Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

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Domenica, 20 Febbraio 2005 18:11

ABSTRACT tratti da "FAMIGLIA OGGI" n° 3 / 2003

ABSTRACT tratti da "FAMIGLIA OGGI" n° 3 / 2003

L’ESPERIENZA DELL’ "ATTESA" NEL PADRE

La ricerca, che s'inserisce in un
articolato filone di studi sul tema della genitorialità, focalizza le
modalità rappresentative e narrative di un gruppo di futuri padri,
analizzando l'esperienza dell'attesa del primo figlio nel confronto tra
il prima e il dopo la nascita. L'indagine ha esplorato soprattutto le
fantasie, i vissuti emotivi della dimensione paterna specificatamente
alla sfera individuale, di sé come figlio e di sé nella coppia. I
risultati hanno evidenziato osservazioni legate alle differenze di
genere, al diverso livello di complessità emotiva, riconoscendo anche
la "fragilità maschile", ai legami trigenerazionali con i propri
genitori.

Angela Maria Di Vita e Alette Merenda

 

ESSERE GENITORE, QUANDO…?

Il panorama demografico europeo è
caratterizzato da un progressivo calo delle nascite e un generale
innalzamento dell'età alla maternità/paternità, che proprio in Italia
hanno trovato le manifestazioni più evidenti. Le donne finiscono gli
studi più tardi, entrano nel mercato del lavoro in età più avanzata,
posticipano il matrimonio e, di conseguenza, affrontano la nascita del
primo figli o in età più matura rispetto alle generazioni delle loro
madri, o anche delle loro sorelle maggiori. Pure la prima paternità
subisce un salto in avanti e nel profilo medio delle biografie maschili
l'immagine del neopadre ultratrentenne va sempre più con figurandosi
come una realtà.

Marta Blangiardo

 

COSTRUIRE SPAZI COERENTI

Il grande mutamento del concetto di
paternità avviene nel ventennio 1965-1985. Prima, al padre erano
assegnate le funzioni legate all'autorità e al procacciamento delle
risorse. Ma la denatalità, il divorzio, la contestazione giovanile, il
femminismo e l'entrata della donna nel mondo occupazionale mettono in
discussione il vecchio ruolo paterno. Tuttavia quello nuovo non è
ancora chiaro dato che oscilla tra lo stereotipo ottimista dei "nuovi
padri", giocosi e accudenti, e la realtà di padri che poco condividono
la gestione dei figli se non decisamente assenti. A tale incertezza di
ruolo spingono il ridisegno dell'identità maschile nonché i processi
che valorizzano la relazione "certa", quella madre-figlio.

Vittorio Filippi

 

PADRI PER FORZA IN FUGA

Anche il ruolo del padre è in
trasformazione. È un percorso difficile e complesso, nel quale trovano
spazio carenze e fughe dalla responsabilità, che per essere comprese,
vanno riportate sia alle storie e alle sofferenze personali e
familiari, sia alla pressione dell'ecosistema culturale e agli
stereotipi diffusi. Le aspettative sociali nei confronti di una
presenza paterna forte e protettiva appaiono oggi elevate, come il
ruolo del padre nella crescita psicologica dei figli, che si può
rilevare dall'orientamento degli studi di psicologia dello sviluppo
sulle relazioni triadiche precoci e sul sistema famiglia. Richiedono
perciò risposte collettive di impegno e di educazione.

Emanuela Bittanti

 

PORTARE MOGLIE E FIGLIO NELLA MENTE

Per molti secoli il padre è stato escluso dalla
gravidanza e dall'accudimento dei figli, perché ritenuti un affare di
donne. Oggi invece si sta riscoprendo la sua importanza nelle diverse
fasi della crescita del bambino. Il coinvolgimento attivo dei padri
nell'accudimento del bambino passa attraverso le madri, che
rappresentano il tramite tra padre e figlio. In particolare, la
partecipazione paterna nell'esperienza della gestazione si articola a
tre livelli: accudimento, sostegno della partner, legame con il figlio.
Il padre durante la gravidanza comunica con il bambino attraverso il
canale sonoro, psicotattile, empatico.

Gino Soldera e Mara Frare

NON BASTA NASCERE PER VIVERE

Il cambiamento culturale degli ultimi
decenni ha messo in crisi le figure di padre e di madre che, irrigidite
nei ruoli precostituiti da un ordine sociale, sono finite in ruoli
incerti e confusi. Ampi quesiti nascono sulle possibilità di una nuova
immagine della coppia e della famiglia. Quale padre oggi in relazione a
una madre che ha già attuato un suo percorso trasformativo per
riconoscersi in una sua identità personale e collettiva? Le riflessioni
propongono un itinerario a due che passi dal ruolo dell'interdipendenza
operativa passata al recupero di una soggettività che evidenzi un
abbraccio di reciproco rispetto e di una più serrata collaborazione
educativa per sé e per i figli.

Franco Cecchin

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:10

ABSTRACT tratti da "FAMIGLIA OGGI" n° 2/2003

ABSTRACT tratti da "FAMIGLIA OGGI" n° 2/2003

DI MAMMA NON CE N’È UNA SOLA

Una neo-mamma non può stare contigua al
suo neonato ventiquattro ore su ventiquattro! Prendiamo le distanze
dall’idillio che ci porta a pensare che mamma e neonato costituiscano
una sorta di simbiosi autocentrata e autosufficiente. Per dare
consistenza al loro assunto, gli autori conducono l’analisi in due
momenti: con riferimento agli studi sull'attaccamento che guidano alla
costruzione della "madre responsiva" e con riferimento alla
rivisitazione e ricostruzione della "comunità delle madri".

Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini

GLI ERRORI DI UNA MADRE DELUSA

Il passaggio da figlia a madre rappresenta per la
donna un momento cruciale della sua esistenza, che prevede cambiamenti,
l'assunzione di responsabilità e ruoli inediti. A tutto ciò si
aggiungono le molte aspettative che accompagnano questo evento tanto
desiderato e temuto. Il bambino, e il rapporto che la futura madre
instaurerà con lui, finisce per avere caratteristiche per lo più
dettate da messaggi falsamente ottimistici provenienti dai mezzi di
comunicazione. Ma, ovviamente, la realtà è sempre diversa e quando lo è
in senso peggiorativo insorgono delusioni, frustrazioni e incapacità di
affrontare le difficoltà.

Anna Oliviero Ferrarsi

L’AMORE CHE FA CRESCERE IL FIGLIO

Non basta un amore umano per educare il
figlio. Il bambino è persona già dal concepimento e ciò significa che
ha tratto il suo essere da Dio e può relazionarsi con Lui. Il figlio,
dunque, non dipende dalla madre come comunemente si crede perché prima
d'essere figlio suo è figlio di Dio. È un dato di fatto. Ma la
concezione culturale materialista ha tutt'altra considerazione e
rischia di ridurre il figlio a solo corpo.

Gioia Viola Bartolo

INCORAGGIARE IL BENESSERE DI CONTATTO

Il rapporto di coppia tra due futuri
genitori dev'essere saldo ed equilibrato ancora prima della nascita del
bambino. In caso contrario, spesso, questo evento scatena il
peggioramento di una crisi già esistente. Alla serenità di una famiglia
contribuisce un più sollecito comportamento paterno, che tuttavia, non
va letto come risposta all'emancipazione femminile. L'etologia e
l'antropologia, infatti, hanno ampiamente dimostrato che da sempre il
maschio si è occupato della prole attraverso quei gesti che
ingiustamente vengono ritenuti tipicamente materni.

Fulvio Scarparro

IL BAMBINO PROGIONIERO

L'articolo sottolinea l'efferatezza del
figlicidio e l'incredulità che suscita nella pubblica opinione. E
ricorda che esistono segni e sintomi come campanelli di allarme. C'è
sempre un motivo che scuote la base sicura rappresentata dal rapporto
madre-bambino. Ma va ribadito che "fare del male" a un bambino resta un
caso raro perché la regola è la vita e la vita si riproduce e chiama
altra vita.

Franca Do

NOVE MESI DI UTILE COMUNICAZIONE

La tecnologia sviluppata negli ultimi
decenni ha consentito alle numerose ricerche scientifiche di esplorare
la vita prenatale e permesso di scoprire che il nascituro ha una vita
intrauterina ricca e complessa. Egli è dotato di una specifica
individualità, in cui le precoci abilità sensoriali trovano il loro
naturale sviluppo in un rapporto di continua interazione con l'ambiente
esterno. L'educazione prenatale ottiene molteplici vantaggi nel
processo di crescita della famiglia.

Oriana Franceschin

MANTENERE ALTO IL VALORE DELLA VITA

Negli ultimi anni sta emergendo sempre
più il bisogno di promuovere una psicologia che si occupi non solo
delle patologie, ma anche della qualità della vita della persona, sia
essa malata o non. Nell'ottica della psicologia applicata alla
ostetricia ciò assume un ruolo molto importante. Come affrontare i
problemi psicologici che la gestante vive quando entra in una struttura
ospedaliera è oggetto vari studi e i ricerche ma è solo di recente che
si sta attivando l'interdisciplinarietà per un miglioramento della
qualità dell'assistenza.

Dario Casadei

L’OSSERVAZIONE PSICOANALITICA DEL NEONATO

L’Associazione italiana di psicoterapia
psicoanalitica infantile (Aippi) ha organizzato a Milano (30 novembre
2002) un convegno dal titolo "L'osservazione psicoanalitica del neonato
e del bambino". Le diverse relazioni che si sono succedute hanno preso
in esame l'Infant Observation nella sua caratteristica di fondamentale strumento formativo per tutti gli operatori che lavorano con bambini.

In questa particolare situazione l'osservatore
diventa testimone del divenire della relazione di una madre col suo
bambino e allo stesso tempo, questa esperienza emotiva significativa,
lo porta a fare un incontro inaspettato con un altro bambino, il
proprio bambino interno, e con le correlate esperienze precoci nella
relazione madre-bambino.

Le due funzioni principali che deve essere in grado di gestire durante l'Infant Observationsono contenere e differenziare. Deve infatti, da una parte, essere in
grado di accogliere, conservare ed elaborare, senza agire, stati
emotivi primitivi intensi proiettati dalla famiglia osservata,
tollerandone il loro carattere confuso. Dall'altra è fondamentale che
sviluppi la capacità di trovare la giusta distanza emotiva,
distinguendo tra stati mentali proiettati in lui dall'esterno e le
reazioni emotive suscitate dal riattivarsi di stati mentali primitivi
propri, mantenendo così il senso della propria integrità e separatezza.

L'Infant Observation è quindi una modalità di
apprendimento particolare, durante la quale l'osservatore entra in
contatto con emozioni intense e primitive che gli consentono
d'incontrare anche le proprie emozioni.

Emanuela Di Gesù

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:09

Non trasferire i propri sogni nei figli

Un pericolo in agguato.

L’emozione che la paternità porta con sé è sempre grande. Ma il genitore saggio comprende che non tocca a lui
tracciare la strada a colui al quale ha dato la vita, pena trovarselo nemico, malgrado tutto.

Un mio giovane collaboratore è preciso, attento, scrupoloso. È moderno, ma nello stesso tempo buon cattolico, osservante, politicamente corretto, molto innamorato della moglie. L'altra settimana è diventato padre per la prima volta. Per due giorni
non lo si è visto, ma tutti sapevamo perché. Quando è venuto in ufficio tutti gli hanno subito chiesto notizie della bambina. Ma lui voleva parlare d'altro.

"È stato bellissimo", raccontava. "Assistere al parto è stata davvero una cosa bellissima, emozionante, fantastica". I colleghi più anziani, due o tre volte padri, lo guardavano stupiti. Uno che è già più volte nonno disse: "Ai miei tempi non ci facevano assistere al parto. Aspettavamo fuori, fin quando non arrivava un'infermiera con quel bambolotto in braccio. Potevamo solo guardarlo, accarezzarlo con un dito".

Adesso assistere al parto è oggi cosa normale, magari davvero bellissima. Di sicuro rende più partecipi, fin
dall’inizio, di che cosa significa mettere al mondo un bambino: il dolore fisico, la gioia del primo vagito, la stanchezza di quel corpo di donna che ha ancora una volta donato amore, ma in modo diverso. A un
essere nuovo, che d'ora in poi...

Ecco, "d'ora in poi" è il primo pensiero che viene in mente dopo l'ubriacatura di gioia, dopo l'emozione, dopo l'attimo di
orgoglio (sono padre). D'ora in poi tutto, ma proprio tutto, sarà diverso. Che tu lo voglia, o non lo voglia, illudendo te stesso. Che tu lo sappia o che non te ne renda conto, nel tuo egoismo natura e di uomo giovane, al quale fino a ieri nessuno poteva imporre qualcosa non essendo in grado di chiedere niente, esattamente come quel grumo di carne rosea. Che tu ci pensi o no, sarà probabilmente quel grumo di carne rosea che un giorno ti chiuderà gli occhi, dopo che a lui (e ai
suoi fratelli, se gliene darai) tu avrai dedicato la tua vita.

Tante cose la banalità del vivere fa dire e scrivere, nella società della fitness, sui neopapà. Siccome la legge consente oggi anche ai padri assenze dal lavoro per la cura dei neonati, siccome l'eguaglianza dei sessi ha reso normali per entrambi operazioni un tempo riservate alle sole donne (preparare e reggere il biberon durante la poppata, cambiare i
pannolini, lavare quel corpicino, tenerlo in braccio quando piange la notte), i giornali specializzati si diffondono in consigli, come se non bastassero pediatri e mamme, e suocere, e zie e amici che ci sono già
passati.

In realtà niente è più facile che imparare rapidamente e praticare con sufficiente abilità quegli incarichi di genitore. Un po' più difficile è accettare altrettanto rapidamente che la propria vita è cambiata, si è capovolta, le antiche abitudini sono sconvolte. Se prima si andava a ballare ogni sabato sera, adesso non si può più; per questo inverno lasciamo gli sci in cantina; non si va al mare a luglio, fa troppo caldo; le Maldive possono aspettare; e fumare in casa, stop; e la tv all'improvviso ci si accorge che fa troppo rumore; e in macchina la prudenza non è mai troppa; forse bisognerà cambiarla, non è comoda, dove mettere il passeggino?

Ma la cosa più difficile sarà entrare in sintonia con quel bambino, e questo vuol dire capirlo fin da quando, a sei mesi, le smorfie indecifrabili del suo viso si rivelano sorrisi, riesce a star seduto nel lettino, e poi un giorno ti tende le braccia e ti dice in quel modo che ti riconosce, sei suo padre, ha fiducia in te come ne ha nella mamma. Solo a quel punto cominci a pensare a lui come a una persona altra, non un tuo clone.

Che cosa dice la narrativa

In quel romanzo che è forse il più bello di tutto il Novecento, I Buddenbrook, Thomas Mann (che lo scrisse a vent'anni, e per quanto abbia scritto poi, non ha mai più raggiunto quell'altezza vertiginosa) descrive in una scena il rapporto nuovo che si instaura poco per volta, ma insidiosamente, fra un padre - il senatore Thomas Buddenbrook - e il suo bambino ormai cresciuto, il quale rivela man mano doti e tendenze naturali della madre e ben poco, o nulla, del padre. "In cuor suo Thomas Buddenbrook non era contento del carattere e delle tendenze del piccolo Johann. Egli aveva sposato Gerda Arnoldsen, a dispetto dei filistei che scuotevano il capo e si scandalizzavano di tutto, perché si sentiva abbastanza forte e libero da poter manifestare un gusto più fine del comune senza far danno alla sua rispettabilità borghese. Ma il figlio, l'erede tanto a lungo invocato, che pure portava nel fisico tante caratteristiche della famiglia paterna, doveva proprio appartenere completamente alla madre? (...) Finora, la musica di Gerda (...) aveva costituito per Thomas un fascino di più da aggiungere alla sua personalità singolare; ma ora, vedendo che la passione per la musica, a lui incomprensibile, s'impadroniva già, così presto e così profondamente, anche di suo figlio, cominciò a considerarla come una forza ostile che s'ergeva tra lui e il ragazzo, di cui sperava di fare un vero Buddenbrook, un uomo forte e pratico, con un gagliardo istinto di potere e di conquista. E nello stato contabile in cui si trovava gli parve che quella forza ostile minacciasse di far di lui un estraneo alla propria casa". Ecco, il pericolo che i neopapà non vedono, nella gioia della nuova vita che stringono fra le braccia, ma di cui bisogna caritatevolmente avvertirli: il pericolo di trasferire sé stessi e i propri sogni nei figli, di volerli come loro, di tracciargli la strada che dovranno percorrere. È così che tante volte i figli diventano nemici dei padri, senza che lo vogliano, né gli uni né gli altri.

Beppe Del Colle

Da "Famiglia Oggi" 3/2003

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:08

La vera famiglia tipica italiana

La vera famiglia tipica italiana

Si
torna a parlare di famiglia. Eterno ritorno. La scusa è un film di
successo dell'italiano Gabriele Muccino. Dice cose che si sentono da
tempo anche alla televisione o si leggono sui giornali. Le dice con
bravura, riuscendo a far identificare tanta gente.

Quella madre? Sembra proprio me. E la figlia che vuol fare la velina? La tipica ragazza italiana.

Cose che sanno tutti: la famiglia vive la crisi di
genitori impreparati, di padri che sembrano più fratelli, di madri che
faticano a tirare avanti e spesso non si realizzano affatto, tra vita
personale e vita familiare. I figli vanno via di casa sempre più tardi,
solo il Sud conserva un po' del vecchio sentimento patriarcale che
caratterizzò l'Italia. Si sa. Come si sa che la criminalità è in
aumento o che i Governi centrali sono corrotti e quelli locali più
pragmatici e onesti. Il fatto è che, se qualcuno avesse la pazienza di
dare un occhiata ai dati statistici e sociologici, saprebbe che la
criminalità in Italia, non è mai stata tanto bassa. Sono diminuiti in
modo costante le rapine e gli scippi, i sequestri, e il numero degli
omicidi è il più basso dal 1860 (prima non si può dire: non c'era
l'Italia). La corruzione? Roma ladrona? Un altro luogo comune. Tutti
gli studi dei sociologi più avvertiti spiegano che il tasso di
corruzione cresce man mano che ci si sposta dal centro alla periferia.
Basta citare i casi estremi dell'autonoma Sicilia e dell'autonoma Val
d'Aosta, le più libere di fare in proprio, le meno influenzate da Roma.
Con quale risultato? Rari esempi di malcostume, privilegi e spreco di
denaro pubblico. Dunque, attenti al federalismo (ma chi lo dice,
questo?), e non solo per le nuove differenze ed ingiustizie che potrà
creare.

Ed eccoci alla famiglia. Un sociologo serio, Marzio
Barbagli, che sulla famiglia ha scritto una decina di libri (per
l'editrice "Il Mulino" di Bologna), che per abitudine parla dopo aver
guardato e riguardato i dati che la realtà ci fornisce, mi ha spiegato
cortesemente: non è affatto vero che i figli vanno via di casa sempre
più tardi. Se si escludono i 15 anni tra la fine degli anni Sessanta e
i Settanta, i figli italiani sono andati via di casa anche dopo. Anzi,
spesso non andavano via di casa affatto, sostituendosi, dopo una
convivenza tra famiglie, ai genitori che li lasciavano (per ragioni
naturali). Solo dice Barbagli che molti osservatori, commentatori o
giornalisti si sono formati proprio in quei quindici anni anomali e,
inevitabilmente, fanno della loro esperienza la regola. Ma non è vero.
E non è vero neppure che la nostra famiglia meridionale fosse unita e
patriarcale. Proprio al Sud, anzi, c'era il tasso più alto di
separazione obbligata tra parenti, dovuto ad un'economia che richiedeva
braccianti e garzoni, spesso lontano da casa. E mancando la proprietà
piccola o media, difficilmente i campi potevano sfamare intere
famiglie. La famiglia patriarcale c'è stata eccome, ma piuttosto a
Nord-Est, nel centro più civile e ricco d'Italia, dove era imposta
dall'economia del podere. Ancora oggi i figli stanno più vicini ai
genitori (anche emotivamente) in quel Centro-Nord piuttosto che nel
Sud. Lo dicono i dati dell'ISTAT, è un fatto.

Quanti fatti sono ignorati dai mass-media e formano
opinioni false che poi producono risultati reali? Quanta intolleranza,
quanti giudizi infondati e superficiali? È il frutto dì un Paese che
disprezza le statistiche e la ricerca, lo studio. E, anche per questo,
parla sempre più, spesso di nulla.

Attilio Giordano

da "L'Ancora" - aprile 2003

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:07

DARE GUSTO ALLA VITA

DARE GUSTO ALLA VITA

· Si può vivere senza pensare e senza riflettere, ma è come mangiare cibo senza sale e senza sapori. · Si può vivere ugualmente, ma qual è il senso della vita? ·
Ponendoci le classiche domande: Chi? Come? Dove? Quando? Perché?
vogliamo capire come cucinare una Ricetta-Vita personale, ricca,
corposa e capace di donare felicità e realizzazione.

Prima parte

Perché dare gusto alla vita?

Una
vita spenta e senza luce è sicuramente una strada piana e senza scosse,
i problemi ci sfiorano, ma non ci coinvolgono, la sofferenza è lontana
e ce ne sentiamo protetti. Possiamo vivere così e sentirci al sicuro,
senza paure ed incertezze, ma corriamo il rischio di perderci la parte
migliore, quella fatta di gioie intense, soddisfazioni personali,
capacità di andare oltre i propri limiti. Ci si nega la possibilità di
scoprirsi capaci di cose grandi. Dare gusto alla vita ha senso nella
misura in cui si desidera vivere in pienezza, godendo e gustando le
meraviglie che il Signore ha seminato sul nostro cammino.

I bambini vanno stimolati a scoprire la bellezza
del ricercare la gioia, l'amicizia, l'impegno per camminare e costruire
senza quella terribile noia, quel vuoto che spesso sembra
caratterizzare le giornate.

Quando si arriva a capire perché dare gusto alla
propria vita, si è pronti a fare un ulteriore salto di qualità e
scoprire che la vita ha ancora più gusto quando condividiamo queste
grandi scoperte con gli altri che ci stanno accanto. Da buongustai
della vita si diventa così "cuochi" capaci di cucinare per gli altri,
piatti di vita saporiti e abbondanti.

Si può scoprire così che ci sono cose belle nella
vita che ci realizzano, ma anche che ci sono cose più belle, anche se
più faticose, che ci permettono di vivere bene e di aiutare gli altri a
vivere bene.

Come dare gusto alla vita?

Non esiste una ricetta da seguire
uguale per tutti, esiste la ricetta che ognuno deve scoprire vera per
sé. Vivere veramente significa scoprire la strada che maggiormente dona
gioia e felicità, senso di pienezza e completezza.

I bambini devono essere aiutati a riflettere su
cosa davvero desiderano e su cosa sono disposti a sacrificare per
raggiungere ciò che desiderano.

Si può proprio cercare di far costruire loro la Ricetta della Vita Gustosa con:


· ingredienti,

· modalità di esecuzione,

· tempi di cottura,

· grado di difficoltà,



  • presentazione del piatto,

ricordando che le ricette migliori richiedono tempi lunghi e
difficoltà maggiori, ingredienti numerosi e capacità di progettare le
modalità di esecuzione. Si possono anche cercare quali sono gli
ingredienti che non si amalgamano con gli altri, e che alterano i
sapori fino a rendere immangiabile il cibo.

Quando dare gusto alla vita?

Ci
sono ricette che si tengono da parte per le feste e le ricorrenze
particolari, ce ne sono altre che vengono preparate ogni giorno. Così è
anche nella vita: ci sono momenti forti in cui siamo chiamati a fare
scelte importanti (quale scuola frequentare, quale cammino
intraprendere), e altri in cui siamo chiamati a vivere la quotidianità
con un impegno continuo a realizzare i progetti che ci siamo proposti.
L'impegno di rendere saporita la vita è quotidiano, perché ogni giorno
dobbiamo essere attivi, attenti, propositivi e generosi. Ogni giorno
incontriamo altre persone e possiamo scegliere di diventare per loro la
spezia che dà colore e gusto alla loro vita.

Roberta Guastamacchia

Giovanna Bettiol

da "L'Ancora" - marzo 2003

 

DARE GUSTO ALLA VITA

Seconda parte

Chi dà gusto alla vita?

Sicuramente
ognuno è chiamato a scoprire il gusto della propria vita e può decidere
come aumentarne il gusto e come amalgamare gli ingredienti.

Dobbiamo anche ricordare che non siamo i padroni e
gli arbitri assoluti della nostra vita. Questa è un dono che riceviamo
abbondante dal Signore e dobbiamo esserne responsabili. Dio vuole che
noi viviamo in pienezza perché possiamo essere felici, contenti di noi,
esprimendoci al massimo delle nostre possibilità, avendo a cuore la
nostra vita e quella degli altri.

Sa che abbiamo limiti e difetti, che spesso non
riusciamo ad andare oltre il nostro egoismo e a donarci agli altri. Per
questo ci ha insegnato come sì fa a cucinare una vita perfetta
nell'amore e nell'amicizia: Gesù è venuto sulla terra ed ha vissuto
pienamente.

Si possono fare dei paralleli tra la vita di Gesù
e quella dei bambini per far scoprire quali sono i valori che Gesù ci
vuole trasmettere e come è soprattutto nell'amore che realizziamo la
nostra umanità.

Quando impariamo a usare gli ingredienti: fede,
amore, speranza, amicizia, allora sì che la nostra Ricetta-Vita assume
un aspetto gradevolissimo e un gusto delicato e corposo insieme.

Come noi dobbiamo essere cuochi per la vita degli
altri, così dobbiamo accogliere i doni che gli altri ci fanno con la
loro presenza, con la disponibilità, con l'ascolto l'amicizia e l'amore
che ci dimostrano. Quando si organizza una festa e ognuno porta
qualcosa allora la tavola è completa.

Dove dare gusto alla vita?

Se ogni momento della vita siamo
chiamati a cucinare, questo significa che la nostra cucina è ovunque
noi ci troviamo. E un'attività mai finita e mai conclusa, che ci
accompagna e ci impegna in ogni luogo. Impariamo anche che gli
ingredienti non buoni, che talvolta ci portiamo dentro, possiamo
deporli nelle mani di Dio nel sacramento della Riconciliazione e lui è
capace di trasformarli e riutilizzarli rendendoli ingredienti buoni per
la nostra vita.

Nel CVS si può anche scoprire come utilizzare un
ingrediente che può sembrare spiacevole ed in contrasto col gusto che
vogliamo dare alla vita: il dolore. Si può comprendere che è un sapore
che fa parte della vita di ognuno e che, se vissuto con Gesù e
trasformato, dona un sapore speciale perché diventa semplicemente amore
donato. Questo è il gusto più bello, quello che fa brillare gli occhi,
che dona gioia a chi lo offre e a chi lo riceve.

In conclusione, possiamo dire che alla scuola di Dio ognuno è chiamato a diventare un grande "chef" e un grande uomo.

Sicuramente sarà venuta una gran fame a tutti... Sì
può pensare di organizzare un momento di festa, invitando i bambini a
dare anche un nome alle ricette-vita che hanno preparato e finalmente
mangiare e gustare tante cose buone

Roberta Guastamacchia

Giovanna Bettiol

da "L'Ancora" - marzo 2003

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:05

La bellezza di ciò che continua

La bellezza di ciò che continua

 

Secondo i dati forniti da
un'indagine Iard, la famiglia e l'amore sono i valori fondamentali dei
giovani italiani, rispettivamente per l'86% e il 78% del campione.
Questi picchi valoriali, in ogni modo, non hanno nessuna influenza
nella reale vita familiar-matrimoniale, visto che la permanenza nella
famiglia d'origine aumenta, che i matrimoni diminuiscono e che di
conseguenza la natalità si posticipa oltre i 30 anni. La considerazione
che si può trarre è che c'è resistenza ad instaurare relazioni stabili,
a prescindere dal matrimonio, e che convivere è una decisione troppo
impegnativa e che prevede troppi oneri e rinunce; inoltre è
considerevole le difficoltà poste dal fattore tempo, causa la difficile
conciliazione tra tempo familiare e quello lavorativo. La convivenza
con i genitori è vista come difesa da una società minacciosa e
difficile da affrontare, da cui si può scappare rifugiandosi tra le
rassicuranti mura domestiche.

I CONTESTATORI E GLI EDONISTI

Le diversità generazionali tra giovani del
Novecento si possono racchiudere nello slogan delle tre emme e delle
tre esse. Le tre emme simboleggiano i valori dei giovani degli anni
Cinquanta e più in generale della precontestazione: gli ideali della
moto (o macchina), del mestiere, di una moglie (o marito); sono questi
gli obiettivi di chi voleva crescere in fretta e diventare presto
adulto. Le esse rappresentano i giovani degli anni Ottanta, che
puntavano ai soldi, al successo e al sesso. Mentre negli anni Cinquanta
il matrimonio e la famiglia sono i due principali traguardi d'ogni
ragazza e ragazzo, la rivoluzione, sociale e sessuale, scoppiata nel
decennio successivo, porta il tasso dei matrimoni ad abbassarsi
notevolmente negli anni Sessanta e Settanta. Alla fine degli anni
Novanta il matrimonio non è né un istinto né un bisogno, come
all'inizio del secolo, ma una nicchia di felicità e il luogo del
dialogo. Si è passati cosi' dal matrimonio senza amore (combinato per
interessi prevalentemente economici) a quello per amore e, oggi, ad un
amore che vive anche senza matrimonio.

LA CULTURA DELL'AMORE

I giovani vivono ormai in situazione
culturale contraddistinta dal soggettivismo, dalla reversibilità delle
scelte, dalla differenziazione tra ambiti privati e pubblici e anche il
matrimonio è visto come una sovrastruttura ingombrante, perché per i
giovani quello che conta veramente è l'amore, i sentimenti, l'intimità.
Si può parlare di "relazione pura", in cui nel rapporto di coppia il
legame non è sancito da criteri esterni o sociali, ma da criteri
interni al rapporto. In questa visione manca la progettualità comune
della coppia e il senso profondo della relazione; il rapporto amoroso è
oggi autonomo a causa della mancanza di riferimenti sociali esterni che
sostenevano e incanalavano la coppia fino a qualche decennio fa.
L'amore diventa cosi' "caotico" perché è sganciato dalla morale, dalla
religione, dalla famiglia e da ogni supporto esterno: i tempi di
fidanzamento diventano lunghi e indefiniti, l'intesa sulla religione e
anche sugli aspetti economici diventa contenuta, la lontananza psichica
dai parenti è ampia e sono assenti coppie modelli cui ispirarsi. Il
matrimonio appare cosi' sempre più sullo sfondo, posticipato perché
visto troppo faticoso e impegnativo, ma anche privo di una trama
precisa da poter seguire. Questo rappresenta un paradosso, perché oggi
la coppia è un nucleo fondamentale per l'individuo, ma non è
necessariamente visibile né istituzionalizzata nella società attraverso
il matrimonio.

Osservando anche ciò che succede negli altri paesi,
la scelta di stare insieme si potrebbe articolare nel futuro in tre
livelli diversi: la convivenza more uxorio, il Pacs, che norma alcuni
aspetti della vita di coppia non coniugata che permette di ricevere un
sussidio materiale, e il matrimonio rinforzato, che rinforza l'impegno
matrimoniale con una formazione a monte.

Il contesto culturale odierno è quindi "neutro" nei
confronti del matrimonio: per rilanciare e rafforzare il vincolo
matrimoniale occorre partire dalla trasformazione dei giovani, che
hanno piena libertà e autonomia sebbene ancora dentro la famiglia
d'origine e le loro tappe verso l'età adulta sono sempre meno visibili
e significative. La coppia oggi non è vista in una progettualità ma è
solo fonte di riduzione e di sfogo dalle tensioni esterne e sociali. I
percorsi che portano al matrimonio sono privati, non supportati in
alcun modo dall'esterno: c'è bisogno quindi di una politica pubblica
per la tutela della famiglia, che aiuti le giovani coppie a diventare
delle vere famiglie.

Come scriveva il poeta Rilke, "c'è tanta bellezza in
tutto ciò che comincia", ma forse c'è una bellezza maggiore in ciò che
sa continuare rinnovandosi.

Vittorio Filippi - Sociologo

Tratto da "Famiglia Oggi"-11

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:04

LA CRESCITA PERSONALE A RAGGIERA

LA CRESCITA PERSONALE A RAGGIERA

Il dilagante individualismo, che
caratterizza la nostra società, è una minaccia per una sana vita
familiare, che sfocia nel disgregarsi della coppia, nella rinuncia a
procreare, nel rifiuto della convivenza; insomma, una progettualità di
coppia ridotta al minimo. L’individualismo è anche narcisismo, la
dedizione al culto di sé, specialmente nei trentenni e quarantenni.
Queste persone, quando decidono di mettere al mondo un figlio, lo
vedono come il rispecchiarsi del proprio io, e quindi perfetto o quasi.
I figli sono quindi concepiti come oggetto proprio, fino al caso in cui
diventano oggetto di ricatto nei confronti del coniuge: anche i figli
di conseguenza, diventano individualisti e affetti da protagonismo.

ANDARE OLTRE LA CASISTICA

Cosa s’intende in realtà per
individualismo? Nella definizione del dizionario Zingarelli è descritto
come "dottrina che riconosce all’individualità un valore autonomo
irriducibile all’ordine naturale, politico e morale di cui fa parte;
tendenza a considerare prevalenti diritti, i fini, le iniziative e le
azioni dell’individuo su quelli collettivi e dello stato; egoismo,
eccessiva o esclusiva considerazione di Sé". L’individualismo non è
solo un atteggiamento negativo, ma è l’elemento portante della visione
del mondo, dei rapporti sociali che è costitutiva della modernità e
dell’idea di liberismo.

Quest’accostamento fra individualismo e liberalismo
implica competitività, concorrenza, aggressività e conflittualità ma
anche conoscenza del limite e delle regole del gioco.

L’individualismo è accompagnato anche
dall’affermazione di sé: è negativo quando è simbolo di una personalità
basata sulle apparenze, portando al fallimento dell’individuo, ma nel
caso in cui l’autoaffermazione è una crescita personale a raggiera e su
più piani, con una reale autonomia, che non è isolamento ma capacità di
vivere, progettare e operare insieme agli altri, l’individualismo è
senz’altro positivo.

TRE DIMENSIONI DETERMINANTI

Tutto ruota intorno al proprio io e
alla propria individualità, ma, paradossalmente, la piena realizzazione
di sé c’è solo quando ci si rapporta con gli altri. Sul piano
dell’autorealizzazione la famiglia, quindi, ha un ruolo fondamentale
perché è il luogo in cui la fiducia nell’altro raggiunge il massimo
livello; la famiglia contribuisce in maniera decisiva a mostrare le
nostre potenzialità lungo tre dimensioni:


  • La prima è quell’affettiva e sessuale,
    perché l’incontro sessuale diventa un reciproco donarsi, accettarsi e
    comprendersi, al di là del puro scambio sessuale, con una
    compenetrazione fisica e psichica che valorizza al massimo le
    rispettive individualità.
  • La nascita e la crescita di un figlio
    permettono di prolungare il proprio io nello spazio e nel tempo, oltre
    la stessa morte. L’esperienza della maternità/paternità è dunque il
    primo fattore di autorealizzazione; porta anche numerosi dispiaceri e
    sacrifici, ma è più grande la soddisfazione di aver dato vita ad un
    essere umano e di averlo aiutato a crescere.


  • La terza dimensione della vita familiare è
    la progettualità, la prospettiva a lunga scadenza, perché sono gli
    obiettivi a lungo termine che consentono di tracciare un bilancio
    positivo della propria vita: la persona non può vivere senza progetti.

La famiglia moderna si deve basare sulle
responsabilità individuali dei componenti, su scelte che non derivino
da conformismo sociale né da convenienze economiche ma dall’intento di
dare piena espressione al patrimonio di umanità che è nell’individuo.

Gregorio Piaia,

ordinario di storia della filosofia, univ. di Padova

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo

Domenica, 20 Febbraio 2005 18:03

VECCHIE E NUOVE DINAMICHE

VECCHIE E NUOVE DINAMICHE

Fino al 1975, anno in cui fu abrogata la
legge 316 sul diritto di famiglia, la patria potestà era esercitata dal
padre, designando la supremazia paterna rispetto alla figura della
madre. Il figlio non poteva prendere decisioni, ma solo esservi
soggetto; la figura istituzionale della madre era completamente
assente.

L’art.134, che sostituisce quello citato, diventa
"esercizio della potestà dei genitori": al padre è sostituita la coppia
di genitori, con una distribuzione del potere decisionale. La crescita
dei figli è ora un progetto comune, fatto di condivisione di
responsabilità e di valori. Nel caso di conflitto fra i genitori, il
potere decisionale viene collocato al di fuori della famiglia e
affidato ad un giudice, che usa come valori di riferimento l’interesse
del figlio e dell’unità familiare.

DECLINO DEL PADRE SEVERO

La legge rispecchia la situazione che
si verifica nella realtà: negli anni Settanta inizia l’eclissi della
figura paterna con una contemporanea crescita e rilevanza dei valori
materni, più attenti ai bisogni e ai desideri dei figli e regista delle
scelte quotidiane. In questo nuovo ritratto cambia anche il modo di
educare i figli: prima il sistema educativo era basato su paura,
mortificazione e vergogna e per conquistarsi la fiducia dei genitori
erano necessari molti sforzi e i figli avevano troppo poco spazio
all’interno del nucleo familiare. Con lo sviluppo economico degli anni
Sessanta, il quadro culturale e sociale cambia, con l’importanza sempre
maggiore delle donne, lavoratrici e responsabili all’interno della
famiglia; la mobilità sociale permette di disegnarsi il proprio
progetto di vita.

LA COPPIA MADRE-BAMBINO

La rilevanza sociale del padre e
capofamiglia lascia sempre più spazio alla coppia madre – bambino,
perché i valori di riferimento per una buon’educazione sono quelli
materni e infantili, con l’idea del figlio felice, da crescere senza
frustrazioni e da proteggere, in un clima pieno d’affetto; la scuola
materna diventa luogo in cui crescere i bambini in allegria. L’ambiente
sociale, colpevole di stress e tensioni, diventa l’orco da cui
proteggere proprio figlio.

Quando i bambini felici diventano adolescenti, però,
sorgono i primi problemi, perché la felicità non può essere un modello
educativo realistico: nella società l’attenzione e le relazioni devono
essere guadagnate, non sono dovute come all’interno della famiglia; la
risposta tempestiva al bisogno del bambino impedisce il formarsi del
valore del sacrificio e dell’autonomia, rendendo gli adolescenti
fragili e disarmati davanti alle sfide lanciate dalla società.

LO SCENARIO INTEGRATO DI OGGI

Nella famiglia di oggi la decisione
di avere un figlio è presa dalla coppia, nata per amore e non per
necessità sociale, come in passato; in questa coppia è di solito la
donna a sentire la necessità di una nuova vita, e coinvolge il partner
in questa decisione, nominandolo padre.Il padre è dunque coinvolto fin
dall’inizio, anche perché spesso la madre ha bisogno di aiuto, negato
sovente dalla società e a volte anche dalla famiglia di origine.

Per quanto riguarda i fratelli, essi devono crescere
in un clima di democrazia, fatta di competizione ma anche di
collaborazione. Tutti sono diversi ma uguali, perché nessuno è
superiore all’altro; la famiglia di oggi, che preferisce la
contrattazione al conflitto, è caratterizzata dalla povertà di regole e
dalla tendenza dei genitori di mantenere bassa la conflittualità
piuttosto che gestirla.

L’infanzia è dunque felice e difficile da
abbandonare, sia per i ragazzi sia per i genitori, che ricoprono un
ruolo faticoso ma gratificante. È il padre a dover sostenere
l’adolescente, con l’ascolto e la valorizzazione delle risorse del
figlio, facendosi carico anche della depressione materna dovuto
all’abbandono del nido da parte del figlio.

La nuova famiglia integra notevolmente competenze
materne e paterne per sostenere la crescita dei figli; ma è spesso
isolata, non supportata da una rete sociale che permetterebbe il
confronto e il dialogo con altre famiglie.

Corinna Cristiani,

docente di psicodinamica dello sviluppo, univ. di Milano

Tratto da "Famiglia Oggi – 11"

Costruzione della identità: segnali di rischio

Il termine identità è di quelli così densi
di implicazioni che richiedono subito di essere definiti, e quindi
ristretti, resi affrontabili, grazie ad un aggettivo: identità sociale,
culturale, etnica, religiosa, personale…

Prima parte

Parlerò qui di alcuni aspetti che hanno a che fare
con la costruzione dell’identità personale da un punto di vista
psicologico. Da un punto di vista generale voglio sottolineare
l'importanza che riveste la conquista di una matura identità: si può
innanzitutto ricordare, in proposito, come la xenofobia e il razzismo
sono sempre stati buoni rifugi per chi, scoprendosi incerto sulla
propria identità personale o sociale ha bisogno di demonizzare e
aggredire chi è diverso per negare e aggredire le proprie debolezze.

Il titolo invita a chiedersi quali sono almeno
alcune delle condizioni in cui si manifesta nei bambini e negli
adolescenti le difficoltà di costruzioni dell’identità da un punto di
vista psicologico. Questione difficile perché infanzia e adolescenza
sono i periodi della vita in cui l’identità viene a costruirsi e quindi
le difficoltà nella sua costruzione sono fisiologiche e vanno pertanto
rispettate. Da questo punto di vista un pericolo per un sano sviluppo
può essere rappresentato proprio dalle ansie degli adulti riguardo alla
normalità o meno del percorso di maturazione che il bambino segue. È
questo il fenomeno ben noto a tutti dell'apprensione dei genitori
riguardo ai figli e che, quando supera limiti per così dire
fisiologici, diventa una ingombrante interferenza o addirittura un
fattore di deformazione patologica dello sviluppo. Questo accade perché
quando l’apprensione si trasforma nel genitore in una persistente
incertezza sulle capacità del bambino o dell'adolescente di "sapersela
cavare" davanti ai compiti di sviluppo, questo sentimento si traduce
nel bambino in un profondo senso di insicurezza che ne mina 1'autostima
e ne indebolisce davvero le sue capacità affondare i diversi passaggi
evolutivi.

Un po' schematicamente, ma fondatamente, potremmo
dire che posto in una condizione psicologica come quella descritta, il
bambino può reagire in tre modi; sottomettendosi, isolandosi, opponendosi.In tutti i casi pagherà un prezzo in termini di alienazione della
costruzione della propria identità. Se si sottomette e fa proprio il
messaggio di sfiducia nei suoi confronti contenuto nell'atteggiamento
apprensivo dei genitori, non potrà che dare conferma a tale aspettativa
negativa comportandosi in modo da poter dire anche a se stesso "visto
che non sei capace?"; ad ogni piccolo insuccesso ad ogni piccola
dimostrazione di incapacità si rinforzerà la valutazione negativa in un
perverso circolo vizioso. Sono quelli i bambini timorosi di non
riuscire, che si ritraggono davanti alle proposte di gioco o si
bloccano al primo risultato non positivo: ogni occasione, ogni
relazione con gli altri assume infatti di per loro il valore di un
giudizio.

 Giancarlo Rigon

Psichiatra, Psicoanalista, Neuropsichiatria infantile,

Primario di NPI, AUSL Città di Bologna,

docente di psicoterapia all’Università di Bologna

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:31

Il disturbo da attacchi di panico

Il disturbo da attacchi di panico

"Vita umana e cristiana si intersecano
continuamente; il presente articolo, vuole semplicemente dare delle
indicazioni nei confronti di una sofferenza specifica ed offrire un
contributo per la comprensione delle persone che ne sono affette".


Quando si parla di attacchi di panico ci si
riferisce ad un caso clinico in cui l’ansia si manifesta in modo
particolarmente violento, coinvolgendo sia la sfera fisica che psichica
dell’individuo.

La caratteristica principale dei disturbi da
attacchi di panico è un’intensa sensazione di disagio mista a paura,
che arriva al terrore vero e proprio; improvvisamente, la persona
inizia a sentirsi inquieta, cerca vie di uscita se si trova in posti
affollati, arriva a fermarsi se si trova alla guida di una macchina.

Di solito non ci sono prodromi – cioè segni
premonitori – di un inizio della crisi; tutto si manifesta
improvvisamente in modo del tutto incontrollabile ed imprevedibile.

All’intenso stato di disagio e paura, si uniscono
poi sintomi che coinvolgono l’intero organismo producendo dei malesseri
che, sebbene temporanei, aumentano notevolmente il terrore di morire,
di perdere il controllo della situazione, di trovarsi a dover svenire
da un momento all’altro in condizioni sfavorevoli (ad esempio in
autobus).

Gli psichiatri sono concordi nel ritenere che, per
parlare di disturbo da attacchi di panico, è necessario che siano
presenti almeno quattro dei tredici sintomi che lo caratterizzano;
questi tredici sintomi sono: una sensazione di soffocamento con
relativa fame d’aria, sensazioni di svenimento, tachicardia o
palpitazioni, tremori fino a grandi scosse, sudorazione abbondante,
nausea o disturbi addominali, senso di perdere il contatto con la
realtà, formicolii, improvvisi vampate di calore o senso di freddo,
dolore o fastidio al torace, paura di morire, paura di impazzire o di
fare qualcosa di incontrollato.

Ad un attacco di panico, di solito, può essere
associata la cosiddetta agorafobia (letteralmente fobia degli spazi
aperti) ossia la paura di trovarsi in posti o situazioni dalle quali
sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nelle quali potrebbe
non essere disponibile aiuto in caso dell’improvviso insorgere di un
sintomo (o di più sintomi) che potrebbe essere inabilitante o
estremamente imbarazzante.

Risulta evidente come le persone che sono costrette
a vivere con un disturbo da attacchi di panico sono esposte ad un vero
e proprio limite nel vivere la quotidianità, sovente condizionata
dall’improvviso insorgere di un attacco.

Nella popolazione generale è stata evidenziata una
prevalenza annuale del disturbo di attacchi di panico compresa tra lo
0,4% e l’1,5%, senza che siano state rilevate differenze per quanto
riguarda il livello socioeconomico.

Il disturbo tipicamente insorge in età giovanile con
esordio compreso tra i 15 e i 35 anni ed è più frequente nelle donne
rispetto agli uomini con un rapporto di tre a uno.

…una sofferenza improvvisa ed incontrollabile

parlando con un paziente che soffriva
di attacchi di panico, ho notato come la parola "infarto" ricorreva
spesso nei suoi discorsi. In effetti, l’accelerazione del battito
cardiaco unita la dolore al petto e alla sensazione di svenimento, con
relativa mancanza d’aria, può far pensare ad un attacco cardiaco e non
ad una crisi d’ansia.

Si entra così in un circolo vizioso in cui i sintomi
producono sempre più paura e la paura alimenta sempre più la crisi
d’ansia. Ad ogni modo è sempre opportuno ricorrere ad una diagnosi
precisa circa gli attacchi di panico; la cosiddetta diagnosi
differenziale può scongiurare il pericolo di patologie nascoste (come
ad esempio un prolasso della valvola mitralica cardiaca) che, di
solito, produce gli stessi sintomi di un attacco di panico.

La cura

Spesso, nei casi di disturbo da
attacchi di panico, è necessario ricorrere a dei farmaci specifici in
grado di contrastare e, possibilmente, limitare l’insorgere delle crisi.

Accanto alla terapia farmacologia sarebbe opportuno
affiancare una psicoterapia al fine di comprendere i reali motivi che
producono reazioni ansiose così violente; è importante sottolineare
che, non di rado, è presente anche la depressione come substrato su cui
possono svilupparsi le crisi di panico che, sebbene necessitino di
tempo per poter essere debellate, possono tuttavia arrivare ad una
remissione completa.

Felice Di Giandomenico

Da "L’Ancora" 1/2 2003

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