Famiglia Giovani Anziani

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Visualizza articoli per tag: Aspetti Psicologici della Famiglia

Domenica, 20 Giugno 2010 08:53

Procreare ci trasforma. Ma ci fa anche paura.

Questo commento di Claudio Risé è stato pubblicato sul Giornale del 21 Maggio 2010, in calce all’articolo di Annamaria Bernardini De Pace “Che follia le feste antiparto: i bimbi inquinano” in cui si fa relazione di un movimento capeggiato da intellettuali che predica di non fare figli  e che in Francia ha lanciato party che incitano a “ghigliottinare i procreatori” esponendo immagini di bambolotti torturati... (N.d.R.)


Se guardiamo alla storia dell'inconscio collettivo umano, di come esso si esprime nelle leggende, nelle saghe e nei miti di tutte le culture, troviamo sempre, di fronte alla nascita, una duplice reazione: l'accoglienza, la gioia di fronte alla nuova vita che si manifesta e accanto e contrapposta ad essa, la reazione di spavento, di odio, di avversione per qualcosa che comunque modificherà profondamente la vita della persona, dei genitori e della società circostante. Questo perché la vita nuova è l'evento che trasforma il mondo e noi stessi.

Zattoni M., Gillini G., -  Un amore che cresce: i giovani sposi tra libertà e condizionamenti. 

 

Il proprio immaginario di coppia caratterizza la propria vita coniugale

Quando ci si avvicina alle problematiche della coppia è importante conoscere i fatti, ma è ancora più importante conoscere l’immaginario che guida quei fatti, e quei comportamenti. E io vorrei proprio prendere in considerazione come influisce sulla relazione coniugale il nostro immaginario di coppia che, da una parte, risente dei condizionamenti del nostro tempo, dall’altra, desidera esserne costantemente liberato (con un’immagine apocalittica potremmo dire: aspira ad essere “purificato dal sangue dell’Agnello”).

I delitti che accadono in famiglia ci lasciano ogni volta un senso di stupore e di orrore. Come non volessimo credere, in principio, alla possibilità di questi abissi. Come volessi­mo difenderci, poi, da una contaminazione fra orrore e nor­malità, attribuendo dunque al dominio della follia l'impro­nunciabile accaduto.

Sabato, 04 Febbraio 2006 11:01

Uno spazio tutto mio

UNO SPAZIO TUTTO MIO

MOLTI DISAGI FAMILIARI HANNO ORIGINE NELLA DIFFICOLTÀ A CONCILIARE LA DIMENSIONE PERSONALE CON QUELLA DI COPPIA. EPPURE IL TEMPO PER SÉ È FONDAMENTALE PER COSTRUIRE RELAZIONI EQUILIBRATE

Venerdì, 13 Gennaio 2006 19:25

Cuore di nonno

 I nonni italiani sono 11 milioni, con in media 3,5 nipoti ciascuno Un nutrito campione di bambini, interpellato da "Noi", a sorpresa dichiara: «Con loro non facciamo niente di speciale». Possibile? O non sarà che "speciale" è già lo stare insieme? Ecco le risposte.

Mercoledì, 28 Dicembre 2005 19:50

Un mondo di maghi

UN MONDO DI MAGHI

Noi domandiamo un consiglio, ma in realtà cerchiamo approvazione

(C.C.Colton)

Che cosa si nasconde dietro la ricerca affannosa di informazioni mediche, di consigli da parte di maghi e fattucchiere, di trasmissioni te-levisive basate su uno psicologismo spesso rozzo e a buon mercato.

Non si tratta di semplice curiosità, ma di un bisogno più profondo che può forse essere identificato come la ricerca di un senso alla vita

0 di un Senso, il bisogno religioso per eccellenza.

Le persone che, entrando in un ambulatorio, spiazzano il medico con una dissertazione sul proprio stato di salute, proprio come se fossero lì a confortare lo specialista con la loro sicurezza, sono sempre più numerose. I termini tecnici e scientifici sono ormai usati e abusati senza pudore né ritegno. Quello che una volta veniva rimproverato alla classe medica quando, per spiegare lo stato di salute di un paziente, usava termini come iperpiressia al posto di febbre o mialgia invece di dolori muscolari, è diventato strumento di linguaggio quotidiano.

 A creare questo balzo di qualità (?!?) hanno contribuito almeno due fattori che rappresentano il prodotto più tipico della nostra era mediatica. Il primo è l’insostituibile strumento della informazione cartacea. Al pari di una sirena ricca di richiami e di tentazioni per tutti coloro che avvertono la sudditanza di un vuoto culturale e informativo, la rivista, specie se monografica, con la possibilità che offre di essere raccolta, rilegata e consultata, resta il mezzo principe del sapere popolare. Qualche umorista buontempone ha affermato – ma è davvero solo umorismo? – che quando una categoria professionale batte la fiacca o si trova in crisi di «materia prima», può sempre cercare di procacciarsi nuovi clienti, attirando la loro attenzione su problemi di cui fino ad allora non erano a conoscenza. Il risultato è paradossale e sicuro, come dire: «quando sai che c’è un rischio, cessa la tua tranquillità». La proliferazione di pubblicazioni, quasi sempre a carattere divulgativo, su argomenti attinenti la salute fisica e mentale, con la falsa pretesa di informare e snellire le frequenze negli ambulatori, di fatto ha tolto la tranquillità a tutti coloro che fino ad allora non si erano posti il problema. Gli slogan del tipo «conoscersi è curarsi» o «salute fai da te» hanno fatto buona presa sull’ipocondria latente che è in ognuno di noi, convincendo una gran parte di persone a farsi visitare, dopo essersi documentata su una malattia fino ad allora sconosciuta perché, giurava, quei sintomi li aveva proprio tutti.

Il secondo fattore è dato dalla pletora selvaggia e incontrollabile di maghi, streghe e presunti addetti ai lavori che dai luoghi più disparati invia, soprattutto di notte, informazioni e richiami su possibili rischi di malattie o disagi striscianti. Condannati dal buio della notte a dover sopportare l’insonnia o le sempre più scomode sfalsature degli orari, il terminale domestico del «villaggio globale», la televisione, con un balzello che va dall’oroscopo al paranormale, dalla curiosità sessuale morbosa spacciata per inchiesta di costume al ciarpame new age, ci porta in casa quanto di più acriticamente insulso si possa trovare in questo composito immondezzaio.

 

La sete di significato

 

Complici di questa campagna di proselitismo sono le televisioni minori, in genere emittenti locali che, attraverso rubriche dalla pretesa scientifica, ora terrorizzano ora imboniscono quella popolazione di curiosi o di insonni la quale, nella calma della notte, non ha altra possibilità di passare le ore se non davanti alla scatola magica della tv.

Alcune inchieste hanno messo in evidenza un tratto ancora più inquietante: tutte queste trasmissioni sono sempre e regolarmente pagate dai maghi stessi i quali traggono un indubbio beneficio dal fatto che ogni tanto qualcuno abbocchi. Il prodigio si spiega fin troppo bene: il linguaggio allusivo e inconcludente, la frequente visitazione dei luoghi comuni che gratificano il potenziale cliente investendolo dall’inizio di un interesse che si prende cura di tutte le presunte patologie appena enunciate, la constatazione del buio di una ignoranza e di una grossolanità nelle quali ogni lucciola potrebbe accecare, la promessa di una risoluzione sicura in cambio di una incondizionata fiducia. Non può esserci risposta più appropriata ad un inganno desiderato.

L’ignoranza religiosa, del resto, ne è lo specchio fedele: la magia colma per un attimo e a poco prezzo (ma questo sarebbe tutto da verificare!...) una sete di significato destinata a rimanere insoddisfatta, almeno di giorno, quando il dinamismo della quotidianità opprime e ad evocare fantasmi minacciosi di notte, quando il tempo non passa e l’inadeguatezza non garantisce alcuna via di fuga dalle paure. Una decina di anni fa la diocesi di Bologna promulgò un documento che riassumeva alcuni tratti dell’ansia dell’uomo contemporaneo e del suo bisogno di «conoscere il mistero, le forze occulte della natura, ciò che sta oltre la sfera sensibile, il mondo dello spirito, il futuro; un bisogno che si mescola con la ricerca di trascendenza, senza però che se ne accetti la vera natura e si ammettano i limiti dell’intelligenza umana».

Nessun antropologo nega che la sete di sacro sia innestata nell’animo dell’uomo, ma l’incapacità, forse la caratteristica più appariscente nell’uomo acculturato, di dare delle risposte è oggi causa di una cascata di equivoci su scala esponenziale. Il prodotto è una confusione che se da un lato mira a sacralizzare ogni stato psichico appena diverso da quello «usuale» (e qui potrebbero entrare in ballo tutte le codificazioni della normalità), dall’altro tende a ridurre a livello di esperienza ogni sacralità vissuta. Per comprendere questo basti pensare a quali suggestioni sono capaci di trasmettere certe persone dalle pretese doti carismatiche o il richiamo al benessere urlato dal culto della new age. Ma in tutto questo non scopriamo niente di nuovo: le deformazioni ideologiche della realtà hanno un paradigma fin troppo noto: l’errore attorno alla religiosità umana è in stretta derivazione con l’errore sull’uomo stesso.

Ad aggravare questa situazione c’è l’effetto alone che simili sbagli comportano. L’uomo infatti si organizza in comunità e le sue scelte esperienziali finiscono per trasformarsi in fenomeni dalla portata culturale, spandendosi nel tessuto sociale al pari delle onde che nascono dal lancio di un sasso in uno stagno.

 

La vulnerabilità del nostro progresso

 

Con l’avvento delle grandi scoperte, e illuminato dal primato della ragione sulla materia, l’uomo moderno ha creduto di poter ribaltare la gerarchia dei valori che per secoli lo aveva guidato. La conoscenza della psicologia, in particolare quella del profondo, ha frantumato le barriere dell’esperienza, e una volta insinuatasi nella periferia dei salotti o dei chiacchiericci, ha ridotto la fenomenologia dell’intimità ad un evento su cui dissertare senza pudore e senza la paura di lasciarsi inghiottire dagli eccessi della banalità. È molto facile parlare di tutto e, al tempo stesso, contestare quanto affermato. La moderna ideologia, così, applicandosi all’esperienza intima – psicologica e religiosa – rischia di ridurre tutto a misura di sé, provocando un disordine che si dipinge facilmente di suggestioni che, dopo aver parodiato il sacro, sfociano nelle superstizioni individuali e sociali. Se anche questo è progresso, dobbiamo essere pronti ad ammettere che il lato che la scienza ci mostra è quello della vulnerabilità e dell’incertezza.

Il risultato che il facile psicologismo produce, specie in chi si dimostra permeabile alle dissertazioni semplicistiche della saggezza televisiva, se da una parte mostra tutta l’ansia e il bisogno di trascendere che sta nell’animo umano, dall’altra mette in evidenza tutti i gradini che si possono scendere quando si confonde la dimensione psicologica con quella religiosa.

In primo luogo troviamo la progressiva perdita dell’esperienza concreta del Sacro, accompagnata da una crescente riduzione della vita interiore che tende ad aderire alla semplice convenzione sociale della morale.

La conseguenza di questo primo passo è la frustrazione dei bisogni spirituali della persona e, per paradosso, un individualismo religioso in cui ognuno avverte la responsabilità del rapporto con la religione senza alcuna mediazione comunitaria.

Ne nasce il consumismo religioso, prodotto originale di quel materialismo spirituale in cui la spiritualità è trattata alla stregua di un prodotto da supermercato o, peggio ancora, da esportare come mezzo utile a colonizzare.

Il traguardo di questa metamorfosi è la «religione-fai-da-te», ossia l’acquisizione di una mentalità desacralizzata in cui religiosità, spiritualità e misticismo si ammantano di uno «pseudo» che porta con sempre più naturalezza a ricercare in esperienze paranormali o in contatti con entità immateriali l’ultimo barlume di divinità indispensabile alla vita dell’uomo.

Ed è proprio l’immagine del vagare, spesso senza meta, di questo uomo post-moderno che ci mostra come, a dispetto del progresso, gli atteggiamenti non cambino molto a distanza di millenni. Cosa portò il figlio prodigo a cercare la via di fuga da casa? E cosa lo convinse a tornare sui suoi passi? Quella favola così ricca di significati e capace di ispirare e condizionare l’espressività degli infiniti linguaggi estetici dalla letteratura al cinema, dalla pittura al melodramma, potrebbe essere riletta, oggi più che mai, per giungere ad immaginare un diverso finale.

Nel bel mezzo di una carestia (una guerra?, un esilio?) e in preda ai morsi della fame, il nostro giovane sente crollare tutte le superbie che lo avevano indotto a lasciare la casa paterna. La fame fa miracoli e, attanagliato dai crampi del digiuno, comincia ad abbassare gli occhi, avendo perduto la capacità di guardare dall’alto delle sue ricchezze. Vede solo i maiali e invidia il loro pastone. Ora ha due possibilità: «rientrare in se stesso» o sedersi al trogolo dei porci. La parabola di Luca ci dà la prima versione; noi immaginiamo

la seconda. Uno sguardo circospetto per assicurarsi che nessuno veda e, preda di un riflesso primordiale, si getta sulle ghiande, afferrandone quante può contenerne la sua bocca per acquietare, senza neppure masticare, quello stomaco provato dagli stenti. Dopo pochi minuti i crampi, tutt’altro che sedati, crescono fino a congestionarlo ed ucciderlo.

Potremmo supporre che le ghiande, per un miraggio della fame, avessero lo stesso aspetto e colore di un prodotto di pasticceria. In realtà la sola deduzione logica che possiamo elaborare è che, nel suo vagabondare, ma sempre in orizzontale, il nostro giovane abbia sentito fortissimo il bisogno di soddisfare il vuoto di Senso e, appena intravisti degli oggetti che potevano offrire una somiglianza con ciò che desiderava e che aveva perduto, privo di spirito critico, abbia seguito l’impulso primitivo a soddisfarsi. Anche a rischio di morire.

 

Un po’ di umorismo... e di buon senso

 

Credo che sia questo sia il ritratto più fedele del nostro mondo attuale: una realtà piena di false risposte a bisogni autentici e condannata a nutrirsi di superstizioni trasformate in mercato. Nella mia esperienza di lavoro ho fatto spesso i conti con le emozioni altrui; in qualche occasione, come nei training di gruppo o come nel caso di lezioni a corsi di studenti, ho anche provato un certo interesse a suscitarle, sempre attraverso specifici quesiti, per poter vedere in quale misura si contendevano un primato sulla razionalità. La scoperta più interessante e più liberatoria la avvertivo quando trovavano risposte che erano partorite da uno spirito umoristico.

Quali discipline ti suscitano le emozioni più grandi? Qual è il ruolo degli insegnanti, degli amici, dei familiari nel loro rafforzamento? In che modo le emozioni hanno ostacolato o favorito la tua formazione? Solo per citare alcune delle domande. Alla fine gli stessi corsisti erano interessati a scoprire il ruolo delle emozioni e i percorsi che a quel momento avevano seguito. Ricordo di aver parlato spesso della perdita di senso e di come sia facile arroccarsi su posizioni assurde pur di non ammettere che si è immersi nell’errore. Al termine dei miei discorsi però c’era in genere un silenzio che non mi soddisfaceva perché per primo mi rendevo conto che si respirava un sapore di predicozzo tutto retorica e niente praticità. Un giorno una studentessa mi chiese:

 

«Può farci un esempio?». Tornai verso la cattedra e lessi una storiella di Niels Ull Jacobsen della Università di Copenaghen.

Un biologo, uno statistico e un matematico partecipano ad un foto-safari in Africa. Viaggiano nella savana a bordo di una jeep scrutando l’orizzonte con i loro binocoli (tranne il matematico che guida la jeep). Improvvisamente il biologo, in preda all’agitazione, esclama:

«Guardate! C’è un branco di zebre! E in mezzo c’è una zebra bianca! Fantastico! Esistono zebre bianche! E io le ho scoperte! Sarò famoso!».

Lo statistico replica:

«Non è un dato significativo. Noi sappiamo che esiste UNA zebra bianca».

Il matematico, senza neppure guardare la zebra, dice con voce calma:

«Vi sbagliate entrambi. In realtà noi sappiamo soltanto che esiste UNA zebra che è bianca da UN lato».

Agli studenti piacque e il risultato fu che decidemmo tutti di sorridere di più e, soprattutto, a distinguere i momenti in cui si cercava la verità da quelli in cui eravamo animati solo da polemica accomodante.

In realtà i nostri atti, le nostre relazioni interpersonali si muovono costantemente tra un polo remissivo e uno espressamente polemico. La tentazione a dissertare è continuamente in agguato e c’è da aggiungere che il più visitato è, comunque, il mondo dei valori. Qui la tentazione a esprimere la nostra opinione, specie se siamo freschi di informazione, è molto forte. Psicologia e religione restano i «siti» preferiti. Su questi argomenti lo spirito polemico può essere sconfinato. Un altro aneddoto riferiva di una disputa tra le menti più eclettiche del mondo su quanto facesse «2x2». L’ingegnere estrasse il regolo calcolatore e dopo lunghi e laboriosi scorrimenti verso destra e sinistra, sentenziò: «3.99». Il fisico consultò i suoi manuali, impostò i suoi cervelloni e corresse: «È un risultato che sta fra 3.99 e 4.01». Il matematico dopo averci pensato bene disse: «Cosa vi importa di quanto fa? L’importante è che il problema sia ben impostato. In questo caso chiunque è in grado di dare la risposta». Il filosofo senza distrarsi dalle sue elucubrazioni disse: «Ma poi, cosa intendete con 2x2?». Il commercialista chiuse porte e finestre e ammiccando con fare circospetto mormorò: «Mettiamoci d’accordo senza farci pubblicità: quanto volete che faccia?».

Don Milani, prete ed educatore, metteva in guardia dalle persone che oggi leggono un libro e domani te lo raccontano, spacciando, magari, quelle teorie per frutto della propria mente. Un invito a non rinunciare a far ricorso al buon senso. Alla fine ci si accorge che la buona volontà, andando di pari passo con la sincerità d’animo, ha sempre la meglio.

 

Giovanni Scalera

Psicologo - Psicoterapeuta

Il linguaggio dell'amore:

1 - La rassicurazione

2 - I momenti speciali

3 - La collaborazione

 

Ciascuno di noi possiede un linguaggio dell’amore, ovvero una modalità del tutto personale di esprimere i propri sentimenti e le proprie sensibilità. E non è detto che le due componenti della coppia parlino lo stesso linguaggio. Spesso la costruzione di un linguaggio condiviso è anzi il frutto di un processo lento, di reciproca conoscenza e comprensione. Tuttavia, non è così difficile come si potrebbe credere. Basterebbe infatti riflettere sul proprio linguaggio per renderlo più facilmente comprensibile all’altro, aprendosi al contempo alle sue esigenze.

Quali momenti sono speciali per noi? E in che modo viviamo l’esigenza di essere rassicurati? O di collaborare? Alle volte basta un gesto, una parola che venga incontro alla necessità del partner di sentirsi voluto bene, di sentirsi compreso e apprezzato, per dare un valore positivo all’amore e portare un sorriso in famiglia.

Troppo spesso, invece, la mancanza di comunicazione alimenta le incomprensioni e le difficoltà di relazione.

Bisognerebbe dunque interrogarsi su quale sia il proprio linguaggio dell’amore, che è fatto sì di parole di rassicurazione e tenerezza ma anche della capacità di vivere e condividere momenti speciali (regalarsi una cena romantica, uscire con il proprio partner per una passeggiata...), di donare e ricevere doni, di aiutarsi a vicenda nella gestione delle incombenze quotidiane, di contatto fisico.

Occorre perciò scoprire qual è il proprio linguaggio preferito e comunicarlo all’altro.

Un discorso simile vale anche per i figli, nei cui confronti bisogna utilizzare un linguaggio dell’amore condiviso che consenta di interrogarsi e di capire cosa desiderino veramente, aldilà delle apparenze e delle superficialità.

Maurizio Andolfi


Vedi anche:  Il linguaggio dell'amore: il contatto fisico - comprensione dei bisogni - saper vedere insieme

Sabato, 01 Ottobre 2005 14:12

Quando devo ubbidire?

Quando devo ubbidire?

 

· Un’esperienza di rapporto con l’obbedienza (che – come diceva Don Milani - «non è sempre una virtù»…) letta in un orizzonte psicologico · Per essere «obbedienti», non alla lettera ma allo Spirito, e poter stare a fronte alta di fronte alla verità, in tutti i contesti in cui siamo chiamati a vivere ed operare, in famiglia, nella professione, nella società e nella Chiesa.

 

Il rispetto delle leggi

È garanzia di immortalità.

E l’immortalità fa stare vicini a Dio

(Sapienza 6,18)

 

Dopo quasi dieci anni di collaborazione con Famiglia Domani, sento il diritto di concedermi una sosta e lo faccio nella maniera più semplice e più antica che si conosca: partecipando ai lettori una confidenza circa un evento come tanti ne accadono nella quotidianità e che, anche se passato inosservato per chi mi stava intorno, ha lasciato un segno nella mia vita.

 

Una banalità insignificante

Chi potrebbe dire con chiarezza quando e come sia cominciata la storia che non sempre bisogna ubbidire? Può darsi che la tentazione a disubbidire sia insita nell'uomo, dato che chi ubbidisce lo fa sottomettendo la propria volontà a quella di un suo simile. Per quanto mi riguarda, ricordo con chiarezza di essermi scandalizzato delle parole di don Milani il quale, senza ombra di dubbio e nella precisa volontà di rompere tanti se e ma, cominciò a predicare che l'obbedienza poteva essere la più subdola delle virtù. Allora ero un giovane che si affacciava alla vita; avevo assolto gli obblighi di leva, per di più come ufficiale, ed avevo finito con l'interiorizzare i concetti di gerarchia e subordinazione come dogmi indiscutibili. Ricordo anche di essermi adirato, in varie occasioni, se qualcuno mi faceva notare assurdità di certi principi su cui si basava la vita militare. Poi, inopinatamente, accadde un fatto che mise al passo tutte le mie sicurezze.

Ero a letto con una banale influenza - già sposato e con due figli - e mi annoiavo. Non avevo la testa per occuparmi di cose pesanti e concettose, così misi gli occhi, giusto per ammazzare il tempo, su un rotocalco che avevo a portata di mano. Doveva essere un anniversario della morte del priore di Barbiana e quel numero parlava copiosamente di lui: impossibile ignorarlo. Mi misi a leggerlo; da prima con lo scopo di trovarvi qualcosa da contestare, poi con la curiosità di scoprire come andava avanti il racconto e alla fine con l'avidità di chi si sente preso da una storia dal finale insospettato.

Mi fermai per guardare i contorni della stanza e mi sorpresi a pensare che io, di don Lorenzo, non sapevo niente, perché non avevo mai voluto sapere niente e che lo avevo sempre additato, perché altri mi avevano convinto che le sue idee erano pericolose, che era un prete sovversivo, che non rispettava le gerarchie, che non sapeva stare al suo posto... che non conosceva l'ubbidienza e la subordinazione. Cercai, allora, tutto quello che aveva scritto (compreso 1'introvabile, perché censurato, Esperienze Pastorali) e lo lessi con una attenzione come avevo fatto con pochi autori fino ad allora e scoprii quella persona che avrei sempre desiderato conoscere e, della quale - mi ripetevo spesso - avrei voluto essere discepolo, prima ancora che amico se avessi avuto la fortuna di incontrarla. In certi momenti ho pianto pensando a quanto gli avevo mancato di rispetto tutte le volte che lo avevo citato nei miei dialoghi senza il debito riguardo, ma mi sono anche riconciliato con lui quando ho capito che nei suoi messaggi c’era una grande spiritualità, che ero sempre in tempo per cambiare vita, che l'unico affronto che si può fare al nostro Creatore è rinunciare all'arbitrio di cui siamo dotati. Feci anche un gesto che in altri momenti mi sarebbe apparso come un atto di vigliaccheria: presi carta e penna e, in allegato, rimandai al Ministero della Difesa la lettera di fine servizio con la quale vengono immessi nella riserva gli ufficiali al termine della leva, dichiarando che da quel momento volevo essere considerato un obiettore.

I tempi maturi

In più di un'occasione mi sono interrogato su cosa sia e quanto sia doverosa l'obbedienza. Per darmi una risposta ho dovuto fare un’ulteriore sforzo di pensiero: chi ha l'autorità di pretendere l'obbedienza altrui? E qui, sul problema dell'autorità, ho incontrato gli scogli più duri. Escluse le persone che deliberatamente si legano con un voto specifico alla volontà di un superiore, per tutte le altre devono esserci per forza altre variabili in grado di legittimare l'obbligo di obbedire senza attentare alla libertà che resta il dono più grande fatto da Dio all'uomo. È facile, qui, entrare nei meandri del relativismo culturale e correre il rischio di non trovare più il primo anello della catena: senza obbedienza non ci sono regole, le quali nascono da esigenze temporali le quali, a loro volta, sono il prodotto di volontà contingenti e aleatorie e che pertanto devono rendere costantemente conto del loro operare... Bisogna allora cercare altri referenti che abbiano in sé il conforto di un valore impregnato di assoluto. Io credo che la risposta venga solo dai concetti di ordine e di verità. Eppure anche qui si incontrano delle sabbie mobili. Non può essere considerato un ordine quello che, nell’immaginario comune, si contrappone al disordine; come sarebbe riduttivo invocare la verità come strumento capace di dissipare i disagi di una menzogna. L'ordine, prima ancora che un fenomeno pubblico, è una conquista interiore e si identifica con la capacità che possiede ogni persona di sapersi districare tra i meandri della propria esperienza con il minimo dispendio di energie; la verità ci dà il privilegio di scrutarci allo specchio senza dover abbassare lo sguardo.

L'esempio più eclatante che mi giunge in aiuto in questa riflessione, viene dal dilemma che si consuma nella mente di Pilato. È autorità riconosciuta; può pretendere l'ubbidienza; è garante dell'ordine; le sue sentenze sono esecutive, cioè, la verità. Arriva anche per lui il momento di vedere vacillare le proprie sicurezze e, al culmine di quel disordine interiore di cui tutti conosciamo il dramma e i passaggi, di fronte alla difficoltà di darsi una risposta che lo avrebbe vincolato a decisioni che non voleva prendere, si abbandona a false elucubrazioni dal sapore retorico: «Che cosa è la verità?». Ma per tutti coloro che conoscevano l'uomo sottoposto a giudizio, la risposta era chiara già da tempo, perché lui, il Signore di ogni ordine, scandalizzando i suoi ascoltatori, aveva pubblicamente affermato: «La verità vi farà liberi». 

In ogni contesto l'esigenza dell'ordine, del rispetto delle regole, della proclamazione della verità appaiono come valori sempre più invocati e capaci di garanzia. Ma chi ha posizioni di responsabilità può assolvere agli obblighi legati al proprio ruolo nelle forme più svariate. Dal nucleo più piccolo, la famiglia, al più vasto, un'assemblea di nazioni, si può esercitare la leadership in modo autoritario - pugno duro, imposizione e pretesa di obbedienza - o in modo amorevole, con l'insostituibile carisma della credibilità. Ed è proprio a questo dono che Pietro, nella sua prima lettera, fa riferimento: «Dopo aver santificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità, ...amatevi gli uni gli altri».

Oggi gli insegnamenti di don Milani, a pochi anni dalla sua morte, dopo aver assaporato in maturità dei tempi in momenti segnati da grande impulso alla riflessione, rischiano di apparire superati agli occhi di una cultura eccessivamente presuntuosa. Le raccomandazioni di don Lorenzo di profanare i tabù nascosti nella superficialità, di non arrendersi di fronte alla prepotenza dei più forti, corrono il rischio di essere fuori moda o fraintese. Tutti sono informati su tutto; ogni cosa che accade è nota in tempo reale. Siamo così capaci di assuefarci alla ricorrenza delle catastrofi che la stanchezza diventa la sola conseguenza che proviamo nel prevederle o nel prenderne atto con coraggio. C'è da chiedersi se esista ancora un'autorità alla quale si debba davvero obbedienza. E la risposta, la stessa che darebbe il maestro di Barbiana, credo sia sempre la stessa: la sola autorità con cui possiamo conciliare le nostre aspirazioni è quella che ci garantisce un ordine interiore e che ci toglie ogni paura, mettendoci a confronto con la verità.

Giovanni Scalera

Psicologo – Siena

Da “Famiglia domani” 1/2001

Martedì, 12 Luglio 2005 19:14

Un teatro senza tempo

Un teatro senza tempo

 

· «A partire da una certa età – dice M. Proust – un po’ per amor proprio, un po’ per furberia, sono le cose che desideriamo di più quelle che fingiamo per non volere» · Questo precario equilibrio psicologico dell’età adulta può essere prevenuto se i genitori – nei primi anni di vita – aiutano il bambino a percepire d’essere ben accolto e benvoluto dall’ambiente, fornendogli quella che E. Erikson definisce la «fiducia di base».

 

Le domande che un portatore di disagio fa a se stesso prima ancora che al proprio terapeuta sono quasi sempre le stesse: perché proprio a me? Perché sto così? Perché proprio ora? Le risposte, purtroppo, sono raramente esaudenti e prendono l'avvio, in chi ha l'umiltà di saper ascoltare, dalla considerazione che ogni storia può contenere gli attributi di una sofferenza che si nasconde molto spesso dietro a nodi o maschere che hanno bisogno di essere frantumati per poter procedere ad una letture organica dei fatti e al loro riconoscimento. In termini tecnici, leggere la storia di una sofferenza equivale a fare un passo decisivo verso la diagnosi (etimologicamente: dià = attraverso e gnosis = conoscenza), ma non sempre l'interpretazione del terapeuta è condivisa dal paziente: i linguaggi sono segnati da stati d'animo diversi; i momenti storici sono diversi; gli stessi significati attribuiti alle parole sono diversi; diversa è, infine, la consapevolezza di un vissuto tanto precario. Qual è, allora, il possibile punto d'incontro? Può sembrare un paradosso, ma alla domanda che fa chi soffre, il terapeuta inizia a rispondere con la medesima domanda fatta a se stesso.

 

Quanti personaggi cercano l'autore?

La difficoltà che una diagnosi sia accolta da un paziente sta nel fatto che l'insieme dei significati risulti estraneo a chi ne è realmente interessato. Le ragioni, in sostanza, sono due: il fatto che, in opposizione all'ipocondria, frutto di fisime o di paure ingiustificate, si tenda ad allontanare le brutte certezze, ignorando o trascurando segnali concreti e degni di rispetto e quello che, fino ad un recente passato, i medici non abbiano saputo trattare con i pazienti e i loro famigliari, a causa della ermeticità con cui si esprimevano: una semantica riservata agli addetti ai lavori. Ma perché lo stato di salute che viene rappresentato attraverso quella sintesi idiomatica e tecnica, quasi sempre stenta ad essere recepito? La risposta è sconcertante: mentre è semplice riconoscersi nella sofferenza, è quasi impossibile identificarsi nelle cause che l'hanno scatenata. In pratica il portatore del disagio finisce per rifiutare una parte della propria storia e si difende dalle sofferenze che ne possono derivare, comportandosi come se fosse un corpo estraneo. Da qui l'esigenza di rivisitare alcuni passaggi dolorosi e riscrivere le proprie avventure come se si trattasse di confrontarsi con l'impegno di stendere un romanzo. L'invito a ricostruire le tappe più nascoste del proprio passato è nato con la psicoanalisi. Dopo di lei, pur non riconoscendole il crisma della scientificità, molte scuole hanno strutturato le proprie metodologie d'intervento, applicando, attraverso rielaborazioni personali e culturali, quello che Freud aveva intuito come indispensabile per avventurarsi nella esplorazione dell'inconscio. Il numero delle scuole e dei metodi costituirebbe una serie indefinita e sarebbe facile cadere nelle omissioni. Per citare qualche applicazione di particolare successo, potremmo parlare del Copione - punto di forza della fortunatissima Analisi Transazionale - o del Rebirthing, tecnica con la quale viene proposto al paziente di regredire con le proprie fantasie, fino alla ricerca dei nodi che hanno impedito l'armonico sviluppo delle sue potenzialità. In ogni caso il mondo dei ricordi resta la fonte più ricca di ispirazione di ogni romanzo. L'unico problema consiste nella capacità di attingervi. Il nostro passato è sempre pieno di fascino, ma la sua profondità è quasi sempre causa di vertigini. Andare alla sua riscoperta significa decidersi ad incontrare la parte più autentica del proprio sé; significa mettere in gioco la propria storia dando vita a quel teatro interiore, spesso arido e spento, nel quale tanti personaggi mortificati dagli insuccessi quotidiani aspettano l'occasione per riconciliarsi con la vita. E il terapeuta è lì, non come possessore di significati, ma come figura capace di tradurre e rendere guardabili quelle immagini che altrimenti potrebbero causare dei drammi. Tutti quei frammenti di storia, di esperienza unica e irripetibile, hanno bisogno di recuperare uno spazio ed uscire per andare a ricucire brandelli di vita che, privi di un ordine, avrebbero difficoltà ad essere interpretati. Nel teatro della sua mente ogni particolare è pronto per la rappresentazione più autentica di tutta la sua vita: le relazioni, le energie disperse, gli spazi condivisi, i contatti con i bisogni propri ed altrui. C'è proprio tutto, ma è come se non si sapesse da quale parte incominciare perché manca un ordine che dia la capacità di orientamento. Ma è proprio la messa a punto di questo ordine che non può essere fatta da altri che dal paziente perché, come ammonisce Winnicott, «è lui e solo lui a possedere le risposte».

 

La capacità relazionale

La modalità di intervento con i pazienti è sempre strutturata sul rapporto interpersonale. Sebbene le varie scuole propongano approcci e modelli frutto di continue evoluzioni di pensiero, la relazione d'aiuto resta una relazione affettiva e, come tale, sottoposta a quei continui sbalzi dati dall'alternarsi di simpatia-antipatia che nasce spontaneo dal legame. Ma, come accade in tutti gli scambi umani, niente è più simile dei sentimenti opposti. Sapersi mettere in posizione di ascolto nei confronti di chi chiede aiuto significa riconoscere e tollerare la sofferenza dell'altro. Perché questo avvenga è opportuno che in precedenza si sia fatto un percorso guidato per giungere alla conoscenza del proprio sé autentico e delle numerose sfaccettature delle proprie emozioni e al loro, quanto più possibile, tentativo di controllo.

Il passo tra questa relazione e quella elettiva è quanto mai breve e semplice. Non è solo per la modalità ristretta ed esclusiva con cui si sviluppa il legame tra terapeuta e paziente che è possibile intravedere delle analogie che peraltro potrebbero essere intuitive - con la coppia coniugale. Se mai una verità può essere gridata è che tra gli sposi la relazione d'aiuto è perenne ed oltrepassa di gran lunga quella terapeutica. Tra loro la confidenza e il bisogno di sedersi e confrontarsi rappresenta un'esigenza mai sazia; le emozioni sono il lievito delle scoperte che la loro storia propone di continuo; vivono una favola che in ogni momento è bipolare; coltivano una coscienza che non è mai chiamata a scusare ciò che riesce a creare la fantasia; non si arrendono al primo litigio perché sanno che ogni diniego può trasformarsi in un piacevole rinvio dal quale l'amore trae beneficio.

Le storie clic finiscono male (compresi i percorsi terapeutici) potrebbero sembrare un incidente di percorso. Al contrario, sappiamo che al giorno d'oggi, l’eccezione è diventata la norma. Le analisi che se ne traggono sono quasi scontate nella loro logica, un po' come dire che si arriva sempre con ritardo a stilare dei postulati su problemi che andavano sviscerati prima. Gli sposi che si invaghiscono di partners che non sono loro destinati, finiscono con il dover scegliere tra la fatica di maturare o l'abbandono al detestarsi. Anche gli sposi che coltivano la tendenza a pensare contro se stessi si riducono a giustificare gli errori dell'altro come si assolverebbe un avversario. E che dire di quelle coppie dove il rispetto suscitato si mescola costantemente con la compassione: non sarebbe preferibile essere dimenticati? Al culmine della crisi, quando qualche coppia trova la forza o il coraggio di chiedere aiuto, la prima cosa da tentare è quella di ripropone la prima, sbiadita scenografia e chiedere che fine ha fatto il copione, dove si sono nascosti gli attori. Ma il fascino dell'antico teatro non è più lo stesso. Le piccole complicità riguardano solo le apparenze o i dettagli perché i cuori, ora, non si scoprono mai. Sembra di assistere allo spietato fenomeno del burn-out, quella sindrome che aggredisce gli operatori dei più svariati settori del sostegno e che fa sperimentare la sgradevole incapacità di non riuscire a percorrere altra via che rifiutare tutti quei portatori di disagio, il cui alleviamento di sofferenza e promozione di benessere, avevano rappresentato, fino a poco fa, un grosso impegno di vita. Un fenomeno in cui si può giungere a colpevolizzare il paziente, investendolo di sentimenti negativi come il disprezzo e togliendogli quei residui di illusione che gli avevano permesso di incanalare i propri sforzi sulla via del recupero.

Lo studio delle relazioni interpersonali resta un grande mistero. Si sono aggiustate le tecniche finalizzate e si fanno proiezioni sistemiche sempre più complesse per cercare di aggirare le cause che provocano i rifiuti, ma nè gli aspetti personali che si legano alle caratteristiche di personalità dei singoli, né quelli interpersonali che fanno riferimento alle qualità, al grado di coesione e ai sentimenti di appartenenza, a quelli organizzativi che passano al setaccio le condizioni naturali nelle quali si evolvono le relazioni, risultano abbastanza forti da allontanare il rischio del rigetto. La diagnosi, nonostante il male abbia iniziato ormai a manifestarsi in maniera proteiforme, resta legata a pochi, ma ricorrenti passi falsi: scarsa chiarezza, assenza di momenti di condivisione, sottovalutazione dei problemi e ambiguità nei ruoli. Esiste una terapia da suggerire? La prevenzione e la fuga dalle occasioni, ma per metterla in pratica occorre una grande forza di volontà e una statura interiore che non si improvvisano, ma che sono sempre il frutto di sinergie educative - e che quindi vengono da lontano -, come l'armonia è il piacevole prodotto di tanti suoni melodiosi.

 

La «fiducia di base»

Il riscontro di atteggiamenti positivi che rendono capaci di affrontare le difficoltà e gli eventi stressanti che si presentano nel corso dell'esistenza, è possibile quando, fin dall'infanzia si viene educati ad utilizzare strategie adeguate. È una modalità privilegiata di intervento quella che pone il genitore di fronte al bambino perché richiede lo sforzo di leggere l'essenza dei problemi alla luce di comportamenti che, di continuo, si evolvono. La cronaca dei nostri insuccessi in questo campo, ci porta, purtroppo, ad ammettere di conoscere i nostri bambini assai più per quello che fanno che per quello che sono. L'immagine che i genitori hanno in mente del loro figlio «formato e indipendente» raramente corrisponde a quello che il bambino sente dentro di sé. C’è sempre una discrepanza tra la desiderabilità del genitore e l'enfasi emotiva che manifesta il figlio, tanto che a tutti, prima o poi, viene spontaneo domandarsi: «questo sarà il suo vero volto o la sua maschera?». Altrettanto doveroso e onesto è chiedersi se è sempre vero che quando non aderisce all'immaginario del genitore il bambino ha qualcosa dentro che deve essere corretto, Intrappolarlo nella ragnatela delle proprie proiezioni non rappresenta una garanzia per una crescita libera, ma piuttosto una spinta a nascondere le deprecate debolezze per manifestarle con condotte regolate da bugie e aggressività.

La fiducia di base, espressione introdotta da E.H. Erikson e poi ripresa dagli psicoterapeuti M. Balint e D.W. Winnicott, indica la fase, nei primi anni di vita, nella quale il bambino percepisce di essere così bene accolto e benvoluto dall’ambiente che lo circonda, da entrare in possesso degli strumenti che gli permetteranno di riconoscere il male e le varie forme di negatività. L'eventuale presenza di circostanze traumatiche in questo periodo, potrebbe compromettere questo quadro di potenzialità e divenire il presupposto per un precario equilibrio psicologico nell'adulto.

I personaggi del teatro prendono l'avvio da qui. Ognuno di loro ha una parte: ogni momento è inserito in una scena; ogni episodio è concatenato come nel più misterioso dei gialli. Ma soprattutto, in questo canovaccio, non sono previste le comparse. Con gli anni l'intrigo si farà sempre più complesso, quasi indecifrabile e allora ci sarà qualcuno che, per aver perduto qualche passaggio o per far luce su qualche nodo oscuro che non gli ha permesso di capire il senso della storia successiva, dovrà per forza tornare indietro a farsi guidare nella rilettura. Non è infrequente trovare anche le persone che snobbano gli strumenti con i quali si è soliti mettersi in discussione. Per loro, la ricerca di aiuto è un atto di debolezza. È anche vero che siamo così presi d'assalto dal concetto di furbizia trasmesso dalla nostra epoca che l'innocenza rischia di essere identificata per idiozia. Esistono anche persone che a tutti i costi vogliono il rimedio dall'esterno perché non hanno tempo da perdere o perché, tutto sommato, una pillola o un talismano ti scivolano addosso e, al massimo, ti chiedono un contributo economico che, ai tempi d'oggi, rappresenta la fatica minore. Questo bisogno di rivestirsi di novità - dalla scoperta delle discipline esotiche alla new age - , è forse l'ammissione più eclatante dell'angusto confine in cui si tenta di relegare la nostra volontà. Ma noi sappiamo bene che l’uomo che possiede un'idea chiara non ha bisogno di trastullarsi a rivestirla di simboli.

Un mio maestro, di cui conservo un ricordo vivissimo, cercò di ammonirmi una volta dicendomi che dovremmo fare di tutto perché le immagini del passato possano sopravvivere nella pace della memoria e non essere fonte di sofferenza. Alcuni giorni fa mi capitò tra le mani una sua poesia, dal titolo Favola Smarrita, che sento di poter porre all'attenzione degli altri.

 

«Occhi di sole brillano tra i rami

e un vento vespertino

di te s'imbionda, sui capelli a pena:

e l'ombra adolescente, a piedi scalzi,

su dal muretto spiga.

 

 La casa a picco nella valle, il fiume

hanno lo stesso lume come allora

d'alpe e di luna: vi abita, la notte,

un battito di ciglia e d'erbe brune.

 

Ma ricercarti è come

rintracciare una favola smarrita».

 

E a me sembra una favola stupenda che, di fronte alle prime impressioni, alla presunzione incallita, al bisogno insaziabile di traguardi da tagliare, si debbano fare anche i conti con gli ingredienti della memoria.

Giovanni Scalera

Psicologo – Siena

Da “Famiglia domani” 4/2000

Sabato, 21 Maggio 2005 22:34

La fiducia nei rapporti di coppia

La fiducia è la condizione indispensabile per ogni incontro pienamente umano tra due persone · Non riguarda solo il momento dell’incontro e del dialogo, ma implica una proiezione sul futuro, la certezza di non essere traditi · Nell’atto del fidarsi c’è qualcosa di religioso: credere è fidarsi, contare su qualcuno perché si crede in lui · Ed è uno dei doni più preziosi che possiamo fare ad una persona.

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