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Martedì, 01 Marzo 2005 15:23

Psicologia dello zerbino

Psicologia dello zerbino

Aspetti psicologici del simbolo

Riflessioni educative per educatori (scout)

All’inizio
del mese di dicembre ho acquistato due zerbini per l’uscio di casa mia
che ha due porte; i vecchi zerbini, logori dal tempo e dalla polvere
lavica che dall’autunno ultimo domina la Sicilia orientale sono andati
in pensione. La negoziante aveva gli ultimi due zerbini con una
simpaticissima forma, uno di chiocciola e l’altro di farfalla;
praticamente non sono stato io a scegliere loro, ma loro a scegliere me.

Durante le vacante i tanti amici che sono venuti a
trovarmi hanno visto i due zerbini e hanno rilevato sulla mia scelta
che poteva essere simbolica… può darsi! Oggi, finite le feste, mi
ritrovo con due kg in più e forse dovevo meglio leggere i due zerbini
il primo dei quali, in tempi non sospetti, mi raccomandava la leggerezza (la farfalla) e l'altro la lentezza nella degustazione (la chiocciola);
S. Basilio a cui si attribuisce la frase "il cibo che mangiamo in più è
quello che sottraiamo ai poveri" avrebbe avuto lo stesso effetto, ma
capirete che una farfalla ed una chiocciola sono meno austeri e
colpevolizzanti di S. Basilio.

Una farfalla vuol dire molte altre cose ancora (la
bellezza, i colori affascinanti, il bruco che si trasforma quale segno
di cambiamento, ecc.) ed altrettanto la lumaca (il rapporto con la
nostra casa, la pazienza, con la chiocciola la spirale segno del Sé,
ecc.).

I simboli, infatti, non hanno un
significato univoco, spesso non li scegliamo e li leggiamo, per lo più,
inconsapevolmente o inconsciamente analogamente ai sogni che sono
fatti, appunto, da simboli;
eppure i simboli sono presenti accanto a noi dalla culla alla bara.

Un'educazione simbolica vuol dire accompagnare
all'osservazione di questa presenza, intima, spesso discreta, la cui
origine, sia dai primissimi anni di vita, ci accompagna come presenza
angelica che può diventare diabolica perché bene e male fanno parte del
mistero dell'uomo.

Se psicologia vuol dire attribuzione di
senso, la psiche contenuta nella mente è un'organizzazione simbolica,
un sistema di ricerca di significati; la ricerca di significati, come
ben indicano i sogni, può avere una vita autonoma rispetto alla
coscienza o meglio, essere indipendentemente da essa; tutto ciò, alla
faccia della vanagloria e della potenza dell'uomo, ci rende più piccini
e ci unisce non solo con culture, bellezze ed intelligenze diverse, ma
anche con nature diverse e chissà se anche gli animali hanno i loro
simboli nella misura in cui anch'essi sognano come i fisiologi hanno
dimostrato. Certo è che sogniamo animali e compriamo zerbini e quindi
da essi prendiamo e apprendiamo qualcosa.

Se lo scautismo ha tanti simboli
è perché un'educazione della personalità, così come la intende B.-P.,
non può prescindere dalle immagini interne o esterne che ci aiutano a
vivere ma anche a sopravvivere e dare al mattino quella luce di
significati che trasformano il risveglio, come ogni primavera, in una
nuova resurrezione: S. Francesco sapeva benissimo che il sole e la luna
non erano i figli di Pietro di Bernardone e di donna Pica ma li
chiamava fratello e sorella perché simbolicamente espressione di un
unico Padre ed allora il simbolo è ciò che ci unisce all'Altro e a noi
stessi.

I simboli ci uniscono all'altro (in ciò il
significato stretto della parola) perché senza l'Altro non possiamo
vivere: le nostre stesse emozioni sono per l'Altro che ricerchiamo
nella sessualità, nell'amicizia, nella comunità, nella carità,
nell'agape e per lutti questi abbiamo simboli della sessualità (leggi
Freud), dell'amicizia (leggi anche lo scautismo) e dell'agape (leggi
cristianesimo).

I simboli ci uniscono a noi stessinello sviluppo nelle grandi trasformazioni del nostro corpo (ad esempio
in pubertà ma anche in menopausa), delle nostre idee, della nostra
capacità di creare (che cos'è l'arte se non un processo simbolico?),
nell'ascendere (simboli del volo) e nel trascendere (simboli
religiosi).

La conoscenza simbolica non è un programma (e cioè
qualcosa che ha a che fare del tempo anche se ci sono simboli del
tempo) e neanche una progettazione (e cioè dei percorsi obbligati con
un lancio, una verifica, un prodotto) ma un'essenza sia nel senso
filosofico di esperienza (intuizione diretta dei contenuti emozionali)
che nel senso metaforico e cioè del cuore costituente, ad esempio, un
profumo. Perché simbolo è anche un profumo ed è noto, a parte per chi è
allergico, che l'incenso sale in cielo e si spande nello spazio quale
presenza di un contenuto mistico.

Dal punto di vista antropologico il simbolo
governa ed ordina sia direttamente sia indirettamente attraverso i suoi
derivati (bandiere, stemmi, emblemi, distintivi, ecc.); si tratta ai
pari del linguaggio, di una punteggiatura di ciu l’uomo necessita.
Il simbolo, inteso come punteggiatura, apre (maiuscolo), chiude
(punto), pone delle pause (virgola), determina sistemi di periodo
(punto e virgola), dichiara (punto esclamativo), interroga (punto
interrogativo). Se l'interpunzione è il procedimento per il quale,
attraverso segni grafici appropriati, si mettono in rilievo gli
elementi costitutivi della frase, i simboli mettono in rilievo gli
elementi della nostra vita individuale e sociale ed è per questo che ne
siamo affascinati; allora un'educazione simbolica è psicologicamente
quella parte dell'educazione che entusiasma e che deve essere curata
affinché il sogno non sia trasformato in incubo.
Esiste cioè la possibilità della degradazione simbolicae cioè quando il simbolo perde quella sua naturale potenza che può
essere di ordine sia quantitativo che qualitativo. Esempi di
degradazione simbolica quantitativa sono alcuni marchi che ve li
trovate impropriamente anche, caso limite, sulla carta igienica oppure,
in riferimento allo scautismo, un distintivo non proprio di una fase
(esempio un distintivo dei lupetti sulla camicia dei rover!). oppure un
fazzolettone trasformato in albero di Natale, l'ipertrofia e
l'ipotrofia liturgica (l'uso troppo poco o troppo abbondante di gesti
simbolici). Esempi di trasformazione qualitativa sono alcuni messaggi
pubblicitari a carattere ingannevole, i messaggi dei ciarlatani, gli
idoli, i cucù.

Tra gli strumenti che sviluppano sicuramente la capacità simbolica va ricordato il gioco il quale può essere fatto anchesenza intenzionalità educativa, alla faccia di chi usa e di chi abusa
della predetta parola; se è un bel gioco non solo dura poco, ma ognuno
trova per meccanismi associativi finalità più consone alla sue
attitudini e tendenze che non sono, necessariamente, le intenzioni
dell'educatore.

Come la madre non sceglie intenzionalmente
l'orsacchiotto di pezza a cui lo psicoanalista ha dato la funzione
addirittura di nascita di una parte dell’Io, l'educatore non sa, ma
sente il valore educativo del gioco. Sapere, sentire, percepire,
intuire, capire sono tutti verbi che hanno significato diverso:
l'approccio simbolico è allora una declinazione diversa che prima deve
essere intesa e poi essere proposta ed in questo senso non è detto che
il bambino, il ragazzo ed il giovane siano meno bravi dell'adulto che
ha molto da apprendere dalle proposte simboliche delle nuove
generazioni.

Lo sviluppo del senso critico e cioè
dell'osservazione simbolica che genera deduzione è uno dei doni che lo
scautismo ha fatto e fa ai suoi associati e al prossimo perché l'uomo
simbolicamente forte è fatto per servire.

Quando, allora, sull'uscio di casa pestate due zerbini pensateci un momento.

Salvatore Settineri

Professore associato di Psichiatria,

Dipartimento di Neuroscienze,

Università di Messina.

Da "Proposta educativa" 3/2003

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 15:22

Simboli veri - Il ruolo dell’educatore oggi

Simboli veri

Il ruolo dell’educatore oggi

Riflessione sui simboli per un ambiente scout


"Momo indietreggiò spaventata, ma poi rispose senza volerlo:
"Buongiorno, io mi chiamo Momo". Di nuovo lo bambola mosse le labbra e
disse: "Ti appartengo, perciò tutti ti invidiano". "Non creo che tu sia
mia" fece Momo. "Penso invece che ti abbiano persa qui". Prese la
bambola e la sollevò da terra. Allora le sue labbra si mossero ancora e
disse: "Voglio avere più cose". Ah si? Replicò Momo, pensosa. "Non so
se io ho delle cose che vanno bene per te... Ma aspetta un po', ti
faccio vedere la mia roba e tu mi dici quello che ti piace". Prese la
bambola e, con lei, passò attraverso il buco del muro fino alla sua
stanza. Da sotto il letto tirò fuori una cassetta contenente ogni
specie di tesori e li mise davanti alla bambola... Le mostrò una lieve
penna variegata di fringuello, una bella pietra venata di molti colori,
un bottone dorato, un frammento di vetro color del cielo. La bambola
taceva e Momo le diede una spintarella... "Ti appartengo, perciò tutti
ti invidiano". Disse la bambola ancora una volta".

M Ende, Momo

Momo è un personaggio veramente affascinante e credo
che rappresenti l'autenticità di chi sa cogliere nella quotidianità di
una vita frenetica e dominata dalla corsa contro il tempo ciò che
davvero conta. E ciò che davvero conta per lei non sono i simboli della
tecnologia sterile, rappresentati dalla bambola parlante, bensì dalle
piccole cose, da quelle piccole cose che assumono un significato simbolico ed emotivamente importante, proprio perché rappresentano la vita, quella realmente vissuta, agita, incarnata.

Cosa
ci sarà dietro a quella lieve penna variegata di fringuello? E cosa si
può leggere nella trasparenza di quel pezzo di vetro color del cielo o
ancora, cosa ci sarà scritto nelle venature del sasso che con tanto
slancio Momo offre alla sterile e asettica bambolina meccanica
?

Ragioniamo allora per simboli: Momo e la bambolina
potrebbero essere le metafore dei nostri ragazzi, Momo simbolo di quei
ragazzi che hanno già colto la ricchezza dell'essenziale e
dell'importanza delle piccole cose, la bambolina simbolo di quei
ragazzi che si accontentano della superficialità delle cose; la città
dominata dagli uomini grigi in cui vive Momo potrebbe essere la
metafora della nostra società, dominata spesso dalla frivolezza delle
cose, ricca di simboli privi dì significato di valore.

Come fare allora a trasformare le bamboline in Momo?E come agire per far si che Momo continui ad essere Momo e non diventi
una bambolina? Ci vuole qualcuno che guidi, che educhi in questo
cammino!

Torniamo a noi e caliamoci nella nostra realtà:
credo che sia importante soffermarci un attimo a riflettere su quale
suolo l'educatore può giocare in questo nostro mondo dominato da
immagini simboliche, su quanto coraggio deve avere un educatore per
testimoniare un linguaggio simbolico, come quello dello scautismo,
anche alternativo a quello dominante. I nostri ragazzi vivono in mondo
fatto di simboli: dallo scooter alle veline, dal telefonino al dvd, dal
vangelo alla bandiera della pace, dal linguaggio musicale a quello
corporeo, tlutti simboli più o meno della stessa importanza o non
importanza, che fluttuano nel cuore e nella mente dei nostri cari
giovani. È la loro vita, e non c'è dubbio che, movendosi nel mondo dei
simboli, i giovani apprendono un percorso decisivo per inventare la
vita quotidiana. E proprio grazie alle esperienze agite che questi
simboli acquistano significato per i ragazzi, significati più o meno
intrisi di valori, significati più o meno determinanti per le loro
scelte.

Ma
riescono poi i ragazzi a discriminare questi simboli dai quali sono
investiti, riescono a scegliere, a discernere, fra i tanti, quali
vivere pienamente?

Certo vivono la loro vita quotidiana in tutta la sua
ricchezza e ciò è un forte impegno che permette loro di esprimersi in
azioni concrete. Infatti è nel quotidiano che si creano i simboli:
pensiamo a quanti oggetti sono diventati dei simboli solo perché sono
collegati ad un vissuto esperienziale particolare....

Quale allora il ruolo dell'educatore?

Credo che l'educatore prima di tutto
debba fare i conti con la complessità dei sistemi in cui ogni giorno
l'adolescente vive, da solo o in gruppo. Non è possibile educare al
discernimento se non si capisce tra quali cose chi è educato deve
discernere. Credo che l'educatore abbia il duplice e difficile ruolo di
attore e regista; da un lato deve mediare tra le tante proposte
valoriali e simboliche che la vita offre, dall'altro deve viverle in
prima persona, per testimoniare lui per primo le scelte valoriali
fatte.

Ed è nelle scelte che si
fanno quotidianamente che nascono i simboli, quei simboli che
acquistano significato, perché incarnano nella scelta stessa la
significatività dell'esperienza che rappresentano.

In questo difficile compito penso che i
simboli che il nostro metodo e la nostra vita associativa ci offre
siano di aiuto e di stimolo per i nostri ragazzi. Pensiamo all'uniforme:
quante volte vediamo i ragazzi vergognarsi nell'arrivare in uniforme
alla riunione settimanale di reparto, non è difficile assistere alla
scena di un esploratore che estrae dalla tasca della giacca il
fazzolettone e se lo infila sulla soglia della porta del cancello… ma
se noi riusciamo a far cogliere la significatività della nostra
uniforme, quanto orgoglio mostreranno poi i ragazzi nell'indossare un
abito che li fa sentire appartenenti ad un gruppo in cui hanno scelto
di vivere un'esperienza in cui credono: e sappiamo quanto è importante
per un ragazzo sentirsi parte di un gruppo. In fondo si tratta di
andare per strada vestiti come altri amici, ma non succede tutti i
giorni di avere gli stessi vestiti, della stessa marca, dello stesso
colore di quelli degli amici?...pensiamo a quanti ragazzi hanno le
scarpe Puma o Adidas dello stesso modello e dello stesso colore!
Pensiamo al Giglio: i nostri ragazzi sanno veramente il
significato che c'è dietro a questo simbolo? Il giglio indica la giusta
direzione e punta verso l'alto, mostrando la via per compiere il
proprio dovere di aiutare gli altri, il giglio ricorda la promessa, le
sue tre punte simboleggiano i tre punti della Promessa, beh, non sono
sciocchezze, queste, non dimentichiamolo! Pensiamo ancora all'urlo di squadriglia:
quanto entusiasmo ci mettono i ragazzi quando urlano! Si sentono
protagonisti, si sentono appartenenti alla squadriglia! Non è poco per
un ragazzo. Al capo il compito di trasportare questi valori simbolici
nella quotidianità, anche e soprattutto fuori dall'unità: non credo ci
sia una ricetta, c'è l'esperienza, la passione, la testimonianza, la volontà di farlo, il coraggio di giocarsi.

Pubblicato in Problematiche Giovanili

In questa nostra
 epoca, che qualcuno ha definito dell'individualismo di massa, il
 singolo individuo rischia di perdersi. E soprattutto chi sta crescendo. 
L’individualismo di massa propone un punto d'arrivo, una meta, che
 viene definito in vari modi, da benessere a ricchezza e potere, a vita
 tranquilla e senza pensieri. Ma questo obiettivo non basta a orientare.


Pubblicato in Problematiche Giovanili

Una generazione che non ha più rotte, ma sprofonda nel presente

Eppure i giovani in carne ed ossa riservano pure sorprese, confortanti, per fortuna

Inchiesta Censis su panorama giovanile nei pressi dell’esperienza religiosa e non solo

Davvero non si sa più come fare a
riflettere sulla realtà giovanile. A tu per tu, si scoprono storie,
vicende, esperienze…che stupiscono in positivo ed in negativo. Sono
giovani in carne ed ossa, che non si possono scansare facilmente. Poi
però si deve fare i conti con gli osservatori che scrutano il
"fenomeno". In particolare con le inchieste, che tentano di fotografare
un mondo molto sfaccettato. Quello dei giovani appunto. Che presi
insieme e interrogati con calma, forniscono un quadro magari diverso,
almeno nelle linee generali. Anche se ci si deve ricordare che non
esistono i giovani in generale, ma volti concretissimi, unici,
irripetibili….In ogni modo bisogna riflettere, stando su entrambi i
binari. Allora si scopre che c’è un "ventre molle" nel panorama
giovanile che forse solo le inchieste possono portare alla ribalta. E
sì, perché lo fanno notizia i milioni alla GMG attorno al Papa in quel
di Tor Vergata per il Giubileo, le centinaia di migliaia ai "G8 alla
rovescia" di Torino proposto dal Sermig…magari riescono a imporsi
all’attenzione tra i girotondi, nei cortei sindacali, nelle
manifestazioni anti-qualcosa.

Poi però per sentire il polso delle nuove
generazioni ci si deve rifare ai sondaggi del Censis, come ultimo
illustrato e dibattuto a Roma, a metà novembre, al Convegno CEI su
"Parabole medianiche", anche per fronteggiare la portata mass-mediale
di messaggi, coinvolgimenti, modelli, idee…in cui si è tutti
avviluppati. L’identikit non è del tutto a sorpresa, ma con
qualche chiaro-scuro inedito. In particolare con una tendenza alla
deriva nell’area di Nord-Est dell’Italia (sempre molto lunga ed ora
anche molto larga), con qualche sussulto interessante nel nostro
Nord-Ovest, con taluni indicatori non deludenti al Sud. Giovani
schiacciati sul presente, un po’ senza memoria e senza radici, in
braccio al fluttuante mare delle emozioni e dei sentimenti, del piccolo
cabotaggio di soddisfazioni alla portata (quasi attorno al ricorrente
caminetto…), dell’appartenenza aggregativa (anche religiosa) che non
incide più di tanto. Giovani che non hanno rotte di grandi
progettualità, senza coinvolgimenti forti sulle frontiere sociali,
ideali (o ideologiche), globali o terzomondiali…Eppure sembra abbiano
nostalgia di qualche "supplemento d’anima". Infatti Siddharta, Cuore, Bibbia da
una parte, come testi che esercitano un discreto fascino per poco più
che la metà almeno delle nuove generazioni (il 44% ha un rapporto
assolutamente marginale con i libri), e Rita Levi Montalcini, Madre
Teresa di Calcutta, Karol Wojtyla dall’altra parte, come figure di
riferimento per una porzione comunque minoritaria sempre dei giovani
d’oggi. E poi enormi spazi vuoti o colmati un po’ a vanvera: un 70% di
ragazzi e ragazze (15-30 anni) che non sanno indicare un personaggio a
cui rifarsi per un progetto di vita; un tempo libero consumato in
larghissima misura a "stare con gli amici" (97,4%), a guardare TV
(93,5%), ad ascoltare musica (91,9%), a stare al telefono (87,1%), a
fare gite (89%), a fare shopping (86,4%). Ma anche un rilievo
fortissimo assegnato ai sentimenti, alle emozioni, alla tensione
romantica (con definizioni ideali sull’amore, sull’amicizia, sulla
fedeltà, sulla sincerità miscelate a sensi di paura, di ansia, di
inquietudine rispetto alla malattia, alla morte, al dolore, ove è
evidente che mette angoscia più la possibilità di ammalarsi che
l’eventualità di un conflitto armato).

Insomma un profilo generazionale tutto da vagliare,
quello che è emerso dall’inchiesta (su una campione di mille giovani),
che Elisa Manna del Censis ha presentato parlando di una generazione
"senza padri né maestri", con i ponti tagliati rispetto al passato e
con una polverizzazione di interessi e di rotte in vista del domani.
"Si va avanti nella vita, ma non si conosce la direzione", ha aggiunto
Giuseppe De Rita. E si è evocata la figura di Enea che attraversa il
Mediterraneo con il padre Anchise sulle spalle ed il figlio Astianatte
in braccio, memoria e futuro da ricomporre, insomma. Mentre prevale il
presente rimescolato in mille flussi, assorbito in dosi massicce ed
esclusive. Francesco Casetti, pro-redattore dell’Università Cattolica,
ha rilanciato invece il volto di Abramo che ha la memoria dentro di sé
ma è capace di fare uno straordinario "trekking" nell’attraversare i
deserti, proiettato su un domani che è il suo obiettivo prioritario,
una buona dose di rischio di avventura.

UNA DOMANDA INEVITABILE

Che fare? A questo punto è la domanda
inevitabile. Con termini suggestivi ma anche raffinati è stata posta
l’alternativa: "Stare dentro questi flussi contraddittori" oppure
"tornare alle radici sul territorio"? Anzi, riferendosi al marcato
"deserto" del Nordest italiano (sotto media in tutti gli indicatori
dell’inchiesta, per avere appigli di speranza) Giuseppe De Rita ha
lanciato un allarme, anche per quella porzione di giovani che vivono
appartenenze religiose abbastanza forti, ma non sono in grado di dare
un profilo alla vita complessivamente. Cero, non tutto si gioca sui
mass-media. Ma c’è da riflettere senza scampo. Magari dando la parola
ai giovani stessi (che al Convegno non erano numerosi e non hanno
potuto comunque interloquire) e che potrebbero – traslando l’input del
sociologo Zigmunt Barman – diventare da "oggetti di studio" a
"protagonisti di riscatto". Mettendo in campo pure domande implicite o
provocatorie, che andrebbero approfondite guardandosi in faccia,
schiettamente. Personalmente, mi è capitato, la sera stessa a Roma dopo
aver ascoltato le cifre e le diagnosi dell’inchiesta Censis, di
incontrare, in pizzeria, tra amici di amici, una ragazza 21enne appena
rientrata da 36 giorni di percorso a piedi sul "Camino de Santiago", da
Roncisvalle in Galizia, protagonista di un’esperienza unica, da
segnalare in profondità.

Ecco, i giovani in carne ed ossa sono anche questi.

Don Corrado Avagnina

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:07

I segnali di disagio nelle varie età

Per noi adulti è spesso difficile comprendere i segnali di disagio che i bambini e i ragazzi manifestano... quante volte alla domanda di rito "come stai?" il bambino risponde bene anche quando è visibilmente agitato, in imbarazzo o comunque in 
difficoltà? Probabilmente sempre. Non è infatti nella comunicazione 
verbale intenzionale che si possono rintracciare questi segnali ed è
 per ciò che il comportamento risulta un osservatorio privilegiato.

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:06

Pensavo fosse amore e invece era…

Pensavo fosse amore e invece era…

Alfabeto emotivo

...Invece chissà che cosa era
quella strana sensazione che mi aveva preso lo stomaco, come in una
morsa, che mi impediva di ingoiare anche il più piccolo boccone. Ad un
certo punto avevo pensato di stare poco bene. E così mi ero tenuto
"leggero", come mi aveva abituato la mamma quando da piccolo avevo mal
di pancia

 

Ma mi ero reso conto che quello non era un mal di pancia comune. Quella mattina non avevo preso freddo: nessun colpo d'aria.

Piuttosto un gran colpo... di fulmine. Erano due settimane che a scuola andavo molto volentieri: allora, la prima volta era bastato un cenno, una delicata carezza, quasi un buffetto, per farmi perdere la testa.

La sua presenza, ogni giorno, mi alleggeriva lo
sguardo, facendomi fissare il vuoto incantato. Ma se mancava
d'improvviso lo sentivo pesante tanto da non riuscire a staccare gli
occhi dal piatto.

Già chissà cos'era. Nessuno mi aveva insegnato a
capire queste strane sensazioni; nessuno mi aveva spiegato o
interrogato. In questo, come in tanto altro, mi ero fatto da solo,
scoprendo pian piano come ero fatto dentro, cercando di destreggiarmi
tra gli imperativi degli adulti: "devi voler bene a tuo cugino!";
"dovresti vergognarti!"; "non devi avere paura". Sembrava quasi che vi
fossero dei sentimenti obbligati. Addirittura le emozioni, le mie emozioni, erano imposte dagli altri, dai grandi?

Adesso, solo adesso, ho imparato a chiamarle per nome.

Sì perché le emozioni hanno un nome, ho imparato
che hanno un nome e tante sfumature. Esistono delle parole che servono
a riconoscerle. Sono le parole del cuore, della pancia e anche delle
"braghe", come dice mio fratello grande. Lui dice così perché crede che
le emozioni sono tante e diverse e così le senti in tante e diverse
parti dei corpo: il cuore, la pancia e certe anche... ...là in fondo.

È stato anche lui ad insegnarmele alcune parole: gioia, felicità, letizia; rabbia, collera, ira; malinconia, tristezza.

Mi ha detto che se conosco le parole e provo a
riconoscere le mie emozioni, poi posso anche provare a capire le
emozioni degli altri, chiamandole per nome.

Se l'avete provata saprete bene che è una cosa
difficile. È difficile capire le emozioni degli altri: per questo
bisogna limitarsi a provare a capire.

Ma, secondo me, la cosa più difficile è riconoscere le proprie.

Le emozioni certe volte sono troppo grandi e per
questo vanno smontate in piccoli pezzettini: basta chiedersi forse il
perché, se si ride o si ha mal di pancia, se si piange o ci si sente
felici.

Altre volte scrivere su un foglio le proprie
emozioni, quando le si prova, fa bene, aiuta a ricordarsele e, perché
no, a spiegarsele.

Facendo così, io mi sono accorto che a volte
l'emozione non dipendeva da quello che stavo vivendo in quel momento,
ma era nata molto tempo prima ed ancora non si era fatta vedere.

E, andando indietro nel tempo, si può scoprire anche
che, molto probabilmente, quell'emozione da qualche parte l'ho già
vissuta.

Così ho imparato a leggere e a scrivere le mie emozioni.

Già, allora pensavo che fosse amore, invece ero cotto!

Francesco Silipo

Da "Scout – Proposta Educativa" 2/2003

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:05

Ma la notte Parte 4/4

Ma la notte ...

Quarta parte

La festa siamo noi

È notte. Le luci e i suoni della
discoteca ipnotizzano un popolo di giovani che fa le corse con la luce
dell'alba per sfruttare ogni attimo di questa vita magica. Anche
un'altra parte di giovani, vinta dalla stanchezza della giornata, vive
la sua seconda vita: quella dei sogni. Passato il tempo della casa con
stanze comunicanti, ora, che i figli sono grandi, si vive in spazi
delimitati da porte, quasi sempre chiuse. Come si fa a resistere alla
tentazione di profanare quegli spazi ed entrare, ogni tanto e senza
svegliarli, per sussurrare loro la buona notte!?... Osservandoli in
silenzio, si potrebbero vedere i fantasmi della loro infaticabile
giornata che ancora ruzzano e si rincorrono in quelle teste
scapigliate, ora prodigiosamente calme. La vita dei figli resta
impressa nella mente dei genitori, per tutti gli episodi che,
caratterizzandola, danno ai ricordi un senso di gioia. La nostalgia dei
momenti passati, che viene a galla tutte le volte che uno dei due
inizia con "Ti ricordi quella volta...", è di sicuro fra i doni più
belli, anche se struggenti e graffianti, che il Signore ha messo
nell'animo dell'uomo.

Se qualcuno ha vissuto l'esperienza dei figli ai
campi-scuola, è impossibile che abbia dimenticato il momento che
prepara il rituale dei saluti. Ai lavori dell'ultimo giorno, in genere,
sono ammessi anche i genitori, ma ci vuol poco per accorgerci che, in
quel giorno, gli unici intrusi sono proprio loro. Chi si aspetta
un'accoglienza particolare e calorosa, quasi sempre si sbaglia: è
l'amore egoista e distratto dei figli. Nei ragazzi c'è un clima di
gioia e di euforia che la presenza degli adulti sicuramente disturba
perché loro, i giovani, sanno che quelli sono i momenti più preziosi,
quelli in cui, oltre a scambiarsi gli indirizzi, ci si possono dire
quelle cose che i ritmi e le paure della settimana non hanno permesso,
ma che ora, superando la barriera del pudore, e con tutta
l'immediatezza e la spontaneità che solo loro hanno, potrebbe
materializzarsi, come per miracolo, uscendo dal chiuso dei loro animi.
Qualche buontempone ha battezzato questo momento, definendolo come "la
festa delle grondaie" per sottolineare che alla fine, tutti, dai più
teneri ai più incalliti, si lasciano coinvolgere dal pianto. Ed è di
sicuro un pianto sincero perché quella separazione tanto straziante,
fin quando non sopraggiungerà la rassegnazione, la si continuerà a
credere temporanea.

Ma in quel clima così rumoroso e pieno di
imprevisti, alcune cose sembrano sottolineare quello che i giovani
hanno imparato a condividere: il senso della festa. In uno di questi
raduni, alcuni anni addietro, ho avuto la fortuna di ascoltare un canto
allelujatico particolarmente espressivo. Come non lasciarsi contagiare
dall'emozione clic i ragazzi vivevano!?... Le loro chitarre andavano al
massimo; le loro voci, perfettamente miscelate, si levavano come fumo
di incensi, mentre, con le mani intrecciate a corona sulle loro teste,
in un grande, unico abbraccio, si dondolavano cantando: "La nostra
festa non deve finire, non deve finire, e non finirà". E prima ancora
che avessi il tempo di commentare dentro di me, con scetticismo,
"finirà, finirà.., passerà come tutte le feste e lascerà il posto al
quotidiano...", è arrivata, dal loro canto, la risposta: "Perché la
festa siamo noi!". Impossibile negare che in ognuno di noi c'è qualcosa
di molto vecchio che sfugge alle comune analisi dove si danno
appuntamento messaggi intraducibili che non possono essere ridotti alla
voce del sangue, né alla astrazione delle metafore, ma sulla cui
essenzialità - bellezza e importanza capaci di perforare il buio dei
secoli - credenti e pagani si trovano d'accordo: il senso della
religiosità. I giovani, quando il loro entusiasmo è sano e trascinante,
sanno insegnare questo ed altro alle generazioni che li hanno cresciuti
e che ora non sanno rassegnarsi a fare da spettatore ai grandi
cambiamenti che la storia propone. Le nostalgie hanno sempre un sapore
amaro, ed ogni genitore le custodisce, portandole in sé con un
brandello dell'età giuliva dei figli. Ma quei giorni dal profumo
selvaggio e rinchiusi dentro un'anfora di creta, possono far sognare.
Forzare la strada per rivivere la giovinezza dei figli sarebbe come
cercare il canto melodioso nel nido ormai vuoto di un usignolo. La
gioia e la festa hanno sempre dei limiti segnati dal campo delle
emozioni tramontate o segrete delle quali sarebbe imprudente, oltre che
indiscreto, entrare. Anche per un genitore.

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:03

Ma la notte Parte 3/4

Ma la notte

Terza parte

La festa è appena cominciata

La nostra società, dalla mediazione con
altre culture, facilitata in modo particolare con le guerre di questo
secolo, ha fatto un salto - così almeno si crede - che ha anticipato i
tempi, ponendosi nei confronti del progresso in condizione di
avanguardia, o quasi di attesa. Gli incontri e le migrazioni hanno da
sempre sconvolto il mondo. Inebriati dai grandi innesti si vedono
appiattire, deteriorare, scomparire le antiche culture e, ai miti
creduti immortali, subentrano i nuovi dogmi. Filosofie attuali come la
corrente New Age, portano molti cambiamenti nel modo di vedere, di
pensare e, soprattutto, nello stile di vita che caratterizza le
famiglie. Spesso, ad un esame più sottile è possibile osservare che i
nostri cambiamenti si rispecchiano in un impoverimento culturale più
che in un essenziale rinnovamento di metodo.

Mi ha fatto riflettere il risultato di un'indagine
condotta di recente da un dipartimento della Università senese che ha
messo in evidenza dei risultati inquietanti. La popolazione che fa
esperienza di studi primari è in crescita costante, ma si tratta,
inutile usare perifrasi, di una massa sempre meno selezionata e
motivata. Naturale, quindi, che anche il numero di coloro i quali si
ritirano senza giungere alla laurea sia in aumento. Fra quelli che
riescono a terminare un regolare corso di studi, la percentuale di chi
finisce senza intaccare il "fuori corso" è irrilevante. Per citare
alcuni esempi, gli studenti che si laureano in giurisprudenza,
impiegano mediamente sei anni e otto mesi (contro i quattro anni di
corso); gli studenti di economia otto anni e un mese (quattro anni di
corso). La serie completa potrebbe risultare un pettegolezzo inutile se
non imponesse una riflessione sconcertante nella sua ovvietà. Uno
studente del liceo è costretto ad affrontare interrogazioni e verifiche
quotidiane, studia un numero notevole di materie, per alcune delle
quali nutre avversione eppure, nei cinque anni previsti, termina il
proprio curriculum. L’ingresso nella Università apre le porte al grande
futuro e alla sospirata indipendenza creativa e da questo momento si
fanno gesti che hanno come referente la volontà individuale: si sceglie
la Facoltà, si selezionano i corsi da seguire, si programmano gli
esami, si fissano le date delle prove… e come si spiega allora
l'accumulo di tanto ritardo? Vivere in una città universitaria ci porta
a costatare che per molti giovani la partenza da casa per iniziare
nuovi studi è un'occasione per affrancarsi dal controllo dei genitori,
un momento di apertura all'incontro con culture diverse, un modo per
festeggiare la propria giovinezza in maniera autonoma e senza
interferenze. E può essere tutto molto bello e giusto, visto che un
nido stretto se è scomodo per gli animali, lo è ancor più per gli
uomini, purché l'insieme dei tanti ingredienti non si trasformi in una
miscela inebriante che fa perdere la testa. Per qualcuno l'inizio di
questa festa non è altro che l'ingresso nel "paese dei balocchi". Le
trasformazioni di cui siamo spesso spettatori ci dimostrano che pochi
misteri umani sono cosi impenetrabili come la curva che descrive le
alterne fasi della decenza e della dignità personale.

Ma qualcosa di grosso e di sostanziale sta veramente
cambiando, I giovani arrivano al traguardo con la prima, grandi
responsabilità in un segmento della loro esperienza che li vede
impegnati a gestire, su un fronte parallelo, la crisi di indipendenza:
è un momento in cui vogliono fare da sé. Per contro i genitori
avvertono l'orgoglio di avere dei figli grandi, unici e, forse, con
qualcosa in più rispetto alla media e vivono nell'illusione, se anche
lontani e con difficoltà di comprensione e di comunicazione, di
"possederli" ancora. Ma le trasformazioni cui sottoponiamo le belle
cose che possediamo danno un saggio dei nostri errori di apprendisti
stregoni. Presto arrivano i conti che, puntualmente, presentano le
delusioni e, a questo punto, si verifica il grosso ribaltamento.
L’entusiasmo del genitore si assottiglia. È lui che, per paradosso,
vive questo distacco come una mutilazione, e prova sulla sua pelle la
sensazione di essere orfano. Quelle scelte che, ora, sempre meno
condivide lasciano spazio solo ai ricordi e ai rimpianti di cui sempre
più si popola la sua memoria.

E la festa? La festa, secondo il refrain di una
canzonetta sconosciuta a questa generazione, ma non a quella
precedente, "è appena cominciata ed è già finita...".

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:02

Ma la notte Parte 2/4

Ma la notte...

Seconda parte

È qui la festa?

Rievocare le vicende di una famiglia
sarebbe privo di interesse se queste non fossero una finestra aperta
sulla storia dell'umanità. I singoli racconti si trasformano in tessere
di un mosaico che, nell'insieme, sa apparire ricco e policromo e ognuno
vi contribuisce con la propria cronaca quotidiana, dall'apparenza
spoglia e ripetitiva. Quale genitore, alla nascita del proprio figlio,
non sente di essere autore del romanzo più originale? E lo potrebbe
materialmente scrivere, se solo si limitasse a riportare il susseguirsi
dei tanti eventi. La difficoltà di rassegnarsi al ruolo di cronista,
piuttosto che a quello di soggettista, costituisce lo scoglio più
pericoloso. Un altro aspetto in apparente contrasto con le tendenze
individuali è legato al desiderio che ognuno ha di abbandonarsi ai
sogni: una peculiarità che impone di collocarsi tra le innumerevoli
opportunità vagabondate senza sosta dalla fantasia. E così, se andiamo
ad esaminare i comportamenti sociali, ci accorgiamo che la tendenza
alla festa è la più esplorata. In forma di premio al termine di una
gara, ricompensa ambita di prolungati sacrifici, abbandono dopo
logoranti fatiche, risposta consolatrice dopo attese snervanti, gioia
che esplode con l'annullamento della delusione, la festa potrebbe
essere sempre in agguato e chiedere solo di essere conquistata. I
termini che regolano ogni ambivalenza sono legati all'equilibrio di due
variabili antiche quanto l'uomo: il successo e la competizione. Tra i
tanti modi con cui possiamo combinare i due ingredienti ce ne sono
quattro che tengono banco e costituiscono le categorie di base delle
condotte umane.

Appartengono alla prima le persone che mirano al
successo sapendo che dovranno passare per il canale della competizione;
accettano le regole del gioco e impegnano le loro forze. Sono gli
equilibrati.

Nella seconda troviamo le persone che passano la
vita a competere, o almeno, così vogliono far credere, senza assaporare
mai un successo. Si danno arie impegnate ora da intellettuali, ora da
sportivi, forse perché si confrontano con traguardi fuori dalla loro
portata: gli esaltati.

Poi ci sono gli apatici. Disinteressati al successo
quanto alla competizione, non dimostrano alcuna risposta emotiva agli
stimoli. Il sociologo e antropologo E. Durkheim li definiva i "mancati
suicidi".

Infine troviamo coloro i quali ambiscono al
successo, ma non per questo accettano di entrare nel rischio e nella
bagarre della competizione: vogliono vincere e basta. Sono i violenti.

L’imperativo che vede impegnate le nostre famiglie,
oggi, consiste nel dare ai figli senza sosta, senza misura e senza un
motivo che giustifichi un premio, come se questi non dovessero aver
altri bisogni che libertà di movimenti e beni materiali. Delle tante
lezioni che potevamo ricavare dalla povertà in cui siamo cresciuti,
una, sembra, l'abbiamo capita bene: il prestigio ad ogni prezzo, il
piacere ad ogni costo. Molti genitori, fra l'inadeguatezza del ruolo di
educatori e lo scarso tempo che riescono a dedicare ai figli, pensano
di supplire alle tante carenze con la creazione di un'abbondanza che
dipinga a utile pastello questa figura latitante. Ma il risultato,
legato alle fortune effimere, si dimostra quasi sempre una delusione
perché le miserie che affiorano dopo il benessere servono a dimostrare
l'esistenza di un dramma reso più amaro dal sopravvivere dei resti di
uno scenario. Il disimpegno nel quale si educano le nuove generazioni
può avere qualcosa di preoccupante: non sarebbe fuori luogo chiedersi
se è normale che una parte di giovani scandiscano le loro giornate con
ritmi rap ed abbiano come principale interrogativo del loro
sopravvivere "è qui la festa?".

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili
Martedì, 01 Marzo 2005 14:01

Ma la notte Parte 1/4

Ma la notte

· Giovani che scandiscono le loro giornate con un interrogativo: è qui la festa? · Non è questo un segno del disimpegno con il quale si educano le nuove generazioni? · Ma la nostra festa, quella vera, non deve finire, non finirà: perché noi siamo "la festa".

Prima parte

(L'immagine della notte)

Poche immagini hanno stimolato la
fantasia e la ricerca come quella della notte. Punto d'incontro del
mistero per eccellenza, recinto nel quale si confinano le paure più
antiche, terreno in cui prendono corpo e si materializzano i sogni,
traguardo ambito di ogni saggezza per chi aspetta consiglio, palestra
di sfida per chi decide di osare oltre le soglie del lecito, incubo
insuperabile per gli ammalati e gli agonizzanti, momento di riflessione
e contemplazione per chi, travolto dai ritmi del giorno, non sa trovare
altri attimi per fare deserto dentro di sé. Tutte le scienze si sono
imbattute prima o poi nello studio e nell'esplorazione della notte,
fino a dare, appianandone le spigolosità più antiche, e più
frequentate, immagini e spiegazioni razionali che hanno finito col
togliere fascino e mistero al fenomeno più vecchio dei tempi. La
fantasia popolare, poi, ha riempito l'immaginario comune di figure e di
proverbi, tanto da rendere per luoghi comuni e impoverita della sua
primitiva incisività, il senso più profondo della notte… "Peggio che
andar di notte, lavoro fatto di notte non val tre pere cotte; farsi
notte avanti sera; la notte porta consiglio; ogni cuffia è buona per la
notte…".

In questa ultima generazione, fra le tendenze che
hanno trasformato i costumi, c'è quella che si adagia sul ribaltamento
dei tempi. A macchia d'olio, i nostri giovani - tanto per usare un
altro luogo comune - scambiano il giorno con la notte. Iniziano a
divertirsi esattamente nel momento in cui la generazione che li ha
preceduti andava a riposare e lasciano ben intendere che, sui tempi e i
modi di gestire la loro festa, non gradiscono interferenze. I ritmi, le
parole e i motivi delle loro canzoni sono così entrati a far parte del
quotidiano, quasi un intercalare, che ormai può definirsi uno stile. E
non avremmo mai fatto un esame di coscienza se questo loro "distrarsi"
non fosse stato portatore dei lutti e dei dolori che riempiono le
cronache del dopo-discoteca. Ma noi adulti, così pieni di
responsabilità e saggezza, prima di abbandonarci a sterili invettive
contro la società malata, cosa facciamo perché l'alternanza del giorno
e della notte sia per tutti un'occasione di festa da conciliare con la
garanzia di serenità?

GIOVANNI SCALERA

Psicologo – Siena

da "Famiglia domani" 1/2000

Pubblicato in Problematiche Giovanili

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