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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L'uomo prova disperazione perché qualunque scelta faccia, non riesce mai a realizzarsi in quanto essere finito e non autosufficiente. La fede supera la disperazione poiché l'uomo non si illude di essere autosufficiente, ma riconosce la sua dipendenza da Dio. Da qui la "speranza": la speranza in Dio al quale tutto è possibile.

Del buon uso di un ortodosso
di Vladimir Zelinskij




“Spiegateci, quando il Papa andrà finalmente a Mosca?”; “Perché la Chiesa Russa parla sempre di proselitismo? Davvero il problema è così grave?” “Qual’è la politica religiosa di Putin?” E così via. Mi sono abituato a queste o simile domande. Le conosco a memoria. Conosco anche le risposte a questi “perché?” e “quale?”, che possono essere semplici, un po’ taglienti e... poco interessanti. Non sapremo proprio un bel niente dell’ortodossia con queste visite-lampo in un’altra realtà, un'altra mentalità, un'altra visione del mondo.

Un'escursione nel campo della politica ecclesiale, per dire la verità, è proprio l’ultima che mi piacerebbe fare. Non è qui il nostro punto di gloria. Ma il destino dell’ortodosso in Occidente è prima di tutto di essere chiamato come il rappresentante di turno di un certo enigma psicologico d’Oriente; poi, di servire da guardiano di un museo un po’ esotico che tutti ammirano dall’esterno (i canti, le icone, i Padri...), ma che pochi aspirano a penetrare sul serio. Al di fuori di questi due incarichi (aggiungiamo anche lo scarso lavoro nelle comissioni miste, che è roba da teologi), il “polmone orientale” non è particolarmente invitato a respirare accanto a quello occidentale; tutti i grandi problemi del cristianesimo di fronte al mondo contemporaneo di solito sono discussi in altre compagnie.

Ammetiamo di praticare anche noi analoghi atteggiamenti: il guardare con un po' di superiorità, dall’altezza della nostro torre d’avorio, sulle piccole faccende della storia e di proclamare con l’aria un po’ offesa che siamo quasi vittime di una nuova crociata. (Non facciamo il paragone, però, fra i russi convertiti al cattolicesimo e gli occidentali che sono attirati dall’ortodossia). Forse, tutto questo proviene dal fatto che culturalmente gli “orientali” rimangono fuori uso; in questi ultimi anni, centinaia di migliaia di loro sono venuti in Italia (clandestini ieri, regolari oggi, cittadini dopo), ma dove si può sentire la loro voce? Certo, il loro imperativo vitale è la sopravvivenza fisica e l’aiuto alle famiglie; ma il bisogno della soppravvivenza dell’anima segue sempre ad esso e quasi gli è inseparabile. Non si tratta solo del luogo del culto o di un club della canzone popolare; anche il pensiero venuto dall’Est potrà chiedere un giorno lo spazio per sè.

La saggezza antica e sempre rinascente della Chiesa d’Oriente è ancora in attesa di essere reclamata. E allora un amico cattolico prima di chiedermi sul viaggio sempre rimandato del Papa (io, da parte mia, credo che l’abbraccio fraterno fra la Prima Roma e la cosiddetta Terza sia più che indispensabile), mi interpellerà: quale è “il vostro” mistero del Cristo? Come è vissuto e celebrato proprio da voi, ortodossi? E che dice questo mistero oggi, alla famiglia umana?

Il monaco frena la lingua dal parlare e mantenendosi fedele al silenzio non parla finché non sia interrogato (RB 7,56).

Mercoledì, 11 Maggio 2005 23:10

Il settimo discepolo (Faustino Ferrari)

Sulle rive di questo lago che il mondo rinnovi l’invito alla sequela. Oggi, come allora. A questo settimo discepolo che è ognuno di noi.

Vincere il male con il bene
(Il Papa per la giornata mondiale della pace)





Il tradizionale messaggio del papa per la giornata mondiale della pace ci offre una lucida analisi della situazione della pace nel mondo e qualche cammino realistico per raggiungerla.
Giovanni Paolo II illustra il compito che incombe a tutti di lavorare per la pace non preoccupandosi delle critiche che vengono rivolte a coloro che sono sprezzantemente chiamati “pacifisti”. Mentre alcuni se la prendono con i “pacifisti” il messaggio del papa ci propone con pacatezza, ma con fermezza, il tema della pace offrendoci una nuova “grammatica di morale universale”, un insieme di valori e principi che si impongono ai costruttori di pace.

SOLO IL BENE VINCE IL MALE

Il titolo del messaggio: Non lasciatevi vincere dal male, ma vinciamo  con il bene il male, è una citazione da Rom. 12,21. La pace è il bene sommo e deve essere promossa con il bene perché è il miglior frutto dell’amore. Infatti la pace è «il risultato di una lunga e impegnativa battaglia, vinta quando il male è sconfitto con il bene» (n. 1). La pace non è il risultato di una vittoria ottenuta con le armi, non lo è mai stato. Il vero male è la guerra, l’ingiustizia, la situazione di violenza che caratterizza il nostro tempo. La pace esclude ogni guerra, preventiva o oltro che sia.

Il papa insiste su una verità che spesso dimentichiamo: «il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali…». È il prodotto dell’uomo che «passa attraverso la libertà umana…». Alla sua origine ci sono uomini e donne che liberamente scelgono il male. Siamo noi uomini i responsabili della pace e della guerra.  Il male è voluto da chi non segue la logica della fraternità e della comunione e si sottrae alle esigenze dell’amore. Anzi noi cristiani siano spinti sino all’amore dei nemici (n. 2).

Davanti alle molteplici manifestazioni del male il papa richiama l’urgenza di fare riferimento al «comune patrimonio di valori morali» (n. 3) che sono stati dati da Dio a tutti. Giovanni Paolo II chiama questo «la grammatica della legge morale universale» di cui tutti sentiamo il bisogno. Ecco i cinque grandi principi di questa grammatica:
a) il rispetto e la promozione della vita delle persone e dei popoli;
b) il rifiuto della violenza come mezzo per risolvere il contenzioso tra i popoli;
c) la promozione del bene comune ricercato con urgenza e determinazione;
d) un’equa distribuzione dei beni pubblici;
e) l’impegno per assicurare a tutti i popoli, soprattutto ai più deboli, le possibilità finanziarie per promuovere il proprio sviluppo.

L’«AMATO POPOLO AFRICANO»

Il papa non si sottrae alla denuncia di situazioni che mostrano l’urgenza di prendere finalmente di petto certi problemi del mondo. Tra questi il rispetto delle persone e della vita di tutti. E qui cita l’«amato popolo africano», che è alla deriva, ove perdurano conflitti che mietono numerose vite umane. Parla della «pericolosa situazione della Palestina», ove manca la comprensione. Ancora il «tragico fenomeno della violenza terroristica», e infine il «dramma iracheno».
Nella situazione dell’Africa denuncia qualcosa di intollerabile sul quale ritornernerà alla fine del messaggio (n. 10) per sollecitare «un cammino radicalmente nuovo» Per il papa la rinascita dell’Africa «rappresenta una condizione indispensabile per il raggiungimento del bene comune universale». È significativo che il papa colleghi il bene comune universale alla risoluzione di questi problemi particolari.

CITTADINANZA MONDIALE PRESUPPOSTO DI PACE

Il pontefice sottolinea un punto fondamentale della dottrina sociale della chiesa, quella della «destinazione universale dei beni della terra» (n. 7) che viene integrato dalla cosiddetta «ipoteca sociale» che grava su ogni proprietà privata per elaborare il principio di una cittadinanza mondiale, fondato sulla comune origine e destinazione dell’umanità. Ogni uomo al momento della sua nascita diventa «titolare di diritti e doveri» (n. 6) insieme a tutti gli uomini e donne del mondo. La fraternità universale precede ogni altra distinzione storica, o geografica, o razziale.
La pace non spunterà all’orizzonte del mondo finché questo principio non sarà messo in pratica, e le necessità di ogni uomo non saranno soddisfatte. Questo è ciò che si legge tra le righe del messaggio. Per il papa e per la dottrina sociale della chiesa la proprietà privata esiste per garantire «che la necessità di base di ogni uomo e di ogni donna vengano soddisfatti e sostenuti».
Insieme ai beni della terra devono essere offerti a tutti anche quei «nuovi beni» (n. 7) che provengono dal progresso scientifico e tecnologico e che sono oggi necessari per partecipare allo sviluppo. Il papa sottolinea la necessità di abbattere le barriere doganali e i monopòli che, nel caso dei medicinali, stanno condannando a morte molti poveri del mondo in via di sviluppo.
Ai beni della terra e della tecnologia egli associa anche tutti i beni pubblici, come il sistema giudiziario, di difesa, le infrastrutture stradali e di comunicazione, la sicurezza, la salvaguardia dell’ambiente e la prevenzione delle malattie (n. 7).

VINCERE LA SFIDA DELLA POVERTÀ

Per il conseguimento ed il rafforzamento della pace il papa ribadisce l’urgenza di affrontare la sfida della povertà che affligge ancora un miliardo di persone mentre all’orizzonte sta pendendo sulla sorte dell’umanità una nuova guerra: quella dell’acqua. Occupazione, cibo e acqua potrebbero essere il detonatore di una nuova guerra. Il messaggio del papa richiama il dovere di negoziare il debito estero dei paesi poveri in modo da permettere l’inizio dello sviluppo. Inoltre è «auspicabile e necessario inprimere un nuovo slancio all’aiuto pubblico allo sviluppo» (n. 9).
Il papa conclude il messaggio riaffermando la certezza «che è possibile a tutti vincere il male con il bene» (n. 11). Questa certezza si basa sulla potenza della risurrezione che ci assicura che il male non prevarrà. L’eucaristia ci offre il modello di una società di fratelli.


FERRARI G., Vincere il male con il bene. Il papa per la giornata mondiale della pace, in Testimoni 1 (2005), pp. 1-4. Riduzione di CESARE FILIPPINI.
Domenica, 08 Maggio 2005 19:46

4. Il canone della Bibbia (Rinaldo Fabris)

La parola "canone", deriva dalle lingue semitiche, dove qanáh, significa "misura", "regola", "norma".

Domenica, 08 Maggio 2005 19:37

Una Chiesa per il Regno (Jacques Dupuis)

Una Chiesa per il Regno
di Jacques Dupuis



Il testo che viene pubblicato riprende alcuni passi di due lezioni tenute da padre Jacques Dupuis al seminario del Pime di Monza nel 1999. Ci si è basati sulla trascrizione del lungo intervento realizzata da Massimo Cattaneo, missionario del Pime in Bangladesh. Quel testo, destinato ad uso interno e non rivisto dall’autore, aveva uno stile "parlato" che è rimasto, nonostante lievi aggiustamenti, anche nella presente versione. Viene offerto quale contributo per capire in profondità il pensiero del teologo scomparso.

Il pluralismo religioso non è una situazione di oggi. Però il problema ha ormai dimensioni molto più vaste che in passato e pone domande molto più scottanti. Qual è il piano divino per l’umanità? Abbiamo sempre creduto e pensato che il mondo era destinato da Dio a diventare esplicitamente cristiano. È vero questo? Lo possiamo ancora credere, quando si vede come si sta sviluppando? Se a tale domanda la risposta dovesse essere di no, qual è il significato della missione, allora? Perché dobbiamo ancora annunziare Gesù Cristo? Quale è il ruolo del cristianesimo e della Chiesa in questo contesto di pluralismo religioso?

La grazia di Dio, che è sicuramente una, è visibilmente mediata in diversi modi. Dunque il mistero di salvezza rimane uno, è il mistero di Cristo. Ma questo mistero è presente agli uomini e alle donne al di là dei confini del cristianesimo. Nella Chiesa la comunità escatologica è presente apertamente ed esplicitamente, nella piena visibilità della sua completa mediazione, concretamente attraverso la proclamazione della Parola, del Vangelo e attraverso l'economia dei sacramenti al cui centro è l'Eucaristia. In altre tradizioni religiose è presente il medesimo mistero di salvezza in Gesù Cristo, ma lo è in maniera implicita, nascosta, in virtù di un modo incompleto di mediazione costituito da queste tradizioni. È molto importante comprendere chiaramente la differenza essenziale che interviene tra questi due modi di mediazione del mistero di salvezza. Detto che il mistero della salvezza in Gesù Cristo non soltanto opera attraverso una mediazione della Chiesa, ma anche attraverso una mediazione delle altre tradizioni religiose, viene spontanea la domanda: ma allora perché dobbiamo stabilire la Chiesa?

È importantissimo vedere chiaramente la distinzione tra la mediazione di salvezza nella Chiesa e quella nelle altre tradizioni. Infatti, un conto è ricevere la parola di Dio, la parola che Dio dice agli uomini attraverso la mediazione dei saggi che l'hanno ascoltata nel fondo del loro cuore e hanno trasmesso ad altri la loro esperienza di Dio, un altro conto è ascoltare la Parola decisiva che Dio dice agli uomini nel suo Figlio incarnato che rappresenta la pienezza della rivelazione, cioè la Parola contenuta, la Parola della Parola (il Verbo è la Parola), contenuta nel Nuovo Testamento. Ugualmente, un conto è entrare in contatto con il mistero di Cristo attraverso i simboli e le pratiche rituali che nei secoli hanno dato sostegno e forma visibile alla risposta di fede degli uomini e al loro impegno verso Dio, un altro è incontrare lo stesso mistero ripresentato ("ri-presentare" è far presente di nuovo, proprio quello il significato dell'Eucaristia), nella piena sacramentalità degli atti simbolici istituiti da Gesù Cristo e affidati da lui alla Chiesa.

Per esempio, tra i sanscara (i sacramenti dell'induismo) e i sacramenti cristiani vi è una grande differenza. I primi non sono quelli istituiti da Cristo, questi ultimi invece sì; con questi abbiamo noi la certezza, attraverso la fede, di incontrare il mistero di salvezza che vi è "ri-presentato" per noi.

Infine, un conto è fare l'esperienza e vivere il mistero di Cristo inconsapevolmente e in modo nascosto, senza la chiara coscienza dell'infinita condiscendenza che Dio ci ha dimostrato nel Figlio e senza la piena conoscenza della serietà con cui in Lui si è abbassato verso di noi; un altro è riconoscere il mistero nell'umile condizione umana dell'uomo Gesù, nella sua vita, nella sua morte e nella sua resurrezione, nella piena consapevolezza che in questo uomo Dio è venuto personalmente incontro a noi al nostro livello. Cosa ne deriva riguardo al molo della Chiesa e riguardo alla sua missione? Come essere Chiesa nel contesto attuale di pluralismo religioso?

Una prima considerazione. È il Regno di Dio ad essere al centro dell'annunzio del Gesù storico. Sembra un po' strano, ma il Regno di Dio fra i teologi è stato negli ultimi decenni una grande riscoperta. Ciò che è al centro dell'annunzio dei Gesù storico è proprio il Regno di Dio. Nei Sinottici la parola Chiesa si trova due sole volte. il Regno di Dio invece è dappertutto. Non vuol dire che Gesù non abbia voluto la Chiesa: infatti ha dato autorità ai dodici in quel movimento che stava instaurando e che sarebbe diventato la Chiesa attraverso il mistero della Pentecoste. E i dodici diventeranno gli apostoli. Ma rimane comunque il fatto che al centro dell'annuncio di Gesù vi è il Regno di Dio. Gesù lo annuncia non soltanto come vicino, ma lo annuncia come presente, instaurato da Dio proprio in Lui, nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi gesti. Questo è importantissimo, perché altrimenti diremmo anche noi ciò che affermano i cosiddetti "pluralisti" e cioè che, mentre Gesù era regnocentrico, la Chiesa apostolica è diventata cristocentrica: Gesù annunciava il Regno di Dio, la Chiesa ha annunciato Cristo, cambiando il messaggio di Gesù.

Dunque, il Regno di Dio è veramente al centro dell'annuncio di Gesù. La Chiesa viene istituita da lui al servizio del Regno; la Chiesa troverà la sua ragion d'essere nel Regno di Dio.

Secondo il Nuovo Testamento la Chiesa non è da identificare con il Regno di Dio. Ma nella teologia recente rimane questa distinzione? Oppure vi è identificazione? La teologia prima del Vaticano II molto chiaramente ha identificato la Chiesa con il Regno di dio già presente nel mondo.

Tale identificazione li si trova nella Mistici corporis di Pio XII, ma non è stata ripresa dal Vaticano II. E la famosa parola "subsistit" della Lumen gentium (il mistero della Chiesa istituita da Cristo "subsistit", "sussiste" nella Chiesa romana cattolica) è stata scelta proprio per non ribadire l'identificazione, per ammettere cioè che, pur essendo in modo più perfetto presente nella Chiesa romana cattolica, la Chiesa istituita da Gesù Cristo è presente, sebbene in modo imperfetto, anche nelle altre comunità cristiane e Chiese, non soltanto ortodossa. Dunque: nel Vangelo sembrava chiara la distinzione fra il Regno di Dio e la Chiesa. Per la teologia, attraverso i secoli fino al Vaticano II, la Chiesa viene identificata con il Regno presente: non c'è da meravigliarsi se questa teologia così comune sia entrata anche nel Concilio.

Un recente documento ufficiale del Magistero opera una distinzione fra Chiesa e Regno presente nella storia: è l'enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. Al n. 20 dice: la realtà incipiente, cioè storica, del Regno (dunque il Regno per quanto già presente nella storia) può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa, nell'umanità intera, nella misura in cui questa viva i valori evangelici e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole. Ma bisogna subito aggiungere che tale dimensione temporale (storica) del Regno è incompleta se non è coordinata con il Regno di Cristo presente nella Chiesa e proteso alla pienezza escatologica. Vale a dire, se capisco bene, che il Regno di Dio è presente al di là della Chiesa, dunque non si può identificare il Regno di Dio con la Chiesa: il Regno di Dio è presente dove sono presenti e operano i valori evangelici. dei quali la Chiesa non ha il monopolio. Però rimane che il Regno di Dio è presente in modo qualificato, privilegiato, più completo nella Chiesa e occorre sempre ricordare che il Regno di Dio è orientato nella storia verso la sua pienezza escatologica.

Questo a me sembra fondamentale per una teologia delle religioni e per una prospettiva nuova riguardo alla teologia della missione evangelizzatrice della Chiesa. La Chiesa è dunque al servizio di questa realtà universale che è il Regno (li Dio presente dappertutto nel mondo dove sono all'opera negli uomini i valori del Regno, ossia i valori evangelici. La Buona Novella è la presenza del Regno di Dio. Il Regno di Dio, dunque, è la realtà universale della salvezza in Gesù Cristo presente dappertutto nel mondo ben al di là dei confini del cristianesimo e della Chiesa. Il che è detto molto bene in un testo elaborato durante una consultazione teologica organizzata dall'Ufficio per l'evangelizzazione della Federazione delle conferenze episcopali asiatiche (Fabc), che ha avuto luogo in Thailandia nel 1991 e alla quale ho partecipato personalmente.

Dove Dio è accolto, dove i valori dei Vangelo sono vissuti, dove l'essere umano è rispettato, lì il Regno di Dio è presente. In tutti questi casi gli uomini rispondono all'offerta che Dio fa della sua grazia in Gesù Cristo nello Spirito ed entrano nel Regno di Dio per un atto di fede. Ciò dimostra che il Regno di Dio è una realtà universale, estesa oltre i confini della Chiesa. È la realtà della salvezza in Gesù Cristo a cui partecipano insieme i cristiani e gli altri. Tutti quanti siamo co-membri del Regno di Dio, condividiamo lo stesso mistero della salvezza in Gesù Cristo.

Vedete che possono esserci delle conseguenze abbastanza importanti riguardo al modo in cui viene intesa la missione evangelizzatrice della Chiesa.

Ma per essere totalmente onesto con voi, non si può dimenticare che Giovanni Paolo II ha nella medesima Redemptoris missio parole abbastanza dure nei riguardi di una prospettiva regnocentrica della missione evangelizzatrice della Chiesa. Al n. 17 si legge: "Ci Sono concezioni che di proposito pongono l'accento sul Regno e si qualificano come regnocentriche, le quali danno risalto all'immagine di una Chiesa che non pensa a se stessa. ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il Regno". E continua: "Ora non è questo il Regno di Dio quale conosciamo dalla rivelazione, esso non può essere disgiunto né da Cristo né dalla Chiesa".

Lo sbaglio che è stato fatto da alcune prospettive regnocentriche consiste nel fatto che si parla di una Chiesa serva, di una Chiesa dei valori evangelici e così via: si dimentica però che questo Regno, messo al centro di una prospettiva teologica, è stato istituito da Dio in Gesù Cristo. Perciò, come dicevo, Gesù non soltanto annuncia il Regno, ma spiega anche che è proprio nella sua vita, nei suoi gesti, nelle sue parole che Dio lo sta instaurando. Alcune prospettive regnocentriche dimenticano che è in Gesù Cristo che Dio ha instaurato il suo Regno e dunque che non si può mai staccare il Regno di Dio dall'evento Gesù Cristo.

Secondariamente. queste prospettive dimenticano anche il ruolo singolare e unico che la Chiesa ha nei confronti del Regno: farlo crescere nel mondo. A patto di non dimenticare queste due cose, cioè il Regno instaurato in Gesù Cristo e il Regno rispetto al quale la Chiesa ha un ruolo specifico e necessario, a me sembra non si debba negare la possibilità di proporre una prospettiva regnocentrica per una teologia sia delle religioni. sia della missione evangelizzatrice della Chiesa, che possa aprire degli orizzonti abbastanza nuovi.

Vorrei aggiungere che i cristiani e gli altri sono dunque co-membri del Regno di Dio. Anche i non cristiani ne sono a pieno titolo membri, pur non essendo per niente membri della Chiesa. Pur essendo salvati in Gesù Cristo attraverso una mediazione della loro tradizione religiosa (incompleta), rimangono orientati verso quella mediazione completa presente nella Chiesa, perché è alla Chiesa (riprendendo il nuovo Giovanni Paolo II) che Gesù Cristo ha affidato la pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza. Sono dunque co-membri con i cristiani del Regno di Dio, non sono membri della Chiesa, ma rimangono orientati verso il mistero della Chiesa.

Non soltanto sono co-membri, ma assieme ai cristiani sono chiamati a far crescere nel mondo e nella storia il Regno di Dio attraverso i valori evangelici, i valori dei Regno di Dio.

Come dunque i non cristiani, pur non essendo membri della Chiesa, ma in quanto membri del Regno di Dio, sono orientati verso il mistero della Chiesa, così anche le attività evangelizzatrici della Chiesa, l'impegno per la liberazione e il dialogo interreligioso sono anch'essi orientati verso l'annunzio in cui culmina la missione evangelizzatrice della Chiesa. Vorrei rapidamente dire qualche cosa sui diversi modelli di Chiesa che aprono o no prospettive più ampie riguardo alla missione evangelizzatrice.

Per secoli abbiamo avuto il modello della Chiesa come la "barca di salvezza". La Chiesa veniva paragonata all'arca di Noè in cui lui e i suoi si sono salvati. Evidentemente fuori dalla barca non c'è più salvezza. Così si è andato sviluppando il famoso assioma Extra Ecclesiam nulla salus (al di fuori della Chiesa non c'è salvezza). La missione evangelizzatrice della Chiesa, in tale paradigma, consiste nel battezzare,. nel "fare entrare". Un modello così non apre agli orizzonti più ampi di cui stiamo parlando oggi.

Un altro modello molto più recente è quello della missione come implantatio Ecclesiae. Secondo questo modello, la Chiesa ha i mezzi di salvezza e deve dunque essere a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà, dappertutto ne mondo. Rimane ancora una prospettiva abbastanza ristretta, infatti la Chiesa viene identificata con il Regno di Dio: per essere salvati, cioè per essere membri del Regno di Dio, occorre diventare membri della Chiesa. La Chiesa, dunque, annuncia Gesù Cristo annuncia se stessa e la preoccupazione principale è la crescita delle comunità cristiane. Quando i vescovi venivano a Roma a rendere conto a Propaganda fide la domanda che veniva fatta loro era: "Quanti battesimi dall'altra volta?". Di nuovo la prospettiva riguardo alla missione evangelizzatrice non andava veramente al di là dell'annuncio. Opere caritative e così via non venivano considerate come evangelizzazione. Si parlava invece di pre-evangelizzazione, distinta dall'evangelizzazione propria, ossia l'annuncio. Se Regno di Dio e Chiesa sono distinti, diventa chiaro come il Regno di Dio è una realtà universale, è la presenza nel mondo, a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà, della salvezza in Gesù Cristo, al cui servizio Gesù Cristo ha messo la sua Chiesa: la prospettiva diventa allora più ampia. L'evangelizzazione include non soltanto l'annuncio esplicito di Gesù Cristo, ma fa riferimento anche ad altre attività ecclesiali come l'impegno per la liberazione umana e il dialogo interreligioso.

Una volta che si guarda in questa direzione, ci sono conseguenze riguardo alla missione evangelizzatrice della Chiesa ancora da approfondire. Ci vuole, in altre parole, una Chiesa decentrata da se stessa per essere centrata sul suo Signore, sul regno di Dio instaurato in Gesù Cristo.


(da Mondo e Missione, febbraio 2005)

Sant’Andrea
e la Chiesa del Terzo millennio
di Vladimir Zelinskij

 


Cosa resta della suddivisione del mondo in campi d’azione che fu fatta alle origini della missione cristiana, quando gli apostoli vennero mandati
ad gentes? Invece di conservarli e di tradurli in gelose contrapposizioni, il cristianesimo del Terzo millennio deve spalancarsi al nuovo mondo, in un rinnovato slancio missionario che della Tradizione conservi solo l’essenziale, e l’unità.

Immaginiamo per un minuto un mosaico, uno di quegli antichi mosaici conservatisi solo a frammenti che rivestivano le cupole o le pareti delle antiche chiese bizantine. Supponiamo che un ignoto maestro, in una certa cattedrale, abbia deciso di dispiegare davanti a noi l’intera storia dell’Incarnazione del Verbo di Dio, trasmettendo attraverso le pietruzze il racconto degli evangelisti. Entrati nella cattedrale ci troviamo di fronte a una raffigurazione in cui ogni tessera musiva rappresenta un rigo di Vangelo. Alzando gli occhi vediamo prima di tutto l’immagine di Cristo al centro, dominante sugli altri, circondato dai dodici apostoli. Vi sono degli apostoli la cui figura è tracciata, o meglio scolpita dai versetti evangelici in modo più ricco e pieno, come Pietro e Giovanni. E tuttavia, di molte raffigurazioni è rimasto soltanto il nome, l’orma di una persona vivente che ha attraversato a suo tempo la storia, tutto il resto - agiografia, martirio, glorificazione – si è composto in un’immagine organica solo più tardi, nella Tradizione.

Fra questi apostoli - che diremmo "di prima grandezza" - e tutti gli altri, Andrea si pone per così dire a mezza via, la sua immagine è costituita soltanto di poche "tessere" evangeliche. Noi possiamo tentare di ricostruire la figura intera dell’apostolo, non come fu in vita (operazione quasi impossibile), ma quale ci è stato tramandato in qualità di "messaggero", come la bocca che ha pronunciato quel particolare annuncio che ci è stato inviato proprio attraverso di lui. Infatti tutto ciò che sapremo in seguito di Andrea dai racconti agiografici, - i suoi pellegrinaggi apostolici verso le coste del Mar Nero, "nella terra di Frigia" e "nella Propontide" come dice san Dimitrij di Rostov, la benedizione del luogo dove sarebbe sorta Kiev, quindi il martirio a Patrasso – non è che la continuazione e lo sviluppo di quell’annuncio. Leggendo attentamente questi passi, cerchiamo di comporli come pietruzze per ricostruire le parti mancanti del nostro mosaico. Cominciamo dal primo capitolo del Vangelo di Giovanni.

"Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Gv 1, 40-42).

Abbiamo trovato il Messia

In un primo momento Andrea, che faceva ancora il pescatore in Galilea, era stato discepolo di Giovanni il Battista. Da lui il futuro apostolo avrebbe sentito per la prima volta le parole che in bocca a Cristo sarebbero diventate la Buona Novella: "Il regno dei cieli è vicino". Ma cosa significava questo regno nelle parole di Giovanni? Quando Giovanni predicava, sembrava che il regno, pur restando invisibile, si ergesse minaccioso e fiammeggiante davanti agli uditori, pronto a concedere grazia e ad accogliere nella "sua ammirabile luce", ma anche a giudicare con ira, ira che sembrava levarsi come un’onda oscura alle spalle del profeta, pronta ad abbattersi. "Razza di vipere!" esclama Giovanni rivolgendosi a farisei e sadducei che sono venuti da lui per farsi battezzare, "Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti di conversione" (Mt 3, 7).

La predicazione del più grande dei profeti "nati da donna", Giovanni il Battista, annuncia l’imminente regno messianico e il giudizio, il quale, secondo le parole di san Pietro, deve iniziare "dalla casa di Dio" (1 Pt 4, 17). "Il regno è vicino…" e Andrea ha saputo ascoltare. È lui cronologicamente il primo testimone del passaggio più importante o, per usare una terminologia eucaristica, della "frazione" della fede esigente dei profeti nella fede degli apostoli, una fede che parla del realizzarsi di ogni promessa nella venuta di Gesù di Nazaret. In quel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19, 12) con cui Gesù si è manifestato al mondo, egli riconoscerà il regno messianico e l’Unto stesso, atteso da tanti secoli. Prima ancora di Pietro, Andrea dà una definizione della fede apostolica. "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo". Questa formula assumerà la sua compiutezza teologica in Pietro: "Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente". La confessione di Pietro è più ardita, più ampia, la confessione di Andrea vale per sé e per il fratello, infatti dice "abbiamo". In questa comune confessione di Andrea e Pietro risuona la voce del regno "che viene", della legge e dei profeti che si compiono nel Messia.

Tuttavia Gesù, nell’atto di assumere il nome di Cristo, sa che questo nome diventerà una confessione piena soltanto dopo la Croce. "Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo" (Mt 16, 20). È necessario che egli compia l’altra parte della profezia: diventare il servo sofferente, l’Agnello offerto in olocausto, "soffrire molto". Tutto questo Andrea, Pietro e gli altri discepoli ancora non lo potevano accettare. Pur confessando la fede apostolica nel Messia che viene, essi rimangono per ora solo suoi discepoli. Sarà Gesù stesso che farà di loro degli apostoli nel vero senso della parola.

"Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini"" (Mt 4, 18-19).

Pescatori di uomini

Le parole di Gesù si realizzano immediatamente: Andrea si affretta a fare ciò cui è chiamato. Essendo "pescatore", egli "pesca" Pietro, poi Filippo; Filippo, a sua volta, diventa "pescatore" di Natanaele. Le "reti degli apostoli" ancor oggi sono il simbolo della missione, il dono dell’annuncio. Ma qual è il segreto di questa "pesca di uomini"? Da dove viene agli apostoli il potere sulle anime umane?

Torniamo ancora a considerare la chiamata di Andrea. Essa inizia con la frequentazione del Signore. Giovanni il Battista, "fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: "Ecco l’agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbì, dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui" (Gv 1, 35-39). Riflettendo su questo incontro, sant’Agostino dice: "Uno dei due era Andrea. Andrea era fratello di Pietro, e dal Vangelo sappiamo che Cristo invitò Pietro e Andrea a lasciare la loro barca dicendo: "Vi farò pescatori di uomini". Cristo mostrò loro dove viveva, ed essi andarono e restarono con Lui. Che giornata meravigliosa devono aver trascorso! Chi potrà dirci cosa avranno sentito dal Signore? Edifichiamo anche noi nel nostro cuore una casa in cui il Signore possa venire e ammaestrarci, e possa rimanere per conversare con noi" (Omelia 9).

"Essendo restato con Gesù, e avendo imparato tutto ciò che Gesù gli insegnava", dice san Giovanni Crisostomo, "Andrea non nascose in sé questo tesoro, ma si affrettò dal fratello per comunicargli il tesoro che aveva ricevuto". Ascolta bene ciò che disse: "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo" (Gv 1, 41)… Le parole di Andrea erano le parole di un uomo che attendeva con impazienza la venuta del Messia, la sua discesa dai cieli; di un uomo che fu tutto pervaso dalla gioia quando vide la Sua venuta, così che si affrettò a comunicarla agli altri" (Omelia 19 sul Vangelo di Giovanni) (1).

Anche dalle poche menzioni ad Andrea che si trovano nella patristica possiamo tracciare la struttura interiore del suo apostolato: l’attesa del Signore e del Suo regno assieme al profeta, l’incontro col Signore faccia a faccia, la gioia della rivelazione, la fermezza della confessione, quindi la predicazione dell’annuncio che aveva ascoltato e accolto col cuore, a coloro che ne avevano bisogno, a chi cercava di ascoltarlo. "La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo", dice san Paolo (Rm 10, 17). Al seguito di Cristo l’apostolo "aprì la mente all’intelligenza delle Scritture" (cfr. Lc 24, 45), e tuttavia queste Scritture non sono semplicemente annotate "con l’inchiostro e lo stilo" sulla pergamena o la carta, ma sono incise con la voce di Cristo "sulle tavole di carne dei vostri cuori" (2 Cor 3, 3). Il dono di diventare apostolo consiste nell’"ascoltare le Scritture" e predicarle al cuore dell’uomo dall’interno, nel far sì che questi abbia intelligenza di sé fino in fondo, fino all’ultima profondità accessibile nella Parola di Dio, poiché solo in Cristo possiamo conoscere e vedere noi stessi fino in fondo. L’apostolo non avrebbe potuto catturare nessuno nelle reti di Cristo, se Cristo stesso, non riconosciuto come il seme nella parabola del seminatore, non fosse stato "gettato" in ogni uomo.

Come avvenga questa "pesca" apostolica lo vediamo dalla storia di Natanaele. Filippo, che "era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro" (Gv 1, 44), porta da Cristo Natanaele, il quale è convinto a priori che da Nazaret non possa venire niente di buono. Ma Cristo gli dice delle parole che lo trapassano per la sorprendente conoscenza che dimostrano. "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48). E Natanaele non si limita a ricordare qualcosa, ma soprattutto riconosce se stesso sotto lo sguardo del Dio vivo, in quell’episodio del passato "sotto il fico" che era noto solo a lui e a Dio. Così avviene il miracolo dell’incontro; riconoscendo il Signore, l’uomo riconosce di nuovo anche se stesso. "Sarebbero manifestati i segreti del suo cuore", dice san Paolo, "e così, prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi" (1 Cor 14, 25).

Il "pescatore di uomini" conduce l’uomo ai segreti del suo cuore, al sacramento della conoscenza del Dio vivo, ma lui stesso non accede a questi segreti, e non partecipa all’incontro. È come se Andrea si tirasse da parte, come se si allontanasse; si limita a "condurre" qualcuno, a "dire" a qualcuno, a presentare, a far conoscere, a mostrare la via, lui che durante la vita terrena di Cristo si è semplicemente trovato al Suo fianco. Così, avendo visto un giorno una grande folla raccolta per ascoltarlo, e vedendo che la gente aveva fame, Gesù dice all’apostolo Filippo: ""Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?" Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare… Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: "C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?"" (Gv 6, 5,8).

La moltiplicazione dei pani, l’incontro con gli elleni

Altri due importanti passi evangelici sono legati alla partecipazione e alla mediazione di Andrea, e tutti e due toccano l’essenza stessa del suo servizio apostolico. Sto parlando della moltiplicazione dei pani e della prima comparsa dei gentili nel contesto evangelico, di quei greci che erano venuti per la festa a Gerusalemme e avevano voluto vedere Gesù. In entrambi gli episodi il ruolo di Andrea è oltremodo modesto, quasi impercettibile; in uno di essi egli parla all’apostolo più anziano del cibo di cui è in possesso un ragazzo; nell’altro, assieme a Filippo annuncia a Gesù l’arrivo degli elleni. Tuttavia, se leggiamo la Bibbia come la leggevano un tempo i Padri, anche in questi due passi possiamo cogliere l’allegoria di cui è carica ogni frase della Scrittura. La moltiplicazione dei pani contiene in sé la visione profetica del pane "sceso dal cielo", come si definisce Cristo stesso, è la chiara prefigurazione dell’Eucaristia. Gesù sazia con cinque pani e due pesci un’enorme folla di popolo; dopo la Sua resurrezione sazierà col proprio corpo generazioni e generazioni di cristiani. "Tu infatti o Cristo Dio nostro sei colui che offre e colui che viene offerto; colui che riceve e colui che viene distribuito", si dice in una preghiera sacerdotale della liturgia ortodossa. Una delle vocazioni apostoliche consiste appunto nell’adempiere questa profezia: compiere il sacramento della moltiplicazione dei pani, quando ormai Cristo non è più tra noi nella carne, "creare nella memoria di Cristo", nel pane eucaristico che diventa il Suo corpo e la Sua Chiesa, mettendosi però in disparte nel far questo. Essere la parola di Gesù, il gesto di Gesù, l’annuncio di Gesù, il miracolo compiuto dalle Sue mani, infine la Sua stessa presenza sacramentale, senza mai coprire neppure un lembo di questa presenza con se stessi.

La moltiplicazione eucaristica dei pani, accanto all’annuncio del Verbo, è lo scopo e il significato interiore dell’apostolato, che è volto innanzitutto a "moltiplicare" Cristo stesso, il Suo nome, la Sua vita, la Sua opera di salvezza. Questa moltiplicazione è già iniziata durante la vita del Salvatore, quando ha preso a diffondersi rapidamente sulla terra l’annuncio che le profezie si sono avverate, che il Messia è venuto sulla terra, che il Verbo di Dio parla agli uomini per bocca di Gesù. I greci giunti per la festa a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua "si avvicinarono a Filippo… e gli chiesero: "Signore, vogliamo vedere Gesù". Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: "È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo"" (Gv 12, 22-23).

Gesù sa che il suo cammino terreno ormai volge al termine. Inviato dal Padre celeste solo alle "pecore perdute della casa d’Israele" (Mt 15, 24), il Messia di cui parlavano la Legge e i profeti, va verso la crocifissione, per poi "essere glorificato" come Signore di tutti i popoli. L’incontro con gli stranieri anticipa la Sua glorificazione, che sarà opera dello Spirito Santo e degli apostoli. Questi dovranno diventare testimoni della nuova era, lavoratori e portatori dell’annuncio pasquale. Questo annuncio è destinato a tutti i popoli. La confessione di Andrea e Pietro parlerà per bocca dei loro lontani e ignoti discendenti. Il nome di Cristo sarà udito fino agli estremi confini della terra.

"Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino ai confini del mondo le loro parole" (Rm 10, 18), ricorderà san Paolo il Salmo 18.

Il territorio di Andrea

Di qui inizia la divisione del mondo in confini, che poi diventeranno i territori apostolici.

"I confini della terra", leggiamo nella Storia della Chiesa russa di Anton Kartas'ov, "sono soltanto il compito massimo, lo scopo, la direzione. Da Gerusalemme sono tracciati idealmente dei raggi, e i settori compresi fra di essi rappresentavano i territori della missione apostolica, che per le loro dimensioni universali superavano le possibilità fisiche e la durata stessa della vita di un uomo. Gli apostoli, recandosi a predicare nella direzione assegnata a ciascuno… venivano mandati dallo Spirito Santo… esattamente in quei determinati paesi, quindi essi in linea di principio, sul piano spirituale (e su quello concreto, nella persona dei loro continuatori e successori) diventavano gli apostoli di quei determinati paesi e dei popoli che li abitavano; erano i loro protettori celesti nella storia, per sempre". (2)

Sicuramente dopo la Storia della Chiesa russa scritta da E. Golubinskij, la versione per cui l’apostolo Andrea sarebbe approdato nella regione del fiume Dniepr e avrebbe benedetto il luogo dove, a distanza di cinque secoli, doveva sorgere la città di Kiev, non è più considerata come un fatto reale, scientificamente dimostrabile, e tuttavia la realtà spirituale di questa tradizione rimane valida e viva ancor oggi. Per altro, il senso di una tradizione può cambiare col tempo, obbedendo a quello che "lo Spirito suggerisce alle Chiese", come dice l’Apocalisse. Per noi oggi non è tanto importante il fatto della diretta discendenza apostolica del cristianesimo nella Rus’, di cui tanto andavano fieri i nostri antenati, ma piuttosto il fatto di concepire la Chiesa russa come parte del territorio della Gerusalemme storica e celeste. In sostanza, i confini a cui gli apostoli sono stati inviati dallo Spirito Santo, e dove magari essi non sono mai giunti fisicamente, sono diventati nuove province del regno di Dio, che "viene" nella penitenza predicata dal Battista, nella fede messianica abbracciata da Andrea, nella confessione di Pietro divenuto roccia della Chiesa, nelle visioni di Giovanni che ha dischiuso i misteri del regno di Cristo. Difficilmente qualcuno di noi potrebbe affermare che un territorio apostolico, il nostro o uno altrui, si è mantenuto perfettamente fedele a questo regno, tuttavia la nostra infedeltà non rende la vicinanza del regno più lontana, la rende solo umanamente più difficile. Poiché, come dice Gesù, "Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt 11, 12).

Questo "impadronirsi" del regno di Dio, che come compito interiore è affidato al singolo cristiano e a tutta la Chiesa, porta in sé una memoria storica e al tempo stesso escatologica. Il regno di Dio è venuto nel Cristo storico, crocifisso sotto Ponzio Pilato, che ha inviato i "pescatori di uomini" perché lo portassero in tutta la terra, ma questo regno deve ancora venire nel "regno del secolo futuro", nel "Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo" (Mt 24, 30). E tuttavia i due regni non sono divisi come sono divise le nostre Chiese; il territorio terreno del Salvatore non è diviso da quello celeste e non si contrappone ad esso, sono le due realtà dell’unico regno, del quale "ci si impadronisce" per gli sforzi apostolici, cui spetta il compito di aprire la strada a questo regno nella storia, di legare le due realtà, quella passata e quella futura in una sola, che diventerà un presente indescrivibile, la vita in Dio. Agli apostoli (e quindi ai loro successori) è dato lo spazio, "i confini della terra" cui sono stati mandati, ma è dato anche l’intero tempo storico, l’intero cammino da un regno all’altro da percorrere. E non soltanto percorrere, ma portarvi tutta il proprio territorio terreno, per inserirlo nel futuro regno di Cristo, che non avrà mai fine.

Perciò, se la Chiesa russa rimane "territorio mistico" dell’apostolo Andrea, anche l’intero cammino storico di questa Chiesa, dalla leggendaria benedizione del I secolo fino all’ingresso nel regno del secolo futuro, si può considerare tempo del suo apostolato, iniziato già in Galilea, poi dopo la Pentecoste nella Gerusalemme storica, e ritornato infine alla Gerusalemme celeste. E in questa nuova Gerusalemme si incontreranno alla fine, e si uniranno tutti i territori apostolici con tutte le loro Chiese. Così, dopo l’Ascensione, si incontrarono a Gerusalemme i discepoli di Cristo; "salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo" (At 1, 13).

Questo piano superiore si è spalancato "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).

Il Terzo millennio

Dov’è oggi questo piano superiore abitato dagli apostoli? Dove sarà domani? Certe volte guardiamo con tanto amore, quasi con passione, il nostro passato, la nostra tradizione e la preziosa eredità dei secoli trascorsi, che stacchiamo gli occhi dal futuro. Ma il futuro non lascia che ci dimentichiamo di lui. Viene, com’è venuto un tempo Giovanni il Battista, e parla di giudizio, di penitenza, dell’ira divina, del regno che si avvicina. Il giudizio si può manifestare nelle persecuzioni, com’è accaduto nel XX secolo alla Chiesa russa, o nell’asfissia spirituale, morale, culturale del cristianesimo che incombe inesorabilmente su di noi. Ciò che chiamiamo oggi "globalizzazione", se ne consideriamo l’aspetto più profondo, quasi intimo, è opera di una nuova razza umana, una razza che "non ha orecchi per sentire", come dice il Vangelo, che ha perso l’udito per la Parola di Dio, che perde la vista interiore e non ne vede il Volto.

Grazie ai mezzi per scambiarsi le informazioni, la terra fino ai suoi confini più estremi ci sta in pugno, come dice un proverbio inglese, il mondo è diventato la nostra ostrica (the world is our oyster), che possiamo mangiare come vogliamo. E tuttavia l’informazione stessa può mangiare, inghiottire o tagliare a fette noi, fare di noi il proprio schermo, un oggetto, un accumulatore. Penso che stiamo assistendo solo alle prime doglie del parto, che preannuncia la nascita di un mondo apparentemente nelle mani dell’uomo. E in questo mondo, sotto i nostri occhi si disperde, si volatilizza l’aria stessa di cui il cristianesimo respira. Le parole che erano dense di significato per noi 2000 anni fa, e in base alle quali continuiamo a comprenderci e a riconoscerci l’un l’altro - giudizio, penitenza, speranza, salvezza, preghiera, timor di Dio, rapporto col Signore - si disseccano, perdono il proprio contenuto mentale, e lentamente passano nella categoria degli oggetti da museo, venerandi, divertenti, dimenticati, praticamente inutili. Cosa sarà di tutti i territori apostolici e delle nostre Chiese storiche nell’aria rarefatta del nuovo millennio? A differenza di molti ortodossi, io non penso che non abbiamo niente da offrire alla storia futura, oltre a una rapida fine, cruenta e fiammeggiante. E se oggi viviamo in un’epoca di crisi del cristianesimo, in tempi di crescente apostasia, il cui acme non è ancora stato toccato, mi pare di cogliere al di là di questa un nuovo ritorno della Buona Novella, che non parlerà nella lingua di un mondo morto e sepolto, ma in quella del mondo che nasce sotto i nostri occhi, e gli sarà comprensibile, verrà recepita così come fu recepita due millenni fa: come il lieto annuncio della salvezza. La Buona Novella ritroverà se stessa immancabilmente anche in questa nuova esistenza che sembrerebbe così lontana dal cristianesimo, saprà ritrovare un terreno sotto i piedi, attraversare la terra "fino agli estremi confini", non in senso spaziale, infatti per la parola non c’è più spazio, ma in senso antropologico, saprà arrivare a nuovi "estremi confini" dell’uomo.

Come dev’essere la Chiesa di Cristo per percorrere il cammino che le sta davanti? Cosa deve rimanere e cosa deve rinnovarsi? Cosa, della sua eredità, è segnato col marchio incancellabile degli apostoli? Nel pormi queste domande torno col pensiero ad Andrea, il primo chiamato.

Il Vangelo di Andrea

L’immagine di Andrea nel Vangelo è resa con pochi tratti, apparentemente casuali. Ma nelle Sacre Scritture non c’è mai niente di casuale. Sono tratti precisi e lievi, tanto lievi che sembrano quasi confusi, se però li consideriamo con più attenzione creano una sorta di icona dell’apostolo, come l’immagine di una vetrata.

E quel poco che si dice di Andrea ci aiuta non solo a ricostruire la sua figura, ma anche a rileggere la Buona Novella a partire dai pochi segni che ne denunciano la presenza. Ovunque Andrea si presenta come un intermediario, come un messaggero. Porta suo fratello Simone, il quale diventerà principe degli apostoli, parla a Gesù degli elleni che Lo vogliono vedere, Gli riferisce le parole sui pesci e il pane che nutriranno una folla di uomini, e questo avviene alla vigilia della crocifissione e glorificazione di Gesù. Dietro a tutti questi segni si indovina un’allegoria: il "pescatore di uomini" li rende discepoli del Salvatore, il pane terreno diventa pane celeste, la mediazione fra Gesù e gli stranieri diventa missione, e la missione porta con sé l’annuncio pasquale. E in tutto questo vediamo l’apostolo quasi simile al suo primo maestro Giovanni, che poteva dire di sé: "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3, 30).

Giovanni annunciava il giudizio e il regno, ma sia il giudizio che il regno vengono sempre, sono nascosti nella nostra storia terrena. Il giudizio, o crisi, può toccare tutto, anche ciò che consideriamo sacro per noi, inseparabile dalla nostra fede. Eppure, riflettendo sul destino del cristianesimo nel terzo millennio, mi piace ricordare le parole di Teilhard de Chardin: dietro a ogni crisi Cristo ritorna rinnovato. E dopo ogni crisi, in ogni epoca fino alla fine dei secoli, verrà gente nelle cui parole la presenza dell’apostolo Andrea non farà che rinnovarsi, come si rinnova un’icona:

"Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo".

Note

1) Patrologia Greca 59, 120-121.
2) A. Kartas'ov, Oc'erki po istorii Russkoj Cerkvi, Mosca 1993, v. 1, pp. 50-51.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti



Trentunesima parte

Per comprendere meglio esaminiamo ora i seguenti brani del libro degli Atti degli Apostoli.

Atti 1, 13-14
Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui.
Atti 2, 42-47
La prima comunità
Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.


Atti 4, 32-35
La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.

Atti 5,12-16
Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno poteva associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze , ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.

Questo libro è notoriamente il frutto della Comunità che ha riflettuto sulla sua esperienza post-pasquale ed i brani citati ci danno l’identità della Chiesa delle origini dove appare Maria “la prima discepola”.

Questa presenza di Maria, nel libro degli Atti e nei Vangeli deve naturalmente essere meditata ed approfondita alla luce di una sana mariologia evitando luoghi comuni, stereotipi, devozionalismi.

Tutto questo per conservare una sincera fedeltà all’intuizione carismatica del P. Colin.


Charta Oecumenica
Linee guida per la crescita della collaborazione
tra le Chiese in Europa
KEK - CCEE
(Conferenza delle Chiese Europee
Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa)


 



Gloria al Padre, al Figlio, e allo Spirito Santo!

In quanto Conferenza delle Chiese europee (KEK) e Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) siamo fermamente determinati, nello spirito del messaggio scaturito dalle due Assemblee ecumeniche europee di Basilea 1989 e di Graz 1997, a mantenere e a sviluppare ulteriormente la comunione che è cresciuta tra noi. Ringraziamo il nostro Dio Trinità che, mediante lo Spirito Santo, conduce i nostri passi verso una comunione sempre più intensa.

Si sono già affermate svariate forme di collaborazione ecumenica, ma fedeli alla preghiera di Cristo: «Tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, affinché il mondo creda che tu mi hai inviato» (Gv. 17,21), non possiamo ritenerci appagati dell'attuale stato di cose. Coscienti della nostra colpa e pronti alla conversione, dobbiamo impegnarci a superare le divisioni che esistono ancora tra noi, in modo da annunciare insieme, in modo credibile, il messaggio del Vangelo tra i popoli.

Nel comune ascolto della parola di Dio contenuta nella sacra Scrittura e chiamati a confessare la nostra fede comune e parimenti ad agire insieme in conformità alla verità che abbiamo riconosciuto, noi vogliamo rendere testimonianza dell'amore e della speranza per tutti gli esseri umani.

Nel nostro continente europeo, dall'Atlantico agli Urali, da Capo Nord al Mediterraneo, oggi più che mai caratterizzato da un pluralismo culturale, noi vogliamo impegnarci con il Vangelo per la dignità della persona umana, creata a immagine di Dio, e contribuire insieme come Chiese alla riconciliazione dei popoli e delle culture.

In tal senso accogliamo questa Charta come impegno comune al dialogo e alla collaborazione. Essa descrive fondamentali compiti ecumenici e ne fa derivare una serie di linee guida e di impegni. Essa deve promuovere, a tutti i livelli della vita delle Chiese, una cultura ecumenica del dialogo e della collaborazione e creare a tal fine un criterio vincolante. Essa non riveste tuttavia alcun carattere dogmatico-magisteriale o giuridico-ecclesiale. La sua normatività consiste piuttosto nell'auto-obbligazione da parte delle Chiese e delle organizzazioni ecumeniche europee. Queste possono, sulla base di questo testo, formulare nel loro ambito proprie integrazioni e orientamenti comuni che tengano concretamente conto delle proprie specifiche sfide e dei doveri che ne scaturiscono.

I. CREDIAMO «LA CHIESA UNA, SANTA, CATTOLICA E APOSTOLICA»

«Cercate di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,3-6).

1. Chiamati insieme all’unità della fede

In conformità al Vangelo di Gesù Cristo, come ci è testimoniato nella sacra Scrittura ed è formulato nella confessione ecumenica di fede di Nicea-Costantinopoli (381), crediamo al Dio Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Dal momento che, con questo Credo, professiamo la Chiesa «una, santa, cattolica e apostolica», il nostro ineludibile compito ecumenico consiste nel rendere visibile questa unità, che è sempre dono di Dio.

Differenze essenziali sul piano della fede impediscono ancora l'unità visibile. Sussistono concezioni differenti soprattutto a proposito della Chiesa e della sua unità, dei sacramenti e dei ministeri. Non ci è concesso rassegnarci a questa situazione. Gesù Cristo ci ha rivelato sulla croce il suo amore e il segreto della riconciliazione: alla sua sequela vogliamo fare tutto il possibile per superare i problemi e gli ostacoli che ancora dividono le Chiese.

Ci impegniamo:
- a seguire l'esortazione apostolica all'unità dell'epistola agli Efesini (Ef 4,3-6) e a impegnarci con perseveranza a raggiungere una comprensione comune del messaggio salvifico di Cristo contenuto nel Vangelo;

- a operare, nella forza dello Spirito Santo, per l'unità visibile della Chiesa di Gesù Cristo nell'unica fede, che trova la sua espressione nel reciproco riconoscimento del battesimo e nella condivisione eucaristica, nonché nella testimonianza e nel servizio comune.

II. IN CAMMINO VERSO L’UNITA VISIBILE DELLE CHIESE IN EUROPA

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

2. Annunciare insieme il Vangelo

II compito più importante delle Chiese in Europa è quello di annunciare insieme il Vangelo attraverso la parola e l'azione, per la salvezza di tutti gli esseri umani. Di fronte alla multiforme mancanza di riferimenti, all'allontanamento dai valori cristiani, ma anche alla variegata ricerca di senso, le cristiane e i cristiani sono particolarmente sollecitati a testimoniare la propria fede. A tal fine occorrono, al livello locale delle comunità, un accresciuto impegno e uno scambio di esperienze sul piano della catechesi e della pastorale. Al tempo stesso È importante che l'intero popolo di Dio si impegni a diffondere insieme l'Evangelo all'interno dello spazio pubblico della società, e a conferirgli valore e credibilità anche attraverso l'impegno sociale e l'assunzione di responsabilità nel politico.

Ci impegniamo:
- a far conoscere alle altre Chiese le nostre iniziative per l'evangelizzazione e a raggiungere intese in proposito, per evitare in tal modo una dannosa concorrenza e il pericolo di nuove divisioni;

- a riconoscere che ogni essere umano può scegliere, liberamente e secondo coscienza, la propria appartenenza religiosa ed ecclesiale. Nessuno può essere indotto alla conversione attraverso pressioni morali o incentivi materiali. Al tempo stesso, a nessuno può essere impedita una conversione che sia conseguenza di una libera scelta.

3. Andare l'uno incontro all'altro

Nello spirito del Vangelo dobbiamo rielaborare insieme la storia delle Chiese cristiane, che è caratterizzata, oltre che da molte buone esperienze, anche da divisioni, inimicizie e addirittura da scontri bellici. La colpa umana, la mancanza di amore, e la frequente strumentalizzazione della fede e delle Chiese in vista di interessi politici hanno gravemente nuociuto alla credibilità della testimonianza cristiana.

L'ecumenismo, per le cristiane e i cristiani, inizia pertanto con il rinnovamento dei cuori e con la disponibilità alla penitenza ed alla conversione. Constatiamo che la riconciliazione è già cresciuta nell'ambito del movimento ecumenico. E’ importante riconoscere i doni spirituali delle diverse tradizioni cristiane, imparare gli uni dagli altri e accogliere i doni gli uni degli altri. Per un ulteriore sviluppo dell'ecumenismo è particolarmente auspicabile coinvolgere le esperienze e le aspettative dei giovani e promuovere con forza la loro partecipazione e collaborazione.

Ci impegniamo:
- a superare l'autosufficienza e a mettere da parte i pregiudizi, a ricercare rincontro reciproco e a essere gli uni per gli altri;

- a promuovere l'apertura ecumenica e la collaborazione nel campo dell'educazione cristiana, nella formazione teologica iniziale e permanente, come pure nell'ambito della ricerca.

4. Operare insieme

L'ecumenismo si esprime già in molteplici forme di azione comune. Numerose cristiane e cristiani di Chiese differenti vivono e operano insieme, come amici, vicini, sul lavoro e nell'ambito della propria famiglia. In particolare, le coppie interconfessionali devono essere aiutate a vivere l'ecumenismo nel quotidiano.

Raccomandiamo di creare e di sostenere a livello locale, regionale, nazionale e internazionale organismi finalizzati alla cooperazione ecumenica a carattere bilaterale e multilaterale.

A livello europeo è necessario rafforzare la collaborazione tra la Conferenza delle Chiese europee (KEK) ed il Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa (CCEE) e realizzare ulteriori assemblee ecumeniche europee. In caso di conflitti tra Chiese occorre avviare e sostenere sforzi di mediazione e di pace.

Ci impegniamo:
- a operare insieme, a tutti i livelli della vita ecclesiale, laddove ne esistano i presupposti e ciò non sia impedito da motivi di fede o da finalità di maggiore importanza;

- a difendere i diritti delle minoranze e ad aiutare a sgombrare il campo da equivoci e pregiudizi tra le Chiese maggioritarie e minoritarie nei nostri paesi;

5. Pregare insieme

L'ecumenismo vive del fatto che noi ascoltiamo, insieme la parola di Dio e lasciamo che lo Spirito Santo operi in noi e attraverso di noi. In forza della grazia in tal modo ricevuta esistono oggi molteplici sforzi, attraverso preghiere e celebrazioni, tesi ad approfondire la comunione spirituale tra le Chiese, e a pregare per l'unità visibile della Chiesa di Cristo. Un segno particolarmente doloroso della divisione ancora esistente tra molte Chiese cristiane è la mancanza della condivisione eucaristica.

In alcune Chiese esistono riserve rispetto alla preghiera ecumenica in comune. Tuttavia, numerose celebrazioni ecumeniche, canti e preghiere comuni, in particolare il Padre nostro, caratterizzano la nostra spiritualità cristiana.

Ci impegniamo:
- a pregare gli uni per gli altri e per l'unità dei cristiani;

- a imparare a conoscere e ad apprezzare le celebrazioni e le altre forme di vita spirituale delle altre Chiese;

- a muoverci in direzione dell'obbiettivo della condivisione eucaristica.

6. Proseguire i dialoghi

La nostra comune appartenenza fondata in Cristo ha un significato più fondamentale delle nostre differenze in campo teologico ed etico. Esiste una pluralità che h dono e arricchimento, ma esistono anche contrasti sulla dottrina, sulle questioni etiche e sulle norme di diritto ecclesiastico che hanno invece condotto a rotture tra le Chiese; un ruolo decisivo in tal senso è stato spesso giocato anche da specifiche circostanze storielle e da differenti tradizioni culturali.

Al fine di approfondire la comunione ecumenica, occorre assolutamente proseguire negli sforzi tesi al raggiungimento di un consenso di fede. Senza unità nella fede non esiste piena comunione ecclesiale. Non c'è alcuna alternativa al dialogo.

Ci impegniamo:
- a proseguire coscienziosamente e con intensità il dialogo tra le nostre Chiese ai diversi livelli ecclesiali e a verificare quali risultati del dialogo possano e debbano essere dichiarati in forma vincolante dalle autorità ecclesiastiche.

- a ricercare il dialogo sui temi controversi, in particolare su questioni di fede e di etica sulle quali incombe il rischio della divisione, e a dibattere insieme tali problemi alla luce del Vangelo.

III. LA NOSTRA COMUNE RESPONSABILITÀ IN EUROPA

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt. 5,9).

7. Contribuire a plasmare l'Europa

Nel corso dei secoli si è sviluppata un'Europa caratterizzata sul piano religioso e culturale prevalentemente dal cristianesimo. Nel contempo, a causa delle deficienze dei cristiani, si è diffuso molto male in Europa e al di là dei suoi confini. Confessiamo la nostra corresponsabilità in tale colpa e ne chiediamo perdono a Dio e alle persone. La nostra fede ci aiuta a imparare dal passato e a impegnarci affinché la fede cristiana e l'amore del prossimo irraggino speranza per la morale e l'etica, per l'educazione e la cultura, per la politica e l'economia in Europa e nel mondo intero.

Le Chiese promuovono un'unificazione del continente europeo. Non si pur raggiungere l'unità in forma duratura senza valori comuni. Siamo persuasi che l'eredità spirituale del cristianesimo rappresenti una forza ispiratrice arricchente l'Europa. Sul fondamento della nostra fede cristiana ci impegniamo per un'Europa umana e sociale, in cui si facciano valere i diritti umani e i valori basilari della pace, della giustizia, della libertà, della tolleranza, della partecipazione e della solidarietà. Insistiamo sul rispetto per la vita, sul valore del matrimonio e della famiglia, sull'opzione prioritaria per i poveri, sulla disponibilità al perdono e in ogni caso sulla misericordia.

In quanto Chiese e comunità internazionali dobbiamo contrastare il pericolo che l'Europa si sviluppi in un ovest integrato e un est disintegrato. Anche il divario nord-sud deve essere tenuto in conto. Occorre nel contempo evitare ogni forma di eurocentrismo e rafforzare la responsabilità dell'Europa nei confronti dell'intera umanità, in particolare verso i poveri di tutto il mondo.

Ci impegniamo:
- a intenderci tra noi sui contenuti e gli obbiettivi della nostra responsabilità sociale e a sostenere il più possibile insieme le istanze e la concezione delle Chiese di fronte alle istituzioni civili europee;

- a difendere i valori fondamentali contro tutti gli attacchi;

- a resistere a ogni tentativo di strumentalizzare la religione e la Chiesa a fini etnici o nazionalistici.

8. Riconciliare popoli e culture

Noi consideriamo come una ricchezza dell'Europa la molteplicità delle tradizioni regionali, nazionali, culturali e religiose. Di fronte ai numerosi conflitti è compito delle Chiese assumersi congiuntamente il servizio della riconciliazione anche per i popoli e le culture. Sappiamo che la pace tra le Chiese costituisce a tal fine un presupposto altrettanto importante.

I nostri sforzi comuni sono diretti alla valutazione e alla risoluzione dei problemi politici e sociali nello spirito del Vangelo. Dal momento che noi valorizziamo la persona e la dignità di ognuno in quanto immagine di Dio, ci impegniamo per l'assoluta eguaglianza di valore di ogni essere umano.

In quanto Chiese vogliamo promuovere insieme il processo di democratizzazione in Europa. Ci impegniamo per un ordine pacifico, fondato sulla soluzione non violenta dei conflitti. Condanniamo pertanto ogni forma di violenza contro gli esseri umani, soprattutto contro le donne e i bambini.

Riconciliazione significa promuovere la giustizia sociale all'interno di un popolo e tra tutti i popoli e in particolare superare l'abisso che separa il ricco dal povero, come pure la disoccupazione. Vogliamo contribuire insieme affinché venga concessa un'accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa.

Ci impegniamo:
- a contrastare ogni forma di nazionalismo che conduca all'oppressione di altri popoli e di minoranze nazionali e a ricercare una soluzione non violenta dei conflitti;

- a migliorare e a rafforzare la condizione e la parità di diritti delle donne in tutte le sfere della vita e a promuovere la giusta comunione tra donne e uomini in seno alla Chiesa e alla società.

9. Salvaguardare il creato

Credendo all'amore di Dio creatore, riconosciamo con gratitudine il dono del creato, il valore e la bellezza della natura. Guardiamo tuttavia con apprensione al fatto che i beni della terra vengono sfruttati senza tener conto del loro valore intrinseco, senza considerazione per la loro limitatezza e senza riguardo per il bene delle generazioni future.

Vogliamo impegnarci insieme per realizzare condizioni sostenibili di vita per l'intero creato. Consci della nostra responsabilità di fronte a Dio, dobbiamo far valere e sviluppare ulteriormente criteri comuni per determinare ciò che è illecito sul piano etico, anche se è realizzabile sotto il profilo scientifico e tecnologico. In ogni caso, la dignità unica di ogni essere umano deve avere il primato nei confronti di ciò che è tecnicamente realizzabile.

Raccomandiamo l'istituzione da parte delle Chiese europee di una giornata ecumenica di preghiera per la salvaguardia del creato.

Ci impegniamo:
- a sviluppare ulteriormente uno stile di vita nel quale, in contrapposizione al dominio della logica economica e alla costrizione al consumo, accordiamo valore a una qualità di vita responsabile e sostenibile;

- a sostenere le organizzazioni ambientali delle Chiese e le reti ecumeniche che si assumono una responsabilità per la salvaguardia della creazione.

10. Approfondire la comunione con l’ebraismo

Una speciale comunione ci lega al popolo d'Israele, con il quale Dio ha stipulato un'eterna alleanza. Sappiamo nella fede che le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei «sono amati (da Dio), a causa dei Padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,28-29). Essi posseggono «l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne...» ( Rm 9,4-5).

Noi deploriamo e condanniamo tutte le manifestazioni di antisemitismo, i «pogrom», le persecuzioni. Per l'antigiudaismo in ambito cristiano chiediamo a Dio il perdono e alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ebrei il dono della riconciliazione.

È urgente e necessario far prendere coscienza, nell'annuncio e nell'insegnamento, nella dottrina e nella vita delle nostre Chiese, del profondo legame esistente tra la fede cristiana e l'ebraismo, e sostenere la collaborazione tra cristiani ed ebrei.

Ci impegniamo:
- a contrastare tutte le forme di antisemitismo e antigiudaismo nella Chiesa e nella società;

- a cercare e intensificare a tutti i livelli il dialogo con le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei.

11. Curare le relazioni con l’Islam

Da secoli musulmani vivono in Europa. In alcuni paesi essi rappresentano forti minoranze. Per questo motivo ci sono stati e ci sono molti contatti positivi e buoni rapporti di vicinato tra musulmani e cristiani, ma anche, da entrambe le parti, grossolane riserve e pregiudizi, che risalgono a dolorose esperienze vissute nel corso della storia e nel recente passato.

Vogliamo intensificare a tutti i livelli l'incontro tra cristiani e musulmani e il dialogo cristiano-islamico. Raccomandiamo in particolare di riflettere insieme sul tema della fede nel Dio unico e di chiarire la comprensione dei diritti umani.

Ci impegniamo:
- a incontrare i musulmani con un atteggiamento di stima;

- a operare insieme ai musulmani su temi di comune interesse.

12. L’incontro con altre religioni e visioni del mondo

La pluralità di convinzioni religiose, di visioni del mondo e di forme di vita è divenuta un tratto caratterizzante la cultura europea. Si diffondono religioni orientali e nuove comunità religiose, suscitando anche l'interesse di molti cristiani. Ci sono inoltre sempre più uomini e donne che rigettano la fede cristiana, si rapportano ad essa con indifferenza o seguono altre visioni del mondo.

Vogliamo prendere sul serio le questioni critiche che ci vengono rivolte, e sforzarci di instaurare un confronto leale. Occorre in proposito discernere le comunità con le quali si devono ricercare dialoghi e incontri da quelle di fronte alle quali, in un'ottica cristiana, occorre invece cautelarsi.

Ci impegniamo:
- a riconoscere la libertà religiosa e di coscienza delle persone e delle comunità e a fare in modo che esse, individualmente e comunitariamente, in privato e in pubblico, possano praticare la propria religione o visione del mondo, nel rispetto del diritto vigente;

- a essere aperti al dialogo con tutte le persone di buona volontà, a perseguire con esse scopi comuni e a testimoniare loro la fede cristiana.

Gesù Cristo, Signore della Chiesa "una", è la nostra più grande speranza di riconciliazione e di pace.

Nel suo nome vogliamo proseguire in Europa il nostro cammino insieme.

Dio ci assista con il suo Santo Spirito!

«Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13).

In qualità di presidenti della Conferenze delle Chiese Europee (KEK) e del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE) noi raccomandiamo questa Charta Oecumenica quale testo base per tutte le Chiese e conferenze episcopali d'Europa, affinché venga recepita e adeguata allo specifico contesto di ciascuna di esse.

Con questa raccomandazione sottoscriviamo la Charta Oecumenica nel contesto dell'Incontro ecumenico europeo, che si svolge la prima domenica dopo la Pasqua comune dell'anno 2001.

Metropolita JEREMIE,
presidente della
Conferenza delle Chiese Europee
MILOSLAV card. VLK,
presidente del Consiglio delle
Conferenze Episcopali d'Europa
Strasburgo, 22 aprile 2001

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