolare i beati e, al contrario, incutere un salutare timore a quelli che sono sul cammino della perdizione.

Non solo per la gente del popolo, ma anche per i teologi è difficile conciliare il concetto di un inferno «infinitamente lungo» con l’infinita misericordia di Dio. Ma anche il paradiso, se si vuole immaginare in questa maniera, non soddisfa. Secondo una leggenda proveniente dalla Moravia, un monaco si poneva la domanda: come mai i santi nel paradiso non si annoiano di cantare «Santo, santo...» per tutta l’eternità? Cadde durante una passeggiata nel bosco, si addormentò per cent’anni, ma sognò che tutto questo sarebbe durato solo il tempo di un «Santo, santo». Così avrebbe compreso che per Dio «cent’anni sono come un momento» (cf. Sal 89,4). Va da sé che una soluzione così illusoria non può soddisfare.

L’eternità opposta al tempo

Il pensiero primitivo non crede che il tempo come tale possa cessare. È considerato di sua natura infinito. Perciò lo si è divinizzato come «dio Chronos», che mangia i suoi figli, cioè distrugge tutto ciò che nel tempo è nato. Il simbolo della vita allora è una ruota, che «gira e rigira» (Qo 1,6), o un serpente che si morde la coda. Fu la mitologia greca a insinuare la vittoria su questa tirannia della durata eterna. Zeus, destinato a diventare dio supremo, uccise il padre Chronos e fondò il regno olimpico. È un’allusione vaga a ciò che la filosofia greca doveva esprimere in concetti. Qui Eraclito pianse che «tutto passa e niente rimane» (panta rei). Al contrario, Parmenide dichiarò che ogni movimento è illusione e che la vera realtà è immutabile, quindi eterna.

Anche la filosofia greca classica ha definito il tempo per mezzo del movimento (numerus motus secundum prius et posterius), ma lo stesso Platone identificò la vera realtà con le idee immutabili, e quindi eterne. Dato che fra i due modi di vivere non c’è conciliazione, la porta che conduce l’uomo dalla vita di questo mondo all’eternita è la morte. Se Platone definì la vera filosofia «studio della morte», la morte stessa sarebbe un bene. Ciò è evidentemente anti-cristiano.

Se si trasferiscono queste considerazioni nell’antropologia cristiana, anche qui il passaggio alla vita eterna per mezzo della morte apparirà come cessazione di ogni movimento. Lo illustra un’icona del monte Sinai: la scala del paradiso. I monaci vi salgono. Sui gradini inferiori i monaci sono assai movimentati, più sono in alto più sono tranquilli, e quello che sta sul gradino più alto è del tutto immobile.

Questa concezione aiuta a rispondere alle obiezioni formulate precedentemente, evita la difficoltà con la lunga durata dell’inferno o le gioie del paradiso, non vi è pensabile per i dannati una «conversione» dopo la morte né la possibilità di peccare per i beati; la felicità eterna svuota ogni desiderio che spingerebbe a cambiare (satiato desiderio cessat appetitus). Il concetto dell’eternità in questo senso sembra solido. Nondimeno, sorge un dubbio: nel caso di un uomo vivente con il corpo, destinato a risorgere, questa immutabilità può essere ancora chiamata «vita»? Non sarebbe piuttosto una specie di museo per le statue?

Soluzione cristologica

Non ci si può quindi aspettare che i ragionamenti umani risolvano il problema proposto. Ma non offrono una risposta adatta neanche le religioni. Credono nella vita eterna, ma il confine della morte separa radicalmente questa dalla vita presente. Nel cristianesimo, al contrario, incontriamo un’essenziale novità. Cristo, nato sotto il regno dell’imperatore Augusto e morto sotto Ponzio Pilato, visse come uomo una vita collocata nello spazio e sviluppatasi nel dinamismo del tempo, ma inseparabilmente unita al Verbo di Dio.

Tutta la sua personalità con tutte le sue azioni partecipò all’eternità di Dio. La sua carne umana è divina, divina ed eterna è quindi anche la sua natività, i misteri della sua vita terrena, la morte, la risurrezione. Nella sua persona, il tempo e l’eternità si uniscono. Gesù «ha vissuto» con i discepoli, ma anche ha promesso «Io sono con voi» (Mt 28,20). San Paolo è sicuro che egli vive in lui (Gal 2,20), non solo secondo la sua divinità, ma come Cristo, Dio-Uomo.

La storia di Israele cominciò con la scala di Giacobbe, la discesa degli angeli (cf. Gen 28). In tutta la storia sacra, Dio scende fra il suo popolo e negli ultimi tempi scese in Gesù Cristo. Dunque, Gesù Cristo è colui nel quale la vita divina – che è eterna – scende nella vita umana – che è nel tempo –. La Chiesa deve fare ciò che è scritto: «Fate questo in memoria di me», nel suo ricordo, perché il ricordo fa rivivere ciò che è passato. Già da un punto di vista psicologico, la memoria rende la cosa ricordata in qualche modo presente. Gli stoici dicevano che l’uomo è ciò che ricorda, e l’amnesia, la perdita della memoria, significa la perdita della persona. Ricordare il passato, fare del passato un presente, come quelli che stanno morendo e dicono di vedere tutta la loro vita davanti agli occhi, questo è umano.

Nella nostra messa questo ricordo è sacramentale, il che significa che nel ricordo divino quello che Dio pensa esiste. Dunque, nella messa, tutti i misteri di Cristo sono qui, sono eterni, non li vediamo ancora ma sono eterni. E cosa ricordiamo? Non solo Gesù Cristo, ma tutto il suo corpo mistico: quindi ricordiamo i martiri, i santi, i confessori – nella messa orientale si ricordano anche i concili –, e tutto passa nell’eternità. I maroniti si chiedono: quando è avvenuta la risurrezione? Rispondono: nell’ora terza nel pomeriggio del Venerdì santo. E quando si è rivelata? Rispondono: la domenica mattina. La domenica è la rivelazione di ciò che esiste, noi viviamo il Sabato santo, tutto è già presente, tutto è qui, soltanto che non lo vediamo ancora, solo lo crediamo.

Presenza anamnetica nella liturgia

La presenza di Cristo nella Chiesa è universale, ma in modo particolare si manifesta nell’anamnesi liturgica. Ogni ricordo rende presente in modo psicologico il passato. Il ricordo liturgico è sacramentale, possiede una forza divino-umana che rende il passato realmente presente. Perciò S. Bulgakov parla del «realismo dei riti» e B. Bobrinskoy del loro «carattere eucaristico», in modo che nelle Chiese Cristo veramente nasce a Natale e durante la Pasqua veramente risorge.14

In questo contesto è inserita anche la vita di noi tutti singoli. Lo illustra un passaggio tratto dalla vita di una santa suora. Essa curava una malata che aveva il cancro nel volto, tutti la evitavano. La suora le disse: «Pregate». La malata rispose: «Se Dio esistesse, io non sarei qui». Però dopo un mese quella stessa malata disse: «Dio deve esistere». «E come siete arrivata a questa conclusione?», chiese la suora. «Quel bene che fate per me non può andare perduto».

Allora il migliore termine con il quale possiamo esprimere la nostra speranza è simbolico: l’eterna liturgia. La verità fondamentale del cristianesimo è il ritorno a tutta la vita. Dunque, niente di buono può essere perduto e deve acquistare il valore eterno. Questa è l’eternità che ci consola, l’eternità della persona e del bene che ha fatto.

Ciò che abbiamo detto si può leggere simbolicamente espresso nel film Nostalgia di A. Tarkovskij. Qual è il contenuto? Un profugo da un paese totalitario viene in Italia, una metafora di un viaggio dalla terra in paradiso. È incantato, quante belle cose da vedere! Ma dopo un po’ sbadiglia e dice: «Come mi annoia vedere sempre belle cose!». Se la felicità eterna fosse soltanto un lungo tempo, non si risolverebbe niente. Allora il nostro eroe va in giro e vede sul Campidoglio un fanatico che si versa addosso della benzina e si accende a suon di musica. Muore per qualche ideale, per una cosa eterna, ciò che i russi chiamano la «falsa eternità» delle idee astratte. Per il fanatico del film, morire per un ideale vale l’eternità. La gente lo attornia, ci sono i carabinieri che guardano sbalorditi e c’è un cane che abbaia terribilmente. Il cane è un simbolo della vita, e il suo abbaiare solleva la domanda: si può dare la vita per una cosa astratta? La vita è concreta, perciò anche l’eroe del film rimane colpito dall’abbaiare del cane.

Allora che cosa deve fare? Il profugo va ancora in giro e incontra una processione di donne che portano la statua della Madonna e cantano: sono simbolo del cammino verso l’eternità. Egli chiede a una di queste vecchiette: «Che cosa si può fare qui?». E quella: «Mettiti in ginocchio». Come a dire: con la testa non ci arriverai, è un mistero che Dio deve rivelarti. Questo mistero infatti glielo mostra un «sacro pazzo», un jurodivyj, come se ne conoscono tanti nella spiritualità russa. Gli offre una piccola candela – la fede – e con questa fede il profugo ripassa tutta la sua vita. Il film si conclude con la scena del protagonista che muore in una chiesa aperta ai quattro lati e vede come tutto ciò che ha vissuto sta ritornando, dalla gioventù fino al presente. Si vive «l’eterna memoria», l’anamnesi liturgica di tutto ciò che si è vissuto in corrispondenza con la vocazione particolare di ognuno che parte della vocazione cosmica umana.15

Il sentimento religioso innato nel cuore dell’uomo ha condotto i popoli, secondo Solov’ëv, ad attribuire agli dèi il governo del mondo, e così i cesari romani, che credevano di governare tutta la terra abitata (oikoumene), pretendevano per sé gli onori divini. Ma ogni uomo in Cristo è re e signore della terra. Perciò deve chiedersi: quale posto l’azione divina riserva all’uomo nel governo della natura inferiore?

La responsabilità dell’uomo in rapporto alla creazione è espressa da san Giovanni Crisostomo in termini fortemente semitici: «Il monarca è necessario ai sudditi e i sudditi al monarca, come la testa ai piedi».16 Dio, che è artefice e artigiano del mondo, nel paradiso comandò ad Adamo di coltivare la terra. Questa vocazione, sviluppata dai padri della Chiesa, è stata specificata sotto diversi aspetti particolari dai sociologi russi. Secondo P. Florenskij, ad esempio, l’ideale dell’ascesi cristiana non è il disprezzo del mondo, bensì la sua gioiosa accettazione, che mira a farlo diventare più ricco elevandolo a un livello superiore, fino alla pienezza di una vita trasfigurata.17

Concreatore del cosmo

Il primo oggetto della creatività umana è la propria persona e la sua crescita. Ma, insieme con la crescita spirituale dell’anima, cresce anche lo spazio in cui l’uomo vive, che è come un prolungamento del suo corpo e che gli è dato da Dio per realizzarsi. Lo osserviamo anche dal punto di vista naturale nella creatività tecnica tanto sviluppata attraverso i secoli. Nel suo libro La filosofia dell’opera comune, Fedorov si oppone alla filosofia vista come «passiva contemplazione del mondo», e propone una «filosofia dell’azione». La sua tesi principale è la seguente: l’idea non è soggettiva, né solamente oggettiva, essa è proiettiva, cioè conoscere il mondo è dominarlo, trasformarlo, creare.18 Si trovano echi del suo entusiasmo in Solov’ëv, Berdjaev e altri.19

Ci domandiamo quale sia la misura di questa creatività umana. Il desiderio è enorme, ma d’altra parte sentiamo la nostra impotenza e debolezza davanti alle forze cosmiche. Allora la nostra attività nel cosmo sembra essere limitata a modesti adattamenti. Il mondo sembra come una casa prestataci per la nostra breve dimora sulla terra, nella quale possiamo permetterci piccoli aggiustamenti.

I predicatori quaresimali ammoniscono di non occuparci troppo del «diversivo provvisorio» (caupona huius mundi quae ruit) e di pensare piuttosto al momento in cui dovremo abbandonare tutto. È senza dubbio una meditazione utile per guarire la mente invasa da preoccupazioni vane e inutili. Tuttavia, esprime solo un aspetto parziale. Una tale concezione minimalistica non può essere applicata al «primogenito degli uomini», a Cristo, per mezzo del quale è stato creato tutto ciò che è nel mondo. E se l’uomo unisce la sua attività con Cristo, anche il suo effetto nel cosmo sarà inaspettatamente superiore alla sua naturale debolezza umana. Perciò i padri, nella loro polemica contro il fatalismo, insistono sulla responsabilità dell’uomo per la sorte del mondo intero. Al loro seguito Solov’ëv20 parla quasi al modo degli ecologisti moderni, affermando che la «cosmologia spirituale» deve precedere il tema della «giustizia sociale».21

Questa cooperazione mostra vari aspetti. Enumeriamone i principali, già indicati dai padri antichi: purificare e santificare il mondo; i russi amano aggiungere: cristificare e vivificare il mondo, condurlo alla bellezza divinizzata.

Purificare e santificare il mondo

Secondo la terminologia dei padri, la responsabilità verso il cosmo consiste nella sua purificazione22 dalle forze maligne.23 A causa della malvagità degli uomini, la terra è maledetta.24 «Essa sarà di nuovo incorruttibile grazie a noi», dice Crisostomo.25 I russi, a causa della loro relazione personale con la terra, hanno una sorta di complesso di colpa verso essa.26 Esiste dunque un «peccato cosmico» nel quale siamo implicati.27

Proprio perché il peccato ci riguarda, possiamo purificare la terra. Bulgakov parla di liberare la terra dalla sua forza «magica». Nei suoi rapporti con il mondo, «l’uomo è caduto nella tentazione del "magico", sperando di raggiungere il possesso del mondo attraverso mezzi esterni, non spirituali». Il mondo resiste agli sforzi dell’uomo per possederlo, e la mancanza di armonia tra l’uomo e il mondo conduce alla necessità del lavoro e dell’attività economica che ha il «carattere della magia grigia», «riunendo in se stessa in un intreccio inestricabile la magia nera e bianca, le potenze della luce e delle tenebre, dell’essere e del non essere».28 Il testo esprime una profonda osservazione. Nelle superstizioni di carattere «magico» si manifesta la tendenza ad attribuire alla materia le forze che sono proprie della persona. Il peccato «spersonalizza» le nostre relazioni con il mondo. Senza rendercene troppo conto, aspettiamo dagli oggetti del mondo gli effetti che si possono ottenere solo dalla relazione personale con Dio. Così si arriva a un paradosso: gli scienziati atei combattono la vera religione come superstizione e in realtà talvolta cadono in una superstizione vera e propria.

L’aspetto positivo della purificazione è la santificazione.29 L’ascesi cristiana vuole che il mondo sia più ricco attraverso un’elevazione verso un livello superiore di vita trasfigurata, «teofanica».30 L’espressione iconografica di questo pensiero è l’immagine della pentecoste, con la figura del «re cosmo» che, in prigione, gioisce per la venuta dello Spirito Santo sugli apostoli. Secondo i Versi spirituali dei cantici popolari russi, il mondo desidera tornare alla propria natura spirituale, perché la sua origine è la forza dello Spirito Santo.31 Solov’ëv chiama questa trasfigurazione del cosmo «teurgica». Nelle Vite dei santi, il mondo si manifesta allo stato paradisiaco. Il ritorno alla sua natura spirituale è evocato attraverso l’obbedienza degli animali selvaggi agli uomini santi. Numerosi esempi si trovano nei racconti biografici dei padri e, tra i russi, Serafino di Sarov, al quale un orso selvaggio portava il miele, può essere preso come esempio.

L’aspetto cristologico32 della cosmologia dei padri sviluppava la realtà di Cristo come Logos-Parola, come legge universale di tutte le creature. Solov’ëv riprende lo stesso pensiero in modo dinamico, unendolo con il moderno evoluzionismo. È arrivato a mostrare magistralmente come tutto il processo cosmico, tutta l’evoluzione della natura, dai primi elementi alla coscienza umana, il lungo processo della storia universale, tutto tenda verso il Dio-Uomo, verso il Cristo incarnato e il Cristo cosmico.33

In questo contesto, si possono distinguere quattro grandi fasi dell’evoluzione cosmica: 1) dalla prima materia alla prima cellula viva; 2) dalla prima vita all’homo sapiens; 3) dal primo uomo all’Uomo-Dio, Cristo incarnato in un preciso momento storico; 4) dal Cristo storico al Cristo universale. Dato che noi viviamo ora nella quarta fase, la nostra cooperazione riprende la funzione della madre di Dio, di Maria. Infatti, come ha detto già Origene, ogni anima cristiana deve far incarnare Cristo nel mondo in cui vive.34

Vivificare il cosmo35

Cristo è la legge del mondo e Cristo è la vita. Tutto ciò che partecipa a lui è vivificato. Lo sviluppo, talvolta assai suggestivo, di questa idea si può dire tipicamente russo. I russi considerano il cosmo come un organismo vivo.36 In modo più conforme alla tradizione patristica lo esprime la seguente considerazione. La santità è la vita. Se l’uomo santifica il mondo, lo «vivifica» collaborando con lo Spirito che è zoopoion, vivificante. Purtroppo la società tecnica fa dimenticare questa vocazione dell’uomo. Le scienze tecniche pongono la macchina tra l’uomo e la natura e spezzano il legame interiore fra l’uomo e il cosmo.

Berdjaev37 afferma questo e invita i cristiani a unirsi all’opera comune, destinata a superare le forze cosmiche che producono la morte e a ristabilire la vita universale: «Se essi non creano un regno di lavoro cristianamente spiritualizzato, se non superano il dualismo della ragione teorica e della ragione pratica, del lavoro intellettuale e del lavoro fisico, non ci sarà affatto la vita cristiana».

Invece di fare conclusioni di ciò su cui abbiamo ragionato in forma teorica, preferisco illustrarle con la riflessione di un altro russo. Il grande poeta e pensatore russo V. Ivanov ha finito la sua vita ricca di contatti culturali a Roma, insegnando e scrivendo. I suoi occhi restavano sempre aperti alle bellezze dell’arte e proiettava in esse le sue meditazioni religiose. In questo senso egli scoprì una relazione spirituale fra tre capolavori della pittura rinascimentale italiana: il Giudizio finale di Michelangelo nella Cappella sistina, la Trasfigurazione sul monte Tabor di Raffaello nei Musei vaticani e L’ultima cena di Leonardo da Vinci a Milano.

La statura di Cristo nell’affresco di Michelangelo esprime quest’attitudine: «Via, lontano da me, maledetti, voi tutti che operate il male!» (cf. Mt 25,41). È ciò che Ivanov chiama mistica «anarchica», di negazione. Non è proprio Cristo, ma l’anima di un giovane idealista, il quale, scoprendo il male del mondo, pensa di poterlo sconfiggere. Tale è anche la mistica buddhista, che cerca di distruggere in un nirvana tutto ciò che non è assoluto.

Dopo un periodo di giovinezza «anarchica», coloro che amano la bellezza giungono alla mistica «della speranza», espressa da Raffaello nella Trasfigurazione: è la visione del mondo futuro, spirituale, vissuta nella fuga sul monte per dimenticare i mali e le sofferenze presenti. Infine, l’ultimo grado dell’attitudine mistica si contempla nella Cena di Leonardo da Vinci: Gesù inclina la testa per dire «sì» a tutto ciò che viene dalla provvidenza del Padre, anche al tradimento di Giuda. Ma nello stesso tempo offre il pane di vita, istituisce l’eucaristia, sacramento di vita. Con ciò tutto è trasformato, ogni bellezza desiderata è già presente.

Ivanov conclude: «Noi vediamo qui la sofferenza del mondo, ma anche l’oro della coppa e, attraverso le finestre strette, penetra l’azzurro della sera. La bellezza di questa pace d’azzurro discende nel triclinio del sacrificio».38Beata pacis visio.

Note

l Cf. T. Spidlík, L’idea russa. Un’altra visione dell’uomo, Lipa, Roma 1995, 239ss.

2 K. Barth, Credo, Paris 1936, 154.

3 J. Ellul, «Sur le pessimisme chrétien», in Fois et vie (1954), 170.

4 Cf. The Evanston Report, London 1954, 70; EO 5/87ss.

5 J. Malevez, «Deux théologies catholiques de l’histoire», in Bijdragen 10(1949), 225-240.

6 «Christianisme et théologie», in La vie intellectuelle, t. 16, ottobre 1948, 6-38.

7 Spidlík, L’idea russa, 239ss.

8 Cf. E. Benz, Die Ostkirche im Lichte der protestantischen Geschichtsschreibung von der Reformation bis zur Gegenwart, München 1952, 253.

9 N. Berdjaev, L’idée russe, Paris 1969, 22; trad. it. L’idea russa: i problemi fondamentali del pensiero russo, Mursia, Milano 1992.

10 Ivi, 40.

11 S. Bulgakov, Agnec Bozij. O Bogocelovecestve, Paris 1933, 191ss.

12 V. Lossky, Vision de Dieu, Neuchatel 1962, 140.

13 V. Solov’ëv, Duchovnye osnovy iizni (1882-1884), Soéinenija III, Bruxelles 1966, trad. it. Fondamenti spirituali della vita, Roma, Lipa 1998.

14 Cf. T. Spidlík, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa, Roma 2002, 142.

15 Spidlík, L’idea russa, 217ss.

16 Giovanni Crisostomo, In 1 ad Timotheum 4,2, PG 62,523.

17 Cf. N.O. Losskij, Histoire de la philosophie russe, Paris 1954, 193.

18 V Zen’kovskij, Istoria russkoj filosofii, II, Paris 1950, 137ss.

19 Spidlík, L’idea russa, 228ss.

20 Ivi, 225ss.

21 V. Solov’ëv, Ctenija o Bogocelovecestve, Socinenija III, 1966, 130.

22 Spidlík, L’idea russa, 225ss.

23 T. Spidlik, La spiritualité de l’Orient chrétien, Orientalia christiana, Roma 1978, 141.

24 Giovanni Crisostomo, In Gen., Hom. 27, 4, PG 53, 244.

25 Id., In Rom., Hom. 14, 5, PG 60, 530.

26 G. Fedotov, Stichy duchovnye, Paris 1935, 85ss.

27 S. Frank, Svet vo t’me, Paris 1949, 198.

28 S. Bulgakov, Agnec Bozij. O Bogocelovecestve, Paris 1933, 180ss.

29 Spidlík, L’idea russa, 226ss.

30 Losskij, Histoire de la philosophie russe, 193.

31 Fedotov, Stichy duchovnye, 25.

32 Spidlík, L’idea russa, 231ss.

33 Solov’ëv, Duchovnye osnovy iizni, Socinenija III, 365ss.

34 Cf. Origene, Fragm. in Mt 281, GCS 12, 126.

35 Spidlík, L’idea russa, 230ss.

36 Ivi, 221ss.

37 N. Berdjaev, L’homme et la machine, Paris 1933, 48.

38 V. Ivanov, Opere, vol. III, Bruxelles 1979, 86.

6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

1. Il popolo sacerdotale dell’Antica e Nuova Alleanza

È giusto parlare del popolo sacerdotale delle due Alleanze, per indicare al contempo una continuità ed un superamento. Allo stesso modo, del tutto pertinente, parliamo di una Chiesa che non sorge all’improvviso con Gesù Cristo, ma è preparata già nell’antica alleanza. Il primo riferimento biblico fondante e previo ad ogni discorso è Es 19,1-9. Lì c’è la premessa ed il punto di partenza per la teologia sul popolo sacerdotale. Ed è interessante notare, fin dall’inizio, che si parla di ‘popolo’ sacerdotale. Lo stesso avverrà anche nel NT. Tuttavia lo sviluppo successivo metterà in ombra questa verità elementare per concentrare quasi tutta l’attenzione sulla classe sacerdotale. Ha senz’altro il suo posto ed il suo ruolo, ma non deve oscurare quello più universale del popolo sacerdotale.


1.a. Un popolo sacerdotale con l’alleanza

Così leggiamo in Esodo 19, 1-9: “Il terzo mese dall’uscita dei figli d’Israele dalla terra d’Egitto, in quel giorno, arrivarono al deserto del Sinai. Partirono da Refidim e arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono. Israele si accampò di fronte al monte. Mosè salì verso Dio. Il Signore lo chiamò dalla montagna, dicendo:”Così parlerai alla casa di Giacobbe e annuncerai ai figli d’Israele:’Voi avete visto quello che ho fatto all’Egitto: vi ho portato su ali di aquile e vi ho condotto da me. E ora, se ascoltate la mia voce e osservate la mia alleanza, sarete mia proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa’. Queste cose le dirai ai figli d’Israele”. Mosè andò a convocare gli anziani del popolo ed espose loro tutte quelle cose che il Signore gli aveva ordinato. Tutto il popolo, insieme, rispose dicendo:”Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo”. Mosè riportò le parole del popolo al Signore”.

La celebrazione dell’alleanza viene descritta nel capitolo 24, ma qui è già considerata un fatto compiuto e la base della scelta da parte di Dio. Ora essere ‘proprietà’ di Dio e ‘regno’ di sacerdoti e ‘nazione’ santa, dice una stessa cosa: un rapporto del tutto speciale con il Signore, dove valgono non i termini di possesso, ma di affetto. In realtà, Israele è proprietà di Dio, nel senso che egli la considera sua, in termini di affetto, come il padre dice al figlio : ‘mio figlio’. Nella stessa linea corrono le altre due espressioni, ma acquistano un significato più dinamico o missionario. Infatti questo popolo sacerdotale svolge un ruolo di mediazione con gli altri popoli, ad analogia di quanto Mosè fa all’interno del suo popolo. E così quando si parla di ‘nazione santa’ si pensa non tanto ad una qualità astratta e spiritualizzata, quando invece al compito di testimonianza che Israele è chiamato a svolgere verso i popoli vicini. È anche la convinzione che traspare dal libro di Tobia:”Celebratelo, Israeliti, davanti alle nazioni, perché egli vi ha disperso in mezzo ad esse, e qui vi ha fatto vedere la sua grandezza” (13, 3-4).

 

1.b. Riconfermato con la nuova alleanza

Sulla base di questa convinzione, continua nel NT il discorso sul popolo sacerdotale. Ci limitiamo a presentare solo alcuni testi, perché possiamo vedere la continuità in un servizio e la sua novità, costituita dall’evento di Gesù Cristo. Il primo testo solenne che la tradizione apostolica legata a Pietro, ci ha tramandato, è il brano classico di 1Pt, 2,4-10. E’ singolare il fatto che esso risulta a sua volta, di citazioni, la più importante delle quali è il testo dell’Esodo sopra citato. La lettera di Pietro può essere considerata come una omelia pasquale, in cui vengono richiamate le linee essenziali della salvezza operata da Cristo e il nuovo statuto dei battezzati, resi partecipi della giustizia di Dio. A questi il testo si rivolge richiamando la loro nuova dignità.

“Avvicinandovi a lui, la pietra vivente scartata dagli uomini ma scelta da Dio e di valore, siete costruiti anche voi come pietre viventi in edificio spirituale per formare un organismo sacerdotale santo, che offra sacrifici spirituali bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Per questo si trova nella Scrittura: Ecco, pongo in Sion una pietra scelta, angolare, di valore, e chi crede in essa non rimarrà confuso. Il valore è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati. Ma voi siete una stirpe scelta, un organismo sacerdotale, regale, un popolo santo, un popolo destinato ad essere posseduto da Dio, così da annunziare pubblicamente le opere degne di colui che dalle tenebre vi chiamò alla sua luce meravigliosa, voi che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio, eravate non beneficati dalla bontà divina, ora invece siete beneficati”.

 

1.c. Lo statuto del nuovo popolo

Possiamo dire che qui abbiamo una specie di statuto generale dell’essere e dell’agire del nuovo popolo di Dio. L’essere è descritto da ciò che i battezzati sono divenuti per mezzo di Cristo, appunto il popolo sacerdotale. Questo evento non è un fatto pacifico, perché è il risultato della passione di Cristo, del suo rifiuto, della sua morte. Il richiamo al dramma della pasqua è esplicito e forte, per dire che l’inserimento in Cristo non è una cosa scontata, ma frutto di lotta e di fatica. I cristiani non possono dimenticare la loro origine dalla pasqua di Cristo. Del resto anche la nascita del primo popolo sacerdotale era avvenuta nel travaglio dell’Esodo e delle peripezie conseguenti. Ma poi ciò che resta ed è decisivo è la nuova dignità acquisita.

Questo nuovo popolo ha due compiti ben precisi e distinti. Il primo consiste nell’offrire sacrifici spirituali, a Dio bene accetti. Non si precisa in che cosa consistano, forse si dà per noto ai lettori che cosa ciò significhi. Comunque c’è un aggettivo importante che può orientare in modo sicuro: si tratta di sacrifici ‘spirituali’, celebrati cioè nello Spirito Santo. Non è difficile vedere in questo termine il superamento dell’apparato sacrificale del tempio antico e la designazione del nuovo sacrificio di Cristo, comprensibile solo nello Spirito di Dio. Tutto l’argomento viene ripreso ed analizzato in modo esauriente nella lettera agli Ebrei.

 

 

1.d. Identità e missione

Il secondo compito è l’annuncio al mondo di quanto Dio ha fatto con il suo popolo: il passaggio dalle tenebre alla luce, il passaggio dalla morte alla vita. E’ in breve l’annuncio del Vangelo nel segno della nuova vita ricevuta in dono. Quanto sia superata la sola ed univoca dimensione cerimoniale della liturgia cristiana è del tutto perspicuo nel nostro testo, ed è altresì annotata la necessità per il nuovo popolo sacerdotale di non limitarsi ad una fede che non conosca annuncio, nel fatto stesso che è vissuta dinanzi al mondo e a beneficio del mondo.

Nel libro dell’Apocalisse abbiamo altri due passaggi significativi sul nostro tema. Gesù Cristo “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (1,6). Tu o Cristo, “Acquistasti per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù e lingua e popolo e nazione, ne facesti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sulla terra!” (5,9-10). Qui è evidenziato in modo molto più forte che nel testo precedente l’opera di Gesù Cristo, anche in considerazione dell’impostazione dell’Apocalisse. Ma è del tutto chiaro che in ogni testo del NT quando si parla di qualcosa in riferimento alla nuova condizione dei redenti, l’accentuazione dell’opera di Cristo è particolarmente forte, perché da esso e su di essa tutto consiste e sta.

 

1.e. Riscoprire l’identità del popolo di Dio oggi

Da questa sintetica presentazione possiamo fare due brevi considerazioni conclusive. La prima è che nel corso dei secoli si è persa la prospettiva di questo popolo sacerdotale, a vantaggio di una impostazione più clericale, che ha raggiunto il suo vertice all’inizio del secondo millennio. Questa sfasatura ha arrecato i suoi danni, che sono all’origine neanche tanto nascosta anche della contestazione luterana del modello ecclesiale del suo tempo. La seconda consiste nel ricuperare il senso di questo popolo sacerdotale, composto dai battezzati, in vista di una rinnovata coscienza dell’essere Chiesa e della sua missione nel mondo.

5. La comunità in cammino
verso il Regno

di Marino Qualizza


6. L'eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l'eucarestia

Nel maggio del 1983 la Conferenza Episcopale Italiana pubblicò un documento pastorale dal titolo Eucarestia, comunione e comunità. Esso aveva lo scopo di orientare l’impegno della Chiesa italiana per gli anni ottanta proprio sul tema della comunione. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la comunione nasce in modo speciale dall’Eucarestia. Da essa prende vita e forma la Chiesa, che a sua volta è chiamata a celebrare l’Eucarestia, rendendo così presente l’azione salvifica di Cristo. Nel numero 61 di questo documento vengono ripresi i temi di cui stiamo parlando nei termini seguenti: “Non si può essere Chiesa senza l’Eucarestia. Non si può fare Eucarestia senza fare Chiesa. Non si può mangiare il Pane eucaristico senza fare comunione nella Chiesa. Queste affermazioni, che raccolgono l’esperienza viva e la tensione costante della comunità cristiana di ogni tempo, riconducono a interrogarci, nell’oggi, sulla nostra fede, per verificare la reale portata di questo vincolo indissolubile tra Chiesa ed Eucarestia. Molti cristiani vivono senza Eucarestia; altri fanno l’Eucarestia ma non fanno Chiesa; altri ancora celebrano l’Eucarestia nella Chiesa, ma non vivono la coerenza dell’Eucarestia. Una autentica comunità ecclesiale, che voglia vivere la comunione, pone al suo centro l’Eucarestia e dall’Eucarestia assume forma, criterio e stile di vita: l’Eucarestia è la vita, ed è la scuola dei discepoli di Gesù.”.

Il testo citato ripropone il titolo di questo capitolo e mette in luce la circolarità dinamica che esiste tra l’Eucarestia e la Chiesa. Il primato va all’Eucarestia, perché essa fa la Chiesa. L’affermazione non va presa in senso giuridico o autoritativo, ma in senso sacramentale, perché in essa agisce il Cristo risorto. È dunque da Lui che prende forma e vita la Chiesa di oggi e di sempre. Essa non vive di vita propria né vive staccata da Cristo. Il costante riferimento a Lui determina la sua identità, come aveva detto in modo splendido il Concilio Vaticano II nel 1° paragrafo della Costituzione Lumen Gentium .
Ma se la Chiesa riceve la sua vita da Cristo, essa a sua volta lo rende presente, attuale, nel mondo d’oggi. Una volta ricevuta forza ed energia da Cristo, la Chiesa celebra l’Eucarestia, che è sintesi e somma della salvezza. Ciò che è importante nella celebrazione dell’Eucarestia è questa duplice consapevolezza, con il conseguente impegno di non limitarsi alla cerimonia in sé ma di rendere attivo nella vita il contenuto della celebrazione, che consiste nella comunione con il Cristo e con i fratelli, come il testo della CEI ha richiamato. Nel 1972, a Udine, nel mese di settembre, fu celebrato il 18° Congresso Eucaristico Nazionale, che vide anche la partecipazione di Papa Paolo VI. Il tema generale del Congresso era Eucarestia e comunità locale. Ma il sottotitolo e – per certi versi – il cuore stesso del Congresso era proprio la circolarità di Chiesa ed Eucarestia nel senso indicato dal titolo del nostro capitolo. Superate le difficoltà iniziali, soprattutto in fase preparatoria, e anche certe dissonanze dei relatori nella settimana conclusiva, il tema si è rivelato particolarmente fruttuoso ed efficace nel far prendere coscienza alle comunità locali dell’importanza della celebrazione eucaristica oltre l’aspetto cerimoniale e devozionale che le aveva caratterizzate per lungo tempo. Un’indicazione particolarmente autorevole per dar vita alle comunità ecclesiali ci viene dal testo paolino di 1Corinzi 11,23 – 27. È il caso di riprodurlo interamente, perché ci dà le linee generali di come intendere la pluralità di una vita comunitaria: “Io, ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Quindi tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete a questo calice, annunziate la morte del Signore, finché egli venga.
Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore indegnamente, è reo del corpo e del sangue del Signore.”. Il testo paolino è una delle quattro testimonianze sulla istituzione dell’Eucarestia. In ordine di tempo è la prima. Ma è già collegata alla tradizione ecclesiale. Paolo infatti annota scrupolosamente di aver trasmesso ai cristiani di Corinto quanto egli a sua volta aveva ricevuto riguardo al Signore. La testimonianza di Paolo non si fonda direttamente su una rivelazione ricevuta da Cristo Signore ma sulla trasmissione ecclesiale.

Ciò è di somma importanza, perché ci aiuta a comprendere che la tradizione non è un corpo morto, ma è la vita stessa della Chiesa, che diventa tale soprattutto nella celebrazione dell’Eucarestia. Questa poi è contemporaneamente comunione con il Cristo e comunione con la Chiesa. Paolo ce ne dà conferma nei versetti iniziali del testo sull’Eucarestia, precisamente dal verso 17. Egli biasima il comportamento dei Corinzi, perché non avevano messo in pratica il significato dell’Eucarestia, che dalla comunione con il Cristo doveva portare alla comunione con i fratelli. Ciò non avveniva a Corinto. A tal proposito abbiamo un testo ancora più significativo in 1 Corinti 10, 16 -17, dove viene messa in luce l’efficacia dell’Eucarestia come composizione di un corpo solo: “ Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo, non è comunione con il corpo di Cristo? Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dello stesso pane.”. Se la partecipazione all’unico pane e all’unico calice fa dei molti un corpo solo, ciò significa che l’unità ecclesiale suscitata dall’eucarestia deve manifestarsi nella vita quotidiana ben oltre i tempi e gli spazi di una cerimonia, per quanto solenne. Forse non è improprio parlare di una dimensione sociale e “politica” dell’Eucarestia. Essa infatti non può ridursi ad una cerimonia, ma deve rinnovare ed ispirare la vita laddove essa si svolge. In realtà questo è avvenuto lungo tutti i secoli della storia cristiana, anche quando il collegamento teologico non era percepito con l’evidenza che i testi biblici e la teologia attuale mettono in luce. Data però la rinnovata coscienza che la riflessione di oggi ha suscitato, i cristiani non possono sfuggire ai nuovi impegni, anche gioiosi, che l’Eucarestia suscita e chiede. Viverla in questi termini vuol dire anche riscoprire e rilanciare l’attualità del Vangelo per il nostro tempo.

Negli ambienti sacerdotali dei leviti viene prodotto il documento che sta alla base del Deuteronomio, in cui si prevede la centralizzazione del culto a Gerusalemme.

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