Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il monaco e l'Eucaristia
di P. D. Donato Ogliari osb

Tra le gemme più belle incastonate in quell'edificio spirituale che è la Regola di san Benedetto, vi sono due aforismi pressoché identici che i seguaci del santo Pa­triarca non tardano ad imprimere nella loro mente e a porre come sigillo sul loro cuore. Il primo di questi aforismi raccomanda ai monaci di "non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e il secondo, dopo aver affermato che "primo passo dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio", precisa che "questa è proprio di coloro che ritengono di non avere nulla di più prezioso di Cristo" (RB 5,2).

Se anche san Benedetto non avesse detto altro di Cristo, basterebbero queste due brevi ma dense pennellate a delineare la centralità che egli attribuisce alla persona del Cristo nella vita del monaco. Il Figlio di Dio fatto uomo è, infatti, il cuore della giornata monastica, il suo centro di attrazione e di propulsione. Grazie a Lui, e alla sequela di Lui, s'illumina, prende slancio e si invigorisce quella diuturna ricerca del volto di Dio nella quale si dipana l'esistenza quotidiana del monaco.

È alla luce di questo cristocentrismo, che anche l'Eucaristia (nonostante che san Benedetto la celebrasse coi suoi monaci solo una volta alla settimana, di do­menica) ha finito con l'entrare in maniera decisiva nella trama giornaliera della comunità monastica, incastonandosi all'interno della sua architettura orante, là dove la comunità si radica e si costruisce giorno dopo giorno. L'Eucaristia è dive­nuta così quella "cifra sintetica" nella quale la ricerca di Dio, condotta dal mona­co alla scuola di Cristo e del suo Vangelo, è racchiusa, e nella quale s'inverano simultaneamente lo spatium mysterii e lo spatium caritatis.

Spatium misterii

La presenza reale del Cristo nella celebrazione eucaristica, sia nella Parola proclamata sia, soprattutto, nelle specie eucaristiche - dove tale presenza rag­giunge il massimo grado - diventa il luogo della concentrazione, lo spatium misterii nel quale la ricerca monastica trova il suo quotidiano approdo e la sua ragion d'essere. Nell'Eucaristia il monaco si consegna al Mistero Santo di Dio, resosi pienamente manifesto nella morte e risurrezione di Cristo. Lì, a contatto con tale mistero, il monaco ridice ogni volta daccapo il suo umile "sì", e accondiscende ad essere conformato al disegno di amore del Padre che ha preso forma definitiva nel Mistero pasquale del Cristo suo Figlio.

Ogni volta che partecipa alla mensa eucaristica, il monaco è sospinto a ritrovare nel Cristo il senso della propria esistenza e a trasformarla quotidianamente, sull'esempio di Lui, in un gesto di amore. Nell'Eucaristia, le parole evangeliche "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà (Lc 9,24) acquistano agli occhi del monaco il loro pieno significato. Lì egli ritrova, in maniera sempre nuova, il fulcro della sua vocazione, del suo vivere e del suo bruciare di quella stessa immolazione del Cristo che, offrendosi per la nostra salvezza, spalanca agli uomini gli orizzonti illimitati del cuore com­passionevole di Dio.

Spatium caritatis

monastica, quale memoriale di una vita "persa" agli occhi del mondo, ma "salvata" e trasformata in Colui che vive per sempre, è chiamata a sua volta, e secondo il suo specifico carisma, ad irradiarsi. Il perdersi del monaco in Cristo, il suo essere nascosto con Lui in Dio, non lo rende infatti avulso dalla storia e dalla compagnia degli uomini, ma, al contrario, proprio perché vulnerabile al Mistero di Dio manifestato nel Figlio Gesù, egli è sospinto a divenire un testimone sempre più luminoso e profetico della salvezza e della totalità di senso che egli trova nel Cristo. Ed è proprio alla luce di questa verità, di cui si fa umile servitore, che il monaco è costantemente rinviato a quella forza primigenia contenuta nell'Eucari­stia, e che si traduce nello spatium caritatis.

Vi è un singolare episodio nella vita di Benedetto, quando questi era ancora giovane eremita nascosto agli occhi del mondo, che illustra molto bene la ricerca di Dio, che ha il suo fulcro nel Cristo pasquale e non può non avere, come suo naturale sbocco, l'attenzione e l'amore ai fratelli. Narra dunque il biografo di Benedetto:

e sedettero. Dopo aver parlato di varie cose spirituali, il sacerdote esclamò: 'Orsù, mangiamo! Oggi è Pasqua'. L'uomo di Dio rispose: 'Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!'. Infatti, vivendo lontano dalla gente, il santo non sapeva che proprio quel giorno fosse la solennità di Pa­squa. Il sacerdote riprese: 'Oggi è davvero la Pasqua di risurrezione del Signore. Non ti è permesso perciò fare digiuno. E io sono stato mandato proprio per que­sto, perché prendiamo insieme i doni dell'Onnipotente'. Così, benedicendo Dio, presero cibo insieme" (Gregorio Magno, Dialoghi II, 1).

Benedetto, sprofondato e assorto nelle cose di Dio, si era reso conto che era Pasqua soltanto alla vista del sacerdote che lo aveva a lungo cercato e finalmente trovato. E come se la sua coscienza si fosse, per così dire, risvegliata di fronte al Cristo presente in quel fratello che gli aveva fatto visita e che ora gli stava accan­to: "Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!", esclama Benedetto.

L’Eucaristia è proprio quello spatium caritatis che segna quotidianamente i passi del monaco. In questo "spazio" egli si immerge ogni giorno non solo per "gu­stare e vedere quanto è buono il Signore" (cf Sal 33,9), ma anche per ritrovare la forza e la gioia di farsi carico del fratello, capace di scorgere, al di là dell'epidermi­de, i doni a cui egli è portatore e che, ultimamente, provengono dal Signore.

non possia­mo accostare chi ci sta accanto mantenendo le nostre prevenzioni e i nostri pre­giudizi nei suoi confronti. Per cogliere la presenza del Risorto in ogni fratello occorre affidarsi alla novità dello Spirito che rende i nostri occhi capace di scor­gere l'inedito al di là di ciò che diamo per scontato.

Chiarificazione e obiezione

meglio, sulleorme del Cristo, l'oblazione di sé, quale inveramento della ricerca di Dio. Nell'Eucaristia, infatti, la sequela Christi è chiamata a trovare un riscontro nella traduzione concreta di quella consegna che Gesù ha lasciato ai suoi nell'Ul­tima Cena: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34), consegna che toglie il diritto di cittadinanza ad ogni egoistica inerzia e ad ogni forma di autosufficienza.

Lì, nell'Eucaristia, l'immolazione libera e obbediente del Figlio al disegno salvifico del Padre diventa la cattedra quotidiana dalla quale il monaco attinge quotidianamente la forza necessaria per spezzare la propria vita, insieme con Gesù, nell'umile e gratuito servizio dei fratelli, sorretto dalla gioia e dalla luce dello Spirito.

(Da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005)

Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II
di Erio Castellucci

Dire «ecclesiologia del Vatica­no II» è dire, semplicemente «Vaticano II»: come è noto, infat­ti, l'ultimo concilio ecumenico ha scelto un unico grande tema di fon­do, sul quale ha modulato tutte le sue note: la Chiesa. Ma trattare della Chiesa non ha voluto dire, per i padri e i periti conciliari, fermarsi a un'autocontemplazione compia­ciuta, bensì individuare le sorgen­ti della sua vita e attività, precisar­ne modalità, relazioni, fini.

Le quattro Costituzioni conci­liari costituiscono i grandi punti cardinali che orientano il cammino della Chiesa: la Sacrosantum con­cilium ne approfondisce la dimen­sione liturgica ed eucaristica; la Dei Verbum mette in rilievo la centra­lità della Parola di Dio (Scrittura e Tradizione); e la Gaudium et spes articola il rapporto con il mondo nelle svariate e complesse dinami­che in esso implicate, all'insegna dell'unico grande criterio della condivisione e della carità. Queste tre costituzioni articolano così i tre grandi pilastri sui quali l'edificio ecclesiali si regge e cresce: la Li­turgia, la Parola e la Carità.

La Lumen gentium, in questo quadro, emerge come la «magna charta» del Vaticano Il, e in quanto tale ne raccoglie ed esprime tut­ti gli elementi ecclesiologici es­senziali. Se in essa convergono lo­gicamente le altre tre costituzioni conciliari, da essa si diramano i de­creti e le dichiarazioni: i decreti Unitatis redintegratio sull'ecume­nismo e Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche so­no quasi l'espansione di LG 15, co­sì come la dichiarazione Nostra ae­tate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane lo è di LG 16; il decreto Ad gentes sull'attività missionaria della Chiesa riprende e approfondisce il tema già abbozza­to in LG 17; il decreto Christus Do­minus sull'ufficio pastorale dei ve­scovi articola e traduce gran parte del terzo capitolo di LG (18-27); i decreti Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri e Optatam totius sulla formazione sa­cerdotale approfondiscono la teo­logia e spiritualità dei presbiteri, an­che in chiave formativa, concen­trata in LG 28; il decreto Apostoli­cam actuositatem sull'apostolato dei laici è quasi una traduzione ope­rativa del quarto capitolo di LG (30-38), così come il decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vi­ta religiosa del sesto (43-47). I tre documenti non compresi in questa ramificazione mettono in luce altri aspetti della vita ecclesiale non direttamente tematizzati da LG: l'im­portanza dei mezzi di comunica­zione sociale per l'annuncio del Vangelo (decreto Inter mirifica), la natura e gli scopi dell'educazione cristiana nel mondo attuale (di­chiarazione Gravissimum educa­tionis) e la libertà religiosa in rap­porto alla missione ecclesiale (dichiarazione Dignitatis humanae).

La molteplicità e complessità dei documenti rende impensabile offrire un quadro anche solo ap­prossimativo dell'ecclesiologia del Vaticano II in poche pagine. Indichiamo piuttosto alcune idee-gui­da di LG - quasi degli slogan bre­vemente commentati - di cui oggi appare particolarmente urgente il recupero: anche perché in buona parte disattesi. Data l'indole del presente contributo e lo spazio a di­sposizione non riportiamo indica­zioni bibliografiche, con l'ecce­zione dell'ultimo «manuale» di ec­clesiologia in lingua italiana, dove si potrà reperire una bibliografia pressoché completa in merito al no­stro argomento. (1)

1. La Chiesa non è semplice­mente società e Corpo mistico di Cristo, ma anche e primariamente sacramento e mistero tri­nitario. Nel primo capitolo di LG (1-8) sono poste le basi teologiche per l'inserimento della Chiesa nel­la storia salvifica, cioè per una ecclesiologia misterica.

La cosiddetta concezione «so­cietaria» e visibilista di Chiesa, ac­centuata dalla reazione dei contro­riformisti nei confronti dell'«invi­sibilismo» protestante e arricchita nell'Ottocento dal motivo della «societas perfecta, inaegualis, hie­rarchica», in polemica contro le in­gerenze degli stati verso la Chiesa, venne ridimensionata e fu integra­ta già dalla Mystici Corporis di Pio XII (1943) nella concezione teolo­gicamente più profonda della Chie­sa come «corpo mistico di Cristo», dove ritornava in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimen­sionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teolo­giche della Chiesa all'intera storia della salvezza. La Chiesa, per il concilio, non è solo una società (cf. quanto resta di questa ecclesiolo­gia, riveduta e corretta, soprattutto in LG 8, 9 e 14) e neppure sempli­cemente il corpo mistico di Cristo (cf. l'assunzione di questa imma­gine in LG 7): è, più ampiamente, opera trinitaria (cf. LG 2-4).

Da questo squarcio di orizzon­ti derivano alcune importanti im­plicazioni. Il Vaticano Il, prima di tutto, ha evitato di legare a tal pun­to l'origine della Chiesa alla vo­lontà esplicita di Gesù prima della Pasqua, da farne un elemento de­cisivo di legittimazione ecclesiale. Nell'impostazione precedente di­ventava irrinunciabile la dimostra­zione della «storicità» di certe pa­role di Gesù in ordine alla Chiesa (che sostanzialmente si concentravano nel brano di Mt 16,16-19), per difenderne l'istituzione divina. Il concilio, conoscendo la questione e le innumerevoli dispute svoltesi in merito dall'inizio del XX seco­lo, nell'aggancio cristologico di LG 3 da una parte si attiene ai dati più sicuri della critica storica («Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero») e dall'altra presenta chiaramente il mistero pasquale come punto d'in­nesto «pieno» della Chiesa nel mi­stero di Cristo: l'inizio e la cresci­ta della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che usci­rono dal costato aperto di Gesù crocifisso»...

Ma LG non si ferma a questo primo allargamento di orizzonti e ne opera, come accennato, un se­condo: la Chiesa affonda le sue ra­dici non sul solo mistero cristolo­gico bensì sull'intero mistero trini­tario. La storia teologica della Chie­sa, come illustra LG 2, inizia, in­fatti, nell'atto stesso della creazio­ne dell'universo, continua nella vo­lontà di Dio di radunare gli uomi­ni non singolarmente ma come po­polo e nell'elezione di Israele. Que­sta medesima storia, poi, procede dopo la Pasqua: LG 4, intarsio di citazioni bibliche, ricorda gli innu­merevoli risvolti dell'azione dello Spirito nella vita della Chiesa. Il tutto si può riassumere con le af­fermazioni che la Chiesa «già pre­figurata sino dal principio del mon­do, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica alleanza e istituita “negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli» (LG 2); essa è, come affer­ma Cipriano, «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cit. in LG 4).

La coestensione della Chiesa al­la storia salvifica si può esprimere con i concetti di mistero (cf. il ti­tolo dell'intero primo capitolo di LG) e sacramento (cf. LG 1). Il pri­mo concetto fa risaltare le dimen­sioni inimmaginabili della Chiesa, che non è semplice aggregazione umana ma opera trinitaria; il se­condo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nel­la Chiesa di umano e divino (cf. LG 8), trascendente e storico: per cui la Chiesa conciliare non è né un'en­tità spirituale che sorvola la storia né, inversamente, una società uma­na tra le altre. Dal rinnovamento conciliare delle radici teologiche della Chiesa discende dunque la ne­cessità di una vera e propria «con­versione» dai modi più superficia­li (diffusi purtroppo anche tra gli stessi cristiani praticanti) di inten­derne la vita e la missione.

2. La Chiesa non è formata solo dal sacerdozio ministeriale e gerarchico, ma anche e fondamentalmente dal sacerdozio bat­tesimale di tutto il popolo di Dio.

Il Vaticano II, specialmente nel ca­pitolo secondo di LG (9-17), po­ne le basi teologiche per una ec­clesiologia comunionale e, all'in­terno di essa, per una riflessione rinnovata sulla teologia del mini­stero ordinato e del laicato. La ri­duzione «gerarcologica» dell'ec­clesiologia - secondo l'efficace espressione di Y. Congar - che giunge alle soglie del Vaticano Il e bussa alla sua porta, viene radi­calmente corretta ed integrata dal concilio.

La concentrazione dell'idea di «Chiesa» nel clero, e più ancora nell'episcopato, quando non addi­rittura nel solo papato, venne a po­co a poco allentata dai testi conci­liari attraverso il recupero della no­zione di «popolo di Dio» come de­scrizione globale e più adeguata della Chiesa. Si può dire che il po­polo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Tri­nità ne è il soggetto misterico e di­vino.

La famosissima inversione dei capitoli secondo e terzo di LG per cui ora risulta che la trattazio­ne sul popolo di Dio precede quel­la sulla gerarchia - è fortemente simbolica dell'enorme balzo com­piuto dal Vaticano II. La realtà ec­clesiale di base è quella battesima­le-cresimale-eucaristica, che com­prende tutti i membri del popolo di Dio; questa realtà poi si specifica di diverse direzioni, ruoli e compi­ti, alcuni legati alla natura della Chiesa e altri solo a certi momen­ti della sua storia. Il ministero or­dinato, dentro al popolo di Dio - non sopra accanto - svolge la funzione di richiamare efficace­mente l'origine continua della gra­zia, Cristo risorto nello Spirito, che continua a donarsi attraverso la Pa­rola, i Sacramenti e la Carità. La connotazione «battesimale» dell'ecclesiologia conciliare ha per­messo quindi di collocarvi il sa­cerdozio ordinato nella sua luce più adeguata, che è quella «ministeria­le». Si apre così lo spazio per un'ef­fettiva missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto es­si sono a pieno titolo - in virtù del battesimo e della fede - compo­nenti del popolo di Dio e quindi «soggetti» ecclesiali: e come tali collaboratori e corresponsabili e non semplici esecutori.

Anche questo secondo aspetto è lungi dall'essere assorbito nella co­scienza teorica e pratica dei cri­stiani. Per quanto sia sempre più frequente l'affermazione che la Chiesa è composta da «tutti noi», perdura la convinzione che «la» Chiesa è in realtà concentrata sul­la gerarchia. Sono ancora poco sviluppati - o maldestramente percor­si - i sentieri riaperti dal Vaticano II con la dottrina del «sacerdozio comune», del «senso di fede» e del­la dimensione carismatica di tutto il popolo di Dio (cf. LG 10-12).

3. La missione della Chiesa non è una fase episodica e pas­seggera della sua vita e attività, ma la sua stessa natura. È la base teologica per un'ecclesiologia mis­sionaria che superi le riduzioni ere­ditate nel corso degli ultimi secoli.

Una riduzione, prima di tutto, orizzontale: il discorso sulla mis­sione non veniva condotto avanti teologicamente per l'intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo ex­traecclesiale veniva chiamata missione solo l'opera che alcuni uo­mini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della de­lega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appun­to «missionari». In campo intraec­clesiale la missione veniva riser­vata ai preti e ai vescovi. Se inte­sa, infatti, in senso ampio, essa in­dicava l'azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all'attività sa­cramentale dei sacerdoti nei con­fronti dei fedeli, così che i primi erano considerati i soggetti e i se­condi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell'attività sal­vifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava l'abilitazione giuridica che veniva data al sacer­dote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all'in­terno della potestas iurisdictionis).

La seconda riduzione - pasto­ralmente conseguente ma teologi­camente precedente la prima - si può definire verticale: non si par­la, se non sporadicamente, di Chie­sa per natura missionaria fino al Vaticano II. Il concilio ha posto in­vece la dimensione missionaria al centro stesso della sua ecclesiolo­gia, facendo della missione non più un tema occasionale e periferico, ma una dimensione irrinunciabile dell'ecclesiologia: la Chiesa è es­senzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al no­stro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa - momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristia­no - il concilio, accogliendo sti­moli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non ces­serà mai, perché appartiene alla na­tura della Chiesa. Prima del conci­lio si trascurava la radice teologi­ca della missione, che è l'opera tri­nitaria: è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Fi­glio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa - tutta la Chiesa - è proiet­tata fuori di sé, verso il mondo. E la grande inquadratura di LG 2-4 e AU 2-4, che culmina nella seguen­te affermazione riassuntiva: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AU2).

La missionarietà come dato es­senziale, perché impronta trinitaria e connotazione comune dei battez­zati, non sembra ancora caratteriz­zare le comunità cristiane. Da più parti, anche molto autorevoli, si la­menta ancora, almeno nella Chie­sa italiana, un'eccessiva cura ver­so la conservazione dell'esistente (strutture, tradizioni e usi...) e una scarsa audacia missionaria. Sia Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II che Comunicare il Vange­lo in un mondo che cambia della CEI, invitano ad adottare decisa­mente il paradigma della missione: segno che ancora la coscienza e la prassi ecclesiale sono lontane dall'averlo fatto.

4. La Chiesa non è solo l'uni­versalità del popolo di Dio, ma anche e inseparabilmente la co­munità locale dei fedeli raccolti attorno al vescovo. È la base per una teologia della Chiesa locale che riconosca spessore alla dioce­si e, subordinatamente, alla par­rocchia. Il testo che fece da «pioniere» si trova, notoriamente, in SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipa­zione piena e attiva di tutto il po­polo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla me­desima preghiera, al medesimo al­tare cui presiede il vescovo, cir­condato dal suo presbiterio e dai ministri». Più volte definito «svol­ta copernicana», questo testo ac­coglie in casa cattolica l'ecclesio­logia eucaristica ignaziano-orien­tale, considerando la Chiesa come realtà sacramentale prima che co­me realtà societaria. In quest'otti­ca, dunque, la «più alta manifesta­zione della Chiesa» non consisterà nell'esercizio del potere primazia­le ai massimi livelli (era questa l'accentuazione del Vaticano I), bensì nella compresenza della ce­lebrazione eucaristica, del popolo di Dio che partecipa attivamente e pienamente, e del ministero nei suoi vari gradi, compresa la pie­nezza episcopale.

La prospettiva è ripresa in LG 26, dove si legge tra l'altro che nel­le comunità eucaristiche locali, «sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del qua­le si raccoglie la Chiesa, una, san­ta, cattolica e apostolica». Ma è so­prattutto LG 23 che, nel contesto della trattazione sulla collegialità episcopale, presenta le affermazio­ni più rilevanti sulla Chiesa locale: parla infatti delle «Chiese partico­lari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica». Il rappor­to Chiesa particolare/Chiesa uni­versale non è di somma o sottra­zione. Il testo citato delinea piut­tosto tale rapporto in due direzio­ni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare è di immanen­za: «tutta» la Chiesa è presente «nelle» Chiese particolari, le quali sono «immagine» della Cattoli­ca; dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale è di origine: «tutte» le Chiese conducono a forma­re la Chiesa universale, poiché è «a partire dalle» singole Chiese parti­colari che si forma concretamente la Cattolica.

Una Chiesa particolare/locale non è dunque semplicemente una parte di Chiesa, ma è tutta la Chie­sa presente in quel luogo, perché in essa è presente tutto il mistero di Cristo e non solo una sua parte. Con l'aiuto di CD 11, non è diffi­cile individuare gli elementi costi­tutivi della Chiesa particolare: il Vangelo, l'Eucaristia, il vescovo, l'azione dello Spirito Santo. E quindi presente l'intero mistero di Cristo nella Parola di Dio, che ri­suona integralmente in ogni Chie­sa locale; nei sacramenti, special­mente nel ministero pastorale del vescovo, guida di ogni Chiesa lo­cale, e in sommo grado nell'Euca­ristia, celebrata in ogni Chiesa lo­cale; è presente l'intero mistero di Cristo, infine, nello Spirito di ca­rità che si irradia in ogni Chiesa lo­cale, con doni, carismi e ministeri diversi. L'unità della Chiesa, così, deriva dalla presenza integrale dell'unico mistero di Cristo in ogni comunità eucaristica presieduta dal vescovo.

Il Vaticano II, pur senza ap­profondirla, ha così offerto gli spunti per una vera e propria «teologia della Chiesa particolare/lo­cale». È chiaro che non si tratta di contrapporre la dimensione locale a quella universale della Chiesa:

ogni singola comunità presieduta dal vescovo è davvero «Chiesa» so­lo se si trova in comunione con tut­te le altre Chiese nel mondo; co­munione espressa e garantita dalla Chiesa di Roma. Non è più in virtù di un principio solamente giuridi­co che emerge la necessità della co­munione con la sede di Pietro, ma in virtù di un principio anzitutto teologico: non esiste «Chiesa» se non nella comunione universale. Sembra però che oggi, anche da settori autorevoli del cattolicesimo, si ricada ogni tanto e di nuovo in quel modello di assorbimento del locale da parte dell'universale che il Vaticano II in linea di principio aveva superato, mostrando la reci­procità dei due aspetti. E sempre in agguato la tentazione «centralisti­ca», che trascura la ricchezza teo­logica, spirituale e pastorale delle singole Chiese. E prevedibile che il lavoro di riequilibrio fra unità e molteplicità in questa chiave ec­clesiologica continuerà ancora a lungo.

5. La «Chiesa di Cristo» non è semplicemente identica alla «Chiesa cattolica», ma «sussiste in» essa. Esiste quindi un'appar­tenenza non piena ma reale alla Chiesa. È la base teologica per un rinnovato ecumenismo, che ap­prezzi gli elementi ecclesiali pre­senti anche nelle altre comunità cri­stiane. LG 8 rappresenta un vero e proprio «progresso» in campo ecu­menico, laddove afferma: «Questa Chiesa, in questo mondo costitui­ta e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, go­vernata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo orga­nismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di ve­rità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica». Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica: l'a­dozione dell'espressione «subsistit in», anziché del precedente «est», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione «subsistit in» fu intenzionalmente sostituita a «est», proprio per superare l'identificazione pura e semplice e permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre co­munità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cat­tolica (cf. UR 4). Allo stesso sco­po tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parec­chi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono do­ni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cat­tolica.

Un'altra importante e famosis­sima affermazione ecumenica si trova in LG 14: «Sono pienamen­te incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spiri­to di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti»... L'attuale plene sostituisce il reapse della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratel­li di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.

La mancata identificazione pu­ra e semplice tra «Chiesa di Cristo» e «Chiesa cattolica» e l'ammissio­ne di un'appartenenza «non piena» ma reale alla Chiesa, unite al prin­cipio della «gerarchia delle verità» formulato in UR 11 («esiste un or­dine o "gerarchia" nelle verità del­la dottrina cattolica, essendo diver­so il loro nesso col fondamento del­la fede cristiana»), hanno favorito grandi passi nel cammino ecume­nico: ne sono testimonianza, tra l'altro, l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) e la Di­chiarazione congiunta sulla giusti­ficazione firmata da cattolici e luterani nel 1999 ad Asburgo; testi il cui contenuto sarebbe stato del tut­to impensabile senza queste gran­di aperture del Vaticano II. La sfi­da, in questo settore, è soprattutto di carattere «esperienziale»: le co­munità cattoliche, provocate dalla presenza e dalla testimonianza di fratelli di altre confessioni cristia­ne, sono invitate a dialogare e te­stimoniare a loro volta la fede cat­tolica; nella persuasione reciproca - quanto diffusa? - che il dialogo non è automaticamente perdita di identità (solo chi non è sereno e persuaso della propria identità ha paura di dialogare) ma stimolo a re­cuperare l'essenziale e distinguer­lo da ciò che è secondario.

6. La Chiesa non è identica al Regno, ma ne è il germe e l'ini­zio (cf. LG 3 e 5): è la base teolo­gica per il riconoscimento di semi del Verbo ed elementi di verità e salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile, cioè per una nuova impostazione del tema in­terreligioso (cristianesimo e altre grandi religioni) e interculturale (Chiesa e mondo).

Il testo basilare per il rapporto interreligioso è LG 16 dove, rife­rendosi a coloro che non hanno an­cora ricevuto il Vangelo, si affer­ma: «Tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dal­la Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita». Anche LG 17 valuta positivamente l'am­bito non-cristiano: questa volta, però, non solo dal punto di vista delle singole persone ma anche da quello, più impegnativo, delle re­ligioni e delle culture in quanto ta­li: «con la sua attività, essa (=la Chiesa) fa in modo che ogni ger­me di bene (quidquid boni... semi­natum) che si trova nel cuore e nel­la mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato». NA 2, poi, afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Es­sa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quan­tunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e pro­pone, tuttavia non raramente ri­flettono un raggio (radium) di quella Verità che illumina tutti gli uomini».

Vi sono altri riferimenti che an­drebbero menzionati (in AU 3, 9, lì e 18; in US 22 e 92, ecc.): ma già questi sono sufficienti a rile­vare come il Vaticano II abbia impostato una valutazione delle al­tre religioni non più in chiave di sospetto o rifiuto, bensì di acco­glienza, discernimento e valoriz­zazione. Il concilio ragiona preva­lentemente in termini cristologici, ispirandosi soprattutto alla teolo­gia dei semina Verbi di Giustino: il mistero di Cristo, presente pienamente nella Chiesa, è pure presen­te - a diversi livelli - nelle altre tradi­zioni religiose. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptoris missio (1990) riprenderà la prospettiva an­che in chiave pneumatologica, in­vitando a valorizzare gli elementi che lo Spirito suscita anche nelle altre religioni (cf. specialmente 28-29). Il concilio non ha precisato i modi di questa presenza né ha esplicitamente trattato il problema del valore salvifico delle religioni non cristiane: si è limitato - e non è comunque poco - a tracciare il solco per la riflessione teologica successiva.

Analogo è il discorso sul rap­porto interculturale, almeno per ciò che attiene ai principi di fondo. Il testo-base è in questo cam­po senza dubbio il capitolo secon­do della parte seconda di US: «La promozione del progresso della cultura» (53-62); qui sono elènca­ti prima di tutto rischi e opportu­nità che il mondo odierno presen­ta all'annuncio del Vangelo, così che i «fatti deplorevoli non scatu­riscono necessariamente dall'o­dierna cultura, né devono indurci nella tentazione di non riconosce­re i suoi valori positivi», i quali vengono addirittura indicati come una praeparatio evangelica (cf. 57). In questo contesto complesso, afferma US 58, la Chiesa da una parte evita di legarsi in modo esclu­sivo e indissolubile a una qualche cultura, ma dall'altra è in grado di entrare in comunione con le più differenti forme; ed è una comu­nione che arricchisce sia la Chie­sa che le culture: il Vaticano lì adotta così uno schema bi-direzionale (si trovava già in US 40 e 44), che permette di fondare un vero e proprio «dialogo» con le culture, cioè un reciproco dare-avere. Il dialogo nulla toglie alla missione, se è vero che - come continua lo stesso paragrafo il vangelo di Cri­sto rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dal peccato, purifi­ca ed eleva la moralità dei popoli, feconda dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di cia­scun popolo.

Chi vuole restare fedele all'impostazione del Vaticano II - una tensione dei germi veri e santi, presenti dovunque in differen­te misura, verso il loro compi­mento nel mistero di Cristo - imposta un rapporto con le altre re­ligioni, le altre culture e i loro ap­partenenti in termini di dialogo e annuncio insieme: non solo dialo­go, che si risolverebbe in eserci­zio di pluralismo relativistico; né solo annuncio, che rischierebbe di portare a un neo-colonialismo mis­sionario; dialogo e annuncio si im­plicano e richiedono a vicenda, e l'equilibrio tra i due sembra an­cora piuttosto lontano dalla porta­ta delle nostre comunità cristiane e di tanti singoli battezzati, che sembrano oscillare continuamen­te tra le due forme estreme e più facili del relativismo e dell'inte­gralismo.

«Appunti» si intitolano queste pagine: il paziente lettore constata a questo punto che non si tratta di umiltà fuori posto, ma di una realtà innegabile: il Vaticano II è talmen­te ricco, complesso e... in buona parte inattuato, che solo una lunga consuetudine personale con i suoi testi e un'altrettanto lunga serie di esperienze pastorali potranno ve­ramente «recepirlo».

1) S. DIANICH - S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana Brescia 2002.

I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi





È impossibile parlare di Babilonia in una prospettiva culturale ampia senza rifarsi ai testi biblici. Oltre che in Genesi 11 e nell’Apocalisse di Giovanni, testi a valenza mitica e simbolica, Babilonia appare nella Bibbia in un periodo ben determinato, quello dei profeti Geremia, Ezechiele e del Secondo Isaia, il periodo del Nuovo Impero Babilonese (605-539). Il regno di Giuda, che era in una posizione-cerniera tra la potenza babilonese e l’Egitto, si trovò preso in un’autentica tempesta. Con la caduta di Ninive nel 612, Babilonesi e medi avevano dato il colpo di grazia all’impero assiro. Nel 605, Nabucodonosor inflisse una cocente sconfitta al faraone. Per un certo tempo, Giuda oscilla tra questi due protagonisti, prima di cadere nell’orbita babilonese. La prima deportazione nel 597, poi la caduta di Gerusalemme nel 587 significano l’influenza totale di Babilonia. È in questo contesto che bisogna situare gli interventi profetici.

GEREMIA: LA SOTTOMISSIONE


A partire dal momento in cui gli Egiziani sono sconfitti da Nabucodonosor a Karkemiš, nel 605, il nemico del Nord, di cui Geremia aveva predetto la venuta quale castigo per Giuda, si precisa: sono i Babilonesi. Ma curiosamente, il profeta va a chiedere la sottomissione al re di Babilonia. Come spiegare questa posizione che lo fece considerare un collaborazionista dai suoi compatrioti?

Questa pressi di posizione antinazionalista si manifesterà in circostanze diverse. Prima di tutto la si scopre nel testo di Geremia 27,1-11. Siamo nel 594-593, sotto il regno di Sedecia.


«PROCURATI UN GIOGO E METTILO SUL TUO COLLO»


Il cambiamento del sovrano in Egitto suscita in alcuni vassalli di Nabucodonosor delle speranze di indipendenza. Una riunione di «ribelli» ha luogo a Gerusalemme: Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone rispondono all’appello. È allora che Geremia riceve dal Signore uno strano ordine: procurarsi un giogo, metterselo sul capo e presentarsi così davanti agli inviati dei regni vicini.

Il messaggio è chiaro: il Dio del cielo e della terra ha sottomesso tutti i popoli a Nabucodonosor. Chi si sottomette vivrà. Altrimenti sarà la disfatta e la morte certa. Nel suo oracolo, il profeta attribuisce a Nabucodonosor uno dei titoli più prestigiosi della monarchia in Giuda: egli è il «servo del Signore». Per Geremia, il Dio dell'universo si preoccupa di tutti i popoli e, nel suo disegno, Nabucodonosor ha un posto essenziale. Adesso, gli ha dato ogni potere. Ribellarsi contro di lui equivale a ribellarsi contro il Dio di Israele.

Da quel momento, la posizione del profeta diventerà sempre più delicata. Egli infatti non si accontenta di trasmettere questo messaggio di sottomissione, ma moltiplica i suoi interventi per far «passare» il suo punto di vista. Così, in questo stesso capitolo 27, altri due oracoli riaffermano che bisogna sottomettersi e annunciano la totale rovina se la ribellione si concretizza.


UN MESSAGGIO OSTINATO IN FAVORE DELLA SOTTOMISSIONE


Molto chiaramente, egli si oppone agli altri profeti e ai responsabili del regno: mette in guardia i suoi ascoltatori contro coloro che predicano la ribellione, affronta il profeta Anania che, da parte sua, annuncia la liberazione dal giogo babilonese «entro due anni» (28,3). Scrivendo ai deportati di Babilonia, consiglia loro di prevedere un esilio lungo, di stabilirsi in terra straniera e di non ascoltare coloro che annunciano un rapido ritorno (c. 29).

Dopo la caduta di Gerusalemme e l'attentato contro Godolia, il governatore posto dai Babilonesi in Giuda, Geremia raccomanda ancora a un gruppo di Giudei atterriti dalle conseguenze di questo assassinio di rimanere nel paese e di «non temere il re di Babilonia» (42,10ss).


TRADITORE DELLA PATRIA O SEMPLICEMENTE PRAGMATICO


Ma è soprattutto al momento della caduta di Gerusalemme, nel 587, che il profeta appare ai suoi concittadini come un traditore. Durante un'interruzione dell'assedio,Geremia esce dalla città per raggiungere il suo villaggio. Anatot, dove deve sistemare una questione di eredità. Nel momento in cui attraversa la porta, una guardia ferma Geremia e gli dice: «Tu passi ai Caldei!» (37,11ss). Poco più tardi, alcuni ministri chiedono al re la testa del profeta: «Si metta a morte questo uomo perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città»; e, afferratolo, lo gettano in una cisterna (38, 1-6). Dopo averlo liberato, Sedecia lo fa però guardare a vista. In breve, anche se non è stato il solo a prendere questa posizione, Geremia è apparso agli occhi dei Giudei conte il traditore per eccellenza.

La sua posizione era certo ben nota ai Babilonesi, come rivela il loro atteggiamento dopo la caduta di Gerusalemme: lo lasciano libero di circolare e Geremia resta nel paese con coloro che, come Godolia, avevano sostenuto la sottomissione a Nabucodonosor. Sfortunatamente, dopo l'assassinio di Godolia, le cose si metteranno male per lui, e sarà così costretto a fuggire in Egitto, oggetto di ogni critica (43,4-7).

L'atteggiamento di Geremia di fronte a Babilonia può sorprendere. Esso riflette la fedeltà del profeta alla fede d'Israele. Dio, padrone del mondo e della storia, ha un progetto per tutti i popoli: le loro relazioni, spesso tumultuose, devono servire a guidare Israele, il suo popolo eletto, verso il destino che Dio gli prepara. Il suo atteggiamento rivela ancora un’intelligenza politica improntata al pragmatismo, di fronte a un tentativo di ribellione completamente irrealistico.


EVOLUZIONE ULTERIORE DEL LIBRO DI GEREMIA

Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Geremia, squalificando le posizioni dei suoi avversari. Da allora, i suoi oracoli e i suoi interventi politici sono stati accuratamente tenuti in considerazione, come prova della legittimità religiosa della sua parola profetica. Ma nel libro di Geremia non si trovano solo le parole e le prese di posizione del profeta. Il suo libro ha continuato a vivere. I suoi discepoli ed epigoni, sempre messi a confronto con Babilonia, si sono trovati davanti ad altri problemi. Il popolo di Israele - i deportati, come gli altri rimasti nel paese - subì con forza la pressione del dominatore del momento.

L'atteggiamento verso Babilonia cambierà radicalmente. Non è del resto escluso che Geremia stesso abbia previsto un ulteriore castigo di questa grande potenza (cf 27,7: 25,26). Nel grande blocco degli oracoli contro le nazioni (Ger 46-51), gli ultimi due capitoli sono dedicati a questo. Al lamento che Israele rivolge al Signore sul comportamento di Babilonia, il Signore risponde: «Ecco, io difendo la tua causa, compio la tua vendetta» (51,36). L'idea di vendetta implica che Babilonia ha avuto torto in un certo momento: «Ha peccato contro il Signore!». Questo peccato dei popoli contro il Signore è un motivo classico: si tratta dell'orgoglio: «Eccomi a te, o arrogante» (50,31). Babilonia a sua volta dovrà dunque essere punita: «Ripagherò Babilonia di tutto il male che hanno fatto a Sion» (51,24). Così, le sorti di Sion e di Babilonia saranno sempre opposte, ma la loro posizione si ribalta. «Babilonia non è guarita... poiché la sua punizione giunge fino al cielo... il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa: venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore, nostro Dio» (51,9-10).

IL tema del castigo di Babilonia ritorna più volte nei capitoli 50-51. In un primo momento sorprende il contrasto con le posizioni di Geremia. Questo paradosso riflette il radicamento della parola profetica nella realtà storica: gli avvenimenti hanno spostato i ruoli dei protagonisti, ma le due letture della storia partono dalla stessa fede in un Dio che si prende cura del suo popolo attraverso la mediazione degli attori della storia.


EZECHIELE: L’ESILIO E LA SPERANZA


Ezechiele, sacerdote del tempio di Gerusalemme, fa parte degli esiliati della prima deportazione nel 597. Non c'è motivo di mettere in dubbio le notizie del suo libro secondo le quali egli è vissuto in Babilonia, a Tel Abib, presso il fiume Kebar, vicino a Nippur.

Il suo libro contiene un buon numero di date o di allusioni che permettono di situarlo nel tempo. Così, non solamente egli ha atteso e annunciato la caduta di Gerusalemme, ma ha seguito le peripezie della lotta di Nabucodonosor per l'egemonia politica nel Vicino Oriente. Quanto all'ultimo oracolo datato del suo libro, è stato pronunciato il 26 aprile 571 e tratta delle controversie del re babilonese con Tiro e l'Egitto (29, 17-21). Ezechiele ha 52 anni. È sempre a Babilonia. Poi, se ne perdono le tracce.


EGIZIANI E CALDEI DI FRONTE ALLA PROSTITUTA GERUSALEMME


Ezechiele ama gli affreschi storici in cui Giuda e Israele sono gli attori principali. La storia del suo popolo gli appare come una sequenza di infedeltà al Signore, che si manifesta con la ricerca di legami politici e religiosi con le grandi potenze dell'epoca. L'Egitto non appare come «l'amante» più ricercato? Anche gli Assiri sono ricordati, ma il loro potere è scomparso da tempo. Sono dunque i Caldei di Babilonia che si contendono, insieme all'Egitto, la prostituta Gerusalemme. Con questa chiave giuridico-politica il profeta esprime i rapporti tra Giuda e il potere babilonese (Ez 16,29; 23,14-18).


L'INFEDELTÀ Dl GIUDA AL GIURAMENTO DATO


Aldilà dello sfavillio delle immagini più o meno scabrose, il fondo del problema è politico e religioso. Il capitolo 17 di Ezechiele è un modello di questo genere. All'inizio è il simbolo dell'albero piantato dalla grande aquila per mostrare la situazione di vassallaggio di Giuda nei confronti dei Babilonesi dopo la prima deportazione e i tentativi di rivolta del re di Gerusalemme che volge all'Egitto.

Giuda ha prestato, di buono o cattivo grado, un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, facendo Dio testimone e garante della sua fedeltà. I suoi tentativi di ribellione manifestano la sua infedeltà alla parola data al re di Babilonia, ma anche al Signore, suo testimone e garante. Così, è il Signore stesso che è messo allo scoperto. Gli tocca punire l'infedele: «Lo porterò a Babilonia [= il re di Gerusalemme] e là lo giudicherò per l'infedeltà commessa contro di me» (17-20b). Inutile dire clic Nabucodonosor, di fronte all'infedeltà del suo vassallo, ha anche lui voluto dare un castigo!

Questo testo non è datato. Ma si sa che gli inviati dei paesi vicini a Giuda si sono riuniti a Gerusalemme nel 593, per liberarsi dal giogo babilonese. Ora, è proprio nel 593 che Ezechiele pone l'inizio del suo ministero profetico (1,2). È dunque in un momento di grave crisi che il Signore manda il suo profeta per fare un estremo tentativo di evitare la catastrofe.


BABILONIA, STRUMENTO DELLA COLLERA DI YHWH


Ezechiele, biasimando le scelte dei responsabili di Gerusalemme e l'infedeltà di Giuda, giustifica in qualche modo la reazione di Nabucodonosor. Ma la visione del profeta non può ridursi a questo aspetto.

Tutta la prima parte della sua predicazione (fino al momento della caduta di Gerusalemme) è consacrata a denunciare le colpe del suo popolo. I capitoli 8-11 ne sono il quadro più avvincente. L'idolatria è dipinta con una forza e una fantasia sorprendente. Poi, al capitolo 22, è tutta la società gerosolimitana ad essere denunciata per la sua ingiustizia: la città è corrotta, senza prospettive.

Il castigo è inevitabile: «Il Signore disse: Seguitelo attraverso la città e colpite. Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia! (...) Neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere» (9,5ss). Il legame tra il castigo meritato da Giuda e l'azione di guerra di Nabucodonosor diventa ben presto più esplicita: «Nella sua [del re] destra è uscito il responso: Gerusalemme, per far udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra... Perciò dice il Signore: Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, voi resterete presi al laccio» (21,27-29). E più avanti: «I figli di Babilonia e di tutti i Caldei... verranno contro di te (...). Deporteranno i tuoi figli e te tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,23.25).


LA RICOMPENSA DEL RE DI BABILONIA


Che il re di Babilonia sia lo strumento della collera del Signore, o che egli abbia il diritto di punire Giuda per la sua infedeltà, questo a rigore lo si può capire. Ma Ezechiele va oltre. Nel suo ultimo intervento datato, il profeta presenta un oracolo sconcertante. Promette l'Egitto al re di Babilonia: «Per l'impresa compiuta io gli consegno l'Egitto, perché l'ha compiuta per me. Oracolo del Signore» (29,20). Inutile dire che i Giudei deportati hanno dovuto far fatica ad accettare una simile visione delle cose!


LA GLORIA DI DIO HA SEGUITO IL SUO POPOLO IN ESILIO


Ma il Signore non abbandona i deportati. Essendosi manifestata a lui la Gloria di Dio, è a Babilonia che Ezechiele ha saputo di essere stato chiamato al ministero profetico (Ez 1,1-3,15). La Gloria di Dio è a Babilonia: Ezechiele l'ha vista, in una visione grandiosa, lasciare la sua casa, il Tempio di Gerusalemme (8.11), e questo è avvenuto ancora prima che Gerusalemme cadesse, tra le due deportazioni. Coloro che sono rimasti in Giuda sono certi che Dio è con loro, nel suo Tempio, mentre gli esiliati soffrono duramente la loro lontananza dal Signore. Ora, Ezechiele, con le sue visioni come con il racconto della sua vocazione, mostra che è una concezione falsa: «Se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove sono emigrati» (11,16).

Tuttavia, l'orizzonte non si chiude, per il profeta, nel paese della deportazione. Le prospettive di ritorno sono spesso enunciate. Ma soprattutto, a partire dalla caduta di Gerusalemme, tutto cambia. Ezechiele diventerà il cantore della speranza. Con lo stesso vigore con cui aveva annunciato il castigo, predicherà la salvezza per Israele. La vita del popolo è assicurata nella affascinante visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37), il ritorno della Gloria di Dio è annunciato.


UN'IMMAGINE POSITIVA CHE NIENTE INTACCHERÀ


Babilonia ha incontestabilmente un ruolo positivo nel pensiero di Ezechiele: come potenza politica, ma soprattutto come il paese da cui uscirà Israele, in un nuovo ed autentico esodo. Questa visione è così forte che, diversamente che in Geremia, non si trova un oracolo contro Babilonia nel blocco «oracoli contro le nazioni» del libro di Ezechiele. E niente nemmeno nel suo libro che, venendo dalla sua scuola, dai suoi successori, abbia attenuato il ritratto positivo di Babilonia che egli aveva tracciato. Sui questo tema, non ci sono state, da parte dei discepoli, aggiunte o sviluppi in funzione delle nuove circostanze. Questo è tanto più notevole in quanto il libro testimonia molte riletture e aggiunte, che talvolta deformano il testo fino a dare del Profeta un'immagine patologica. Ma l'immagine Positiva di Babilonia rimane intatta.


IL SECONDO ISAIA: L’ANNUNCIO DELLA LIBERAZIONE


Non c'è più praticamente nessuna discussione circa la paternità dei capitoli 40-55 del libro di Isaia comunemente chiamato Secondo Isaia o Deutero-Isaia. Non è il profeta conosciuto sotto questo nome, autore dei capitoli precedenti, che era vissuto nell'VIII secolo. Il Secondo Isaia, anonimo, ha esercitato il suo ministero profetico tra il 550 e il 520. Come dire che è stato il testimone degli ultimi anni dell'impero babilonese e della speranza suscitata in tutto il Vicino Oriente dall'arrivo al potere del persiano Ciro. In tale contesto si deve situare Babilonia nei suoi oracoli.

Gli oracoli su Babilonia sono poco numerosi. Le menzioni esplicite si trovano nella prima parte (40-48) il cui asse essenziale è costituito dall'annuncio della liberazione degli esiliati e del ritorno nel paese. La seconda parte (49-55) tratta principalmente della restaurazione di Gerusalemme.


«COSÌ DICE IL SIGNORE, VOSTRO REDENTORE»


L'annuncio della caduta di Gerusalemme si trova in un breve oracolo in 43, 14-15: «Così dice il Signore, vostro redentore, il Santo di Israele: per amor vostro, l'ho mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutti». Si può accostare a questo testo un altro versetto, anche se Babilonia non vi appare direttamente: «A terra è Bēl (uno dei nomi di Marduk), rovesciato è Nebo... ed essi se ne vanno in schiavitù» (46,1-2). Così il movimento della storia provocherà la caduta di Babilonia: una lieta notizia per gli esiliati!

Questa caduta, i capitoli 40-80 l'annunciavano già: era come instancabile invito alla fede e alla speranza. Non era evidente per i deportati credere che Dio volesse fare ancora qualcosa per loro, che aveva punito così pesantemente. Il Deutero-Isaia si adopererà per convincerli. Da una parte ricorderà le meraviglie che il Signore ha compiuto nel passato a favore di Israele, e in modo particolare l'esodo. Colui che ha fatto, farà. Farà addirittura delle azioni ancora più sorprendenti in favore di Israele, suo servo. Dall'altra, l'argomento cosmologico avrà un ruolo importante: il Creatore dell'universo continua ad agire nella storia. È il Dio di Israele. Egli è il padrone degli avvenimenti, li conduce secondo il suo disegno. E il profeta insiste a più riprese sulla volontà di questo Dio onnipotente.


BABILONIA PUNITA PER IL SUO ORGOGLIO E LA SUA MAGIA


In questo contesto, ancora una volta in modo indiretto, il posto che Ciro assume nel libretto è molto significativo. Il percorso di questo conquistatore fu tanto straordinario quanto folgorante. Geremia aveva, a nome del Signore. chiamato Nabucodonosor «mio servo». Ezechiele aveva annunciato la ricompensa data a questo stesso re pagano dal Signore per i servizi resi. Il Secondo Isaia si volge verso un altro personaggio. Il servo del Signore è ora Ciro, il Persiano. È lui che realizzerà la liberazione del suo popolo.

Il posto che Ciro occupa nel libretto dei Deutero-Isaia è tanto più interessante in quanto i testi del conquistatore attribuiscono le sue vittorie a Marduk, il dio babilonese. La lettura della storia non è univoca.

Il profeta arriverà fino al punto di pronunciare una sorta di lamento su Babilonia vinta. Ma egli non si dilunga sulla sua caduta. Strumento della collera del Signore contro il suo popolo, Babilonia ha superato i limiti della sua missione: la sua mano fu troppo dura e il suo orgoglio smisurato: «Tu pensavi: Sempre io sarò signora, sempre... Eppure dicevi nel tuo cuore: Io e nessuno fuori di me» (14,7-8,10). Fatale errore: ella, la sovrana, lavorerà come una schiava: ella che aveva lasciato tante donne vedove e senza figli, eccola improvvisamente vedova e senza figli.

A questi motivi classici si aggiunge un capo d'accusa poco frequente negli oracoli contro le nazioni. Babilonia è accusata di avere una forte propensione per i sortilegi e la magia, il che aggrava considerevolmente la sua situazione.


«USCITE DA BABILONIA, FUGGITE DAI CALDEI»


Il ruolo di Babilonia nei confronti del popolo del Signore è esaurito. Dopo aver annunciato il castigo che ha meritato per i suoi eccessi, il profeta può cantare il ritorno, l'uscita, l'esodo: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa... per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (43,16-21). E dopo questi preparativi: «Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei, annunziatelo con voce di gioia... Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe» (48,20). Il cammino di Israele è così compiuto.

La politica di Ciro fu generosa e abile. Il suo editto del 538 permette ai Giudei che lo desideravano di ritornare a Gerusalemme. Da quel momento, Babilonia sparisce dall'orizzonte del Secondo Isaia. Gerusalemme ritorna ad essere «la Città della Santità»: «... perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata» (54.1)


DALLA REALTÀ STORICA AL SIMBOLO


I profeti sono gli interpreti del presente alla luce della fede di Israele. Le loro posizioni sono ispirate da un principio teologico di base: Dio è presente nella storia, Egli la guida. Ma l'interpretazione di questa storia richiede un grande discernimento: in caso contrario, questo principio applicato in modo troppo meccanico porrebbe togliere all'uomo le sue responsabilità o far identificare troppo rapidamente ogni avvenimento con l'intervento di Dio. Al contrario, interpreti del presente, Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia sono con discernimento e intelligenza politica. Vedendo in Babilonia lo strumento della collera di Dio contro il suo popolo, vanno contro ogni rigido nazionalismo. Tuttavia, quando le circostanze cambiano, anche le loro posizioni si evolvono: il libro di Geremia è il testimone esemplare di questi contrasti.

A partire da questo vissuto storico, Babilonia diventerà a poco a poco il simbolo dell'oppressione che Israele ha subito nella storia. Una serie di oracoli contro Babilonia si troveranno inseriti posteriormente anche nella prima parte del libro di Isaia, integrata in un insieme di «oracoli contro le nazioni» (13-14, 23; 21, 1-10).

Ma è sopratutto nel libro di Daniele che Babilonia diventa, nei racconti come nelle visioni, il simbolo della potenza politica ostile al popolo eletto. Siamo così preparati a comprendere come mai, nell’immaginario cristiano, Babilonia venga ad essere il simbolo del male, come si vede nel libro dell'Apocalisse, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola...

* Professore all’Institut Catholique di Parigi.


(Da Il mondo della Bibbia n. 20)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IX. Il Patriarcato di Alessandria
di P. John Nellykullen


Fino al periodo seguente al Concilio di Calcedonia (451 d.C.), i cristiani d’Egitto erano uniti in un singolo patriarcato. La controversia intorno all’insegnamento cristologico di Calcedonia, tuttavia, portò ad una divisione tra la maggioranza che rigettò il Concilio (la Chiesa Copta) e buona parte della minoranza che lo accettò. Il patriarcato greco ortodosso d’Alessandria è nato dal secondo gruppo. È stato calcolato che nel secolo VII vi erano in Egitto 17 o 18 milioni di Copti e circa 200 mila (ufficiali imperiali, soldati, mercanti e altri Greci) di quelli che avevano accettato il Concilio di Calcedonia. In quel tempo ambedue i gruppi usavano l’antica liturgia alessandrina, ma nel Patriarcato greco fu gradualmente sostituito dalla liturgia bizantina, e con il secolo XII il rito alessandrino scomparve.

Nel 642, con la conquista araba e il ritiro dell’armata bizantina, i Greci in Egitto furono perseguitati per il loro legame con l’impero bizantino. La difficile situazione peggiorò nel 1517 con la conquista turca. Il patriarca greco d’Alessandria cominciò a vivere dentro e fuori Costantinopoli e il Patriarcato ecumenico spesso gli affidò degli incarichi.

Solo nel 1846, con l’elezione del patriarca Hierotheos I, i patriarchi risedettero di nuovo ad Alessandria.

Il coinvolgimento del Patriarcato ecumenico nell’amministrazione della Chiesa d’Alessandria cessò nel 1858 con la morte di Hierotheos I.

Il Patriarca Melitios II (1926-1935) formulò le leggi locali del patriarcato e le sottopose al governo egiziano. Con queste leggi il patriarcato si rese indipendente e si giovò della protezione governativa. Melitios fu il primo patriarca ad essere riconosciuto dal decreto reale, poiché in quel tempo l’Egitto non faceva più parte dell’impero ottomano. Melitios inoltre fondò il seminario S. Atanasio, organizzò il tribunale ecclesiastico e stabilì la giurisdizione del patriarcato in Africa, introducendo nel suo titolo “Tutta l’Africa” al posto di “Tutto l’Egitto”.

Nei primi anni del secolo XX una significativa immigrazione di Arabi greci e ortodossi in Egitto e in altre parti d’Africa aumentò i membri del Patriarcato. Nel 1907 il numero dei Greci in Egitto era stimato essere di 192.000 e nel 1997 il numero era sceso a circa 165.000. Oggi il Patriarcato ha la giurisdizione su tutti i fedeli d’Africa greco-ortodossi.

Nel 1930 uno spontaneo movimento d’indigeni africani verso la Chiesa ortodossa cominciò in Uganda sotto la guida dell’anglicano Reuben Spartas. Egli fu ammesso alla piena comunione con il Patriarcato greco ortodosso d’Alessandria nel 1946 e le comunità ortodosse nell’Africa dell’est, fondate sotto la sua guida, sono state organizzate nel 1958 nell’arcidiocesi di Irinoupolis con quartiere generale a Nairobi. Questo gruppo è ora servito dall’aumentato clero indigeno africano, che annovera tre vescovi. Nel 1998 vi erano 80 sacerdoti in Kenia, 22 in Uganda e 11 in Tanzania.

Nel novembre 1994 il Santo Sinodo del Patriarcato ha creato una diocesi separata per l’Uganda e ha eletto il vescovo ausiliare di Irinoupolis per l’Uganda, Teodoro Nagiama, come suo primo metropolita. Questi è stato il primo vescovo nero eletto capo di una diocesi della Chiesa ortodossa.

Il Patriarca Partenios III, che fu in carica dal 1987 fino alla morte nel 1996, è stato energico esponente del movimento ecumenico e uno dei Presidenti del Consiglio Mondiale della Chiese. Il Papa o Patriarca Petros VII, suo successore a 47 anni, alla sua intronizzazione confermò la sua partecipazione al Consiglio Mondiale delle Chiese e al Consiglio Africano delle Chiese. Inoltre s’impegnò a riorganizzare la struttura amministrativa del Patriarcato, a curare la missione nell’Africa nera, a riaprire l’Istituto degli Studi orientali in Alessandria e a far rivivere Analecta, la rivista patriarcale. Egli è morto prematuramente nel 2004 per un incidente aereo.

Il Patriarcato è governato sulla base di una serie di regolamenti, adottati alla fine del secolo XIX. E’ stabilito un sistema sinodale d’amministrazione, in contrasto con il precedente governo del solo Patriarca; il Patriarca è eletto dal clero e dai laici. Il Santo Sinodo, composto da almeno sette metropoliti, deve riunirsi almeno una volta all’anno, ma ordinariamente lo fa ogni sei mesi.

Attraverso gli sforzi dell’arcivescovo Macario III di Cipro, nel 1981 è stato aperto un seminario in Nairobi. Originariamente chiamato Macario, nel 1998 esso è stato rinominato Scuola Patriarcale Ortodossa. In quell’anno (1998) contava 42 studenti provenienti dalle varie parti d’Africa. Vi sono due comunità religiose greche e due composte da elementi di etnia araba. Il Patriarcato conta in tutto circa 200.000 africani neri e 150.000 degli altri, i più d’etnia greca.



Territorio
: Egitto ed altre nazioni africane.

Guida: Papa Theodoros II (nato nel 1954, eletto nel 2004)

Titolo: Papa e Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa.

Membri: 350.000

Sito web: www.greece.org/gopatalex

Le Chiese dell'oriente cristiano
VIII. Il Patriarcato di Costantinopoli
(Patriarcato Ecumenico)
di P. John Nellykullen


La cultura greca era predominante nella regione orientale dell’impero romano durante il tempo iniziale dell’espansione cristiana quando il lavoro missionario di San Paolo portò alla cristianizzazione della cultura greca.

Il processo di adozione del Cristianesimo come religione imperiale, iniziato dall’imperatore Costantino, fu realizzato in pieno da Teodosio alla fine del quarto secolo. Costantino aveva già trasferito la capitale dell’impero a Bisanzio, una città greca, nel 330, chiamandola Costantinopoli, nuova Roma.

La Chiesa di Costantinopoli ha avuto subito grande importanza, grazie allo stato di capitale dell’Impero Romano. Il Concilio di Costantinopoli nel 381 stabilì, nel canone 3, che il vescovo di questa città avrebbe avuto un primato di onore dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli era la nuova Roma. Così Costantinopoli ha avuto la precedenza rispetto agli antichi patriarcati di Alessandria e di Antiochia. Il canone 28 di Concilio di Calcedonia nel 451 ha riconobbe poi l’estensione del territorio del Patriarcato di Costantinopoli e la sua autorità sui vescovi delle diocesi “tra i barbari”, cioè sui luoghi fuori dell’impero Bizantino o non-greci. Il patriarca di Costantinopoli ha presieduto la Chiesa dell’Impero Romano orientale per almeno mille anni e il lavoro missionario di questa Chiesa ha portato la fede Cristiana nel territorio nord dell’impero. Haghia Sophia, la cattedrale di Costantinopoli era il centro della vita religiosa del Cristianesimo nell’Oriente.

Lo scisma tra Roma e Costantinopoli preceduto da un lungo periodo di tensioni più o meno esplicite culminò nel 1054, con la mutua scomunica tra il Patriarca Michele Cerulario ed il legato papale, cardinale Umberto. La quarta crociata ed il saccheggio della città da parte dei Crociati Latini nel 1204 causò la vera divisione anche nella mentalità della gente comune. Dopo lo scisma tra Roma e Costantinopoli questa ebbe il primato sulle Chiese di tradizione bizantina.

Nel 1453 i Turchi (Ottomani) conquistarono Costantinopoli e nonostante diverse restrizioni contro Cristiani, il Patriarca venne nominato etnarca, cioè capo della comunità etnica ortodossa dell’impero e mantenne la sua posizione di “primus inter pares” tra i patriarchi ortodossi. Così mantenne una autorità morale sui patriarcati greci di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Però l’assunzione dell’autorità civile comportò un prezzo molto caro. Quando i Greci insorsero contro i Turchi nel 1821 il Patriarca Gregorio V fu ritenuto responsabile ed impiccato alla porta del patriarcato. Due metropoliti e 12 vescovi furono ugualmente impiccati.

Una Chiesa autocefala greca, distaccata da Costantinopoli, fu fondata nel 1833, dopo la formazione dello stato indipendente greco nel 1832. Dopo la prima guerra mondiale una persecuzione contro i Greci residenti in Istanbul, nuovo nome di Costantinopoli, causò un forte esodo dei greci .

Oggi nel territorio turco vi sono appena 5000 o 6000 greci appartenenti al Patriarcato al quale appartengono anche alcune parti della Grecia (il Monte Athos, la Chiesa quasi-autonoma di Creta, e le isole del Dodecanneso). Al patriarcato apparteneva anche la scuola teologica nell’isola di Halki, presso Istanbul, ma questa fu chiusa dal governo nel 1971.e malgrado i tentativi di riapertura e le mezze promesse da parte del governo la situazione non è ancora stata risolta. Il patriarcato sovrintende anche ad alcuni Istituti Teologici Accademici in Grecia, così pure alla Scuola nel monastero di Giovanni il Teologo nell’isola di Patmos, all’Istituto Patriarcale per gli studi patristici a Tessalonica, ed all’Accademia Ortodossa di Creta. Nel 1993 il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha istituito l’Istituto Ortodosso “Patriarca Atenagora” presso la Graduate Theological Union a Berkeley, California, come Istituto Patriarcale ufficiale. Il patriarcato ha anche un centro ortodosso a Chambésy, Svizzera, preso Ginevra.

La Repubblica Monastica del Monte Athos, sebbene sia in Grecia, è sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico. La costituzione Greca ammette l’autonomia amministrativa dei monasteri. Questi dopo un periodo di rilevante diminuzione numerica vedono oggi di nuovo un periodo di fioritura di nuove vocazioni

Nel mese di dicembre del 1989 il Patriarcato ha inaugurato il nuovo ufficio centrale amministrativo al Phanar (un quartiere di Istanbul), ricostruendo l’edificio che era stato distrutto dal fuoco nel 1941. …

Il Patriarca Bartolomeo ha dato nuovo vigore al ruolo della sua Chiesa nell'ambito dell'ortodossia ed oltre. Nel marzo 1992 ha convocato i capi di tutte le chiese autocefale ad Istanbul, e nel settembre del 1995 nell’isola di Patmos. Il patriarca ecumenico ha rivolto un discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo nell’aprile del 1994, visitato Papa Giovanni Paolo II nel giugno 1995 ed altre volte successivamente, visitato l’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 1995. Nello stesso anno ha partecipato al Concilio Mondiale delle Chiese a Ginevra. Un’ altra iniziativa è stata la ripresa della pubblicazione della rivista patriarcale, Όρθοδοξία, che usciva regolarmente dal 1926 al 1963, in collaborazione con l’Istituto Patriarcale di Tessalonica. Per sua iniziativa un’ufficio patriarcale è stato aperto presso l’ufficio centrale della Comunità Europea in Bruxelles il 10 gennaio 1995.

Purtroppo la situazione della comunità greca e del Patriarcato rimane precaria in Turchia come è evidente per tutta una serie di eventi dolorosi come la profanazione del cimitero greco a Istanbul e l’incendio di una scuola greca. Konrad Raiser, allora segretario generale del Concilio Mondiale delle Chiese ha scritto al primo ministro turco nel novembre del 1993, esprimendo preoccupazione sulla restrizione dei diritti fondamentali della minoranza greca nel paese, ha chiesto al governo turco di proteggere la minoranza greca contro l’intolleranza religiosa, di garantire il suo diritto alla sua cultura ed alla sua lingua, di evitare l’uso della comunità come una pedina da giocare nella dispute internazionali, di mostrare la buona volontà permettendo la riapertura della scuola teologica di Halki. Però i problemi rimangono: nel maggio 1994 tre bombe sono state disattivate prima della esplosione nell’ambito della residenza patriarcale; nel settembre 1996 è stata fatta esplodere una granata nel complesso del patriarcato, fortunatamente senza ferire nessuno; un’altra esplosione di una bomba nel dicembre 1997 ha danneggiato gravemente il complesso. Un diacono è stato ferito. Nel gennaio 1998 una chiesa nella città è stata saccheggiata e incendiata. Il custode è stato ucciso.

Anche in questa circostanza il patriarca Bartolomeo ha rifiutato il suggerimento di trasferire il patriarcato a Tessalonica o in un’altra città greca, perché Istanbul è stata sempre la sede del patriarcato, salvo qualche breve interruzione nel 13mo secolo. Inoltre, rimanere a Istanbul, incrocio di diverse civilizzazione e lingue, permette al patriarcato di stare oltre le concorrenze e le chiusure nazionaliste. Infatti il patriarca ha vigorosamente condannato i nazionalismi eccessivi come detrimento dell’Ortodossia e della pace nel mondo. Per questi motivi il Patriarca crede che la presenza del patriarcato in uno stato laico a maggioranza islamica sia vantaggioso per la Chiesa Ortodossa.

Il Santo Sinodo presieduto dal Patriarca governa la Chiesa patriarcale. Il Sinodo comprende 12 vescovi metropoliti che hanno le loro diocesi in Turchia e recentemente anche fuori di essa malgrado l’opposizione del governo turco. Dopo l’abolizione del Concilio misto nel 1923, non vi è più stata una partecipazione laica all’amministrazione del Patriarcato.

Sia la Chiesa Ortodossa in diaspora, che altre giurisdizione di varie etnie fanno parte del Patriarcato Ecumenico. Arcivescovo Gregorio di Tiatira e della Gran Bretagna risiede in Londra e guida nella sua diocesi 4 monasteri, 100 parrocchie e cappelle in Inghilterra ed una parrocchia a Dublino, Irlanda.

L’Arcivescovo Stylianos presiede ai fedeli Ortodossi greci in Australia. Qui l’arcidiocesi ha 120 parrocchie e 2 comunità monastiche, ha aperto la Scuola Teologica Ortodossa Greca di San Andrea a Sydney nel 1986. L’arcidiocesi è divisa in cinque distretti. Tre vescovi ausiliari, sotto l’autorità dell’arcivescovo, presiedono a tre di questi circoscrizioni. Sia i greci ortodossi della Nuova Zelanda, che in Corea ed in Giappone sono sotto la cura pastorale del Metropolita Dyonosios. La Metropolia di Hong Kong fondata nel 1996, è presieduta dal Metropolita Nikitas che ha giurisdizione sulle comunità greco ortodosse di Cina, Singapore, India, Indonesia e Filippine.

Il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha diviso, nel 1996, l’ Arcidiocesi del Nord e Sud America in quattro metropolie: 1) America (Stati Uniti), 2) Toronto e tutto il Canada, 3) Buenos Aires e Sud America, 4) Panama e America Centrale. L’arcidiocesi greco ortodossa d’America è presieduto dall’ Arcivescovo Spyridon. Negli Stati Uniti ci sono otto diocesi, 570 parrocchie, e 8 comunità monastiche. La Metropolia del Canada ha 76 parrocchie e due monasteri sotto la guida di metropolita Sotirios (…). L’arcidiocesi dell’America amministra la Scuola Teologica greco ortodossa di S. Croce in Brookline, Massachusetts. La Metropolia del Canada ha aperto una Accademia Teologica Greco Ortodossa a Toronto nel 1998.


Territorio: Turchia, Grecia, le due Americhe , Europa Occidentale, Australia.

Guida: Patriarca Bartolomeo I (nato 1940, eletto 1991)

Titolo: Arcivescovo di Costantinopoli/Nuova Roma, Patriarca Ecumenico.

Residenza: Istanbul (Costantinopoli), Turchia.

Membri: 3.500.000

Mercoledì, 27 Settembre 2006 01:22

Attraversare il deserto ( Maurizio Costa)

Per incontrare Dio nel profondo del cuore e aprirci alla comunione piena con lui e con il prossimo dobbiamo stare “lontano dalle piazze”, vivere una spiritualità della solitudine.

Lezione Quarta
Il Dio liberatore nell'esperienza dell'esodo


Introduzione

Il Credo di Israele, contenuto in Gios. 24,2-13 e in Dt. 26,5-9, descrive l’intero cammino della storia salvifica vissuta da Israele. Il punto centrale della fede israelitica è la proclamazione della liberazione dall’Egitto.

Questo evento era già stato anticipato nelle narrazioni patriarcali (cfr. Gen. 15,13: «Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni»).

La Madre di Dio non si impone alla fede. Nel cammino di fede, semplicemente, la troviamo sempre presente, o all'inizio o alla fine, perché porta dentro, per aver una volta portato il Figlio, tutta l'umanità che da lei il Figlio ha preso e mai lasciato.

Martedì, 19 Settembre 2006 00:56

Salviamo l'umanità (Pierre Teilhard de Chardin)

Salviamo l'umanità
di Pierre Teilhard de Chardin



Oggi bisogna arrendersi all’evidenza: l’Umanità è or ora entrata in quello che rappresenta probabilmente il maggior periodo di trasformazione che abbia mai vissuto.

La sede del male di cui soffriamo è da localizzare negli stessi fondamenti del pensiero terrestre. Qualcosa sta accadendo nella struttura generale della coscienza umana. E’ un’altra specie di vita che comincia.

Di fronte, o meglio sotto, il colpo di simili scosse nessuno può rimanere indifferente.

Come vedere ed agire “chiaro” in seno alla corrente che ci trascina? Alla base di tutte le reazioni provocate in noi dagli eventi attuali, dobbiamo porre una fede robusta nel destino dell’Uomo, e, se questa fede esiste già, consolidarla. E’ anche troppo facile esimersi dall’agire con un discorso sulla decrepitezza delle civiltà e persino sulla vicina fine del Mondo!.

Un tale disfattismo (di temperamento, di virtù o di parata) è, a parer mio, la più pericolosa tentazione del momento attuale. Il disfattismo è sempre morboso ed inoperante. E’ forse possibile dimostrare la sua infondatezza? Penso di sì.

Per chi sa leggere oggi il diagramma dei fatti registrati dalla scienza, l’umanità non è più un fenomeno accidentale, apparso fortuitamente su uno dei più piccoli astri del cielo. Rappresenta invece, nel campo della nostra esperienza, la manifestazione più elevata verso la quale tendeva l’intero movimento della materia e della vita. E’ forse necessario sottolineare quale ricchezza arreca al credente la conoscenza di questa continuità intenzionale dell’opera del Creatore? Prototipo compiuto, la cui perfezione spiega gli abbozzi anteriori, chiave di volta in cui convergono le linee architettoniche dell’intero edificio, l’Uomo, in queste nuove prospettive, capisce meglio i suoi titoli per una regalità sull’Universo.

Interamente diversa dall’antico antropocentrismo che faceva dell’Uomo il centro geometrico e statico dell’Universo, questa certezza che il “fenomeno umano” è una forma supremamente caratteristica del fenomeno cosmico ha una portata morale incalcolabile: essa trasforma il valore e garantisce la perennità dell’opera che noi compiamo e più precisamente di quella che si compie per nostro tramite.

La situazione così critica di oggi deve essere una crisi di progresso. Possiamo e dobbiamo crederlo: noi andiamo avanti.

Ma in quale direzione progrediamo? E, anzitutto, cosa succede esattamente nella profondità della massa umana? Noi andiamo avanti; va bene. Ma perché tutto questo disordine attorno a noi?

Tre influenze principali si affrontano e lottano ciascuna per il dominio della Terra.

Democrazia, Comunismo, Fascismo (1). Da dove proviene la potenza di queste tre correnti? E perché tra di loro la lotta è cosi implacabile?

In ciascuna delle tre masse, si riconoscono, distintamente ma allo stato di abbozzi incompleti, le tre aspirazioni che rappresentano le caratteristiche della fede nell'avvenire; passione per ti futuro, passione per l'universale, passione per il personale, tutte e tre intese male o insufficientemente, ecco la triplice molla che tende ed oppone tra di loro, attorno a noi, le energie umane.

Nel caso della Democrazia, la cosa è ovvia. Due errori di prospettiva, logicamente correlati, intervengono per indebolire e viziare la visione della democrazia del mondo; l'uno riguarda il suo personalismo e l'altro di conseguenza il suo universalismo. L'elemento sociale assume piena originalità e pieno valore solo in seno ad un insieme in cui egli si differenzia. Per non aver veduto questo, lo spirito democratico, anziché liberare, ha emancipato. Ogni cellula si è creduta pertanto autorizzata ad erigersi a centro per se stessa. Ne risulta lo sparpagliamento, condannato dai fatti, dei falsi liberalismi intellettuali e sociali, e anche il rovinoso egualitarismo che minaccia ogni seria costruzione di una Terra nuova. Abbandonando al popolo la direzione della marcia in avanti, la Democrazia sembra soddisfare all'idea di totalità. Ma non ce presenta che una contraffazione. Il vero universalismo pretende, certo, invitare ad entrare nelle sue sintesi tutte le iniziative, tutti i valori, tutte le più oscure potenzialità, senza esclusione, ma è essenzialmente organico e gerarchizzato.

Per aver confuso individualismo e personalismo, folla e totalità, per sbriciolamento e livellamento della massa umana, la Democrazia ha corso il rischio di compromettere le speranze nate con essa, di un avvenire umano. Ecco perché ha visto separarsi da essa, a sinistra, il Comunismo ed erigersi contro, a destra, tutti i Fascismi.

almeno alle origini, magnificamente esaltata. Ciò che costituisce una tentazione per una élite del nei marxismo russo, non è tanto il suo vangelo umanitario, quanto la sua visione di una civiltà totalitaria, fortemente legata alle potenze cosmiche della materia. Il vero nome dei Comunismo dovrebbe essere “terrenismo”. Purtroppo anche da quella parte l'ideale umano appare gravemente lacunoso e deformato. Da un lato, nella sua reazione troppo vivace al liberalismo anarchico della Democrazia, il Comunismo arriva al punto di sopprimere virtualmente la persona e di ridurre l'uomo ad una termite. Dall'altro lato, nella sua ammirazione mal equilibrata per le potenze tangibili dell'Universo, esso ha sistematicamente chiuso le sue speranze alle possibilità di una metamorfosi spirituale dell'Universo stesso. Di conseguenza il fenomeno umano (essenzialmente definito dallo sviluppo del pensiero), si è trovato ridotto agli sviluppi meccanici di una collettività senz'anima. La materia ha occultato lo spirito. Uno pseudo-determinismo ha ucciso l'amore. Assenza di personalismo, che determina una limitazione e addirittura una perversione dell'avvenire, e che mina perciò stesso la possibilità e persino la nozione di universalismo, ecco, ben maggiormente di tutti gli sconvolgimenti economici, i veri pericoli del bolscevismo.

Non v'è dubbio che il movimento fascista sia sorto in gran parte da una reazione alle idee dette della "rivoluzione”. E una tale origine spiega l'appoggio compromettente che non ha cessato di trovare tra i numerosi elementi interessati (per svariati motivi di conservatorismo intellettuale e sociale) a non credere in un futuro umano. Ma nessuno si appassiona per l'immobilità; ora, il fascismo non manca di ardore. E' aperto al futuro. La sua ambizione è quella di coinvolgere ampi insiemi nel suo dominio. Ma purtroppo il campo che prende in considerazione è molto limitato. Sembra che voglia ignorare la trasformazione umana critica e gli irresistibili intertegami materiali che hanno fatto, sin da ora, accedere la civiltà alto stadio dell'internazionalismo. Si ostina a pensare ed a realizzare il mondo moderno che vive dentro di lui, in dimensioni appartenenti ad epoche trascorse. Preferisce il razziale all'umano; vuoI rendere un'anima al suo popolo e non sì preoccupa che il mondo sia privo di anima. Naviga verso l'avvenire con l'idea di ritrovare forme di civiltà definitivamente scomparse.

Queste forze che si affrontano a noi non sono potenze puramente distruttive, ma contengono ciascuna delle componenti positive. Per queste stesse componenti, convergono segretamente verso un concetto comune del futuro. In ciascuna di esse, è il mondo stesso che lotta e vuol venire alla luce. Crisi di nascita e non sintomi di morte. Affinità essenziali e non odio definitivo.

Ecco ciò che, sotto le correnti e nella tempesta, è sufficiente avere scoperto per intravedere la manovra che deve salvarci.

Come unire tutti i valori positivi della civiltà in una totalità che esalti i valori individuali? Come giungere alla passione superiore in cui verranno al tempo stesso reintrodotti e compiuti in una nuova sintesi, e il senso democratico della persona e la visione comunista delle potenze della materia e l’ideale fascista delle “élites” organizzate?

In ultima analisi, nonostante l’entusiasmo (relativo) che trascina ampie frazioni dell’umanità nelle correnti politiche e sociali di oggi, la massa umana rimane insoddisfatta. Né a destra, né a sinistra s’incontra una mente veramente progressista che non confessi la sua parziale delusione di fronte a tutti i movimenti esistenti. Si entra in un partito o in un altro perché bisogna pur fare una scelta se si vuole agire. Ma, in fondo, ognuno nel posto che occupa si sente a disagio, mutilato, sdegnato. Tutti vorrebbero qualcosa di più ampio, di più comprensivo e di più bello.

Disseminati nelle masse apparentemente ostili che si affrontano, esistono dappertutto degli elementi che aspettano solo una spinta per orientarsi e radunarsi. Cada su questa polvere il raggio appropriato, l’appello che corrisponde alla loro struttura intima, e, attraverso tutte le denominazioni e le barriere che sussistitono ancora per convenzione, vedremo gli atomi viventi dell’universo ricercarsi, trovarsi,organizzarsi. Una volta i nostri padri sono partiti per la grande avventura in nome della giustizia e dei diritti umani. Noi, a cui la scienza nuova apre spazi e tempi insospettati dai nostri avi, non dobbiamo più commisurare il nostro impegno alle mediocri dimensioni che tuttavia li esaltavano.

Ecco perché la nostra epoca è stanca dei settarismi che spezzettano la simpatia umana. I vortici dei partiti ci trascinano verso una atmosfera irrespirabile. Aria! Bisogna unirsi. Non già dei fronti politici, ma un fronte generale di avanzata umana.

Il democratico, il comunista, il fascista si liberino dunque dalle deviazioni o limitazioni dei loro sistemi e vadano avanti sino alla pienezza delle aspirazioni positive che animano il loro slancio. E allora con piena spontaneità, lo spirito nuovo frantumerà gli esclusivismi che l’imprigionano ancora. Le tre correnti saranno portate a concepire un’opera comune: promuovere cioè l’avvenire spirituale del mondo. Unanimità relativa agli inizi, ma unità reale nella misura in cui tutti sarebbero definitivamente d’accordo per riconoscere che la funzione dell’Uomo è costruire e dirigere la totalità della Terra… Dopo essere vissuta per millenni nel dissidio interno,l’Umanità, pervenuta a questo stadio del suo sviluppo, si muoverebbe allora, come un blocco unico, in avanti.

Mi si obietterà che un fronte umano per costituirsi ha finalmente bisogno dell’esistenza di un “antagonista” da combattere. Da parte mia non credo in una suprema efficacità dell’istinto di conservazione e della paura. A spingere l’Uomo nell’esplorazione della natura, nella conquista dell’etere, sulle strade dell’aria, non è stato il timore di perire, ma l’ambizione di vivere. La calamita che deve magnetizzare e purificare in noi le energie il cui crescente eccesso viene oggi dissipato in scontri inutili e in raffinate perversioni, io la situerei dunque, in ultima analisi, nella manifestazione graduale di un qualche oggetto essenziale la cui ricchezza totale, più preziosa dell’oro e più affascinante di ogni bellezza, rappresentasse per l’Uomo diventato adulto, il Santo Graal e l’’Eldorado di cui sognavano gli antichi conquistatori: una cosa tangibile per il cui possesso fosse infinitamente bello sacrificare la vita.

Ecco perché, se cominciasse a delinearsi un Fronte spirituale umano, ci vorrebbero accanto gli ingegneri impegnati ad organizzare le risorse e i collegamenti della Terra, altri “tecnici” unicamente incaricati di definire e di far conoscere le mete concrete, sempre più elevate, sulle quali deve concentrarsi lo sforzo delle attività umane. Per validi motivi ci siamo sinora appassionati per la rivelazione dei misteri nascosti nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo della materia. Per l’avvenire, sarebbe lo studio delle correnti e delle attrazioni di natura psichica: un’energetica dello spirito. Forse, spinti dalla necessità di costruire l’unità del mondo, ci renderebbe finalmente conto che la grande opera oscuramente perseguita dalla scienza è molto semplicemente la scoperta di Dio.

Di fronte ad una umanità che rischia di lasciar risucchiare dalla “seconda materia” dei determinismi filosofici e dei meccanismi sociali la parte di coscienza già svegliata in essa dai progressi della vita, il cristianesimo difende il primato del pensiero riflesso, cioè personalizzato. E lo fa nel modo più efficace: non solo sostenendo speculativamente con la sua dottrina la possibilità di una coscienza incentrata seppure universale, ma anche di più con la trasmissione e lo sviluppo, mediante la sua mistica, del senso e, in qualche modo, dell’intuizione diretta di questo Centro di convergenza totale. Il meno che debba oggi ammettere un non credente, se intende la situazione biologica del mondo, è che la figura del Cristo (quale la si trova non soltanto descritta in un libro, ma concretamente realizzata nella coscienza cristiana) è la più perfetta approssimazione sinora apparsa di un oggetto finale e totale verso il quale possa tendersi, senza stancarsi né deformarsi, lo sforzo umano universale.

Pechino 11 novembre 1936


N.B. – P. Teilhard de Chardin non escludeva dalla cristianità nessuno di coloro che, esplicitamente o implicitamente, credono nell’Amore. Sapeva che l’ora di conoscere come l’Amore Essenziale, origine e fine dell’Universo, si è incarnato nel suo seno, non è uguale per tutti.

Questo testo si trova in Science et Christ, Oeuvres vol. 9, Parigi, Le Seuil, 1965, pp. 167-191 passim.

NOTA

(1) L’espressione è ormai estesa ad ogni forma di nazionalismo di tendenza dittatoriale.

Quando ci si accosta alla vita (penso ad un bambino che nasce, ad un seme che germina, ad un fiore che si apre alla luce del giorno...) ci si deve accostare in punta di piedi, in un atteggiamento di rispetto, di contemplazione.

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