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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il sacerdozio "laico" di Cristo
e dei cristiani
di Severino Dianich


 



Per gli uomini del suo tempo Gesù era quello che noi diremmo un laico. In realtà con lui è mutata la concezione del sacerdozio, non più legato ai riti, ma all’esistenza, alla vita intesa come oblazione. Questo vale per tutti i credenti in Cristo. Lungo la storia, però, i cristiani laici sono stati privati del loro carattere sacerdotale. Ecco com’è possibile recuperarlo.

A chi non avesse molta confidenza con la lettera agli Ebrei o fosse stato indotto da una tradizione esegetica edulcorata a vedervi preannunciato il carattere sacerdotale dei ministri della Chiesa, vorrei consigliare di mettersi con animo spregiudicato di fronte a questo testo, solo a prima vista un po’ enigmatico: "Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un’altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all’altare. È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio" (Eb 7,12-14).

Una concezione mutata

Basterà un commento elementare per renderci conto di quale rivoluzione abbia operato il Nuovo Testamento sostenendo che Gesù è il grande unico sacerdote del mondo: nel dir questo, tutta la concezione del sacerdozio appare mutata ("Infatti, mutato il sacerdozio...") e di conseguenza c’è anche "un mutamento della legge" che governa il popolo di Dio. Era necessario, diceva il versetto precedente, "che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece alla maniera di Aronne". Gesù infatti è un sacerdote di tipo completamente nuovo, tanto che non viene dalla tribù sacerdotale di Aronne, ma discende dalla tribù di Giuda: egli infatti non si è mai rivestito dei paludamenti sacri, non è mai entrato nel santuario, mai ha compiuto i riti sacerdotali della legge.

Dal punto di vista socio-religioso e giuridico, in termini contemporanei potremmo dire: Gesù era un laico. Per l’autore della nostra lettera quest’idea era tanto importante che, lungo tutta la sua scrittura, egli neppure nomina l’unico gesto rituale di Gesù che si sarebbe potuto interpretare come un gesto sacerdotale: cioè il rito del pane e del vino della sua ultima cena. Egli ci vuol trasmettere l’impressione forte che l’antico ruolo sacerdotale della mediazione è tutto concentrato in Cristo e che il sacerdozio di Cristo è tutt’altra cosa rispetto al sacerdozio levitico.

Se nella tradizione cattolica il radicalismo della lettera agli Ebrei è stato attutito e la sua dottrina è stata filtrata dal quadro del sacerdozio gerarchico, ciò è accaduto perché i Riformatori avevano assunto il tema del sacerdozio dei fedeli come loro cavallo di battaglia e ne avevano impugnato l’imponenza per ridimensionare, quando non per demolire, il sacerdozio dei preti e dei vescovi.

Oggi però sentiamo il bisogno di valorizzare il carattere e le funzioni sacerdotali del popolo di Dio e di quella parte dei cristiani che ne costituisce la stragrande maggioranza, cioè i cristiani laici.

Il Nuovo Testamento

A questo proposito il Nuovo Testamento spazza via il falso problema che invece tante volte domina le nostre discussioni: non si tratta di attribuire ai laici un ruolo maggiore nella liturgia e nella vita interna della comunità. Si tratta, invece, di prendere sul serio il fatto che la concezione fondamentale del sacerdozio è mutata e che il primo campo del suo esercizio non è la liturgia: l’opera salvifica di Cristo non è consistita nell’invenzione di nuovi riti, bensì nella sua vita vissuta come oblazione totale al Padre al servizio degli uomini, dal suo concepimento nel grembo della Vergine alla sua sepoltura nel seno della terra. Con la sua risurrezione e con il suo ingresso nel "santuario celeste", egli ha portato la sua esperienza di dedizione, vissuta nella sua carne umana, in seno alla divinità. Il suo sacerdozio esistenziale, vissuto nei fatti della vita comune, è ora consegnato ai credenti per il solo fatto di essere credenti e quindi viventi in Cristo: questo è il sacerdozio cristiano fondamentale sia dei preti che dei laici.

Per comprenderne più a fondo la novità, oltre alla meditazione della lettera agli Ebrei, è necessario mettersi di fronte al celebre testo del vangelo di Giovanni (cap. 2), in cui Gesù, dopo aver contestato violentemente il mercato nel tempio, porta il suo discorso ben oltre il problema, un po’ scontato, della commistione fra denaro e preghiera. Interrogato sulla ragione che egli avrebbe potuto accampare per prendersi il diritto di protestare nel tempio, Gesù risponde lanciando una sfida: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2,19). Era come dire che il tempio poteva anche essere distrutto per sempre; la sfida riguardava due realtà: il tempio di pietre che di fatto, dopo due decenni, sarebbe stato distrutto davvero, e quello della sua vita, di lui stesso, che poteva essere tolto di mezzo e ucciso. Dalle rovine di questi due "templi" egli avrebbe fatto sorgere, nuovo, il vero tempio eterno, il suo corpo risuscitato. L’evangelista chiarisce esplicitamente il suo pensiero: "Gli dissero allora i Giudei: "Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?". Ma egli parlava del tempio del suo corpo" (Gv 2,20-21).

All’immagine del tempio farà eco san Pietro: i cristiani sono come pietre poggiate su Gesù a formare il tempio "spirituale", cioè abitato dallo Spirito, nel quale si offrono a Dio vittime "spirituali", cioè azioni animate dallo Spirito (1Pt 2,4-10). All’immagine del corpo si riferirà san Paolo, esortando i cristiani a offrire i loro corpi a Dio, poiché questo solo è il culto ragionevole (logikè latreia, Rm 12,1). Se ne deduce che, come il corpo di Cristo, così i corpi dei cristiani sono il luogo della mediazione sacerdotale fra l’uomo e Dio. Dire "il corpo" significa indicare tutto ciò che l’uomo fa con il suo corpo (camminare, lavorare, parlare, relazionarsi con gli altri, amare, generare, costruire, ecc.) e anche, alla fine, morire. Ebbene, tutto questo nell’esistenza credente, vivente in Cristo, è opera sacerdotale, vera mediazione fra il mondo e Dio: è il sacerdozio laico di Cristo e dei cristiani.

Una concezione riduttiva

Paradossalmente lungo la storia i cristiani laici, almeno di fatto se non nella dottrina, sono stati spossessati del loro carattere sacerdotale e i ministri ordinati se ne sono fatti carico in maniera esclusiva, sacralizzandolo e ritualizzandolo. Si è parlato allora di sacerdozio dei fedeli in un senso spiritualistico, quasi che preti e vescovi fossero sacerdoti davvero, mentre il sacerdozio dei fedeli laici ne rappresenterebbe un riverbero presente nelle loro intenzioni più che nelle loro azioni. Di questa concezione riduttiva il concilio Vaticano II ha fatto giustizia, anche se LG, per una certa sua timidezza al proposito, accentua l’esercizio del sacerdozio da parte dei fedeli nelle celebrazioni sacramentali rispetto alle azioni della vita comune (LG 10s; 34). Pur preferendo la categoria di "apostolato", AA invece sottolinea con forza il carattere sacerdotale dell’impegno dei laici nel mondo: essi "sono deputati dal Signore stesso all’apostolato. Vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e testimoniare dappertutto il Cristo" (AA 3).

Il sacerdozio dei laici sarà, quindi, un sacerdozio a tutto campo. In maggioranza sposati, vengono consacrati alla vita coniugale e familiare con il sacramento del matrimonio. A differenza dei chierici e dei religiosi esercitano un mestiere o una professione che li inserisce nella vita sociale. Come cittadini assumono le loro responsabilità sociali e politiche dentro la società civile. Come membri del popolo di Dio hanno il carisma (derivato dal battesimo) e hanno il diritto e il dovere (sancito anche dal Codice di Diritto Canonico) di evangelizzare, comunicando la fede alle persone con le quali entrano in contatto: sono quindi il soggetto ecclesiale di base, attraverso il quale la Chiesa compie la sua missione nel mondo. La loro vita, vissuta nella fede alla sequela di Cristo, nella dedizione ai fratelli per amore di Dio e degli uomini, è il primo ed elementare servizio che la chiesa rende agli uomini per la gloria di Dio in vista del suo Regno (vedi AA 4).

Alcune conseguenze

Se il grande tema del sacerdozio comune è diventato lungo la storia un aggrovigliato problema, lo si deve al fatto che, quando si è ritenuto che ormai tutto il mondo (che poi era solo la parte di mondo che in questo o quel tempo era conosciuta) fosse diventato cristiano, è sembrato che la Chiesa non avesse più di fronte a sé un destinatario della sua azione. Si è quindi trasferita la dinamica della mediazione all’interno del corpo cristiano, sostituendo all’idea del popolo cristiano come mediatore fra Dio e il mondo la figura del clero come mediatore fra Dio e il popolo cristiano.

A questo si è aggiunto un processo di ritualizzazione del ministero cristiano, per il quale i sacramenti delle celebrazioni rituali hanno preso la prevalenza sul sacramento dell’esistenza, declassando le opere del cristiano (che pur sono segno e strumento della grazia di Dio) ad attività profana, da svolgere in obbedienza ai comandamenti, ma priva di valore salvifico per il mondo.

La soluzione, perciò, del problema del laicato non va cercata nell’attribuire ai laici nuove e ulteriori funzioni all’interno della comunità, bensì in una maturazione dell’autocoscienza ecclesiale, per cui la Chiesa senta e viva come suo tutto ciò che i laici operano nel mondo, tanto quanto sente e vive come suo ciò che fanno i ministri ordinati: questo è, infatti, il primo e fondamentale esercizio del suo sacerdozio.

A livello teorico bisogna superare l’idea che l’azione dei laici nel mondo non è azione della Chiesa: essa non ne resterebbe determinata né in alcun modo ne sarebbe responsabile. A livello pratico si tratta di far rifluire all’interno della comunità quanto i laici operano nel mondo: la vita di una comunità parrocchiale ha bisogno di lasciarsi determinare a fondo dalle esigenze della missione vissuta dai laici nel mondo.

Se i consigli pastorali fossero rappresentativi non solo delle attività interne alla comunità, ma anche delle professioni e delle posizioni tenute dai laici nel mondo, la Chiesa sarebbe molto più capace di integrarsi nella società e di servirla in ordine alla comunicazione della fede e cooperando al bene comune.

Lo stesso esercizio del magistero potrebbe e dovrebbe lasciarsi determinare, per esempio in materia di morale coniugale e in ordine alle responsabilità politiche della Chiesa, dall’esperienza di fede di coloro che, in forza dei sacramenti del matrimonio e del battesimo, sono dotati in questi ambiti di loro specifici carismi.

(in Vita Pastorale, dicembre 2003)

Martedì, 07 Giugno 2005 22:16

Giustino (Lorenzo Dattrino)

Giustino
di Lorenzo Dattrino






Nacque a Flavia Neapolis (oggi Nablus, in Giordania). Lasciata ancor giovane la Palestina, si trasferì ad Efeso. Era assetato della verità e tale aspirazione lo condusse a prendere contatto con le più celebri scuole dell’epoca: quella stoica, peripatetica, pitagorica, neoplatonica.

Nel platonismo credette di trovare la via giusta. Fu allora che si convertì al cristianesimo, all’epoca di Adriano, forse a Efeso. A Roma, dove si recò ben due volte, riuscì a radunare attorno a sé un certo numero di discepoli. Denunciato come cristiano (tra il 163 e il 167), fu messo a morte assieme ad alcuni suoi discepoli. Gli Atti del suo martirio sono considerati autentici.

Risulta di fondamentale importanza l’attività culturale di Giustino: in lui si deve vedere il primo dei Padri che tenta una conciliazione tra filosofia antica (greca e pagana) e cristianesimo. Egli vide nei grandi pensatori dei tempi precedenti degli iniziatori di quella filosofia che solo nel cristianesimo avrebbe raggiunto la sua piena perfezione. Nella Sacra Scrittura c’è la pienezza della Verità, nei filosofi i semina Verbi (frammenti di verità). Dunque, anche la filosofia è dono di Dio e può essere collaborazione con la Parola di Dio per una fede pensata. 

Giustino ci ha lasciato tre opere :
1. Dialogo con Trifone.  Il cristianesimo entra in dialogo con l’ebraismo anche questo è refrattario e ostile.

2. Due Apologie per difendere la presenza cristiana in un contesto pagano e per gettare un ponte verso la cultura pagana e le istituzioni dell’impero.  
Giustino indirizza le due apologie all’imperatore Antonino Pio perché gli intellettuali e i responsabili dell’amministrazione statale possano conoscere la vera realtà del cristianesimo.  Siamo debitori di Giustino se possiamo conoscere la prassi ecclesiale relativa al battesimo, alla celebrazione e partecipazione all’Eucarestia nella liturgia domenicale.

Ecco un passo: "Tutti quanti insieme ci riuniamo nel giorno del sole [la domenica], poiché è il primo giorno, nel quale Dio creò il mondo, avendo trasformato la tenebra e la materia, e Gesù Cristo, nostro Salvatore, risuscitò nello stesso giorno dai morti: infatti  lo crocifissero prima del giorno di Saturno [il venerdì] e il giorno dopo quello di Saturno, cioè il giorno del sole, apparso ai suoi discepoli e ai suoi apostoli insegnò queste cose che ora mandiamo a voi [imperatore e intellettuali pagani] per un esame" (Apologia I , 67).

Martedì, 07 Giugno 2005 22:00

Taziano (Lorenzo Dattrino)

Taziano
di Lorenzo Dattrino





Nato verso il 120 da famiglia pagana, ebbe un’educazione greca e fu sofista. Poi venne a Roma e qui si convertì al cristianesimo, ma assunse atteggiamenti intransigenti e di chiusura nei confronti della cultura ellenistica. Così dice di se stesso. “Io, Taziano, filosofo secondo la filosofia dei barbari, nato in terra assira, istruito prima nelle vostre dottrine, poi in quella che ora faccio professione di predicare” (Discorso ai Greci, XLII ). Si noti la contrapposizione: barbaro (cioè cristiano) e greco (cioè pagano) .

Il Discorso è un’opera in difesa del cristianesimo e un violento attacco alla cultura greca. Taziano esordisce tacciando i greci (pagani) di aver rubato ai barbari (giudei e cristiani): nessun’arte, nessuna disciplina sarebbe stata inventata dai "greci"! La sola filosofia è loro vanto, ma è ben minima cosa, come dimostrano le assurdità dei filosofi (cc. 1-3). Ben diverso è l’atteggiamento pratico e teorico dei cristiani: essi credono in un solo Dio e non ammettono l’idolatria (c. 4). Unità e solitudine di Dio non contrastano con l’esistenza di un altro principio, il Logos, il Verbo che era ab aeterno presso il Padre. Il Logos diede origine alla creazione (c. 5). Resurrezione dei corpi (c. 6), angelologia, demonologia (c. 7), caduta dell’uomo e azione dei demoni (cc. 8-11), psicologia e pneumatologia (cc. 12-13), rigenerazione dell’uomo, ma senza alcuna allusione concreta all’Incarnazione del Verbo (cc. 13-19).

Tutta questa dottrina è continuamente e ampiamente frammista a una polemica minuta contro la mitologia. In seguito, dopo un cenno (c. 21) alla credenza in un "Dio apparso in forma d’uomo", in cui i cristiani, il cui nome peraltro non è mai pronunciato, credono, inizia la polemica contro gli aspetti morali e pratici del paganesimo: le assemblee, le feste, gli spettacoli (c. 22) , i ludi gladiatori (c. 23), le rappresentazioni tragiche (c. 24), la vita dei filosofi (c. 25), la varietà di linguaggi e le preziosità dei grammati (cc. 26-27), le diverse legislazioni (c. 28).

 L’argomento cronologico abbraccia tutta l’ultima parte del Discorso (cc. 29-42), e pretende di dimostrare la priorità della legislazione giudeo-cristiana rispetto alla legislazione, alla storia, alla letteratura, alla sapienza greca.

Taziano conclude (c. 42) con un’affermazione di certezza nella bontà della causa da lui sostenuta, e si dice pronto, con l’aiuto di Dio, a sostenere  l’esame degli avversari.
Martedì, 07 Giugno 2005 02:15

Jinn (Maria Domenica Ferrari)

JINN
di Maria Domenica Ferrari

I musulmani credono di dividere il mondo con i jinn, esseri fatti di fuoco o vapore, non percepiti dai sensi e che possono assumere l'aspetto degli umani o degli animali.

I lessicografi arabi fanno derivare il nome dalla radice j n n che indica qualcosa di oscuro, nascosto, dissimulato, gli arabisti occidentali invece considerano etimologicamente molto difficile questa spiegazione, e non escludono una derivazione dal latino genius.

I jinn sono stati creati del fuoco, come gli angeli (1), ma vi sono anche quelli fatti di creta e di luce. Il legame con Iblîs il Šaytân è oscuro, poiché Iblîs viene definito un jinn, ma secondo il Corano Iblîs è un angelo (2)
.

Nell'Arabia preislamica i jinn erano l'espressione delle forze oscure della natura ostili all'uomo.

All'epoca di Muhammad si erano evoluti in dei impersonali e per gli Arabi di Mecca esisteva una parentela tra essi e Allah.

Per l'Islam ufficiale l’esistenza dei jinn è un fatto certo e indiscutibile che permane ai nostri giorni, i giuristi hanno stabilito il loro status legale nelle relazioni con l'umanità, in particolare in caso di matrimonio e proprietà. I filosofi invece hanno affrontato l'argomento in modo più ambiguo come al-Fârâbî o ne hanno negano l'esistenza come Ibn Sînâ ( Avicenna).

Nella lingua parlata non vengono chiamati con il loro nome, ma vi si allude come agli “altri”, ai “venti”. Il mondo degli esseri umani e dei jinn non è sentito separato, ma condiviso a livelli diversi. Questo mondo dell'invisibile è popolato anche da angeli (malâ’ika), orchi (ghwal), ‘ifrît (3), mârid (4) e šaytân.

Ai nostri giorni gran parte dei testi di letteratura popolare sono quelli che trattano i modi per proteggersi dai jinn. In Egitto una credenza diffusa è quella che se un uomo muore di morte violenta si trasforma in ‘ifrît, oppure l'uomo che muore in condizione di grave peccato viene trasformato in un jinn.

In Marocco i jinn sono divisi in quattro categorie:

quelli della terra, ritenuti i più numerosi e pericolosi, sono considerati i veri padroni delle terre;
quelli acquatici, sono i padroni dei pozzi, delle fonti;
quelli del fuoco;
quelli dell'aria.

Un personaggio popolarissimo in Marocco è ‘Â’iša Qandîša, talvolta ritenuta una afrîta altre una ghûla, viene descritta come una donna bellissima e nello stesso tempo terrificante, che nasconde sotto i vestiti i piedi da cammello, o capra, o mulo. Almeno una persona in una famiglia marocchina l'ha incontrata. A lei vengono imputate tutte le problematiche che possono manifestarsi all'interno di una coppia: disaccordi, impotenza, sterilità, malattie. A causa di ciò Westermarck l'ha collegata al culto di Astarte, dea fenicia della guerra e dell'amore.

Al jinn vengono ricondotte le malattie che agiscono sul corpo, sullo spirito e sul comportamento, mentre nel caso di invidia, gelosia si pensa alla magia.

I jinn che hanno un nome sono dotati anche di una particolare caratterizzazione per esempio:

domenica è il giorno di Mûdhib che causa ingiallimento,

lunedì è il giorno di Lâlla Mira che provoca tremori, malattie mentali,

martedì è il giorno di Al-Ahmar legato al colore rosso del sangue e delle piante come il melograno.

Sulla base di queste indicazioni il faqîh, può determinare quale tipo di jinn è la causa del malessere e approntare le contromisure.



Note


(1) LV, 14 “ Creò l’uomo da fango seccato come argilla per vasi- e i jinn creò di fiamma purissima di fuoco.”
(2) II, 32 - E quando dicemmo agli Angeli: “Prostratevi davanti ad Adamo!”, tutti si prostrarono salvo Iblîs , che rifiutò superbo e fu dei Negatori.-
(3) Epiteto che designa esseri caratterizzati da furbizia e insubordinazione, non sono jinn,non sono demoni, anche se presentano caratteristiche che li accomunano. Sono fatti di fumo, e come i jinn possono essere sia maschili che femminili.
(4) Parola che significa ribelle, rivoluzionario, per l'inconscio musulmano ha sempre un carattere negativo e rimanda alla ribellione per eccellenza quella dei jinn e dei demoni contro Dio.


Domenica, 05 Giugno 2005 17:12

Verso la terza assemblea ecumenica

Chiese Europee
Verso la terza assemblea ecumenica


Si va precisando il profilo che contraddistinguerà la III Assemblea ecumenica europea, cioè il terzo incontro delle Chiese cristiane europee dopo quelli svoltisi a Basilea nel 1989 (Giustizia, pace, salvaguardia del creato) e a Graz nel 1997 (Riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova). L’evento è promosso dalla CCEE (Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa - cattolico) dalla KEK (Conferenza delle Chiese europee - riunisce le Chiese anglicane, protestanti e ortodosse).

Dal 3 al 6 febbraio 2005 si è tenuto in Francia, a Chartres, l’incontro del Comitato congiunto KEK-CCEE, che ha individuato il tema dell’assemblea, (La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e unità in Europa), e le tappe preparatorie.

L’assemblea avrà luogo a Sibiu, in Romania, dal 4 all’8 settembre 2007. La scelta risponde a diverse esigenze. Innanzitutto si trattava di dare visibilità al contesto ortodosso, dopo che le due assemblee precedenti si erano svolte in luoghi in cui la predominante era protestante (Basilea) e cattolica (Graz). La Romania, inoltre, ha in corso un processo che mira all’ingresso nell’Unione Europea proprio nel 2007; la III Assemblea ecumenica europea sarà la prima a fare riferimento all’Europa a 25 stati, con due d’imminente ingresso (Romania e Bulgaria).

Si tratterà di un’assemblea a tappe. Sarà preceduta da un processo, a livello nazionale e regionale, «per sviluppare il comune impegno ecumenico delle Chiese in Europa» (Comunicato finale dell’incontro, 7.2.2005). Le tappe previste sono:
1) un incontro europeo dei delegati delle Chiese, delle conferenze episcopali e degli organismi e movimenti ecumenici (Roma, 24-26.1.2006, a conclusione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani);

2) una serie d’incontri a livello regionale e nazionale nel corso del 2006;

3) un secondo incontro europeo all’inizio del 2007 a Wittenberg, la città di Lutero;

4) la tappa finale a Sibiu, con la partecipazione di 3.000 delegati.

Nelle intenzioni del Comitato congiunto «il processo assembleare costituisce (…) una sorta di “pellegrinaggio” per incontrare le diverse tradizioni cristiane d’Europa, per ascoltare insieme la parola di Cristo, per rispondere alla domanda di spiritualità, alla ricerca di senso e alle attese dell’uomo e della donna di oggi, specialmente delle giovani generazioni».

Il contenuto dell’assemblea sarà costituito dalla ripresa della Charta oecumenica, il documento firmato insieme da KEK e CCEE nel 2001, che dava le «linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa».

Le Chiese dell'oriente cristiano
VI. Chiesa Ortodossa Siro-malankarese
di Mervyn Duffy




Nella metà del diciassettesimo secolo la maggior parte dei cristiani, detti di S.Tommaso, in India dovette molto soffrire per i tentativi dei portoghesi di latinizzare la loro Chiesa. Questo portò migliaia di fedeli a radunarsi il 16 gennaio 1653  presso la  Coonan Crossa  a  Mattancherry  per giurare di non sottomettersi più all'autorità di Roma. La guida dei dissidenti pensò di ristabilire un rapporto di comunione con la Chiesa Assira dell’Est,  ma questo per una serie di casi non fu realizzato. Allora  nel 1665 il Patriarca Siro acconsentì ad inviare un vescovo per guidare quella comunità a condizione che essa accettasse la cristologia siriaca ed a seguire il rito siro. Questo gruppo  fu così costituito  come chiesa autonoma all'interno del Patriarcato siriano.

Tuttavia, in 1912 si creò una spaccatura in questa Chiesa quando una parte significativa di essa si proclamò Chiesa autocefala e decise la costituzione del Catholicosato Antico dell’Est  in India. Ciò non fu accettato da coloro che erano rimasti fedeli al Patriarca siro.



Le due parti furono alla fine riconciliate nel 1958, anno in cui la Corte Suprema dell’India decretò che soltanto il Catholicos ed in vescovi  dell’autocefalia in comunione  con lui avrebbero  goduto dello stato legale e riconosciuto. Ma nel 1975 il patriarca siro scomunicò e depose il Catholicos e nominò un rivale, una decisione che provocò un’ulteriore spaccatura nella comunità. Nel giugno 1996 la Corte Suprema dell'India prese una decisione secondo la quale:
(a)  Si riconosce valida la costituzione della chiesa che era stata adottata nel 1934 e  si rende noto che essa obbliga ambedue  le fazioni;

(b) si dichiara che esiste una sola Chiesa  siro-ortodossa  in India, attualmente divisa in due fazioni;
(c) si riconosce il Patriarca siro-ortodosso di Antochia come Capo spirituale della  chiesa siriaca universale, quindi anche della parte non costituita in autocefalia, mentre si  afferma che il Catholicos autocefalo  gode di un statuto legale come capo di quella Chiesa  in India  ed  è  il custode delle relative parrocchie e proprietà.



Le dimensioni precise  di queste due Comunità  sono estremamente difficili  da determinare e  la disputa tra le due parti crea sempre un’atmosfera  piuttosto calda. Molti osservatori esterni credono che metà di questa chiesa ortodossa in India, che complessivamente conta circa 2.000.000,  faccia  parte di questa chiesa autocefala, mentre l'altra metà  faccia  parte della chiesa sotto il controllo del Patriarca siro ortodosso.

Dalla comunità siro-ortodossa del  Malankar sono nate nel Kerala altre due chiese. In primo luogo, in parte a causa dell’attività missionaria anglicana, un movimento di riforma si è sviluppato in questa chiesa nel diciannovesimo secolo e coloro che vi hanno aderito hanno formato la Chiesa Siriaca di Mar Thomas nel Malabar, che in gran parte conserva  le pratiche ed i riti liturgici originari. Questa chiesa, che può contare su una valida successione apostolica derivante dalla Chiesa siro-ortodossa tende ad accettare la teologia riformata ed è in comunione con le province anglicane dal 1974. Essa ora ha circa 700.000 membri.



Verso la fine del diciottesimo secolo, un prelato siriaco a Gerusalemme ordinò un monaco locale come vescovo, ma questi non fu accettato dal metropolita del Malankar. Questo vesco allora fuggì al nord e stabilì un gruppo di seguaci  nel villaggio  di Thozhiyoor. Più o meno 10.000 fedeli compongono oggi questa chiesa, che è denominata Chiesa Siriana Indipendente del Malabar di Thozhiyor. Mentre conserva la fondamentale eredità orientale, questo gruppo ha collegamenti con la chiesa di S. Tommaso  ed anche, molto profondi con la Comunione Anglicana.

La chiesa  siro-ortodossa del Malabar  ha  un seminario teologico  a Kottayam,  che fu fondato agli inizi  del diciannovesimo secolo e che attualmente  ha circa 140 allievi.  Ulteriori sviluppi formativi sono stati programmati e realizzati,  compreso il centro “Sophia" per la preparazione teologica di uomini e di donne ed anche una  una scuola di musica liturgica che è affiliata all'università “Mahatma Gandhi“. La chiesa inoltre cura  un certo numero di università,  scuole,  ospedali, orfanatrofi.

Questa chiesa  ha  anche una modesta  tradizione monastica. Ci sono quattro Comunità  di  uomini che seguono una regola monastica ed undici  di preti celibi e laici, ma senza una struttura monastica ben definita. Vi  sono inoltre dieci conventi in cui le suore  vivono una vita di servizio e di preghiera.

Esiste un metropolita per gli USA,Canada ed Europa che ha giurisdizione su 56 parrocchie e 56 preti. Risiede a Buffalo nello Stato di New York.
Vi sono inoltre una parrocchia siro-ortodossa  in Inghilterra ed una in Australia.




TERRITORIO: L'India e la  piccolo diaspora

GUIDA: Baselius Mar Thoma Matthews II (nato nel 1915,  eletto nel 1991)

TITOLO: Catholicos dell'est; Catholicos del  Trono Apostolico di S. Tommaso e metropolita  del  Malankar

RESIDENZA: Kottayam, Stato del Kerala, India

INSIEME DEI MEMBRI: 1.000.000

Le Chiese dell'oriente cristiano
V. Chiesa Siro-ortodossa  di Antiochia
di Mervyn Duffy




La chiesa  siriaca  ha le sue origini  nell’antica comunità cristiana di Antochia, che è ricordata negli Atti degli Apostoli.  La chiesa di Antiochia divenne presto uno dei maggiori centri  della Cristianità dei primi secoli. Ma il Concilio di Calcedonia nel 451  provocò una spaccatura  in questa comunità. Gli insegnamenti del concilio  furono fatti rispettare dalla autorità imperiali bizantine, ma questo avvenne nelle città mentre invece nelle campagne essi furono ampiamente rifiutati.

Nel sesto secolo, il  vescovo di Edessa, Jacob Baradai, ordinò molti preti e vescovi per sostenere la fede di coloro che avevano rifiutato Calcedonia  trovandosi così costretti a fronteggiare l’imposizione imperiale.  Di conseguenza, questa chiesa fu chiamata Giacobita, con una propria  liturgia chiamata Antiochena o Siro-antiochena e con altre tradizioni proprie e con l’uso della lingua siriaca parlata dalla gente comune.  Alcune Comunità  si stabilirono in Persia, perciò fuori dell’Impero bizantino.

La conquista del territorio da parte dei persiani e  successivamente  degli  Arabi  pose fine alla persecuzione bizantina e creò le circostanze favorevoli  per un ulteriore sviluppo della chiesa siriaca. Ci fu una grande rinascita degli studi teologici siriaci nel Medio Evo, quando questa comunità cristiana ebbe delle fiorenti scuole di teologia, filosofia, storia e scienze.  In quell’epoca la Chiesa siriaca giunse ad avere 20 sedi metropolitane e 103 diocesi  in un territorio che si estendeva fino all’est dell’Afghanistan.  Vi sono inoltre prove dell’esistenza di comunità ortodosse siriache, senza vescovi, presenti in territori molto lontani come il Turkestan ed il Sinkiang. Ma le invasioni dei mongoli, guidati da Tamerlano verso la fine del quattordicesimo secolo, fecero sì  che la maggior parte delle chiese e dei monasteri siriaci fossero distrutti.  Questo contrassegnò l’inizio di un lungo declino, inoltre la chiesa siriaca ebbe a soffrire altre terribili perdite durante e dopo la prima guerra mondiale a causa delle persecuzioni e dei massacri nella Turchia orientale. Tutto ciò fu causa  di  una dispersione diffusa della Comunità.



Anche  oggi la popolazione ortodossa  siriaca si sta spostando. Negli anni 50 e negli anni 60 molti  sono emigrati  dall'Iraq e dalla Siria nel Libano. In Iraq ci sono spostamenti di siro-ortodossi dalla città nordica di Mossul verso Bagdad. L'erosione più seria della comunità ha  avuto luogo nella Turchia sud-orientale, in cui rimane soltanto qualche siro-ortodosso. All’inizio di questo secolo molti siro-ortodossi sono emigrati in Europa occidentale e nelle Americhe, sempre per motivi politici ed economici.

La Chiesa siro-ortodossa ha una forte tradizione monastica, esistono tuttora alcuni monasteri nella provincia di Mardin in Turchia  ed in altre parti del Medio Oriente. Ci sono inoltre tre monasteri nella  diaspora, situati nei Paesi Bassi, in Germania ed in Svizzera.

I  Patriarchi siriaci hanno avuto la loro sede  in Antiochia fino al 1034. Da allora questa è cambiata più volte volta: nel monastero di Mar Barsauma (1034-1293), di  Der ez-Za'faran (1293-1924), ad Homs, in Siria (1924-1959) ed infine a Damasco (dal 1959).



Una certa formazione teologica ancora è fornita dai monasteri. Ma  il seminario ortodosso di  S. Ephrem Siro è l'istituto teologico principale del Patriarcato. È stato fondato in Zahle, nel Libano, ma  poi è stato spostato a Mossul in Iraq,  nel 1939.  E’ stato nuovamente trasferito a Zahle negli anni '60  per essere poi spostato ad  Atchaneh, vicino a Beirut, in 1968. Lo scoppio di guerra civile nel Libano ha causato il trasferimento forzato forzato  degli allievi a Damasco in  Siria. Di qui il Seminario è stato collocato a Sayedniya, vicino  Damasco ed inaugurato dal Patriarca  Siro-ortodosso  il 14 settembre 1996.

Dalla metà del secolo diciassettesimo il Patriarcato Siro ha inglobato una chiesa autonoma dell’India, una parte della quale è ora chiamata Chiesa Siro-ortodossa Malankarese, a capo di questa chiesa vi è il Catholicos  Mar Baselious Thomas I (nato nel 1929, eletto nel 2002). Un Vicariato patriarcale siro-ortodosso è stato costituito per gli USA ed il Canada nel 1949, trasformato in arcidiocesi  nel 1957 con a capo l’arcivescovo  Mar Athanasius Yeshue Samuel. Dopo la morte dell’arcivescovo  nel mese di aprile del 1995, il Santo Sinodo Siriaco ha diviso l’Arcidiocesi  in tre giurisdizioni. Il Vicariato patriarcale per gli Stati Uniti orientali con a capo  Mor Cyril Aphrem Karim (nato nel 1965, eletto nel 1995), che ha  18 parrocchie. Il Vicariato patriarcale   per gli Stati Uniti occidentali che ha cinque parrocchie ed  è sotto la cura pastorale di Mor Clemis Eugene Kaplan (nato nel 1955, eletto nel 1995). Il  Vicariato patriarcale per il Canada che ha cinque parrocchie, ed è guidato da Mor Timotheos Efhrem Aboodi  (nato nel 1930 ed eletto nel 1995). 



Nel 1993 il Santo Sinodo Siriaco ha separato le parrocchie  dei  fedele indiani dell’ America del Nord dall’arcidiocesi  siriaca  ed ha  creato l’arcidiocesi  Siro-ortodossa Malankarese  dell’America del Nord che è sotto la guida pastorale del Metropolita Mar Nicolovos Zachariah,  ed ha 28 parrocchie servite da 32 preti.  Nel settembre 2003 il patriarca Siro-antiocheno ha  ordinato  Mar  Malatius Malke Lahdo Malke come il primo Vescovo del Vicariato patriarcale dell'Australia e della Nuova Zelanda, egli ha la residenza presso la cattedrale di  S. Ephraim a Sydney. Vi sono sette parrocchie in Australia ed una in Nuova Zelanda. La chiesa siro-ortodossa  è rappresentata in Gran-Bretagna da Fr. Touma Hazim Dakkama  e la chiesa  del  Malankar da Fr. Eldhose Koungampillil.





TERRITORIO:
La Siria, Libano, Turchia, Israele, India, diaspora

GUIDA: Patriarca Ignatius Zakka I° Iwas (nato nel 1933,  eletto nel 1980)

TITOLO
: Patriarca ortodosso Siro di Antiochia e di tutto l'est

RESIDENZA: Damasco, Siria

INSIEME DEI MEMBRI: 500.000, più 1.000.000 in India


E’ frequente, nei vangeli, l'annotazione che dei malati "vengono portati" a Gesù. Se essi hanno una certa autonomia di movimento, se riescono a camminare dovendo tutt'al più essere sostenuti, essi sono semplicemente «accompagnati», «condotti», «guidati» fino a Gesù.

Ascolto e comunicazione
tra le generazioni
di Giovanni Dalpiaz


 




Il monachesimo italiano sta attraversando un passaggio molto difficile: le nuove vocazioni, presenti anche se in numero piuttosto basso, sono insufficienti ad assicurare il ricambio generazionale e ciò, tra le altre conseguenze, indebolirà ancor più la già esigua presenza territoriale. La crisi è in parte occultata dal prolungamento dell’età di vita. Di conseguenza i nostri monasteri hanno sì ancora monaci, ma sempre più anziani.

La distanza generazionale concorre ad accrescere le differenze nei codici comunicativi, come è frequente osservare in quella fase molto particolare della vita comunitaria che è l'accoglienza e l'inserimento di una nuova persona. È in tale passaggio che tutti gli «attori» della relazione sono costretti ad esplicitare i rispettivi «codici», le motivazioni, le aspettative sottese alla comunicazione, sperimentando le possibilità di un dialogo o constatando un'afasia reIazionale, quando ci si parla senza però comprendersi, poiché i linguaggi sono ormai irrimediabilmente distanti. Ne è tipico esempio la domanda che penso ciascuno di noi si sia sentito rivolgere neI visitare i monasteri femminili: «Ci sarebbe qualche brava giovane da indirizzare qui? Verso quali ambienti, gruppi, movimenti, ecc... ci si potrebbe orientare per riuscire ad incontrare giovani interessate alla nostra proposta di vita?». Ma la brava giovane che ha in testa la nostra interlocutrice non corrisponde, se non molto vagamente, alla brava giovane che ci può essere in giro oggi, perché lei ha in mente la «brava giovane» di cinquant'anni fa, e le due immagini non sono sovrapponibili, anche se per designarle usiamo gli stessi termini.

Chi sono, cosa domandano i giovani e, più in generale, coloro che si avvicinano alla vita religiosa? È iniziando a cercare risposte a questi interrogativi che si dipana una maggior comprensione di quel nodo di reciproche aspettative, motivazioni, atteggiamenti, al fine di verificare se quello che loro cercano/domandano è quanto noi possiamo/sappiamo proporre. Perché se venti o trent'anni non sono un lungo periodo, quando li si misuri sulla scala del cambiamento generazionale segnano invece un distanziamento molto più ampio e marcato in termini di mutamento negli stili di vita, negli orientamenti di valore, nei modelli culturali.

Le ricerche condotte sui giovani religiosi ci documentano come rispetto a 20-30 anni fa l'atteggiamento di coloro che chiedono di entrare in una comunità religiosa sia molto più caratterizzato da elementi di «realizzazione», intendendo realizzazione di sé, ma anche realizzazione in termini di chiamata del Signore per me, realizzazione di un'intuizione spirituale e così via. Sono invece molto meno presenti le tematiche del distacco, spogliamento, abbandono. Potremo dire, schematizzando il nostro discorso, che si entra nella vita religiosa non per rinunciare a qualche cosa, ma per trovare qualche cosa; e già qui si rileva un primo profondo divario nei codici culturali.

L'orientamento all' autorealizzazione, così tipico dell' odierna cultura giovanile, viene per tal via ad affacciarsi all'interno delle comunità religiose. Esso si inserisce, o forse più precisamente s'insinua, come elemento di non facile integrazione, perché, nel codice valoriale sotteso alle Costituzioni, ai modi di pensare, alle esortazioni, ai modelli di santità tipici del lessico della vita monastica così come è intesa nei nostri ambienti, l'autorealizzazione non compare come valore da promuovere e tutelare. Anzi, già il richiamo al sé, alla valorizzazione delle doti personali viene percepito come rischio, elemento potenzialmente fuorviante da una corretta vita religiosa, la quale si caratterizza come estroversa, orientata all'altro, alla comunità, alla chiesa, e così via.

Un atteggiamento dell'animo più che un comportamento di facile individuazione. Vi è chi lo esprime attraverso forti istanze di spiritualità, in un quadro di grande idealità e profonda radicalità, o chi cerca nella comunità uno spazio per dare ordine e senso alle molteplici e talora dispersive esperienze vissute. In ogni caso, sia che si cerchi un luogo dove condurre una propria ricerca spirituale oppure un ambiente che dia risposta ad un proprio bisogno di senso e pace, quello che viene in evidenza è la centralità della ricerca di realizzazione personale. Ciò significa che il punto di vista del soggetto è quello determinante, per cui i vari passaggi ed impegni, incluse le rinunce e i cambiamenti implicati dal passaggio alla vita religiosa, tendono ad essere interpretati e vissuti da questa angolatura. Ovviamente questo non vale solo per la vita religiosa: troviamo la stessa cosa nella famiglia, nelle scelte professionali, e così via. Ne vengono alcune conseguenze, alle quali brevemente accenno.

In primo luogo, una scelta non è «per sempre», o meglio il per sempre è un auspicio implicito, ma non una certezza fondante il principio. Quindi noi corriamo il rischio di dire: «È per sempre che tu vieni?» e tutti rispondono: «Sì!»; solamente che per noi questo diventa un dato di fatto da cui si parte per realizzare la formazione spirituale e l'inserimento in comunità, mentre per interlocutore diventa un auspicio, come dire: «Spero che sia per sempre, ma, se poi lo sarà veramente, te lo dirò tra qualche anno». Sarà il permanere, o il venir meno, delle condizioni iniziali, come insieme di aspettative e motivazioni in base alle quali la persona si orienta alla vita monastica, che realizzerà la continuità dell'impegno, o l'interruzione dell'esperienza. Il fatto di porre all'inizio del processo di inserimento in comunità un insieme di attese legate ad una certa idea di realizzazione personale rende più difficile attuare in modo pieno (senza se e senza ma!) quell'affidamento, psicologico e spirituale, che è condizione indispensabile per giungere ad un'appartenenza stabile ed irreversibile.

Se si pongono condizioni, sulla cui realizzazione la persona si riserva una propria autonoma ed insindacabile valutazione, è facile che si attui un'appartenenza a due livelli: formalmente totale, ma di fatto circoscritta e vissuta con una sempre disponibile opzione di revoca degli impegni assunti. S'inserisce pertanto nella relazione comunitaria un elemento di instabilità, che può restare latente - o emergere improvvisamente anche dopo la professione solenne o l'ordinazione presbiterale - quando le esigenze della vita comunitaria non siano più eludibili. Ad una più immediata e netta percezione della distanza tra istanze soggettive ed impegni delle relazioni comunitarie, in molti casi fa da schermo il fatto che le richieste abbiano contenuti in sé positivi o evangelicamente ispirati, solo che possono muoversi verso progetti di impegno e testimonianza sui quali la comunità non sa o non intende impegnarsi. Non basta che una scelta o un orientamento sia buono in se stesso perché la sua realizzazione sia possibile o più semplicemente opportuna.

Secondo aspetto: l'appartenenza ad una istituzione religiosa non segna più una rottura radicale, una discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. Più che una morte/rinascita, è uno sviluppo, una evoluzione di potenzialità. C'è quindi una «riserva» del soggetto che solo raramente emerge in tutta la sua limpidezza. Comprendiamo allora come rispetto al passato vi sia una minore disponibilità a lasciarsi plasmare e uniformare dall'istituzione, mettendo tra parentesi (o rimuovendo) quelle inclinazioni, spinte emotive, desideri che, pur importanti nell'identità della persona, risultino disarmonici rispetto ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita presenti in comunità. Questo vuoI dire che, se è posto di fronte alla scelta tra la fedeltà a quella parte della propria identità percepita come positiva (essere autentico) e la necessità di uniformarsi alle esigenze di un'appartenenza istituzionale, l'opzione è per l'autenticità e quindi la rottura della comunicazione con l'istituzione: «Quando non intendo trasformarmi ti lascio parlare, tanto, comunque, io continuo a coltivare le mie idee». C'è in un simile atteggiamento il rischio molto concreto di una deriva narcisistica, anche se nello stesso tempo è doveroso riconoscervi l'istanza per un più sincero rispetto della persona.

Nella domanda di autenticità, che abbiamo rilevato come una richiesta di non andare contro l'identità profonda di sé, si esprime la consapevolezza che esiste in ciascuno di noi un nucleo originario ricevuto, che debbo scoprire, accogliere e portare a compimento, e non posso (ed oggi sempre più spesso non intendo) rimuovere, cancellare, per sostituire con un'identità «istituzionalmente» corretta. Allora qui, mi pare, c'è un punto molto importante nel dialogo tra nuove generazioni e istituzioni: perché le nostre strutture religiose, penso anche i monasteri, sono istituzioni tendenzialmente rigide a motivo dell'età, del peso attribuito alla tradizione nel definire i comportamenti e gli stili di vita, degli stessi ambienti architettonici così carichi di storia, ma anche ormai così sproporzionati alle esigenze relazionali di comunità piccole, con poche risorse umane. Per questo tipo di istituzioni la spinta all'autenticità è vissuta come una minaccia ed è quindi fonte di tensione e fraintendimenti, primo fra tutti il fatto che accettare l'autenticità sia un lasciare andare verso la spontaneità delle pulsioni e delle emozioni.

Ma autenticità è ricerca, spesso faticosa e sofferta, di un confronto con le proprie potenzialità e i propri limiti, impegno ad una riflessione seria su di sé, ad un serrato confronto con le vischiosità e le debolezze della realtà. E questo è un tratto estremamente importante nelle nuove generazioni. Una comunità che non teme il dialogo dovrebbe, oppure più semplicemente potrebbe, accogliere la sfida che si esprime nel desiderio di autenticità, integrando lo nel vissuto delle proprie relazioni interne, nella ricerca spirituale, portandolo cioè all'apertura verso l'alterità per non rischiare l'implosione o il ripiegamento narcisistico su se stessa.

Un ulteriore aspetto che la cultura giovanile evidenzia, capace di interferire profondamente nella relazione con la comunità religiosa, è l'importanza attribuita alla dimensione comunicativa, cioè il parlarsi è valore fondante la relazione, indipendentemente dai contenuti che si trasmettono. Se voi guardate i giovani quando si ritrovano insieme, li vedete intenti a parlarsi; se poi vi avvicinate ad ascoltarli, vi accorgerete che i contenuti dei loro discorsi sono piuttosto banali, inconsistenti, perché non è importante quel che dici, ma che ci sia qualcuno con cui tu puoi parlare. Ciò significa che in una comunità religiosa si cercano persone con le quali stabilire un dialogo intrattenere rapporti positivi in un clima confortevole, accogliente, sgombro da conflitti e tensioni. Tutto ciò avviene in un contesto sociale nel quale aumenta tra le generazioni, anche tra quelle contigue, la diversità culturale e quindi la distanza.

L'incontro pertanto con le nuove vocazioni si muove tra due tensioni di segno opposto: da un lato, c'è la domanda di comunicazione assunta come valore in se stesso positivo, al di là dei con tenuti trasmessi, perché si esiste nella misura in cui si scambiano messaggi; dall' altro, cresce il distacco tra le generazioni e quindi diminuiscono gli spazi per il dialogo. Si aggiunga poi la diffusa esperienza del cambiamento sociale e culturale che porta a relativizzare codici comportamentali e contenuti normativi. Difficile (anche se non impossibile) che in un simile contesto la comunicazione diventi relazione e si vada oltre un generico rumore di fondo, un parlare stereotipato. Ne è riprova il fatto che, quando ci si avventura su temi che la persona non intende affrontare perché ritenuti troppo impegnativi o capaci di mettere in discussione sicurezze intellettuali o spirituali alle quali non s'intende rinunciare, allora la debolezza della comunicazione si palesa in tutta la sua realtà: il messaggio viene, per così dire, «rimosso», allontanato da sé con un leggero, quasi confidenziale, gesto di fastidio.

Nello specifico degli Istituti religiosi la comunicazione con il mondo giovanile si muove in un contesto reso difficile dalla scarsità delle vocazioni. Ciò non solo accresce la distanza tra le generazioni, come si è già ricordato, ma concorre a rendere «prezioso» il giovane che si affacci al monastero, specie se intenzionato a restarvi. Ad esso si applicano i criteri che in famiglia si accompagnano alla cura del figlio unico, al quale tutto è permesso purché non lasci soli i genitori e non li abbandoni, specie se anziani. Allora la comunicazione, da dialogo che coinvolge e può mettere in discussione ambedue le parti, diviene prassi contrattuale, con definizione degli ambiti del «privato» e del «comunitario». I mondi rimangono intimamente distanti e la comunicazione non diviene una relazione che modifica nel profondo, un impegno a tessere rapporti interpersonali, comunitari, ma definizione funzionale di regole del gioco in funzione del perseguimento di alcune attività condivise.

L'orizzonte che in tal modo si delinea è, quando riesce bene, quello di un gruppo efficiente, secondo le regole dell'agire sociale, ma con un debole senso di appartenenza comunitaria. La comunità monastica ambisce ad essere realtà che plasma l'identità psicologica e spirituale della persona. Le relazioni che vi si instaurano non sono solo osservanza di norme che delineano un «pubblico» ed un «privato», un permesso ed un vietato, ma vorrebbero essere testimonianza di uno stile di vita e di un linguaggio espressivo che riconosce affinità spirituali, si apre alla condivisione, crea koinonia. Sta qui il fascino con il quale si guarda alle nostre comunità: la nostalgia (o la profezia?) di relazioni interpersonali che non siano unicamente strumentali, ma attestino compassione, accoglienza, gratuità, in quanto scaturiscono da una quotidiana frequentazione dell'evangelo. Solo nel riconoscimento di una incondizionata fedeltà alla Parola di Dio, alla quale ognuno accetta di sottomettersi, la comunità monastica trova il codice comunicativo più adeguato per costruire rapporti interpersonali non effimeri. Diversi per età, carattere, sensibilità culturale, i monaci eviteranno una unità solo funzionale, costruita attorno ad un patteggiamento definitorio di quanto attiene al soggetto e di quanto invece spetta al comunitario, solo se sapranno riconoscere nella fede in Gesù l'elemento che radicalmente li unisce, permettendo loro di scambiarsi simboli e parole apportatrici di senso.


La pagina delle beatitudini evangeliche introduce la vita pubblica di Gesù con un messaggio che ne contiene l'annuncio fondamentale e può essere paragonata al nartece o al portale di una grande cattedrale.

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