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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La gloria di Dio è l'uomo che vive, è vivo l'uomo formato dalle due mani di Dio: il Verbo e lo Spirito Santo.

La Bibbia immaginaria
del "Codice Da Vinci"

Domande rivolte a Daniel Marguerat (professore di Nuovo Testamento alla facoltà teologica dell’Università di Losanna) da Anne Soupa (redattrice capo di Biblia).

 

D. Quali sono le sue prime impressioni su questo romanzo?

R. Debbo dire, innanzi tutto, di aver letto con piacere il romanzo "Il Codice da Vinci". Dan Brown è un buon narratore e nella sua opera vi è quel tanto di credibile e di inverosimile che serve per caratterizzare un romanzo di questo genere, e questo spiega il suo successo. Ma, trattandosi di un genere particolare e difficile come il romanzo storico (ammettendo che la definizione sia appropriata) io mi pongo alcune domande.

Innanzi tutto,di fronte all’affermazione che l’autore fa "tutte le descrizioni sono documentate e non sono frutto di fantasia" si rimane sconcertati; questa affermazione non risponde a verità, perché al di là delle molte libertà che l’autore si prende e che si possono accettare, Dan Brown commette degli errori madornali dal punto di vista storico, che nessuno studioso può far passare sotto silenzio. La sua dichiarazione iniziale, induce in errore il lettore che pensa così di trovarsi davanti ad una seria opera storica, riponendo inoltre la sua fiducia in uno scrittore che non la merita completamente.

D. Quali sono questi errori?

R. Innanzi tutto posso dire che il libro è nel complesso attendibile quando tratta dei Templari, della proporzione divina e della sequenza di Fibonacci; le cose cambiano quando affronta altri temi di carattere storico, che l’autore mostra di conoscere solo approssimativamente.

Prima grossolana affermazione: "La Bibbia come la conosciamo, è stata collazionata da un pagano, l’imperatore Costantino". A questo proposito, possediamo fonti sicure. Nel 4° secolo Eusebio di Cesarea scrive una Vita di Costantino in cui parla di un’ordinazione fatta dall’imperatore, di quaranta codici, la più importante dell’antichità. Questi codici erano destinati alle chiese, dopo che, a seguito dell’editto di Milano nel 313, i cristiani erano stati autorizzati al culto. Probabile fonte di questa notizia è il Codex Vaticanus scritto nel 350. Si è poi diffusa una versione, più tardi definita "bizantina".

Anche se non possediamo Bibbie complete anteriori a Costantino, è evidente che esistevano versioni dell’Antico e Nuovo Testamento a disposizione delle comunità che i Padri della Chiesa leggevano e delle quali ci hanno lasciato delle liste. Queste liste figurano, fin dal 2° secolo nell’opera di Ireneo di Lione, Contro le eresie, ed anche nel frammento detto di Muratori,Vetus Latina, molto in uso presso le comunità di lingua latina, non possediamo che versioni del 4° secolo. nome dello studioso italiano che lo ha scoperto. Da parecchie fonti, sappiamo che alla fine del 2° secolo, il canone è stabilizzato. Della

Naturalmente Costantino ha rivestito un ruolo in tutto questo, ma non certo quello che Dan Brown immagina, cioè di decidere ciò che può far parte della Bibbia e ciò che deve essere escluso.

D. Dan Brown si spinge ancora più in là affermando persino che Costantino ha manipolato i testi ponendo l’accento sulla divinità di Gesù, a scapito della sua figura umana. Che cosa ne pensa?

R. Dan Brown in effetti dice: "Costantino ha ordinato e finanziato la redazione di un Nuovo Testamento che escludeva tutti i vangeli che evocavano gli aspetti umani di Gesù, privilegiando - adattandoli se necessario - quelli che mettevano maggiormente in luce la sua divinità. I primi Vangeli furono dichiarati contrari alla fede, raccolti e bruciati".

Queste affermazioni attestano una profonda ignoranza dell’intensa e laboriosa costruzione teologica dei primi secoli. Innanzi tutto c’è da osservare che ci sarebbe voluto di più di un imperatore convertito da poco per influire su Scritture così profondamente inserite nella tradizione. Inoltre, il Credo adottato dal concilio di Nicea (325) convocato da Costantino, riprende le professioni di fede già in uso ed è già centrato sulla doppia natura, divina e umana, di Cristo.

Infine, se è vero che questo concilio aveva come scopo combattere l’eresia ariana che contestava la divinità di Gesù, è anche vero che non viene in alcun modo sottovalutata la natura umana di Gesù. Al contrario, è proprio la tensione tra un’umanità pienamente vissuta e una divinità accertata, che successivi concili di questo periodo hanno messo in evidenza. Quando Dan Brown deduce inoltre dalla sua "dimostrazione" che "i primi eretici furono quelli che avevano scelto di credere alla storia originale di Gesù" fa un’affermazione aberrante che può essere smentita da qualsiasi storico.

D. Che cosa pensa della tesi del "matrimonio di Gesù"?

R . Il Nuovo Testamento presenta Gesù come un rabbi, ed un rabbi ha una sposa ed è circondato da numerosi figli, segno della benedizione di Dio. Gesù si mostra tollerante verso le donne, anche quelle di malaffare e non intende dare forma di legge alla sua scelta di celibato. Bisogna far notare che nessuno dei quattro Vangeli fa menzione di una donna che sia intima di Gesù. In sé, questo fatto non mi scandalizzerebbe certamente e rientrerebbe perfettamente nel genere di vita dei rabbi. Ma come potrebbe allora non esserci nei Vangeli alcuna traccia di una donna di Gesù?

D. Dan Brown avrebbe dunque inventato di sana pianta il rapporto di Gesù con Maria Maddalena? Da dove provengono i fatti che egli cita?

R .Egli traduce, con una buona dose di approssimazione, alcuni versetti dei vangeli apocrifi di Maria Maddalena (2° secolo) e di Filippo (4° secolo), che però sono dei testi incompleti, in quanto mancano di alcune parti e la loro traduzione è approssimativa. Per esempio, nel vangelo di Filippo, si trova questa frase: "Il Salvatore aveva per compagna Maria Maddalena che baciava [i piedi, la bocca o la fronte o la guancia]. Gli Apostoli erano offesi e gli esprimevano la loro disapprovazione". Dan Brown cita questa frase, scrivendo solo "soleva spesso baciarla sulla bocca" omettendo le altre versioni che esprimono i diversi significati possibili. Nessun esegeta degno di questo nome agirebbe in questo modo. In maniera più precisa bisogna osservare che questi due scritti gnostici, sono ricchi di una spiritualità esoterica. Come molte scuole di spiritualità, essi utilizzano una finzione, in questo caso la metafora nuziale, per accreditare un insegnamento. Questo linguaggio, a connotazione sessuale, è in realtà un vocabolario iniziatico. I termini usati stanno ad indicare la vicinanza e il rapporto creatura-creatore tra la donna e il Maestro.

Tirando fuori questo versetto dal suo contesto, Dan Brown da l’impressione di citare una frase di valenza sessuale, dando una connotazione erotica a un vocabolario didattico.

Il carattere iniziatico di questo episodio, appare ancora più chiaro se si aggiunge quanto omesso da Dan Brown. Alla domanda: "Perché la ami più di tutti noi?" il vangelo di Maria (Bodmer pag. 37) spiega: "perché Maria Maddalena riporta delle parole che Gesù ha rivelato a lei e non agli altri". Dan Brown omette questa spiegazione che invece serve a chiarire la ragione e il significato delle rimostranze degli Apostoli.

D . In ogni caso, quando un uomo è legato sessualmente ad una donna, sembra fuori luogo che i suoi compagni si lamentino di non essere trattati alla stessa maniera, in quanto si tratta di due tipi di relazione che non possono essere paragonati.

R .Questa osservazione è assolutamente pertinente e conferma quanto detto dell’interpretazione di Dan Brown. Rimane comunque l’enigma di questo rabbi che è completamente differente da tutti gli altri rabbi…

D . Cosa si deve poi pensare dell’accusa di antifemminismo che è stata fatta da Don Brown al cristianesimo?

R . Bisogna riconoscere a Don Brown il merito di aver messo in rilievo l’atteggiamento innovatore di Gesù nei riguardi delle donne. Per Gesù la morale è più importante della legge rituale che considera le donne degli esseri impuri e le tiene lontane dalla vita sociale e religiosa. Inoltre Gesù associa delle donne al suo insegnamento e concede loro persino accesso alla Torah, cosa che non era ammessa dalla legge ebraica. "Piuttosto bruciare che dare la Torah alle donne!" recita un passaggio del Talmud. Ricordiamo inoltre che nell’ebraismo è il padre e non la madre che si occupa dell’educazione religiosa dei figli.

D. In tutto il Nuovo Testamento si trovano analogie con questo comportamento di Gesù nei confronti delle donne?

R. La posizione trasgressiva di Gesù a questo proposito si ritrova nelle comunità paoline. Le donne pregano nell’assemblea e profetizzano. Nella 1° lettera ai Corinti, v.11, nelle sue esortazioni a proposito del velo, Paolo, contrariamente a quanto si crede, non si mostra antifemminista, ma, in quanto erede di Gesù, procura di differenziare uomini e donne in comunità di discepoli uguali tra loro come identità spirituali. In seguito, vi sarà però un passo all’indietro, nelle lettere più tarde, agli Efesini e ai Colossesi: le donne sono relegate al loro ruolo privato di madri di famiglia; esse spariscono dallo spazio pubblico e della comunità. Nell’intervallo di una generazione, ritorna ad essere restaurata la differenza donna-uomo.

D. Dappertutto?

R. Non dappertutto: gli Atti degli Apostoli che sono contemporanei alle lettere agli Efesini e ai Colossesi, seguono l’eredità paolina. Il dramma è che nel 2° secolo, l’istallarsi di una gerarchia ministeriale maschile emarginerà le donne in maniera sistematica. Nelle comunità saranno presenti attivamente solo le vedove e come semplici ausiliarie. La Chiesa installa un’ortodossia esclusivamente maschile. Di conseguenza il ruolo delle donne viene riconosciuto solamente in comunità marginali anche se molto numerose. È così nei vangeli di Maria, di Filippo e negli Atti di Paolo e la figura di Tecla ne è un esempio. Queste comunità marginali sono anche le più eterodosse e dunque spesso combattute dalla gerarchia della Chiesa centrale.

D. Così le donne, oltre ad essere escluse, erano anche considerate eretiche, quindi pericolose.

R. Certamente. Sono loro, le donne, che hanno fatto le spese nella lotta condotta dalla Chiesa per affermarsi. Combattendo contro le eresie, la Chiesa sacrificherà le donne. Più si mascolinizzerà, più si crederà ortodossa. E questo è l’effetto perverso, l’erosione, lo snaturamento della posizione innovatrice di Gesù nei confronti delle donne.

D. Il mondo romano però, non è misogino?

R. Certamente, la matrona romana aveva un ruolo importante, ma si trattava di donne ricche che governavano la loro casa e avevano sotto di sé molti schiavi. Gesù ha un atteggiamento democratico, qualunque donna che crede può trovare posto accanto a lui e accedere alla dignità di discepolo.

D. Che giudizio ha della posizione che la donna occupa oggi?

R. Mi sembra che, tra le grandi religioni monoteiste, il cristianesimo riconosca più dell’ebraismo e dell’islam, il ruolo e la libertà della donna nello spazio pubblico. Il cristianesimo resta il solo a riconoscere alla donna lo stato essere religioso adulto,anche se, in alcune realtà, si tratta di un fatto non ancora realizzato. La donna ha trovato la sua autorevolezza nel mondo cristiano, in maniera molto più netta che nelle altre due religioni monoteiste.

(Traduzione dal francese di M. Grazia Hamerl - staff di Dimensione Speranza)

Una spiritualità per le sfide odierne
di Rino Cozza csj

 

Nel tentativo di uscire dalla situazione di insignificanza stanno moltiplicandosi i convegni sul tema della spiritualità che sembrano voler dire che la crisi della spiritualità è la principale causa dei tempi difficili della vita religiosa (VR).

Il fatto pone degli interrogativi. La ricerca di spiritualità è certamente determinante, infatti la fortuna delle nuove forme di vita evangelica è data prevalentemente dalla spiritualità trasparentemente perseguita, e riscontrabile in un particolare stile di vita. Però è altrettanto vero che la spiritualità nella VR è quella cosa che non può non esserci ma non è sufficiente che ci sia: è il denominatore comune di ogni forma di vita evangelica e non l'elemento differenziatore della VR che è definita anche da un insieme di tanti elementi costitutivi, comunitari e culturali.

Certamente la scelta necessaria - e oggi l'unica possibile - è quella di passare dalla prevalente pastorale dei servizi (sociali o religiosi) alla pastorale della spiritualità. Ma il discorso sulla spiritualità non è nuovo nella vita religiosa, allora la domanda da farsi è: come mai rimane muta per le nuove generazioni? Evidentemente il termine "spiritualità" nella vita religiosa esige una faticosa riacculturazione che parte dall'accettare la transitorietà delle forme di altri tempi. Spirituale era detto di chi aveva espressioni religiose, atteggiamenti pii, vita ascetica, nel significato di austera, rigorosa, lontana dai problemi della vita. Era una spiritualità percorsa da una vena di individualismo che dava rilevanza alla meditazione e agli esercizi di pietà personali, anche se fatti comunitariamente. Spiritualità oggi è quella di chi, "nutrito di Parola e liturgia, di contemplazione e discernimento, di profezia e attesa, di passione per Dio e passione per l'uomo", sa dare risposte valide all'attuale domanda di senso e sa produrre nuovi modelli di comportamento e nuove forme comunitarie a partire dalla vita e per la vita.

Si dice che i giovani, anche i più vicini, sono assenti dalle tradizionali forme: è la dimostrazione che ogni spiritualità corrisponde a un momento storico fuori del quale perde la forza significativa. Sono serviti certi canti; le lunghe cerimonie e le forme di pietà popolare, le rogazioni, i settenari, e persino l'estetismo religioso... ma oggi questo non è appellante. È vero che una percentuale di vocazioni attuali proviene dal bisogno di questo tipo di spiritualità per cui alcuni formatori traggono spunto per scelte su questa linea, ma altri, i più, vi si riferiscono per dire che la fragilità di molte vocazioni è data appunto dal ritrovarsi in questo tipo di spiritualità.

Capace di produrre stili di vita

Spiritualità significa vita (nello Spirito) tale da far vedere o almeno da far intuire la presenza o il fare di Cristo che salva. A tal fine non è più sufficiente una spiritualità "da religiosi" ma una spiritualità all'altezza delle sfide odierne, ricca di prospettiva laicale sempre più rivalutata nell'attuale sensibilità ecclesiale; spiritualità capace di produrre stili di vita e non soltanto pratiche di pietà, che siano risposta ai bisogni del mondo; spiritualità in cui il rapporto con Dio, da esperienza prevalentemente individuale sia esperienza che passa attraverso un rapporto con le persone perchè proprio la comunione fraterna sarà l'elemento peculiare della spiritualità di domani.

Per tornare da dove eravamo partiti, si può dire che il ricorrere del tema della spiritualità all'interno della VR è dovuto alla percezione dello scarto appunto di spiritualità significante, esistente tra gli antichi e i nuovi carismi.

Detto questo però c'è da aggiungere che la debolezza di forza comunicativa della attuale VR è da ricercarsi - in misura non inferiore - anche in un altro tipo di difficoltà che provengono sia dall'interno che dall'esterno di essa. Già si è molto parlato delle difficoltà che derivano dall'interno che sono: scarsità e defezioni di religiosi/e giovani, peso delle strutture, mancanza della generazione di mezzo, modi e tempi di vita cadenzati dagli anziani/e, tradizioni culturali e modelli di spiritualità obsoleti. Ma ciò che è nuovo sono le prospettive teologiche che vengono dall'esterno. Fino a qualche anno fa a riflettere sulla vita religiosa erano quasi unicamente teologi religiosi, ora invece l'esplorazione su questo versante è diventata propria anche di vari studiosi di area diocesana o laicale che in numero sempre maggiore portano a teorizzazioni diverse da quelle cui siamo abituati. Un esempio di ciò I'abbiamo avuto all'assemblea annuale Cism 2003, nell'intervento del teologo Giacomo Canobbio, dove argomentò sulla necessità o meno di una forma di vita cristiana (quella consacrata) affinché ci sia la Chiesa. "Affermare che la vita consacrata (VC) ha origine divina - disse mons. Canobbio - non vuoI ancora dire che appartiene necessariamente all'essenza della Chiesa. Si dovrebbe mostrare che l'origine divina coincide in tutto e per tutto con l'intenzione del Fondatore (Cristo)". "Essa può appartenere a una figura particolare di Chiesa, ma non è necessaria affinché si dia Chiesa anche perché di fatto questa si realizza in alcuni luoghi e si è realizzata in alcuni tempi, senza la VC". Qualcuno in questo argomentare può vedervi uno sconfinamento per parte di alcuni teologi estranei, altri invece vedono un dislocamento, cioè un guardare da fuori per ovviare ai condizionamenti delle precomprensioni.

E i pastori delle Chiese locali come vedono la VR ? Ci sono i vescovi religiosi che in maggior numero sono sintonizzati con il pensiero teologico che è stato all'origine della loro vocazione. Ci sono poi coloro, specie di area non europea, i quali dicono che in questi trent'anni la quasi totalità delle congregazioni diocesane hanno avuto come promotori i vescovi, il che li porterebbe a dire che questi sono sensibili ai valori della tradizionale vita religiosa. Ma qui sorge qualche dubbio, non fosse altro per il fatto che a fronte di bisogni diocesani, in alcune aree, si è soliti far fronte con l'intervento di un "conveniente" istituto religioso che, se non lo si trova, si crea al fine di un servizio e non necessariamente di una spiritualità. Penso però che la maggior parte dei vescovi si ritrovi nella risposta di un ordinario il quale, alla domanda se conoscesse quanto detto nell'esortazione Vita consecrata dove si dice che "ai vescovi è chiesto di accogliere e stimare i carismi della VC dando loro spazio nei progetti della pastorale diocesana" (VC 48), rispose che, per quanto gli constava, nelle chiese locali c'è interesse per le forme di vita evangelica di cui la vita religiosa è una delle espressioni, però oggi l'attenzione non è sulle etichette e sulle omologazioni ma sulle evidenze evangeliche che tali si definiscono dalla vita in atto più che da riconoscimenti giuridici.

Il papa ai vescovi francesi (18.12.2003) ebbe a dire che "le nuove comunità possiedono una audacia che talvolta manca agli istituti che vivono da più tempo", "attardate nella storia più che presenti alla vita". Tutto ciò sta a dire - conclude l'ordinario - che le auto-proclamazioni di vita migliore, più santa, non bastano più: tiene soltanto ciò che si vede: "vieni e vedrai".

Occorre un altro tasso di creatività

Dunque, alla domanda perché la vita religiosa? non è più possibile rispondere con definizioni teologiche in un tempo in cui le forme di vita evangelica rispondono con la vita. La sequela se non è un fatto riscontrabile oggi come buona notizia è soltanto teoria. Da qui l'urgenza di por mano decisamente alle fondamenta della vita religiosa vale a dire al sistema culturale che l'ha finora caratterizzata, aprendosi a nuovi orizzonti di senso, consapevoli che la VR è sempre un progetto contestualizzato e questo è l'unico modo che le è dato "per essere a casa nel tempo". (Radcliffe )

Al presente la prima presa d'atto è che stiamo transitando a un altro modo di essere e di agire. Uno dei maggiori studiosi della società contemporanea - Zygmunt Bauman - dice che siamo passati irreversibilmente dalla "modernità solida " cioè quella fissata su organizzazioni, classi, ruoli, riferimenti stabili, alla "modernità fluida" vale a dire della società delle reti, dei flussi, dell'incertezza, della non prevedibilità. Le impalcature sociali in cui inscriviamo i nostri progetti di vita e le nostre speranze per il futuro sono diventate improvvisamente fragili. Possono spezzarsi in qualsiasi argomento, mutano molto più in fretta di quanto non riusciamo ad apprendere e gestire. Se questa è la situazione, per poter progettare e vivere nell'attuale società è necessario un alto tasso di creatività che però "non si trova nei religiosi/e e tuttavia è indispensabile per incarnarsi nei contesti concreti in cui tocca di rivivere" (Santiago Silva). In ciò è da leggersi "la povertà radicale che segna il momento presente della VC". Eppure la creatività non le è estranea, "è stata alla base di ogni nuova forma di vita consacrata: ad esempio Ignazio di Loyola non accondiscese di sottomettere il carisma di una vita apostolica alle esigenze del coro della vita monastica" (B. Bucker). E così pure "nessuno dei nostri istituti ebbe origine per essere la continuità di una situazione statica. La creatività non esige che si rinunci all'eredità ricevuta, ma che crei, a partire da quella, qualcosa di nuovo e di inedito" (T. J. Rasera).

Per la creatività si tratta di proporre nuovi tavoli di pensiero, di concertazione e di governo, che sappiano mettere più interesse nell'inventare risposte che nel ripetere formule. Quelli attuali (consulte, capitoli, consigli, ecc. ) non sono sufficienti anche se un certo tipo di soddisfazioni le danno perché quanto meno sanno riverniciare di buone intenzioni tutto l'apparato, ma non hanno la capacità o non sono nella possibilità di mettersi alla ricerca di nuovi pozzi piuttosto che attardarsi "al pozzo lasciato in eredità dal nostro padre Giacobbe". Il tema della creatività è stato quello maggiormente ricorrente nel recente congresso internazionale di Roma. Molte espressioni ne evidenziano la sete: "Oggi più che mai abbiamo bisogno di inventare, rinnovare e avanzare liberi"; "Non impegnatevi nel continuare a offrire risposte preconfezionate che ormai sono superate. Abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali. Non evitate le strade pericolose, perché la novità emerge sempre fuori dai luoghi sicuri protetti e convenzionali".

Da queste espressioni si coglie che il bisogno di orizzonti più vasti ha a che vedere sia con il senso della VC, sia con il modo di realizzarla. In quanto alla prima, durante il congresso è risuonata forte la voce di una relatrice: "Rallegratevi se siete rimasti senza parole significative per definire la vostra identità. Ci sentiamo stanchi di parole senza significato, abbiamo raggiunto un punto di saturazione quanto a dichiarazioni, documenti e teorie sul carattere specifico della nostra identità, quando la cosa importante non è ciò che proclamiamo, ma quello che viviamo" (Dolores Aleixandre),

Un obiettivo irrinunciabile su cui investire la creatività è sul bisogno che ha la VR di relazioni nuove. Finora come istituti abbiamo sempre evidenziato ciò che ci rendeva diversi dai cristiani e a forza di rafforzare le diversità ci siamo resi estranei; oggi è necessario evidenziare ciò che è dono ai cristiani: "quando rinuncerete a definirvi per comparazione con gli altri emergerà la parte più autentica che è in voi", consapevoli che la differenza tra il nostro e ogni altra forma di impegno non risiede in ciò che produce ma in ciò che in esso traspare.

Quanto al secondo, vale a dire il modo di realizzarla, si sono espressi in molti: la forma con cui "essa si esprime oggi, è debole nella forza comunicativa, arretrata rispetto alle sensibilità culturali, ricalcata su altri mondi culturali ormai obsoleti. È quindi necessario un deciso aggiornamento di paradigmi e di presentazione dei grandi valori quali i voti, la comunità, la testimonianza, l'antropologia, la visione della vita, il senso dei beni e religiosità della vita, l'affettività, la corporeità, la dignità della persona, le esigenze di corresponsabilità" (Secondin). Tutto questo esprime il bisogno di uscire dal nostro piccolo mondo antico per poter "dar vita a strutture mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, accoglienti, poco pesanti e aperte".

Il male sottile di cui soffre I'attuale forma di vita religiosa è I'insignificanza, per cui se vuole esserci nel futuro ha bisogno di evidenze comprensibili al giovane contemporaneo, tali da indurlo a impegnarvi la vita. Il problema maggiore dunque è quello di ridarle significato in contesto diverso dal tempo in cui è nata, i cui consueti segni non dicono più ciò per cui sono stati detti.

So bene che secondo alcuni la vita consacrata non sarà mai capita, perché - dicono - appartiene ad un mondo differente e si fonda su una esperienza trascendente che in pochi sanno apprezzare e interpretare. Costoro amano insistere sulla nota di mistero per cui deve conservare la sua irriducibilità, fino al paradosso. Non penso però che la VR abbia la funzione di conservare il mistero quanto piuttosto, quello di rivelare una buona notizia.

(da Testimoni, n. 5, 2005)

Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce". (RB 7, 59)

Mercoledì, 15 Giugno 2005 00:11

4) Chiesa e iniziazione cristiana

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza


4. Chiesa ed iniziazione cristiana

Con il termine ‘iniziazione’ si indica il passaggio da una condizione di vita ad un’altra, in genere mediante una cerimonia, un rito che mette in evidenza il significato del passaggio stesso. L’ accento non è posto tanto sull’inizio cronologico, quanto invece sul cambiamento che lo caratterizza. In tal senso si esprime anche il Vangelo, soprattutto nella formula classica di Marco: «Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è giunto a voi, convertitevi e credete al Vangelo» (1,15). Per i cristiani questo cambiamento radicale, questa conversione viene compiuta in tre sacramenti fondamentali. A tal proposito così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia, sono posti i fondamenti di ogni vita cristiana. "La partecipazione alla natura divina, che gli uomini ricevono in dono mediante la grazia di Cristo, rivela una certa analogia con l’origine, lo sviluppo e l’accrescimento della vita naturale. Difatti i fedeli, rinati nel santo Battesimo, sono corroborati dal sacramento della Confermazione e, quindi, sono nutriti con il cibo della vita eterna nell’Eucaristia, sicché, per effetto di questi sacramenti dell’iniziazione cristiana, sono in grado di gustare sempre più e sempre meglio i tesori della vita divina e progredire fino al raggiungimento della perfezione della carità"» (1212).

La seconda frase del testo citato è di Paolo VI e si trova nella Costituzione Apostolica del 1971 con la quale si riformava il rito della iniziazione cristiana degli adulti.

 

4.a. Necessario riferimento alla Chiesa

E’ singolare che nella presentazione dell’iniziazione non si faccia esplicito riferimento alla Chiesa, che è il soggetto celebrante di questo passaggio e nello stesso tempo anche la comunità ricevente. Se ne parla evidentemente in altri contesti, ma parlando della iniziazione, l’attenzione è così catturata dall’inserimento in Cristo, che si corre il rischio di dimenticare che comunque esso avviene, sempre, nella mediazione della Chiesa. Di questa vogliamo parlare in modo esplicito, perché non si abbia coscienza che i sacramenti stessi sono celebrati dalla Chiesa, come servizio a Cristo. Si è ricordato quando sono stati presentati i sacramenti, che la Chiesa si pone come sacramento generale della salvezza; in essa i sacramenti ricevono identità e significato, in quanto sono l’azione con la quale la Chiesa realizza se stessa ed il suo compito di salvezza, perché strettamente unita a Cristo, di cui è corpo in senso mistico.

Ne conseguono due cose. L’iniziazione cristiana è inserimento in Cristo e nella Chiesa, contemporaneamente. Ed è quindi partecipazione dell’opera salvifica di Cristo affidata alla Chiesa. Perciò è da registrare su questo punto un’altra annotazione. Fino a tempi recentissimi, come è già stato ricordato, l’attenzione prevalente della teologia e anche della prassi sacramentale era rivolta alla salvezza dell’individuo. Cosa che non bisogna ovviamente dimenticare. Ma, magari con una certa esagerazione, per una salvezza individuale e forse individualistica, non c’è bisogno della Chiesa. Ognuno fa per sé e si riconcilia con il Dio della sua coscienza. Basta un annuncio ed una buona disposizione. È questo il pericolo recondito della Riforma protestante. Si costruisce una fede ed una religione a misura di individuo. Per fortuna le cose sono andate in modo diverso.

 

 

4.b. Oltre ogni individualismo

Ed allora bisogna ricuperare la dimensione ecclesiale della iniziazione, che è quanto dire, ritrovare la sua dimensione cristologica. Nessuno è battezzato per inseguire una salvezza privata, per una grazia che deve tenere per sé solo. Tutti sono battezzati per continuare l’opera salvifica di Cristo nella Chiesa. È questo anche il significato profondo della prudenza pastorale da avere nell’ammettere al battesimo e infanti e adulti. Ne va della credibilità della Chiesa in ordine alla sua missione. In essa e mediante essa si ottiene sicuramente quella salvezza e quella grazia che è all’origine della conversione ed anche all’origine della missione. I due estremi si toccano, perché fanno parte della stessa realtà.

Ciò è tanto più evidente nel sacramento della Confermazione. Dice il CCC:«Rende più perfetto il nostro legame con la Chiesa. Ci accorda una speciale forza dello Spirito Santo per diffondere e difendere con la parola e con l’azione la fede, come veri testimoni di Cristo, per confessare coraggiosamente il nome di Cristo e per non vergognarsi mai della sua croce» (1303).

Forse si poteva precisare di più in che cosa consista questo legame più perfetto con la Chiesa, per non lasciare le cose in eccessiva vaghezza. In particolare si poteva evidenziare l’attiva partecipazione del credente alla vita della Chiesa, nella quale assume dei ruoli e dei compiti precisi. Così anche la testimonianza cristiana, nel ricupero della dimensione profetica, poteva essere espressa più esplicitamente come profezia che si vive all’interno ed all’esterno della Chiesa. Comunque gli accenni essenziali ci sono, basta svilupparli ulteriormente.

 

 

4.c. Nella pienezza dell’Eucaristia

Trattando del sacramento dell’Eucaristia, il CCC conclude anche il discorso sulla iniziazione cristiana. «La santa Eucaristia completa l’iniziazione cristiana. Coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo e sono stati conformati più profondamente a Cristo mediante la Confermazione, attraverso l’Eucaristia partecipano con tutta la comunità allo stesso sacrificio del Signore» (1322). Il punto di arrivo della conversione cristiana, di questo passaggio ideale del Mar Rosso, dalla schiavitù alla libertà, trova il suo vertice nella celebrazione eucaristica, punto di convergenza di tutta la vita cristiana e della comunità che la celebra.

Il popolo di credenti che è nato dal Battesimo si ritrova e si conosce nella celebrazione dell’Eucaristia. Essa contiene in sé molte cose e riserva una ricchezza che viene riversata un po’ alla volta. Ma delle tante cose importanti che si devono e si possono dire sull’Eucaristia, almeno in questo contesto, non si può tacere il fatto che solo nella celebrazione eucaristica il popolo di Dio si riconosce per quel che è e per quel che è chiamato a fare. Nell’Eucaristia il popolo cristiano sente di essere convocato per vivere una vita, che diventa per se stessa annuncio di Cristo, ed anche progetto di vita. L’attenzione pressoché unilaterale che nel passato si è data alla dimensione cultuale, vera ed autentica, ha però offuscato notevolmente l’altro aspetto, forse più rilevante dell’Eucaristia: il segno sacramentale di una salvezza ‘compiuta’, perché affidata ad un popolo testimone della Nuova Alleanza.

L’Eucaristia, allora, ben oltre gli aspetti strettamente liturgici, per non dire cerimoniali, che vanno ovviamente rispettati, si presenta come l’essere e l’agire ‘politico’ della Chiesa. Con ciò intendiamo la presenza della Chiesa nel mondo come soggetto originale, la sua azione nella città – polis – degli uomini, in vista dei beni definitivi, anche se nella mediazione dei beni intermedi. Puntare in questa direzione, cioè trovare ispirazione ‘civile’ nell’Eucaristia, aiuta senz’altro ad evitare quei corti circuiti nei quali spesso la Chiesa si è scottata nel corso dei secoli.



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Martedì, 14 Giugno 2005 23:42

Maria nel pensiero di Lutero (Carlo Collo)

Maria nel pensiero di Lutero
di Carlo Collo


 

Lutero ha dato l’avvio a tutto il pensiero protestante e in lui si ritrovano già in germe tutti gli sviluppi successivi. A questa personalità vulcanica e multiforme si possono appellare tanto le drastiche riduzioni della figura di Maria quanto le recenti riscoperte in campo evangelico del posto di lei nel piano della salvezza.

Due scritti di Lutero trattano esplicitamente il tema mariologico. Il Commento al Magnificat del 1521* e il Commento all’Ave Maria, scritto l’anno successivo e inserito nel Bettbüchlein, libretto di preghiere, con lo scopo di insegnare ai semplici fedeli l’uso evangelico dell’Ave Maria. Il primo testo – al quale ci limitiamo in questa nota – manifesta nel modo più chiaro e completo la posizione di Lutero riguardo Maria.

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La maternità divina di Maria, un elemento dottrinale comune acquisito dalla coscienza cristiana, trova nel riformatore un fermo difensore non soltanto negli anni giovanili, ancora influenzati dalla formazione cattolica, ma anche in quelli della sua più decisa azione riformistica. Il titolo di amabile e tenera Madre di Dio è frequente. Nel solo commento al Magnificat ricorre più di venticinque volte, senza contare le perifrasi e l’equivalente madre di Cristo.

Con questo titolo Lutero intende operare un ricentramento cristologico e teologico: ricondurre la fede a Cristo e attraverso di lui all’esclusiva azione salvifica di Sio.

Gesù, pur essendo vero uomo, non è un uomo qualunque. Se fosse soltanto uomo non potrebbe salvarci. È la salvezza stessa, la salvezza in persona, è Dio.

D’altro lato Gesù Cristo non è solamente Dio ma Dio nella carne dell’uomo, il Verbo Incarnato.

Ora, se Cristo è concretamente Dio nella carne umana, e come tale, in tutta la sua interezza e non come semplice uomo, è figlio di Maria, Maria è Madre di Dio.

Il titolo di Madre di dio è quindi destinato a manifestare la divinità di Cristo e a testimoniare l’opera di Dio in Maria.

"Le grandi cose non sono altro che questo, ch’essa è diventata Madre di Dio; in tale opera le sono dati tanti e sì grandi beni che nessuno li può comprendere. Poiché da ciò le viene ogni onere, ogni beatitudine e, in ogni generazione umana, la sua singolare posizione sopra di tutti, perché nessuno come lei ha avuto dal Padre celeste un bambino e un simile bambino. Ed essa stessa non gli può dare un nome per l’immensa grandezza, e non può fare altro che traboccare d’amore, poiché sono cose grandi che non si possono esprimere né misurare. Perciò con una parola, chiamandola Madre di Dio, si è compreso tutto il uo onore; nessuno può dire di lei e a lei cosa più grande anche se avesse tutte le lingue quante sono le foglie e l’erba, le stelle in cielo e la sabbia del mare. Anche il cuore deve riflettere che cosa significhi essere Madre di Dio" (Commento al Magnificat).

***

All’argomento della Verginità di Maria, dedicò una costante attenzione per tutto l’arco della sua vita. Il titolo è senza dubbio il più ricorrente. Le affermazioni sulla verginità di Maria sono innumerevoli (WA 10/I, 1,93). E sull’autenticità evangelica della miracolosa verginità egli non nutre alcun dubbio.

"Noi dobbiamo stare al vangelo, che dice che lo partorì, e all’articolo del Credo, col quale diciamo: "il quale è nato dalla Vergine Maria". Non vi è qui alcuna illusione, ma, come suonano le parole, una vera nascita... Perciò il suo corpo ha compiuto le funzioni naturali che appartengono alla nascita; salvo che ha partorito senza peccato, senza obbrobrio, senza dolore e senza danno, come aveva concepito senza peccato. La maledizione di Eva: "Nel dolore partorirai i tuoi figli", non si è estesa a lei; ma in tutto il resto è accaduto a lei come ad una donna che partorisce... Nessuna immagine di donna dà all’uomo pensieri così puri, come questa Vergine, e reciprocamente, nessuna figura d’uomo, ad una donna, come questo fanciullo. Soltanto verecondia e purità si sprigiona, purché consideriamo in essa l’opera divina".

Dalle precedenti citazioni si arguisce che la verginità di Maria trova la sua ragion d’essere nella maternità divina di Maria.

Lutero professa la verginità perenne di Maria come dimostra un testo in cui egli respinge le insinuazioni di certi suoi avversari:

"Una nuova menzogna è stata propalata su di me: io dovrei aver predicato e scritto che Maria, la madre di dio, non sarebbe stata vergine né prima né dopo il parto, ma avrebbe avuto il cristo da Giuseppe e dopo di lui numerosi figli... Ma si tratta di una menzogna così povera e miserabile che io non la degno di risposta" (WA 11,314).

***

Lutero riconosce in Maria un perfetto modello di vita cristiana; in particolare concentra la sua attenzione su tre caratteristiche della sua personalità: la fede, l’umiltà e la purezza.

Egli è sorpreso e affascinato dal comportamento così semplice e fresco di Maria. La sua fede non è sostenuta dalle fallaci sicurezze della ragione. Se Maria avesse giudicato secondo ragione, avrebbe stimato parola del diavolo e non di Dio quella che l’angelo le aveva rivolto (WA 15,478).

La fede di Maria costituisce la massima espressione del credere (WA 9,517) ed è più grande e solida di quella di Pietro (WA 2,432). Attraverso la fede di Maria è diventata madre di Cristo.

" La B. Vergine non avrebbe mai concepito il Figlio di Dio, se non avesse creduto all’angelo annunziatore, così da dire fiat mihi secundum verbum tuum, come dichiara Elisabetta: Beata tu che hai creduto che si sarebbero avverate in te le cose che ti sono state dette dal Signore, perciò la sua fede ha suscitato l’ammirazione di Bernardo e di tutta la Chiesa" (WA 2,15).

In riferimento alle nozze di Cana, Lutero esclama: "guardate come essa agisce e ci ammaestra" (WA 17/II, 66). Non parlando di fede ma vivendola Maria la insegna con il suo esempio, una fede serena, forte e sincera che tocca la sostanza stessa: la potenza di Dio, la sua grazia, la sua volontà di salvezza. Lutero intende la virtù dell’umanità (Demut) alla luce del verbo humiliare, cioè abbassare e annientare e traduce humulitas con nullità, nientezza.

"Questo è il pensiero di Maria: Dio ha riguardato a me ancella povera, disprezzata, meschina, mentre avrebbe ben trovato regine ricche, nobili, potenti, figliole di principi e di grandi signori... invece ha posato su di me il suo sguardo di pura bontà e si è ervito di una povera, disprezzata fanciulla, affinché nessuno al suo cospetto si vantasse di essere stato o di essere degno di tale onore... Ella non si è vantata né della sua verginità né della sua umiltà, ma soltanto dello sguardo divino pieno di grazia. Perciò l’accento non viene posto sulla parola "humilitatem" ma sulla parola "respexit". Infatti non va lodata la sua nullità (nichtickeyt) ma lo sguardo di Dio" (Magnificat).

Nemmeno la certezza della divina maternità trattiene la Madre di Dio dal sottoporsi ai rigori della stagione per prestare un umile servizio all’anziana Elisabetta (WA 41,358). È uno specchio dell’umile sentire di sé che caratterizza il vero seguace di Cristo.

Un aspetto della purezza di Maria consiste nella lode di Dio per i beni che ha compiuto in lei e negli altri.

"Dopo che dunque la madre di Dio ha lodato con spirito semplice e puro il suo Dio e Salvatore senza diventare presuntuosa a causa dei suoi beni, ma cantando la bontà di colui come si conviene, ella passa secondo un giusto ordine, a lodare le sue opere e i suoi beni... Un altro insegnamento ci dà qui Maria. Ognuno deve essere il primo a voler lodare Iddio e a mettere in evidenza le opere che egli ha compiute in lui e poi deve lodare Dio anche per le opere che ha compiute in altri".

***

Lutero riconosce la maternità spirituale di Maria, madre dei cristiani.

"Vedi, Cristo ci toglie e prende per sé la nostra nascita, e ci dona la sua, affinché in essa diventiamo nuovi e puri, come se fosse la nostra propria, e ogni cristiano possa rallegrarsi di questa nascita di Cristo, non meno che se anch’egli, come Cristo, fosse nato dalla Vergine Maria. Chi non crede questo, o ne dubita, non è cristiano. Oh, questa è la grande allegrezza, di cui parla l’angelo. Questa è la consolazione e la traboccante bontà di Dio: che l’uomo (in quanto crede) possa gloriarsi di un bene così prezioso, che Maria sia la sua vera madre, Cristo il suo fratello, Dio il suo padre... bada ad appropriarti (con la fede) la sua nascita, a fare il cambio con lui, in modo da liberarti della tua nascita e da ricevere la sua. Questo accade, se credi così; tu siedi allora veramente in grembo alla Vergine Maria, e sei il suo caro fanciullo" (WA 10/I, 72).

"Anche se egli solo (Cristo) fu nel suo seno, Maria è veramente madre di lui e di tutti noi... se egli è nostro, noi dobbiamo essere al posto suo; dov’è lui là siamo anche noi; ciò ch’egli ha, deve appartenere anche a noi; la sua madre, perciò è anche nostra" (WA 29,655).

In Maria trafitta dalla spada del dolore (morte di Giuseppe e crocifissione di Cristo) è rappresentato il destino di sofferenza e di gloria della chiesa (WA 10/I, 1,405-6). Essa rappresenta il popolo di Dio che si sostituisce alla Sinagoga (WA 11, 144. 616) in quanto accetta la Parola di Dio ed è fedele ad essa (W 37, 187-288). Maria è la Chiesa cristiana, Giuseppe è il servo della Chiesa, come dovrebbero esserlo i vescovi e i parroci se predicassero il Vangelo.

Sul vero modo di onorare la madre di Dio Lutero ritorna più volte soprattutto nel commento al Magnificat.

"... Così possiamo imparare quale sia il vero onore che le si deve tributare e mediante il quale la si deve servire... O beata Vergine e Madre di Dio, come sei stata misera e disprezzata, eppure Dio ha riguardato a te con tante ricchezza della sua grazia, e grandi cose ha operato in te; tu non sei stata degna di alcuna di esse, e al di sopra di ogni tuo merito è stata ricca, sovrabbondante la grazia di Dio in te. Oh salve! Da ora in terno beata sei tu che hai trovato un tale Dio!...

Pensi forse che la puoi incontrare meglio che quando vieni a Dio per mezzo di lei e impari da lei a confidare e a sperare in Dio, anche se vieni disprezzato e annientato in vita e in morte? Essa non vuole che tu venga a lei, ma per mezzo di lei a Dio. Ma ora vi sono certuni che cercano in lei come in un Dio aiuto e consolazione, tanto che io temo che oggi vi sia al mondo più idolatria che mai".

È evidente la preoccupazione di Lutero che chi onora Maria non si fermi alla sua persona ma giunga a Gesù Cristo. Nelle espressioni sembra ammettere che si "venga a Dio per mezzo di lei".

CARLO COLLO, Maria nel pensiero di Lutero, in Aa. Vv., Spiritualità mariana, Ed. S. Massimo, Torino 1989, pp. 97-137.

* MARTIN LUTERO, Il Magnificat tradotto in tedesco e commentato, in Id., Scritti religiosi, a cura di VALDO VINAY in collaborazione con GIOVANNI MIEGGE, Ed. Laterza, Bari 1958, pp. 189-280.

Martedì, 14 Giugno 2005 23:32

11 settembre 2001 (Faustino Ferrari)

I grandi imperi sono come le torri, come le antiche mura di una città o di un limen che fu eretto per sbarrare l'avanzare di nemici. Che durino millenni o anche solo il volgere di pochi grappoli di anni...

Quando la violenza
comincia dalla teologia
di Carlo Molari




C'è un modo di insegnare religione che rende difficile o impedisce l'educazione alla pace. Non mi riferisco tanto agli insegnamenti morali, relativi ad es. alla guerra giusta o all'uccisione del tiranno (dottrine che devono essere certamente riviste), ma alle concezioni più generali che riguardano la funzione del cristianesimo nella storia, la missione della chiesa e la stessa concezione di Dio.
Tutta la teologia cattolica e quindi anche l'insegnamento della religione può ancora essere percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. Spesso perciò con l'insegnamento della religione noi contribuiamo all'educazione di uomini violenti pur difendendo ideali di pace e proclamando il vangelo della fratellanza universale. È necessario rendersi conto di queste dinamiche per evitare ogni contraddizione che risulterebbe deleteria.
La pace è prima di tutto un processo culturale che richiede la revisione radicale dei modelli interpretativi e degli atteggiamenti spirituali che nel passato, spesso inconsapevolmente, hanno suscitato movimenti violenti. Vorrei portare alcuni esempi di insegnamenti correnti della teologia che contrastano con una educazione alla pace.


1. Concezione di Dio.

C'è molto infantilismo e antropomorfismo in formule relative a Dio usate abitualmente, ma soprattutto esse spesso rendono difficile una vera educazione alla pace.
Il Dio onnipotente, il Dio degli eserciti, il Dio che sconfigge i nemici, che ci può far prevalere su gli altri è un Dio violento e guerriero. Questa immagine di Dio riflette esperienze e culture di altri secoli, ma ha lasciato traccia in molte espressioni popolari.
Il Dio salvatore che il vangelo ci presenta non è colui che ci fa vincere, che è più forte dei nemici, ma colui che ci concede di vivere tutte le situazioni, anche la morte, in modo salvifico. È il Dio che anche quando siamo sconfitti ci offre di poter amare e perdonare.
Il Dio rivelato da Cristo è il Dio della pace e della fraternità, il Dio della resurrezione non della vittoria.

2. Teologia della forza fisica.

La forza fisica nella fase infantile e adolescenziale costituisce un ideale assoluto. È la reazione alla condizione di debolezza in cui l'uomo nasce. Per questo nella fase infantile dell'umanità la forza fisica venne sacralizzata: fu spesso considerata come espressione della benevolenza divina, comunicazione della energia della Natura, partecipazione della forza cosmica.
Una teologia della potenza o della forza fisica si esprimeva nella esaltazione degli eroi come incarnazione di Dio, nei miti della vittoria in guerra come decisione degli Dei ed espressione dei loro favori nel cosiddetto giudizio di Dio, secondo il quale chi superava una prova era dalla parte della giustizia.
La debolezza fisica, la malattia o la sconfitta in guerra venivano considerate come conseguenze dei peccati che avevano irritato Dio.
Questo modo di interpretare l'esistenza e la storia non è più corrente ma rimangono residui notevoli di questa fase culturale in espressioni, preghiere, formule di fede tradizionali.

3. Stato originale.

Anche nei racconto delle origini esistono elementi che possono favorire la violenza e la discriminazione. In primo luogo occorre superare la convinzione che la violenza del mondo sia esclusivamente la conseguenza del peccato. C'è una violenza legata alla stessa condizione imperfetta di creatura e alla necessità di crescita personale.
La concezione idilliaca della natura primitiva o dell'uomo uscito perfetto dalle mani di Dio è un mito da intendersi come simbolo della chiamata divina ad un futuro diverso, non come descrizione di una condizione del passato.
La pace non è mai esistita: è una vocazione per il futuro dell'uomo. Il progetto di pace che avvertiamo urgente non è un ritorno a forme primordiali di esistenza umana, ma è una novità assoluta che ci è affidata come sfida dalla storia.

4. Azione di Dio nella storia.


Molte di queste formule inadeguate dipendono da un errato concetto dell'azione di Dio. Ci sono diversi modelli con cui viene abitualmente interpretata l'azione di Dio nella creazione e nella storia.
C'è chi pensa a Dio secondo categorie magiche, come se la sua energia sia concentrata in parole, cose o persone particolari. C'è chi pensa a Dio come una creatura potentissima che può intervenire nella creazione e modificare le cose sostituirsi ad esse, introdurre energie nuove. Egli agirebbe come un buon artigiano che modifica gli oggetti sbagliati o come una madre che sorregge il figlio quando sta per cadere. Questi modi di pensare all'azione di Dio sono molto imperfetti e peccano di antropomorfismo: proiettano cioè in Dio atteggiamenti umani.
La teologia in questi ultimi decenni ha purificato i modelli per esprimere l'azione di Dio. Lo stimolo le è venuto dal confronto con le scienze della natura e in particolare con le ipotesi evoluzioniste.
Già il domenicano A. D. Sertillanges (1863-1948) lungo tutta la sua vita aveva messo a punto un concetto di creazione purificato da tutte le sovrastrutture predicamentali (1). Egli giustificava coerentemente l'affermazione di S. Tommaso: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (2).
Anche Teilhard de Chardin (1881-1955) dagli anni successivi alla prima guerra mondiale fino alla sua morte ha riflettuto spesso sulle categorie scolastiche dell'azione di Dio nel mondo, per pervenire a formule che potessero esprimere in modo adeguato le conquiste della scienza o le diverse teorie scientifiche. A proposito della creazione scriveva: «La creazione così compresa non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell'universo» (3). «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di non cogliere se non l'opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d'insieme. Dio propriamente parlando non fa: egli fa che le cose si facciano» (4).
La stessa affermazione viene fatta più tardi da K. Rahner (1904-1984) in un medesimo contesto culturale: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti) ... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle creature» (5). Dio, perciò «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire» (6).
Utilizzando questo concetto di azione Dio appaiono in una luce diversa la preghiera dell'uomo, il valore della sua azione per la pace e l'influsso negativo della sua aggressività.
Pregare per la pace non serve per far intervenire Dio al nostro posto, ma per farci assumere atteggiamenti che ci consentano di realizzare la sua volontà. La preghiera non serve per far cambiare l'opinione di Dio nei nostri confronti o per farlo agire diversamente ma per modificare il cuore degli uomini.
Il futuro dell'uomo non cade dal cielo, non è un'irruzione improvvisa per un intervento di Dio, ma è la costruzione donata all'uomo dalla sua misericordia lungo tutta la storia.
D'altra parte il futuro, per il credente, non è semplice sviluppo del già dato ma è l'avvento di un presente non ancora accolto, di un Bene non amato, di una Verità non ancora conosciuta, di un Vita non ancora tradotta in umanità. Per questo è assolutamente necessario un atteggiamento di accoglienza che la preghiera rende possibile e sviluppa.
Non si richiede che l'uomo pregando ottenga una azione di Dio, ma che diventi capace di una fedeltà alla vita che conduce alla pace. La pace di Dio non può entrare nella storia degli uomini se questi non compiono scelte di pace.

5. Natura e soprannatura.

Anche la dottrina relativa all'ordine soprannaturale si è spesso prestata a concezioni discriminatorie. Si pensava che solo i cristiani, anzi solo coloro che erano in grazia potevano operare il bene e costruire il regno di Dio. Le altre azioni, anche se buone, erano prive di quelle carica vitale che veniva solamente dall'inserimento nell'ordine della grazia. Ciò conduceva al disprezzo di tutte le altre forme di religione, che spesso venivano anzi considerate frutto dell'azione demoniaca nella storia.
Il problema che alla teologia medioevale e alla teologia scolastica veniva posto dall'uso della categoria aristotelica di «natura», ora è praticamente scomparso. Non vi è alcuna necessità di parlare di due chiamate e di due fini proposti all'uomo: uno naturale ed uno soprannaturale. Non vi è alcun bisogno di ricorrere ad un ordine «superiore» per spiegare le azioni che consentono all'uomo di pervenire alla pienezza di vita.
Utilizzando la prospettiva dinamica (l'uomo diventa), storica (attraverso gli eventi) e sociale (nell'intreccio dei rapporti) non è difficile liberarsi da queste contrapposizioni.
L'azione di Dio fin dall'inizio ha una intenzionalità eterna ed una carica vitale trascendente. La creatura, tuttavia, non è in grado di cogliere tale offerta se non progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi.
Per questo la storia di ogni persona come la storia umana registra una progressione di offerte divine fino ad una pienezza alla quale ogni uomo è chiamato.
Ciò non significa che la storia svolgendosi possa pervenire alla sua pienezza. Il passato infatti, non contiene i principi sufficienti per il futuro. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio diventa più ricca perché può essere accolta in modo sempre più perfetto. La stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè dell'azione gratuita di Dio che sollecita la libertà e offre capacità di risposta.
Ma in questa avventura storica tutti gli uomini sì ritrovano fratelli e tutti i popoli contribuiscono con l'apporto della loro storia alla realizzazione di un'unica comunità umana.
Le differenze che esistono tra i vari popoli caratterizzano i diversi doni che essi devono offrire alla realizzazione dell'unità umana.

6. Rivelazione e segni dei tempi.

Anche la dottrina della rivelazione non deve essere presentata in modo esclusivo e discriminante. La rivelazione storica è unica e riguarda l'umanità intera. Certo, i profeti nelle diverse culture hanno avuto funzioni non identiche ed i loro apporti hanno segnato in modo differenziato la storia umana. Ma non si deve limitare l'ambito della rivelazione a un popolo solo, se essa è cominciata con la creazione ed ha avuto come spazio la storia umana (ricorda Gen 1-11).
Se la rivelazione, come chiarisce la Dei Verbum (n. 2), è una serie di eventi accompagnati da parole, non vi possono essere esclusioni di sorta nel possesso della rivelazione e nella sua interpretazione. La storia umana, infatti, è fatta da tutti, è aperta a tutti e la sua interpretazione dipende dagli sviluppi che la storia avrà nel futuro.
Per questo il concilio ha insistito sulla necessità di leggere i segni dei tempi (Gaudium et Spes 4), di ascoltare il linguaggio di tutti gli uomini e di ricorrere agli esperti del mondo «siano essi credenti che non credenti» per capire la verità rivelata ed approfondirla (cf GS 44). Non si tratta di attendere eventi speciali, che esprimano un'azione straordinaria di Dio o una sua nuova rivelazione. Tutti gli eventi storici, vissuti in fedeltà alle leggi della vita, contengono elementi che possono chiarire la rivelazione perché sono il tentativo che la vita fa per manifestarsi e quindi per tradurre in espressioni concrete le sue virtualità profonde.
Avvertire i segni dei tempi significa appunto cogliere «i segni della presenza è del disegno di Dio» (GS 11) negli eventi della storia. Ma siccome l'azione di Dio è trascendente e non «predicamentale», gli eventi debbono essere letti secondo le loro leggi intrinseche, secondo quindi i dati della scienza. Solo a questa condizione è possibile scorgere alla luce dell'esperienza di fede, le tensioni salvifiche che essi contengono. Se si scavalca la realtà per imporre un'interpretazione che si presume essere di fede, di fatto non si farà altro che imporre agli eventi la lettura che la comunità cristiana ha dato nel passato.
Leggere quindi i segni dei tempi significa cogliere il messaggio che tutti gli eventi della storia, interpretati secondo le loro dinamiche interne, contengono e manifestano a coloro che hanno gli occhi aperti dalla fede.

7. Storia e regno.


Allo stesso modo deve essere chiarito il rapporto tra impegno storico e realizzazione del regno di Dio. La costruzione del regno non è esclusiva di un popolo, ma richiede il contributo di tutti. Dio non può manifestare la sua misericordia e il suo amore nella storia se non quando essi diventano gesti di creatura. Costruire il regno perciò non significa sostituirsi a Dio o avere capacità autonome di vita eterna. Ma significa aprirsi completamente all'azione dello Spirito così da consentirgli di tradurre in forme umane l'amore misericordioso del Padre secondo le indicazioni che Cristo ci ha lasciato.
Le dimensioni eterne dell'esistenza umana non possono essere costruite dall'uomo. Ma neppure possono essere accolte improvvisamente alla fine della vita. L'uomo può solo accoglierle progressivamente attraverso i numerosi eventi storici che la misericordia di Dio gli consente di vivere e nell'intreccio dei rapporti che gli è possibile realizzare.
Nessun popolo perciò può presumere di potere costruire il regno, ma neppure può abbandonarsi a forme di passiva attesa, dato che la vita eterna gli è offerta ogni giorno attraverso la molteplicità dei rapporti che egli vive, e gli avvenimenti piccoli o grandi del suo percorso nella storia. Chi trascura queste offerte quotidiane, non potrà mai accogliere il dono definitivo del Padre, o il compimento della sua perfezione. Non si dà infatti compimento che di un'opera progressivamente maturata fino alla pienezza.
Se si è convinti che la pace si costruisce nella storia con esigenze sempre nuove, è urgente un ampio processo di conversione. Occorre cominciare dai bambini piccoli, e dagli adolescenti. Occorre presentare le guerre come gli errori umani più gravi. Occorre demitizzare gli eroi violenti (Cesare, Napoleone, Garibaldi), occorre allargare l'orizzonte delle conoscenze a tutti gli ambiti della storia umana, come l'unico tentativo dell'umanità di pervenire tra errori e barbarie ad una forma unitaria di esistenza.
La fraternità umana oggi passa attraverso l'abbattimento dei muri divisori che la presunzione dei popoli ha creato fra gli uni e gli altri. Anche la chiesa deve essere testimone di questa conversione che l'intera umanità sente l'urgenza di operare.

8. Qualità della pace.

La pace non deve essere perciò richiesta come urgenza per i disastri che potrebbe provocare una guerra atomica, ma come salto qualitativo dell'esistenza umana, come la dimensione spirituale delle attuali strutture di comunicazione, di industria, di commercio.
La sconfitta della violenza passa attraverso cambiamenti molto più radicali che la semplice distruzione delle armi. È un atteggiamento nuovo dello spirito: l'incontro fraterno con gli altri, l'uso maturo della sessualità, la considerazione sincera degli anziani, la vicinanza premurosa agli ammalati, la solidarietà con gli emarginati, la condivisione con i più poveri.

9. Conclusione.

Per il cammino futuro della pace è necessaria una presentazione della religione e dei contenuti della fede in Dio, purificata da tutti gli elementi di violenza e di assolutismo che spesso le sono collegati.
In particolare è necessario evitare ogni dualismo e contrapposizione: azione di Dio-azione dell'uomo, grazia-natura, storia-regno.
Così è necessario evitare l'assolutismo della religione e le rivendicazioni di superiorità nei confronti degli altri.
Dio è uno solo, e la forza della vita è consegnata a tutti. Ogni religione deve liberarsi dalla presunzione di essere la risposta unica e definitiva di Dio agli uomini.
Ciò richiede da parte degli insegnanti una particolare sensibilità nella presentazione della dottrina relativa:
- alla rivelazione
- alla salvezza
- alla grazia
- all'azione di Dio nella storia.
L'insegnamento religioso del passato non è sufficiente alla attuale richiesta di pace. Esso riflette una teologia percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. L'educazione alla pace non può essere costruita senza il rinnovamento dell'intero insegnamento della religione.


1. A. D. Sertillange, L'idée de création et ses retentissements en philosophie, Aubier, Paris 1945.
2. Il Contra Gentiles, c. 18
3. P. Teilhard de Chardin, La transformation créatrice, in Comment je crois, Seuil, Paris 1969, p 31.
4. Id., Note sur les modes de l'action divine dans l'univers, in ib. p. 38. Cf un'affermazione analoga in Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, in «Etudes», 5-12 juin 1921, ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957, p. 39.
5. K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 96.
6. Id., ib., p. 99.


(da Religione e scuola, XIII (1984), n. 6, pp. 271-275).

La comunicazione dello Spirito
di Giovanni Vannucci




Comunicando ai discepoli lo Spirito Santo, il nuovo respiro, Gesù li rendeva uomini della coscienza nuova che con lui era nata. Un nuovo sangue nasceva in loro, una nuova mente, un nuovo cuore.

Lo Spirito Santo chi è, dove lo troviamo, come identificarlo? L'evangelista Giovanni lo designa col nome di Consolatore, per il fatto che una sua prima illuminazione alla mente rivela l'inutilità di tutte le cose transitorie alle quali l'uomo si afferra per errore e, convincendolo a distaccarsene volontariamente, lo conduce su un'altissima balza dove gli mostra non le ricchezze della terra, ma le conquiste della mente e l'inizia al segreto della contemplazione in cui solamente e veramente l'anima si acquieta.

Essenzialmente lo Spirito Santo è l'Amore, è l'Eros del mondo. Nella creazione l'Amore costituisce una necessità, la ragione stessa della creazione e il tramite per cui la creazione si effettua. L'Amore è il modo d'essere dello Spirito per identificare se stesso fuori di sé. L'Amore è la realtà dell'immensa libertà dell'essere e, infine, è l'unico sostanziale modo di essere della mente dell'uomo. Così che possiamo affermare che dove non è amore non vi è mente, dove è mente ivi è sempre amore. La natura dello Spirito Santo è amore, lo spazio in cui possiamo collocarlo è la mente umana. Attraverso l'amore, l’uomo giunge alla conoscenza; attraverso la conoscenza egli identifica l'Amore, quindi lo Spirito Santo è intelletto. Attraverso l'intelletto, la mente dell'uomo giunge a individuare i massimi segreti dello Spirito, per cui lo Spirito Santo è Sapienza. La sapienza insegna all'uomo la necessità del distacco da tutto ciò che non è immutabile e eterno. Ecco, quindi lo Spirito Santo è semplicità e purezza.

La comunicazione dello Spirito Santo conduce i discepoli a scoprire in se stessi lo Spirito, la divina scintilla, il respiro divino dato al primo Adamo e rinnovato in loro da Cristo. Divina scintilla, latente in ogni uomo che viene all'esistenza, che si risveglia al contatto degli inviati rinnovati dal soffio creatore di Cristo. I primi discepoli al contatto del nuovo respiro divennero uomini nuovi. È questa la novità portata da Cristo sulla terra: la comunicazione di quella essenzialità spirituale cui tutti gli uomini possono e debbono accedere. L'uomo, nella novità di Cristo, si rinnova di continuo come sotto l'azione di un infuocato battesimo. La trasformazione interiore dei discepoli li rende atti a portare il grande annuncio della remissione dei peccati. Cristo comunica loro il mandato con due frasi: «Saranno rimessi i peccati a coloro cui li rimetterete; non saranno rimessi a coloro cui non li rimetterete». La nostra mentalità giuridica ci ha portato a intendere queste parole negli schemi del linguaggio della giurisprudenza romana.

Domandiamoci se lo Spirito Santo insufflato da Gesù Cristo sui suoi discepoli, è l'Amore limitato che discrimina i degni e gli indegni, i giusti e i peccatori oppure è l'Amore assoluto che feconda senza distinzione i campi dei figli dell'uomo? Nella prima accezione, le parole di Cristo conferiscono ai discepoli un potere di giudizio; nella seconda invece indicano insieme e una grandezza di anima sempre pronta a rimettere l'errore e il peccato, e un avvenimento che, qualora tale grandezza non venga raggiunta, il peccato rimarrà insoluto. Potremmo tentare questa traduzione: «Vivendo uniti dallo Spirito Santo con l'Amore illimitato del Padre, attraverserete l'esistenza diffondendo onde di amore e di riconciliazione; se non assurgerete alla grandezza dello Spirito Santo, e voi e chi avvicinerete, rimarrete legati al peccato».

Lo Spirito Santo è Amore; l'Amore che non si esprime nel perdono, nella pietà, nella misericordia, non è amore. L'Amore senza parzialità, separatività, inimicizia, è l'Amore perfetto, l'espressione più perfetta dello Spirito Santo, e-insieme la più elevata esplicazione della mente umana; essa è infatti lo spazio dello Spirito Santo. La mente umana può amare tutti i tre regni della natura e immergersi, sino all'oblio di sé, nel quarto regno che è l'umano.
I doni dello Spirito Santo raggiungono la loro perfetta manifestazione nella capacità che la mente umana possiede di scoprire sempre più oggetti di amore, di intuire sempre meglio le ragioni del cammino ascensionale della coscienza, fino a raggiungere quello stato di ebbrezza spirituale che scopre in modo misterioso la fratellanza di tutte le cose e di tutti gli esseri. In questo stato di ebbrezza, la mente fecondata dallo Spirito Santo perviene a comprendere l'eternità del proprio essere in Dio e in tutte le cose che Egli ha creato. A questo punto sarà sorgente di pacificazione e non di giudizio.


(da Adista, 30 aprile 2005)

La domenica,
giorno della riconciliazione dei cristiani
Card. Walter Kasper
Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani

crismon


"La domenica, giorno della riconciliazione dei cristiani" – mi sembra che non ci sia un altro luogo dove sia più appropriato parlare su questo tema talmente fondamentale ed urgente che qui a Bari, città ponte fra Occidente e Oriente, luogo della tomba di San Nicola, il santo della carità riconciliante venerato sia in Oriente che in Occidente; Bari, luogo dove nel 1098 durante il pontificato di Papa Urbano II ha avuto luogo un sinodo di vescovi greci e latini; Bari, luogo di pellegrinaggio di fedeli ortodossi e cattolici, luogo di impegno ecumenico e di fervida nostalgia per la riconciliazione e l’unione fra le due parti della cristianità divise da mille anni.

Perché non sperare che qui a Bari, 1.000 anni dopo il sinodo del 1098 nel 2098 [e perché non prima?], possiamo celebrare nuovamente un sinodo di vescovi greci e latini, un sinodo di riconciliazione? Il nuovo pontificato ci ha dato la speranza che tali attese non sono pure utopie. Speriamo di cuore, ed io ne sono profondamente convinto, che dopo i grandi sforzi e gli importanti passi di Papa Giovanni Paolo II, il nuovo Papa Benedetto XVI spiani ed apra la strada per una tale prospettiva. Ciò sarà possibile se combiniamo l’entusiasmo e lo slancio ecumenico con uno sguardo realistico sull’attuale situazione ecumenica e se nella scena ecumenica in rapido cambiamento percepiamo sia le difficoltà, che non sono da sottovalutare, che le nuove chance.

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I. La domenica – segno ecumenico d’identità cristiana

Cominciamo con ciò che i cristiani hanno in comune, che è la solida base di ogni impegno ecumenico, e la speranza che abbiamo per il futuro cammino ecumenico. Questa base comune, che oggi già esiste fra ortodossi, cattolici e protestanti, viene espressa proprio nel tema di questo giorno: "La domenica, giorno per la riconciliazione dei cristiani". Questo tema ci ricorda che – malgrado tutte le differenze – ciò che abbiamo in comune è molto più di ciò che ci divide. Abbiamo in comune la celebrazione della domenica, che dagli inizi del cristianesimo è stata il segno che distingueva i cristiani dagli ebrei e dal loro shabbat e che ci distingueva ancor di più dai pagani, anche dai pagani odierni, per i quali la domenica è divenuta semplicemente un ‘fine settimana’. La domenica è un segno distintivo e un segno ecumenico d’identità cristiana.

Già per i primi cristiani la domenica era il primo giorno della settimana (cf. 1 Cor 16,2), che essi celebravano come il giorno del Signore (kyriake hemera) (cf. Atti 1,10), come una piccola Pasqua del Signore, come "sacramento pasquale" secondo le parole di Agostino (Commento a Giovanni 20,20,2). Nelle chiese orientali, la domenica è tuttora il giorno della Resurrezione (anastasimos hemera). Così la domenica per tutti cristiani è significativa per il centro e il fondamento della fede cristiana, cioè la fede in Gesù Cristo nostro Signore, la fede nella resurrezione e la speranza nella vita, che non finisce con la morte, che con la morte non è tolta ma soltanto trasformata. Ogni volta che celebriamo l’eucaristia diciamo: "Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta."

I cristiani sono coloro che celebrano la domenica come giorno del Signore. Devo aggiungere: I cristiani sono coloro, che non solo celebrano la domenica, ma anche vivono secondo la domenica, cioè vivono come uomini della domenica. Questa affermazione ci viene fornita da un Padre comune della Chiesa indivisa, un grande vescovo dei primi tempi della Chiesa che ha dato testimonianza del suo essere cristiano con la propria vita, che dunque sapeva quale fosse la ragione ed il fine dell’esistenza cristiana e che non ha esitato ad affrontare a Roma le fiere, che non ha eluso la morte. Si tratta del vescovo martire Ignazio di Antiochia. In una lettera scritta durante la sua prigionia mentre lo stavano conducendo a Roma come condannato a morte, egli dice: Essere cristiani significa "vivere secondo la domenica" (Ad Magn 9,1) Una formulazione veramente geniale!

Nello stesso senso una delle martiri della Chiesa primitiva confessò: "Sì, sono andata all'assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana" (cit. Enciclica "Dies Domini", 46). Capiamo allora perché i martiri di Abitana proclamarono davanti al giudice pagano: "Non possiamo vivere senza la domenica". Se rinunciassimo all’assemblea domenicale, rinunceremmo a noi stessi, negheremmo la nostra stessa identità.

Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica, Dies Domini (1995) ha scritto lo stesso per il nostro tempo: "Alle soglie del terzo millennio, la celebrazione della domenica cristiana, per i significati che evoca e le dimensioni che implica, in rapporto ai fondamenti stessi della fede, rimane un elemento qualificante dell'identità cristiana" (n. 30). "È importante perciò che [i cristiani] si radunino, per esprimere pienamente l'identità stessa della Chiesa, la ekklesía, l'assemblea convocata dal Signore risorto" (Dies Domini, 31). E giustamente il Papa ha aggiunto indicando il pericolo di perdere questa identità cristiana: "Quando la domenica perde il significato originario e si riduce a puro ‘fine settimana’, può capitare che l'uomo rimanga chiuso in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il ‘cielo’"(Dies Domini, 4).

Si, senza la celebrazione della domenica non siamo più identificabili, riconoscibili, distinguibili dagli altri, non siamo più trasparenti come cristiani, e senza identità visibile corriamo il rischio di non essere più presi in considerazione, di diventare una realtà insignificante. Ma non dobbiamo forse domandarci, se questo non sia veramente successo nel nostro tempo in larga misura secolarizzato? A molti l’orizzonte sembra chiuso e il cielo offuscato; la speranza è diventata una ‘merce’ rara, e molti non sanno più cos’è il significato della vita e cos’è il significato della morte. Un enorme comune compito ecumenico, persino una vera sfida ecumenica si apre con tale constatazione!

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II. Lo scandalo della divisione, che diamo ogni domenica

Lo scandalo che la cristianità dà al mondo ogni domenica consiste nel doloroso e deplorevole fatto che, sebbene abbiamo la domenica insieme, tuttavia non celebriamo la domenica insieme; invece di dare una testimonianza comune, diamo un segno di divisione perché andiamo ogni domenica in diverse chiese. Questo scandalo è ancora più sentito in situazioni – come per esempio nella mia patria – nelle quali esistono molti matrimoni e famiglie misti, che non possono celebrare la domenica in comune perché non possono partecipare alla comune mensa del Signore.

Negli ultimi decenni, sin dal Concilio Vaticano II, abbiamo preso coscienza che questa situazione è contro la volontà di Gesù Cristo, che ha voluto una sola Chiesa e che alla vigilia della sua morte ha pregato affinché tutti i suoi discepoli siano una sola cosa (Gv 17,21). In ogni celebrazione eucaristica domenicale confessiamo la nostra fede nell’ "una, santa Chiesa". Dunque non dobbiamo abituarci alla situazione della divisione; essa è peccato davanti a Dio e scandalo davanti al mondo. Le nostre divisioni hanno – come dice l’apostolo Paolo – diviso Cristo (cf. 1 Cor 1,13).

Perciò l’impegno e il dialogo ecumenico non sono un qualsiasi liberalismo, anzi, sono la fede ecclesiale presa sul serio e realizzata nella prassi. Essi non sono radicati in un relativismo o indifferentismo dogmatico, che non prende più sul serio i dogmi della Chiesa. Anzi, soltanto uno, che ha la sua propria identità, può essere un serio partner nel dialogo ecumenico. Due lembi di nebbia, che sfumano l’uno nell’altro, non possono veramente incontrarsi ed avere dialogo. L’impegno ecumenico prende sul serio ciò che ci dice la Sacra Scrittura e tutta la tradizione della Chiesa, cioè che c’è soltanto un Dio, un Signore Gesù Cristo, un battesimo, un corpo ed uno spirito (cf. Ef 4,4 s).

Come la situazione della divisione è in contraddizione con la nostra fede, così questa situazione è anche in contraddizione con la stessa celebrazione domenicale, la celebrazione dell’eucaristia. Ogni volta che leggiamo il Nuovo Testamento, che è il testo di riferimento fondamentale per tutti i cristiani, troviamo sempre la frase: "quando vi radunate in assemblea" (1 Cor 11,18.20, cf. 14,23.26). La domenica prevede dunque che i cristiani si radunino, si riuniscano, facciano l’esperienza della comunità. Il Nuovo Testamento è ancora più preciso. Parlando degli apostoli, dice: "si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (Atti 2,1) e della prima comunità racconta: "tutti insieme frequentavano il tempio" (Atti 2,46). Non si dice: che i cristiani vengano in gruppi e gruppetti distinti. No. Si dice: che essi si riuniscano tutti in un luogo, come un’unica comunità di Dio, come un unico popolo di Dio.

[Questa idea del "radunarsi insieme" è talmente fondamentale, che è potuta diventare la definizione stessa della Chiesa. La Bibbia ha descritto la "Chiesa" con un termine che in ebraico significa assemblea (qahal). I Padri della Chiesa intendono con la parola greca ekklesia coloro che sono stati convocati. Cirillo di Gerusalemme ha affermato: "la parola Chiesa si spiega con il fatto che, per il suo tramite, tutti gli uomini vengono chiamati e riuniti". Isidoro di Siviglia, che nel Medioevo ha tramandato il patrimonio dei Padri della Chiesa, ha ripreso tale definizione: "Ekklesia è definita la Chiesa, poiché essa chiama tutti a sé e riunisce tutti". Una delle più antiche e maggiormente diffuse definizioni di Chiesa è dunque quella di congregatio fidelium, assemblea dei fedeli.]

L’assemblea domenicale ha il suo fulcro ed il suo apice nella celebrazione comune dell’Eucaristia, che è sacramento dell’unità. Una delle più antiche definizioni dell’Eucaristia è synaxis, raduno, riunione. Tale concetto ha il suo fondamento nell’insegnamento dell’apostolo Paolo. Nella prima lettera ai Corinzi egli scrive: "Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1 Cor 10,17). Un pane, un corpo. In un documento della prima metà del secondo secolo, appartenente dunque al tempo immediatamente post-apostolico, leggiamo: "Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra" (Did 9,4).

Sant’Agostino si rifà a quest’immagine delle molteplici spighe riunite in un solo pane e descrive l’Eucaristia come "sacramento dell’unità e vincolo dell’amore" (Commento a Giovanni 26,6,13) (cf. SC 47; LG 3; 11; 26 ecc.). Di fatti, attraverso la comune partecipazione all’unico Corpo eucaristico di Cristo, noi diventiamo l’unico Corpo di Cristo, diventiamo cioè Chiesa. Ci raduniamo la domenica per diventare una cosa sola in Cristo, tramite l’Eucaristia. Pertanto, possiamo dire riassumendo: l’Eucaristia "è per sua natura una epifania della Chiesa" (Dies Domini, 34). La Chiesa, come pure ogni comunità locale, vive dell’Eucaristia, va edificata e cresce tramite l’Eucaristia (UR 15; cf. Enciclica "Ecclesia de eucharistia", 2003).

Con tali parole l’ecclesiologia eucaristica, tanto cara ai nostri fratelli ortodossi, ha trovato una ricezione ufficiale nella Chiesa cattolica. Ma con le nostre divisioni abbiamo messo altare contro altare e profondamente ferito l’una ed unica Chiesa di Cristo. Come è potuto succedere questo?

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III. Cause e conseguenze della divisione

La divisione tra Oriente e Occidente ha una lunga storia, che è iniziata ben prima delle scomuniche del 1054 e del vergognoso sacco di Costantinopoli del 1254. L’Oriente e l’Occidente hanno accolto fin dall’inizio lo stesso Vangelo in forme diverse, influenzate dalla rispettiva specifica cultura e mentalità. Questo ha condotto già nel primo millennio a tensioni e scismi, che – oltre alle cause estranee anche per mancanza di mutua comprensione e carità – si sono acuite e consolidate nel secondo millennio (cf. UR 14).

Tuttavia, malgrado talvolta delle dure polemiche, nel Medio Evo permaneva la consapevolezza di essere una sola Chiesa ed esistevano fino al tempo del Concilio di Trento singoli casi di una communicatio in sacris. Un – per così dire – totale scisma lo troviamo soltanto nei tempi moderni a causa di una ecclesiologia esclusivista dalle due parti, che dal Concilio Vaticano II fortunatamente abbiamo superato di nuovo. Nondimeno, finora non siamo stati capaci di superare la differenza più ovvia e la pietra d’inciampo: il ministero Petrino del vescovo di Roma come definito dai dogmi del Concilio Vaticano I sulla giurisdizione e sull’infallibilità del Papa. Le differenze risalgono già al primo millennio, dove Occidente e Oriente malgrado differenti concezioni vivevano in piena comunione.

Non si tratta dunque di uno scisma che può essere fatto risalire ad una data precisa; tutte le date di riferimento come il 1054 e il 1254 hanno più o meno un significato simbolico. Come il famoso ecumenista Yves Congar ha affermato si tratta piuttosto di un processo di reciproca estraniazione e alienamento, che oggi deve essere invertito tramite un processo di avvicinamento e di riconciliazione, che ci auguriamo non debba durare anch’esso 1.000 anni.

Come il processo dell’estraniazione e dell’alienamento era stato condizionato non soltanto da conflitti dottrinali ma anche da cause culturali e da una mentalità diversa, da eventi storici e politici deplorevoli, anche il processo inverso del ravvicinamento implica, accanto al dialogo teologico che è e rimane fondamentale, anche il dialogo della carità, la purificazione della memoria, il superamento dei pregiudizi, un’approfondita mutua conoscenza, la cooperazione pratica nel campo pastorale, culturale, sociale e politico, incontri e visite amichevoli, ospitalità e non ultimo amicizie personali. In tale modo speriamo di poter raggiungere un complemento, una osmosi e una pericoresi del principio Petrino della Chiesa latina e del principio sinodale e collegiale tanto caro alle chiese orientali.

La separazione fra Oriente e Occidente ha offuscato la testimonianza cristiana e ha indebolito le due parti dell’unica cristianità. Essa ha lasciato da sola la Chiesa orientale nella sua difesa contro l’Islam, mentre la cristianità latina si è sviluppata unilateralmente; essa ha, per così dire, respirato con un solo polmone e si è impoverita. Un tale impoverimento è stato una delle cause, tra le altre, della seria crisi della Chiesa nel tardo Medio Evo, che ha condotto alla tragica divisione del XVI secolo fra il mondo cattolico e quello protestante, una divisione che è stata molto più profonda di quella con le chiese orientali; della divisione occidentale dobbiamo deplorare importanti divergenze non solo d’indole storica, sociologica, psicologica e culturale, ma sopratutto d’interpretazione della verità rivelata (UR 19).

Paradossalmente proprio il sacramento dell’unità è divenuto una pietra d’inciampo e un punto di acerbe polemiche e profonde differenze con le comunità protestanti. La questione non è soltanto la reale presenza di Cristo nell’eucaristia ma anche il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica. Il terzo punto della controversia, che finora non siamo stati capaci di risolvere è la questione del ministro dell’eucaristia, cioè la sacramentalità e validità del ministero ecclesiale e la comprensione della successione apostolica (cf. UR 22). In tutte le tre questioni, soprattutto con gli Anglicani e i Luterani, abbiamo raggiunto convergenze, ma tuttora non c’è un consenso sufficiente e stabile.

Mentre nello scisma fra Oriente e Occidente il tipo fondamentale e la struttura sacramentale e episcopale della Chiesa sono stati conservati, lo scisma occidentale (forse tranne l’alto-anglicanesimo e la Scandinavia) ha prodotto un altro tipo di chiesa che poi si è dissolto in una molteplicità di comunità ecclesiali. Purtroppo questo processo di frammentazione perdura tuttora. Nuove comunità cosiddette carismatiche e evangeliche emergono e aumentano rapidamente. Così la carta geografica ecclesiale rassomiglia ancora oggi alla pelle di un leopardo.

La triste conseguenza della divisione occidentale è stata la secolarizzazione della società occidentale, che dopo il crollo del muro di Berlino invade anche l’Europa orientale, e tramite la globalizazzione, influisce su tutto il mondo. Nei duri conflitti e nelle sanguinose guerre confessionali che seguirono la Riforma, nel Settecento è divenuto ovvio che la società europea aveva perso i suoi ormai comuni fondamenti per la convivenza e la pace; per raggiungere e mantener la pace non c’era un’altra soluzione se non quella di trovare tali fondamenti, non più nella fede ma in ciò che è comune a tutti gli uomini, la ragione umana. Essa è divenuta la base della vita pubblica, mentre le fede cristiana è stata ridotta e limitata alla sfera individuale. Così la fede cristiana è stata marginalizzata e ha perso il suo influsso sulla vita pubblica.

Ecco l’importanza e l’urgenza dell’impegno ecumenico. Esso non è soltanto un affare intra ecclesiale. Una nuova evangelizzazione dell’Europa e una nuova inculturazione della fede cristiana in Europa non sarà possibile senza un nuovo avvicinamento delle chiese e comunità ecclesiali in Europa. Solo ecumenicamente saremo in grado di raggiungere una nuova cultura domenicale.

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IV. Luci e ombre della situazione ecumenica

Il movimento ecumenico del XX secolo è uno dei rari sviluppi positivi e pieni di speranza in un secolo buio e sanguinoso. Sotto l’impulso dello Spirito di Dio (come ha costatato il Concilio Vaticano II), l’ecumenismo ha intrapreso d’invertire la rotta delle divisioni e d’iniziare un processo inverso di avvicinamento fino al ristabilimento della piena comunione (UR 1; 4). Papa Giovanni Paolo II ha ribadito spesso che la scelta ecumenica del Concilio Vaticano II è irreversibile; e siamo lieti e grati che il nuovo Papa Benedetto XVI già nel primo giorno del suo pontificato abbia dichiarato che, sulla scia del suo predecessore, l’unità della Chiesa è una sua priorità.

Nelle ultimi decenni Dio ci ha regalato enormi progressi. Nella comprensione dell’eucaristia abbiamo riscoperto la nostra comune tradizione con le chiese ortodosse (UR 15); con le comunità dalla tradizione della Riforma finora non abbiamo raggiunto un consenso, ma abbiamo superato molti malintesi e scoperto consensi parziali e convergenze importanti. Tali consensi abbiamo raggiunto soprattutto nella dottrina della giustificazione, che nel XVI. secolo era il centro e il fulcro della controversia.

Ma parlando delle luci del movimento ecumenico non penso soltanto ai documenti del dialogo teologico, per quanto importanti essi siano, penso anche a ciò che è avvenuto nella stessa vita della Chiesa. Durante l’ultimo giorno del Concilio abbiamo tolto dalla memoria della Chiesa gli anatemi del 1054, nel frattempo abbiamo superato molti pregiudizi, purificato la memoria, raggiunto una migliore mutua conoscenza; penso anche alle molte visite reciproche, alla mutua cooperazione a tutti i livelli della vita ecclesiale e in generale ad una fraternità riscoperta ed accresciuta.

La presenza di importanti delegazioni di quasi tutte le chiese e comunità ecclesiali ai funerali di Papa Giovanni Paolo II e alla solenne inaugurazione del nuovo Pontefice, ne era un segno, che alcuni decenni fa sarebbe stato del tutto inimmaginabile. Questi due eventi hanno mostrato la nuova realtà ecumenica a tutto il mondo visibile, e sono stati una chiara smentita alla stupida parola di un inverno ecumenico e persino di un’epoca glaciale ecumenica. I due eventi hanno mostrato che l’espressione ‘chiese sorelle’ non è soltanto un concetto astratto ed una parola a buon mercato; è una realtà. La Santa Sede, ed in particolare il Pontificio Consiglio per la promozione dell’ unità dei cristiani sono grati di questi segni di fraternità e insieme con il nuovo Papa si sentono impegnati ad andare avanti sulla scia del Concilio Vaticano II e della ricca eredità che Papa Giovanni Paolo II ci ha lasciato.

Infatti, i dialoghi ecumenici con i nostri fratelli protestanti continuano e persino portano talvolta buoni e sorprendenti frutti, come il nuovo documento cattolico-anglicano, molto costruttivo, su Maria e il suo ruolo nell’opera di redenzione, che malgrado tutte le ben note difficoltà nella Comunione Anglicana e con la Comunione Anglicana è stato pubblicato proprio in questi giorni.

Con i nostri fratelli ortodossi negli anni scorsi, malgrado tutte le difficoltà per il dialogo internazionale, siamo stati in grado di migliorare considerevolmente i nostri rapporti con singole chiese, per esempio con la chiesa di Grecia, di Serbia, di Bulgaria. Le difficoltà con la più grande chiesa ortodossa, la chiesa russo-ortodossa, sono conosciute e molti hanno letto con tristezza le aspre polemiche che si sono fatte sentire dopo la morte di Papa Giovanni Paolo II ancora prima che fosse sotterrato. Nondimeno, tramite contatti pazienti, sono stati possibili dei miglioramenti, resi evidenti dalla presenza ripetuta due volte di un’alta delegazione russo-ortodossa a Roma durante gli eventi summenzionati. Inoltre abbiamo la fondata speranza che quest’autunno ci sarà la ripresa del dialogo internazionale, come già due anni fa con successo abbiamo ripreso il dialogo con la famiglia delle chiese orientali ortodosse.

Tuttavia, non sarebbe né onesto né realistico non vedere anche i segni di una crisi; il dialogo ufficiale è diventato faticoso e spesso segna il passo. Talvolta ci sono ancora sospetti e paura, mancanza di fiducia a causa di ricordi negativi di ingiustizia sofferta nel passato, delusioni recenti e così via. C’è ancora molto da fare con la riconciliazione dei cuori. Ogni chiesa ha la sua lista di lamentele, ma d’altra parte nessuna chiesa è una comunità di angeli, senza errori e peccati; ognuna ha ragione per penitenza e un "mea culpa", come Papa Giovanni Paolo II lo ha espresso da parte della Chiesa cattolica. Non c’è ecumenismo senza conversione, ha detto il Concilio Vaticano II (UR 7), ed aggiungo: Non c’è ecumenismo senza perdono e riconciliazione. Non aiuta chiamare solo gli altri a cambiare la rotta, a convertirsi e pentirsi e ripetere tale richiesta in interviste come in un ritornello. La conversione e il rinnovamento deve cominciare da noi stessi, da ognuno di noi; sono sicuro che se ogni comunità comincia da se stessa, faremo tutti insieme progressi più rapidi e significativi.

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V. Il prossimo passo nel rapporto con le chiese orientali

Però, non c’è soltanto la questione di buona o cattiva volontà degli uni o degli altri.. Il problema di fondo è il problema teologico della Chiesa e la diversa concezione dell’unità e dello stesso scopo del cammino ecumenico. Il conflitto ecumenico è un conflitto sullo scopo ecumenico.

La concezione cattolica è nota. La Chiesa cattolica si comprende come Chiesa universale, inviata dal nostro Signore a tutte le nazioni (Mt 28,19). Non siamo una Chiesa nazionale, etnica o tribale; la Chiesa di Cristo è universale. Ma il Concilio Vaticano II ha anche riscoperto la dignità teologica della chiesa locale, che secondo l’antichissima tradizione del primo millennio non è solo una provincia e una parte, ma una porzione della Chiesa di Cristo, nella quale la Chiesa di Cristo è veramente presente (LG 26; CD 11), cosicché la Chiesa universale esiste solamente in e a partire dalle chiese locali (LG 23). Intanto l’unità della Chiesa cattolica esiste in una ricca molteplicità e la molteplicità nell’unità.

L’unità visibile è necessaria nella fede, negli sacramenti e nel ministero apostolico istituito da Cristo, e ciò vuole dire anche nel ministero Petrino che per noi è un vero dono del Signore per la sua Chiesa. Ma tale unità non significa affatto uniformità. Nell’ "una, santa Chiesa" una grande molteplicità di riti, di spiritualità, di teologie, di discipline canoniche non soltanto è possibile, ma persino auspicabile; tale pluralità non è una debolezza ma una ricchezza. Lo Spirito di Dio non è noioso, ma regala alla Chiesa una sovrabbondante ricca molteplicità di doni (1 Cor 12, 4—11).

Il riconoscimento della molteplicità ha conseguenze importanti per l’avvicinamento con le chiese orientali. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che le chiese orientali sono vere chiese che "hanno facoltà di regolarsi secondo le proprie discipline" (UR 16). Il Concilio ha ricordato la regola del Concilio degli apostoli: "non imporre altro peso fuorché le cose necessarie" (Atti 15,28; cf. UR 18). Lo stesso Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita qui a Bari ha proposto un’unità "che non è assorbimento e neppure fusione" (cit. Slavorum apostoli, 27). Poi ha invitato a un dialogo fraterno su come esercitare il ministero Petrino oggi e nel futuro cosicché possa essere accettabile per le altre chiese (Ut unum sint, 95). Cosa impedisce di incominciare già oggi qui a Bari a discutere questa proposta? Perché non riflettere insieme su una osmosi fra il principio di sinodalità e collegialità e il principio Petrino, che proprio nelle settimane passate ha mostrato la sua forza spirituale?

Noi riconosciamo che le chiese orientali nei loro paesi tradizionali hanno improntato una ricca cultura cristiana millenaria. Noi apprezziamo e amiamo questa cultura. Non abbiamo per niente l’intenzione di rendere cattolici i paesi, dove voi fratelli ortodossi, siete a casa da molti secoli, dove voi avete disseminato il seme del vangelo, che intanto ha portato frutti ricchissimi di spiritualità e di cultura. Come l’apostolo Paolo non vogliamo mietere, dove altri hanno seminato (cf. Rom 15,20). Il cosiddetto proselitismo non è la nostra intenzione, non è la nostra strategia e non è la nostra politica. Se ci sono singoli casi che danno l’impressione o che sono veramente proselitismo, ne possiamo parlare concretamente e, se necessario, li cambieremo. Ma preghiamo anche voi, cari fratelli, di mettere fine a ciò che noi potremmo chiamare proselitismo da parte vostra e che è persino un pessimo proselitismo, cioè la scandalosa prassi del ri-battesimo.

Lasciamo da parte dunque queste querele del tutto inutili e guardiamo ai veri problemi e alle sfide, che incontriamo insieme. Un passo concreto è già possibile oggi, e se non sbaglio ne siamo d’accordo, che questo passo non è soltanto possibile ma anche auspicabile e inoltre urgente. Noi ortodossi e cattolici, siamo molto vicini nella fede, siamo gli eredi della comune cultura europea e abbiamo gli stessi valori etici, che sono fondamentali per il bene delle nostre società e per i loro uomini. Ma quei valori sono seriamente minacciati sia dal secolarismo in Europa occidentale che dalle profonde lacerazioni che in Europa orientale quaranta o meglio settant’anni di propaganda ed educazione ateista hanno compiuto.

Che cosa dunque può essere più ovvio e urgente che come prossimo passo sul lungo cammino verso la piena comunione formiamo un’alleanza in favore della riscoperta delle radici cristiane d’Europa, un’alleanza per aiutarci a vicenda in favore dei valori comuni e di una cultura della vita, della dignità della persona, della solidarietà e della giustizia sociale, per la pace e per la salvaguardia del creato. Sono convinto che su questa strada già nel prossimo futuro potremmo fare passi concreti.

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VI. Nuove dimensioni nel dialogo con le comunità protestanti

L’idea di un’alleanza come prossimo passo vale anche per il dialogo con i fratelli protestanti. Nell’ambito protestante vediamo un profondo cambiamento della scena ecumenica. Purtroppo la frammentazione interna del protestantesimo continua. Le chiese tradizionali (‘storiche’) protestanti (Protestant mainline churches) a livello mondiale diminuiscono, mentre nuovi movimenti carismatici e pentecostali insieme con vecchie e nuove sette crescono rapidamente e ciò non solo nell’emisfero meridionale, in America Latina, in Africa e in Asia, ma anche in America del Nord e da noi in Europa. Ci sono osservatori e studiosi autorevoli che in tali movimenti vedono la futura forma del cristianesimo del terzo millennio (cf. Ph. Jenkins, The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, Oxford 2002).

Con alcuni di questi nuovi movimenti e comunità abbiamo sviluppato buoni contatti e dialoghi. A differenza di alcune chiese tradizionali protestanti sono saldi nella loro fede nella divinità di Gesù Cristo e soprattutto nei valori etici. Altri invece fanno un vasto proselitismo aggressivo e sono una seria sfida soprattutto nell’emisfero meridionale. Ci danno l’occasione di una presa di coscienza pastorale, di un rinnovamento spirituale ed evangelico e di una vissuta spiritualità di comunione. Il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani ha focalizzato quest’anno la sua attenzione e il suo lavoro su questi problemi. In collaborazione con le rispettive Conferenze episcopali abbiamo programmato dei simposi in Brasile, nell’Africa anglofona e nell’Africa francofona per trovare una strategia pastorale comune e rivedere anche i metodi e i progetti ecumenici.

Si costata un altro sviluppo di frammentazione in Europa, che più che altri continenti è l’epicentro di una crisi ed il punto più debole della cristianità. Purtroppo alcune comunità di tradizione protestante sono in pericolo di abbandonare parti dell’eredità comune soprattutto nell’ambito etico. Ben note sono per esempio le difficoltà che sono emerse nella Comunione Anglicana, che spiacevolmente hanno tanto danneggiato il dialogo ed i nostri rapporti, che finora si erano ben sviluppati. La nuova situazione indebolisce fortemente o persino impedisce totalmente la testimonianza comune, che dobbiamo alla nostra civilizzazione secolarizzata.

Grazie a Dio, ci sono comunioni, gruppi, movimenti, fraternità in tutte le chiese e comunità ecclesiali che sono consapevoli di questa situazione drammatica particolarmente in Europa; sono gruppi e movimenti, che stanno fermi sulla base della Bibbia e della tradizione antica della Chiesa, sostengono i valori cristiani, si sforzano a vivere il vangelo e le beatitudini del Sermone della montagna e che – senza abbandonare nulla della propria e della comune tradizione – stringono reti di comunione e di amicizia attraverso le diversi confessioni senza un sincretismo ecumenico erroneo. L’incontro di Stoccarda nel maggio dell’anno scorso con 10.000 partecipanti e con una diffusione tramite satellite in più di 100 punti nel mondo è stato un segno di questa nuova realtà ecumenica, segno di una realtà che sta emergendo in molti luoghi. Su questa strada molti gruppi continuano e lo fanno con entusiasmo.

Così una nuova dimensione dell’ecumenismo sta emergendo, non in concorrenza ma come completamento dell’ecumenismo ufficiale delle chiese. Ovviamente, sebbene quest’ultimo sia divenuto faticoso e talvolta travagliato, nondimeno deve continuare; ma deve anche prendere nuovi impulsi ed un nuovo slancio da questi sviluppi.

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VII. Ecumenismo spirituale e culturale

L’ecumenismo che sta emergendo attraverso tanti singoli cristiani, in molte fraternità, congregazioni e monasteri, in gruppi e movimenti di laici è un ecumenismo spirituale. Esso soprattutto mi dà speranza. Già il Concilio Vaticano II ha dichiarato che l’ecumenismo spirituale è il cuore e l’anima di ogni ecumenismo (UR 8) e il nostro Pontificio Consiglio in prima linea vuole promuovere proprio questo tipo d’ecumenismo. Intanto stiamo preparando un Vademecum per l’ecumenismo spirituale. Si tratta dell’ecumenismo della conversione e santificazione della vita, dell’ecumenismo dell’ascolto e della lettura della Sacra Scrittura, dell’ecumenismo di una spiritualità che scaturisce dal battesimo comune, dell’ecumenismo della preghiera e della spiritualità di comunione. Seguendo l’esempio di San Nicola, dobbiamo promuovere la verità nell’amore (cf. Ef 4,15).

L’ecumenismo spirituale, sebbene personale, non è soltanto una realtà puramente interiore, soggettiva e privata o persino un affare soltanto per alcuni esoterici. La spiritualità cristiana è una spiritualità "incarnata". Come in passato la spiritualità cristiana ha improntato la cultura d’Europa, così oggi la spiritualità ecumenica è un contributo essenziale per la nuova evangelizzazione e inculturazione del cristianesimo. Nella crisi attuale della cultura d’Europa, questo continente Europa ha bisogno della nostra comune testimonianza. L’impegno ecumenico non è una appendice o un lusso, ma fa parte essenziale della nostra missione; il pane eucaristico è il pane per la sopravvivenza della cultura cristiana in Europa.

Oggi la riconciliazione ecumenica tra Oriente e Occidente ha, nel continuo processo di unificazione europea, anche un significato politico. Il nuovo ordine europeo di pace che è sorto dopo la tragedia della seconda guerra mondiale non potrà resistere a lungo se non vengono coinvolte anche le Chiese, che hanno influito così profondamente sulla cultura dell’Europa. Anche per questo non possiamo più permetterci una divisione; essa non è solo uno scandalo dal punto di vista religioso, ma è insostenibile anche dal punto di vista culturale e politico. Le Chiese devono essere le prime a preparare la strada al processo di riunificazione. In tal modo, esse potranno mostrare nel modo più efficace che l’Europa si basa su fondamenti cristiani, sui valori della cultura della domenica, cultura che dobbiamo sforzarci di rinnovare se vogliamo contribuire al rinnovamento dell’Europa.

"Vivere secondo la domenica": questo definisce la nostra identità. Ed è appunto questa cultura della domenica che è alla base della cultura europea. Se vogliamo mantenere e risvegliare i valori cristiani dell’Europa, allora, come cristiani, dobbiamo per primi imparare di nuovo a vivere la domenica. La domenica, come giorno del Signore, è il giorno della riconciliazione, che implica il riconoscimento della dignità di ogni persona, della santità della vita, dei valori della famiglia, della giustizia e della solidarietà tra i popoli e tra gli individui, il rispetto per l’alterità dell’altro e lo spazio per la molteplicità. La cultura domenicale realizza che l’uomo non è soltanto un ‘animale del lavoro’ ma un essere libero, che ha il desiderio che gli ha impiantato il suo Creatore, di avere spazio per il culto e la cultura, per la famiglia e gli amici. Soltanto una cultura domenicale così è una cultura veramente umana.

Vorrei concludere con un ulteriore breve pensiero. Ricordo alcune conversazioni con il compianto Papa Giovanni Paolo II sulla situazione ecumenica. Soprattutto ricordo un incontro, dove volevo riferirgli di alcuni segni di crisi. Lui non ha voluto neanche sentire questa parola. Insisteva per parlare dei segni positivi. Allora ero rimasto un po’ deluso, perché quei problemi mi premevano molto e mi aspettavo un consiglio da parte del Papa. Oggi penso che il Papa aveva ragione. Noi cristiani non possiamo essere uomini lamentosi. Anche l’ecumenismo passa il mistero della morte e della risurrezione. Siamo rigenerati per una speranza viva (1 Pietro 1,3). Sono convinto che se avanziamo sulla strada dell’ecumenismo spirituale e se tessiamo reti e alleanze attraverso le confessioni e le chiese e se lo facciamo con coraggio unito a pazienza, la crisi non sarà una crisi di crollo ma diventerà piuttosto una crisi di crescita.

San Nicola, 1600 anni fa ed ancora oggi venerato sia in Oriente che in Occidente, ha vissuto la speranza e realizzato i valori senza i quali l’Europa non può avere un futuro. Anche San Nicola potrebbe essere patrono dell’Europa e forse il Papa un giorno lo dichiarerà tale. Possa egli aiutare l’Europa a superare i segni di stanchezza e trasformarli in una nuova cultura della domenica, che non può essere altro che una nuova epoca ecumenica, un’epoca di gioia, di slancio, di speranza e di entusiasmo con lo scopo di una comune celebrazione della domenica attorno all’unica mensa del Signore. San Nicola, prega per noi!

(Relazione tenuta a Bari mercoledì 25 maggio 2005 nel corso del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale)

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