Famiglia Giovani Anziani

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 62

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 66

Visualizza articoli per tag: Aspetti Psicologici della Famiglia

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:30

Il quarto patibolo (Parte 4/4)

(parte 4/4)

Dono e perdono

E torno ad aprire gli occhi su questi nostri giorni
 turbolenti, ricchi, come mai nel passato, di logica e di nature  
passionali. Penso ai trenta anni che servirono a preparare la grande
 Rivoluzione e ai duemila anni che sono seguiti, durante i quali non si 
è saputo trovare il momento per dire basta ai compromessi. Adesso, in
 coda al corteo dei tre Crocefissi, vedo un quarto patibolo: è l'albero 
dal quale ha penzolato il corpo di Giuda, l'uomo che ha macchiato la
 storia con il più orrendo dei crimini, colui che per vergogna ha 
rifiutato i doni più grandi che potevano essere fatti all'uomo, la vita
 e il perdono, ma che con il suo sacrificio e il suo pentimento, sincero
 e senza sconti, ha fatto germogliare su quel legno intriso di disonore
 dei fiori viola come il colore della passione.

Come non pensare al
 patibolo dal quale l'uomo onnipotente di oggi non sa liberarsi? Il
 tanto decantato progresso lo ha inchiodato alla logica dei consumi, dei 
profitti ad ogni costo, del calcolo che deve precedere ogni gesto,
 compresi quelli di buona volontà.

È l'accidia - questo peccato che 
nella nostra immaginazione di giovani scolari del catechismo non
 trovava mai una collocazione né un'immagine adeguata - il peccato che
 sta sempre in agguato. I poveri del terzo mondo, i malati di aids, le
 vittime delle faide, i figli dei disoccupati, i bambini venduti…
 sembrano mali che non devono toccarci solo perché stanno dietro la 
porta di casa. Anche nel contrasto fallace tra ordine e giustizia, 
finiamo per schierarci sempre da quella parte che fa di noi dei 
paladini ottusi e irriducibili. E la nostra rivoluzione viene rinviata.


Ma il miracolo dell'occasione propizia per ogni uomo è una garanzia e 
si presenta sempre. C'è chi l'attende sotto forma di lotteria nazionale 
e chi riesce a realizzare quel dono completo di sé che ha la capacità 
di consolidare ogni persona nella propria pretesa dignità o, forse
 meglio, in un pizzico di sana vanità. E i recessi più nascosti, dal
confessionale al talamo degli sposi, possono trasformarsi in una 
palestra nella quale le schermaglie sanno durare anche sino all'alba, 
ma finiscono per decretare la vittoria sulla passività di chi si ostina 
a voler fare il salto di qualità che c'è nel desiderarsi. Ci possiamo 
staccare dal patibolo solo se permettiamo che la tenerezza occupi
 abusivamente la nostra intera esistenza. E dove mille onde finiscono il
 loro lungo viaggio, la riconciliazione o, finalmente, la rivoluzione
 della buona volontà potrebbero essere la sfida all'ansia dell'uomo.

Leggi la prima parte

Giovanni Scalera - Psicologo - Siena 

Da "Famiglia Domani" 1/99

 

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:29

Il quarto patibolo (Parte 3/4)

(parte 3/4)

Morire ogni giorno

Ci insegnano, fin dalla più tenera età, che la nostra esistenza è un continuo arricchirsi di esperienza, che gli incontri e le novità sono occasioni preziose per la nostra crescita e per la nostra maturità, che ogni nostro gesto è prezioso e non deve essere guidato dal caso. Tutto vero. Come è vero che al momento della nascita inizia lento e inarrestabile il nostro cammino verso quel traguardo comune, la cui immagine terrorizzante, nel contesto che ci ha formato e in cui viviamo, può solo essere esorcizzata, evitando anche di nominarla. Perfino i trattati di anatomia si rivolgono alla morte chiamandola exitus.

Tanta paura di un momento che attende tutti, ha una giustificazione? Se nella iconografia della nostra cultura occidentale la morte fosse una bambina, l'accoglieremmo a festa nelle nostre case; sarebbe un'ospite da intrattenere nel giardino tra i fiori e gli animali domestici e, una sera, a piedi scalzi, verrebbe al nostro capezzale a chiuderci gli occhi nelle sue fragili mani. Noi, invece, abbiamo una morte medievale che veste a lutto le chiese e la musica delle fanfare, o una morte barocca che fa camminare al buio i fantasmi tristi di uno scheletro donchisciottesco, agitando una ridicola, anacronistica falce.

Non è il caso di leggere questo evento in chiave antropologica; le implicazioni che da sempre costituiscono il momento critico del conflitto tra la vita e la morte sono state fatte proprie da tutte le leggi del nostro sapere. Forse sarebbe utile riflettere che ogni giorno si muore, che ogni giorno una parte di noi se ne va, e, quasi sempre, per lasciare il posto a vita nuova.

Ma se tutto questo è vero per il nostro corpo, cosa accade, in realtà, nello spirito? Qui le cose sono diverse. Non è più la natura a fare il suo corso: è chiamata in causa la volontà con i suoi traguardi rivoluzionari. Se è vero che vi sono dei verdetti silenziosi che il nostro corpo pronuncia su se stesso e di cui, prima di tutti, prendiamo inconsciamente atto, l'attaccamento che ognuno porta alla propria identità è tale da rendere difficile ogni modifica e
ogni spostamento. Ognuno crede di orientarsi bene nei meandri della propria personalità, ma quando si tratta di chiudere la porta ad un vizio o ad un difetto per dare vita ad un qualunque cambiamento, entrano in ballo resistenze fortissime che ci ancorano a vecchie, comode abitudini e ogni tentativo di rinnovarsi viene percepito come un gesto faticosissimo per il quale appare sprecato ogni dispendio di energie. Quasi sempre assistiamo al degrado delle nostre storie; avvertiamo anche l'urgenza di prendere in mano le redini e dare una svolta, ma una sorda paura può impossessarsi di noi, fino a far apparire, alla fine di una storia, i racconti e le confidenze evanescenti come un sogno. Qualche volta la stessa difficoltà del convivere quotidiano, e contro la quale non si sa trovare il coraggio di rompere, a furia di rimproveri e disaccordi, arriva a renderci i piatti insipidi e le bevande amare. Ma noi resistiamo anche contro gli eventi più eclatanti e quando nella nostra esperienza trovano posto giorni che non meriterebbero di essere vissuti, giustifichiamo la teoria secondo la quale l'oblio nasconde sempre un segreto.

Leggi la quarta ed ultima parte

Giovanni Scalera - Psicologo - Siena 

Da "Famiglia Domani" 1/99

 

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:29

Il quarto patibolo (Parte 2/4)

(parte 2/4)

Orgoglio e solitudine

La nostra caratteristica più evidente, in quanto 
esseri umani, è quella di provare e partecipare i sentimenti. Siamo 
tutti orgogliosi delle cose buone e delle prove di sensibilità che 
sappiamo dare; lo siamo ancor più, se l'immagine che gli altri mostrano 
di percepire e rinviarci dopo averla gradita, arricchisce la nostra 
vanità di mistificazioni contrabbandate per bontà. Sono gli scherzi - o 
brutti effetti? - dell'orgoglio che, in dosi contenute, ci aiuta a 
superare le prove e a sperimentare la tenacia, ma che, una volta 
superata la soglia della moderazione, rischia di farsi, tutto attorno,
 terra bruciata. Quello stesso orgoglio, che nei momenti di forza sa
 mascherare i sentimenti senza impedirci di provarli, ma che in altri
 passaggi della vita ci isola da tutto e da tutti, costringendoci a
 pianti silenziosi e indigenti di ogni sollievo fino a renderci
 mendicanti di sogni e di ricordi. È in questa fase che si hanno le 
grandi trasformazioni della vita.

C'è chi crede nei sogni e chi negli 
incubi. C'è chi, di fronte a violenze, soprusi e insuccessi fa sue le
deludenti scuse o la tragica rassegnazione sentenziando "è la vita...", 
e chi guarda le storie del proprio passato non per il fascino
 dell'aneddoto, ma in quanto residui di esperienze da non ripetere. È il
momento in cui si potrebbe scoprire di essere condannati alla 
solitudine perché l'attimo tanto rumoroso del successo è passato e
 tutti coloro ai quali eravamo orgogliosi di partecipare la nostra 
avventura ora stanno da un'altra parte. E non si può neppure 
trascorrere la vita a imbastire atti di accusa contro l'ingratitudine
 degli altri: siamo tutti molto individualisti nel pensare e 
condividiamo poche convinzioni, salvo la tendenza a coltivare 
pregiudizi.

Ci resta una possibilità, forse l'ultima: guardarsi dentro
 per cercare un bandolo di questa intricata matassa, un punto nuovo dal 
quale si possa rompere la spirale della mediocrità e ripartire con
 convinzione ringiovanita. Impossibile, in questi casi, non andare con 
il pensiero alle coppie sofferenti. Di fronte alle storie che rischiano 
di finire, raramente si mettono in discussione i nostri comportamenti.
 Eppure, quante volte quello che si proietta sull'altro potrebbe far 
parte, nel desiderio come nel rifiuto, del proprio immaginario? A
 fronte delle crisi più esasperate ci si aggrappa orgogliosamente ad un
 brandello di immagine con lo stesso bisogno che si ha davanti ad una 
fotografia o ad un ritratto, di sottolineare sempre che, nella realtà,
 si è migliori. E poiché ci sono gesti e parole che, in sintonia con il
cambiar di colore alle guance, significano ben altro che la vergogna e 
assai più del desiderio, la solitudine di chi si ostina a non fare il
 salto di qualità, conduce inevitabilmente a due scoperte macabre: la 
prima è che l'abitudine e il cinismo fanno fare alle mani dei gesti 
tanto freddi e respingenti da assomigliare più ai brancolamenti degli
 ubriachi che alle carezze di un innamorato; la seconda è la caduta
 nell'anonimato che si verifica quando una persona viene indicata e 
definita per aneddoti perché la sua vita può passare di bocca in bocca
 al pari di una raccolta di facezie.

Leggi la terza parte

Giovanni Scalera - Psicologo - Siena

Da "Famiglia Domani" 1/99

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:19

Il quarto patibolo (Parte 1/4)

Tutti abbiamo - o abbiamo avuto - la voglia di cambiare: affermazione di idee nuove, rottura con la monotonia, desiderio di emergere, crisi dell’immagine che abbiamo di noi. Eppure questo desiderio si scontra con resistenze fortissime che ci ancorano a
vecchie, radicate abitudini, e denunciano la fatica di prendere in mano
responsabilmente la nostra vita di ogni giorno. Un patibolo da cui ci possiamo staccare solo permettendo che la
tenerezza occupi la nostra intera esistenza favorendo la rivoluzione
della buona volontà.

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:18

I CONFLITTI TRA GENITORI E FIGLI

I CONFLITTI TRA GENITORI E FIGLI

 

·
Una prospettiva "costruttiva" del conflitto ·
Il conflitto: una tensione tra logica per adempienti e logica per progetti ·
Ma le due logiche sono inconciliabili? ·
Educazione al cambiamento: apertura alle ragioni dell’altro ·
Superare la visione del ruolo stereotipato ·
Per trasformare il conflitto da negativo a positivo ·
Una scheda per la riflessione in famiglia e nei gruppi.

 

La parola "conflitto" può richiamare alla mente immagini e idee non
piacevoli: guerre e distruzioni, violenze e sofferenze. Ma non è
l’unico modo di usare questo termine, e c'è anche la prospettiva
costruttiva che deve essere presa in considerazione proprio per uscire
da una spirale negativa.


Due modelli


  • Chi educa si trova al punto d'incontro di due modelli: quello "naturale" che si sviluppa avendo nella mente la famiglia; e quello "organizzativo", della società strutturata.


  • Vi sono due logiche conseguenti, che a volte convivono con difficoltà: la logica per adempimenti e la logica per progetti.


• La logica per adempimenti risponde al
presupposto che ciascuno, secondo il ruolo che si trova ad occupare -
ad esempio: in famiglia -, ha un certo numero di adempimenti, più o
meno vissuti come un dato "naturale".
Le virgolette per questa
parola stanno a segnalare che è un modo di dire e di intendere. Gli
adempimenti di un figlio nei confronti di una madre possono essere
ritenuti parte di una naturalità fuori da processi storici e da
contesti geografici e culturali; ma non è proprio così come ciascuno
può immaginare e sapere. Questi adempimenti, però, sono vissuti con una
certa naturalezza.


• La logica per progetti esige un'organizzazione.Ed è comprensibile che mansioni e compiti siano definiti sulla base di
un impegno anche nuovo, relativo alle finalità del progetto. In chi
cresce, il ruolo di figlio o di figlia risponde alla logica per
adempimenti; il ruolo di studente è invece nella logica per progetti e
comporta la scoperta di compiti che potrebbero anche essere sconosciuti
nell'ambito familiare. Ma in questo esempio, i doveri di studio sono in
parte, per certi aspetti formali, assimilabili ad adempimenti ritenuti
naturali. Altra cosa è se le aspirazioni di un figlio o di una figlia
sono espressi in termini che vanno oltre il percorso di studi, o anche
ne stanno fuori. Allora gli adempimenti ritenuti naturali sono
sostituibili con impegni relativi all'organizzazione del progetto.



  • Le due logiche, i due modelli, possono coabitare con fatica. Ed è il conflitto.


• Ma può essere un conflitto utile, costruttivo.E però tale se i due modelli non vengono contrapposti con un criterio
di incompatibilità, introducendo il problema di accoglierne uno
escludendo l'altro. Questa contrapposizione può ti nascere da una
presunzione di assoluto: "se ho ragione io, l'altro non può che avere
torto". Può essere utile, invece, esaminare in ciascuna logica le sue
ragioni, E quindi cercare di capire quando e come servirsi di una
logica o dell’altra.


• Questa doppia logica, se non vive il conflitto
costruttivo, può consentire di sfuggire continuamente ad ogni
riscontro, e sviluppare una sorta di onnipotenza
che si serve del
relativismo per tenersi sempre fuori da ogni controllo. Io, figlio,
posso sottrarmi ad ogni adempimento filiale per ragioni che si
riferiscono al mio progetto; nello stesso tempo, potrei attenuare il
mio impegno progettuale, temendo di perdere alcuni vantaggi che mi
vengono dallo statuto di figlio. In questo caso, è bene che in me vi
sia un conflitto.


• Certo che ogni conflitto può essere reale o frutto di fantasie, che non sono da prendere meno sul serio:la perdita di contatto con la realtà può rendere molto più faticosa la
ricerca di una prospettiva costruttiva e feconda. E il riconoscimento
delle ragioni non può essere un’operazione preliminare. Può invece
essere un riconoscimento che viene dopo, nel ripensare a ciò che è
accaduto. Forse possiamo scoprire che le due logiche si avvicinano e
anche si confondono, e che una sorregge l'altra.


Educazione al cambiamento


  • Il conflitto costruttivo può far superare il rischio di ritenere valide unicamente le proprie personali ragioni.


Sentiamo tante volte dire: "Faccio solo quello che
mi piace, o che voglio", con l'idea che le ragioni personali siano le
uniche valide. Le ragioni degli altri non contano. Non si può o non si
deve fare ciò che non ci convince per nulla, badando unicamente agli
altri. Questo sarebbe conformismo. Ma le ragioni individuali non
possono essere talmente ingombranti da escludere tutti.



  • L'educazione ad e cambiamento è apertura alle ragioni degli altri, confrontate con le proprie.


• Ed è un'apertura che non può non essere conflittuale.Chi cresce come chi è adulto può vivere ogni confronto sotto il segno
della fantasia persecutoria, ancorata allo stereotipo del persecutore
che si incontra con quello del perseguitato. Vediamo un piccolo
esempio, riferito ad un gruppo che avviava uno scambio libero delle
proprie esperienze educative. Una persona del gruppo, per anzianità,
assunse il ruolo di coordinatore e lo svolse in maniera molto
silenziosa e discreta. Dopo un certo tempo, una ragazza che partecipava
agli scambi, senza dare segni di insofferenza, uscì dal gruppo. E disse
a chi non era presente, che il coordinatore le aveva impedito di
esprimersi. È possibile che abbia vissuto il coordinatore attraverso
una visione stereotipata, in cui il maschile e il femminile possono
avere la loro parte.


• Questo esempio può facilmente ricondurre a situazioni familiari. Le
reattività, quando sono mosse da fantasie persecutorie, possono
condurre a fughe dalla realtà; e al sostituire all'impegno della e
nella realtà, l'impegno nel ruolo stereotipato. Se questa dinamica si
espande e diventa reciproca, i rapporti rischiano di bloccarsi nel
conflitto sterile del potere o del contropotere. Molte reazioni familiari possono essere lette attraverso la chiave del potere, espresso con i mezzi più vari; il cibo, la disposizione degli oggetti, i vestiti... In questo caso la conflittualità è sterile e non porta a cambiamento.Ciascuno si arrocca in difesa, proiettando sull'altro le colpe del
possibile disagio, e sviluppando un certo vittimismo autoreferenziale.


• Conoscere questi due tipi di conflitto- uno costruttivo e fecondo, l'altro distruttivo e sterile - può essere
di qualche aiuto. Innanzitutto per non ritenere che in sé ogni
conflitto sia dannoso. E quindi per riuscire a trasformare un conflitto negativo in positivo,
facendo in modo che nella relazione entri un poco di realtà, in modo da
ridimensionare la fantasia persecutoria e la dinamica de potere.


L’impegno educativo vissuto nella quotidianità deve
fare i conti con oggetti, con materiali: possono essere elementi della
prigionia che abbiamo chiamato persecutori; e possono essere invece i
punti di apertura per un esercizio di responsabilità che porta ad aprirsi alla comprensione delle ragioni proprie e degli altri.

ANDREA CANEVARO

Dipartimento di Scienze dell’Educazione

Università di Bologna

(da "famiglia domani" 2/99)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:16

La ricerca del sentiero

Il viaggio può essere considerato la metafora dell’esistenza umana, e dunque anche della vita di coppia. In questo cammino – che si configura spesso come una possibilità di esperienza estetica e un momento di contatto con il sacro – la coppia può subire alcune tentazioni. C’è la tentazione della stanchezza; quella della tensione tra il possedere e la povertà; ed infine, pericolosa per l’esistenza stessa della coppia, quella della morte della fantasia.

"Tre cose mi sono difficili,

anzi quattro, che io non comprendo:

il sentiero dell’aquila nell’aria,

il sentiero del serpente sulla roccia,

il sentiero della nave in alto mare,

il sentiero dell’uomo in una giovane(Prv 30, 18-19)

Visitando due diverse località, in tempi successivi e in opposti spazi del mondo, ho avvertito dei turbamenti che difficilmente potrei descrivere, senza cadere nella banalità che scaturisce quasi sempre dai luoghi comuni dei racconti. Totalmente diversi e, paradossalmente, con tante similitudini, hanno colpito la mia attenzione, fino ad imprimere nella mia memoria immagini di eventi straordinari. Non sto parlando di musei o di collezioni d'arte, dove la creatività e il sudore dell'uomo hanno lasciato tracce perenni, ma di luoghi che avevano in comune una variabile esile e inconfondibile: in entrambi questi luoghi si parlava di viaggi. Il primo di questi, Auschwitz, trasformato in luogo di culto e di meditazione da una sana volontà collettiva che chiede all'umanità intera di non dimenticare, conserva, accatastate come erano state disposte all'epoca, ma in una cornice da sacrario, le poche cose che venivano tolte ai prigionieri dei campi i quali, a loro volta, da li procedevano per l'ultimo viaggio: o i lavori forzati se avevano ancora energie, o i forni crematori. L'altro, Ellis Island, l'isoletta che sta tra la statua
 della Libertà e il porto di Manhattan, punto di sbarco per chi si lasciava convincere a tentare la fortuna nel nuovo mondo, ha avuto dopo il 1953, data in cui ha cessato le sue   funzioni di quarantena per tutti gli immigrati, una sistemazione suggestiva - al pari di un sacrario ricostruito sulla base di testimonianze e la catalogazione di oggetti e corredi che accompagnavano quella povera gente, privi peraltro di qualunque valore venale - in grado di riproporre fedelmente lo spirito che accompagnava chi all'epoca, aveva deciso di trasformare la propria vita con il più promettente ed avventuroso dei viaggi.

L'inquietudine, un percorso consumato.

A differenza degli spostamenti animali, sostenuti per la maggior parte da istinti di branco o da esigenze fisiologiche, il nomadismo umano è animato dal desiderio di scoprire, raggiungere, vedere, possedere, ripartire. Giasone, Ulisse, Pantagruele, Gulliver, Sigfrido, Parsifal, Galahad… la schiera dei grandi avventurosi che hanno da sempre popolato la nostra fantasia con i loro viaggi fantastici è incontenibile, come incontenibili sono le gesta – qualche volta nobili, altre di pura, umana curiosità - che hanno fatto da propulsore ad imprese da leggenda. Se è vero che la mèta è quasi sempre figurativa,
diventa concreto e coinvolgente, invece, il confronto con le
difficoltà. Mai vi fu metafora tanto fedele e trasparente quanto il
confronto simbolico tra viaggio ed esistenza umana. Nel gergo comune,
l'uso sempre più frequente dei sinonimi che arricchiscono l'immagine
del viaggio si modella su uno stile di pensiero che si oppone alla
staticità e alla concretezza del mondo reale. Nella routine si parla
 ormai di tragitti concettuali, di cammino esperienziale di percorso 
esistenziale. di itinerario formativo, di transiti esplorativi, di voli
pindarici, di sentieri iniziatici, di decorsi convalescenziali, di
viaggi mentali.... una polisemia, quella legata a questo simbolo, che
 occupa un numero indefinito di piani, intrecciandovi di continuo il
 proprio significato latente. Ma se davvero il viaggio può essere 
considerato la metafora dell'esistenza umana, è innegabile ammettere 
che alla base si trova la volontà e non la casualità, Quello che rende 
ogni viaggio degno di nota e di interesse è la presenza e la natura 
degli ostacoli che si frappongono nel raggiungimento del fine. Le 
traversate del mar Rosso e del deserto del Sinai finiscono per essere 
gli stereotipi di tutti gli ostacoli. Da una parte le difficoltà
materiali e la paura; dall'altra la solitudine e la tentazione. 
Un'esperienza, dunque, che può rendere titubanti, ma che sa presentarsi
 come irresistibile e, quindi, irrinunciabile. La vera molla di tutto
 ciò è e resta l'inquietudine umana che conserva da sempre due
ingredienti allettanti: la curiosità e la fantasia. Ed è proprio
 quest’ultima che sembra imparentare l'uomo con il divino. Ogni gesto,
 ogni approccio, ogni conquista viene sempre prima assaporata 
dall'immaginario. Si può sostenere che, prima ancora che nella realtà 
materiale, i nostri incontri vengono consumati nella fantasia: un
 cavallo brioso e bizzarro - per dirla con Platone - che chiede di 
essere domato per offrire garanzie di razionalità e che allo stesso
 tempo pretende la briglia sciolta per condurre alla scoperta di mondi e 
trasgressioni attraverso opportunità uniche e irripetibili. Il viaggio 
non può essere catalogato come un'esperienza qualunque. I caratteri che 
lo contraddistinguono fanno dell'uomo che lo affronta un prode e un
 coraggioso perché oltre ad essere una prova di padronanza fisica, offre 
l'opportunità per un'esperienza estetica e un momento di contatto con 
il sacro.

 

La prima di tre tentazioni: la stanchezza

 

La coppia vede la luce quando il maschio e la 
femmina decidono di intraprendere un cammino di condivisione totale.
 Era tutti gli stereotipi che si possono evocare, quello relativo alla
 coppia in cammino esprime in modo appropriato il più avventuroso dei
viaggi. Se il regno animale offre esempi strabilianti di attrazioni 
fisiologiche e, conseguentemente, di spostamenti che hanno 
dell’incredibile - dalle migrazioni di abitanti marini che attraversano 
oceani interi per congiungersi e accoppiarsi, alla piccola e fragile
falena che è catturata dall'odore degli ormoni del partner che può
 distare anche qualche chilometro -, l'attrazione tra un uomo e una
 donna è il punto di partenza per un percorso fra i più esaltanti e 
originali che qualunque fantasia possa concepire, proprio perché si
 presenta come totalmente immateriale e fortemente impegnativo. A
sottolineare lo spessore di questa fatica entrano in giuoco le 
opposte polarità entro cui si muovono le componenti della concretezza e 
della immaterialità, dello sconforto e della gioia, della routine e
 della novità. Si procede a tentoni, almeno per un certo periodo o, per 
dirla con un termine caro alla scuola comportamentista, per tentativi
 ed errori. Contare gli ostacoli disseminati sul cammino è tanto arduo 
da risultare impensabile; e quello che può facilmente sfibrare la 
resistenza di una coppia è la maledetta tentazione di tirare i remi in 
barca e arrendersi. Chi non è rimasto deluso dalla constatazione di
 aver contemplato un miraggio? Chi vorrebbe far credere di non aver
 ceduto qualche volta alla stanchezza che segue una prova estenuante! 
Nella stupenda sentenza "Dies irae", fonte inesauribile di ispirazione 
sacra e profana, con poche struggenti pennellate, ci vengono presentati 
i tratti di un Salvatore che a furia di rincorrere il peccatore, per 
offrirgli la salvezza, si ferma stanco (querens me sedisti lassus).
 L'evangelista Giovanni inizia il racconto che culminerà con la 
conversione della Samaritana da una immagine di Gesù stanco e
assetato. La stanchezza e la tentazione allo scoraggiamento sono realtà
 fisiologiche del tutto comuni: nella vita di una coppia, poi, sono
 variabili che devono essere messe in conto fin dall'inizio per poter
 essere opportunamente affrontate. Le prove, le delusioni, gli ostacoli,
 gli imprevisti, tutto può trasformarsi in battuta d’arresto. Ci sono
 momenti così faticosi che al normale ruolo che ci viene chiesto di 
interpretare, preferiremmo quello della comparsa. E ci sono anche delle 
menti tanto ossessionate dalla fatica che finiscono per scorgere un
 pericolo nei più innocenti fatti quotidiani, fino a trarre dal più
piccolo evento un motivo di ansia. Si arriva anche a dimenticare il 
motivo di vanto costituito dall'aver condiviso, in periodi tormentosi, 
la sofferenza dell'altro. Poi, quasi d'improvviso, ti rendi conto che
 qualcosa è tramontato senza lasciarti il modo di distinguere se sia la
 scena che hai di fronte o le immagini del tuo mondo interiore. Ti senti 
fuori luogo, oppure vecchio o semplicemente un po’ smarrito? È un 
disagio che devi affrontare, vincendo con fatica la tentazione 
all'appiattimento e all'inedia, per non correre il rischio che una 
normale sosta nel tuo percorso diventi la tua prigione. Vivere insieme 
significa compartecipare e quindi cibarsi anche di frutti che possono
 essere amari o mangiare insieme piatti di gusto diverso. Superare la 
tentazione della stanchezza significa riassaporare la voglia di
riprendere il viaggio.

 

La seconda: tra avere o essere

 

Viaggi e spostamenti: una preoccupazione
costante, quindi, per la nostra mente che, però, subisce anche il
fascino di tante, imprevedibili incognite. I traguardi sono sempre
fuori dalla portata del nostro sguardo ed è difficile sapere fin d'ora
quali sorprese, buone o cattive, ci riserba la sorte. Il boscaiolo che 
abbatte una grossa pianta può fantasticare sull'utilizzo e il destino
 futuro di quell'albero e forse non saprà mai se, una volta scavato,
servirà in un viaggio come barca o come bara. La preoccupazione più 
avvertita e angosciante che risuona negli orecchi all'inizio di ogni 
itinerario sembra essere uguale per tutti: "Cosa mi porterò dietro? Di
 cosa potrò avere bisogno?".

 

Tutti i traguardi della nostra modernità appaiono
 incastonati e sintetizzati nel breviario per l'uomo di successo: più
 soldi più felicità. Ci sono delle persone che, prese dall'incubo di
 spezzare un'eredità, trovano tutte le giustificazioni alla loro 
preoccupazione di non sovraffollare la terra.

 

I richiami delle Scritture alla povertà dei ricchi sono molte e tutte molto severe: "Meglio un povero dalla condotta integra che uno dai costumi perversi anche se ricco" (Prv 23,6). "Meglio
un ragazzo povero, ma accorto, che un re vecchio e stolto che non sa
ascoltare i consigli. Il ragazzo, infatti può uscir di prigione ed
essere proclamato re anche se, mentre quegli regnava, è nato povero" (Qo 4,13-14). "Molti
sono andati in rovina a causa dell’oro, il loro disastro era davanti a
loro. E’ una trappola per quanti ne sono entusiasti, ogni insensato ne
resta preso" (Sir 3 1,6-7). "Tu dici: "Sono ricco, mi sono
arricchito; non ho bisogno di nulla" ma non sai di essere un infelice,
un miserabile, un povero, cieco e nudo" (Ap 3,17). A dire il vero,
in un contesto storico dalle grandi aperture, in cui si ama essere
definiti progressisti, si parla tanto anche dei poveri. Ma fin quando
non si ha il coraggio di condividere la loro sorte, le nostre
filippiche rischiano di rimanere urla isteriche, unite qualche volta ad
ipocrisia. Portiamo nelle nostre case ingombranti bagagli di
preoccupazioni e di tristezze. Spesso viviamo nel silenzio e nella
solitudine, delegando ai beni di consumo il compito di risollevarci. La 
stessa cura che impieghiamo nel ricuperare i mobili d'arte diventa un
surrogato della pietà con cui alleviamo quelle ferite che sminuirebbero
l'armonia e la felicità che da loro ci si aspetta. Man mano che si
procede nel cammino verso il successo, aumenta la nostra propensione
all'uso del pronome possessivo. La povertà fa paura. Fa paura 
l'abbrutimento che spesso ne consegue. Non è un'iperbole affermare che
un povero che vive in Grazia di Dio è un santo. Lo spettacolo che molti
poveri hanno offerto ai nostri occhi non può non farci riflettere. Nel
 testamento spirituale di don P. Mazzolari si legge: "Non possiedo
niente. La roba non mi ha fatto gola e tanto meno occupato. Non ho
risparmi, se non quel poco che potrà si e no bastare alle spese dei
funerali". Chi decide di far conoscenza con i poveri - e fra questi i
poveri di spirito - sa che la loro scelta è tra l’essere o l’avere.
Loro non hanno altro pane che quello di volersi bene e dirsi a vicenda
le pene che tarlano i loro piccoli giorni. Sono come le formiche di
tutte le case ed hanno per amico fidato il sole. A lui chiedono un
soldo d’oro e lo stringono nella mano scura mentre i bimbi bevono
l'acqua della fonte e tutti insieme chiedono di non perdere la salute e
la possibilità di guadagnarsi qualcosa per arrivare a sera. Sono sempre
all'ultimo posto e cenano a lume del tramonto; si levano col canto del
gallo e sono estranei alla cronaca del mondo, ma sanno che sulla terra,
prima di loro, fu povero Gesù.

 

Terza: la morte della fantasia.

 

Da molti anni, nei momenti in cui il sonno tarda ad
imprigionarmi, mi dà serenità immaginare che sui passi irrequieti degli
uomini, Dio disegni ogni notte un sorriso di stelle, quasi a
rintracciare le lacrime perdute, cosicché, vinto dal sonno, nella sua
muta casa, ogni uomo veda oltre i confini della sua fronte un paese dai
tetti d'oro e dalle ombre di cristallo. Le lacrime sono una tappa
 obbligata, la prima esperienza che ogni uomo fa, venendo al mondo. C'è
chi si ferma a contemplare il momento della nascita come l'inizio del
dramma, sostenendo che il bimbo piange per gridare l'orrore di essere
stato espulso dal grembo materno. In realtà, se questo evento rispetta
un copione ben conosciuto, è lecito affermare che tutta la commedia che
l'uomo recita nel corso della propria vita ha per teatro il mondo
intero e rischia di essere monotona e ripetitiva. Eppure la noia ha i
 suoi antidoti: vecchi quanto l’uomo, ma sempre validi. Una grossa parte 
di opinioni, quella legata al folclore, sostiene che la nostra fantasia 
è alimentata da cronache o prescrizioni, da ricordi o fattacci 
irripetibili che si devono sussurrare sottovoce, con le teste vicine,
 le schiene ricurve e uno sguardo circospetto capace di allontanare 
indiscrezioni su segreti, per la verità, più volte profanati. Una 
residua parte, quella che cerca di crescere nella saggezza, ritiene, al 
contrario, che la fantasia sia un bene da proteggere e da condividere 
prima di tutto nella coppia. E c'è un posto solo dove si può aprire il 
teatro più bello per uno spettacolo unico al mondo. Senza abilità né 
doni da prim'attore, senza una scuola che ti insegni come strappare gli 
applausi ed il bis di un pubblico assorto, puoi avere tanto talento da 
sentire che anche in mancanza di manifesti hai davanti il tutto 
esaurito come ad una grande prima. E’ il traguardo dell'intimità. La
 sua ricerca presuppone una grande costanza e una fede incrollabile. Il
 sentiero che porta all’incontro, costellato di enigmi e di tentazioni, 
può essere riconosciuto solo se lo spirito è animato da una sana,
incontenibile curiosità per l'altro. E in questo incontro, la più
 grande avventura della tua vita, gli altri incontri sfumano, facendosi
 rari fino a scomparire, come le stelle in una notte piovosa.

 

Giovanni Scalera, Psicologo – Siena (da "Famiglia domani" 2/99)

 

 

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:14

Fecondità fuori tempo massimo

Fecondità fuori tempo massimo

Oggi nella classifica, tristissima, degli
interessi prevalenti di tante giovani coppie compaiono troppo spesso
carrierismo esasperato, viaggi esotici e divertimento esclusivo. Fino
ai quarant’anni ormai non si pensa quasi ad altro. Poi, quando
l’orologio biologico manda i suoi misteriosi avvertimenti, ecco
rispuntare la voglia di avere un figlio.

Senza un progetto di fecondità una coppia si avvia
ad arenarsi nelle secche dei miseri orizzonti quotidiani, rischiando di
fallire. Così ecco rispuntare l’immagine di quel bambino a lungo
rimossa per lasciare spazio ad "altro". Ma, in qualche caso, si tratta
di un auspicio fuori tempo massimo perché, a una certa età, anche
qualche meccanismo biologico comincia a risultare meno efficiente. E
poi ci sono il peso dello stress, gli effetti negativi di una vita
spesso sregolata, ecc. Non c’è da stupirsi allora se cresce il numero
delle coppie sterili.

La soluzione è facile: basta rivolgersi agli
apprendisti stregoni della provetta, sborsare qualche milione, e tutto
si risolve. Tanto la logica è quella dell’efficientismo, del risultato
ad ogni costo, dell’interesse personale che annulla qualsiasi
considerazione etica.

Ma come si può pensare che un figlio ad ogni costo e
comunque ottenuto, possa risolvere i problemi di identità di una
famiglia dove, troppo a lungo, la capacità di donare è stata lasciata
in un secondo

piano?

"GRUPPI FAMIGLIA" n° 41 /dicembre 2001

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:13

Il permissivismo inopportuno - Parte 2

 EDUCARE IL BAMBINO SIGNIFICA ANCHE CONTRARIARLO

In uno degli Ultimi numeri di
"Psicologia contemporanea" intitolato l'Io lieve" l'autore, Fernando
Dogana, Ordinario di Psicologia all'Università Cattolica di Milano,
scrive che l'Io post-moderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura
della diversità, quanto da quella della omologazione, rischiando così
la frammentazione dell'identità. Con in aggiunta l'illusione che tutto
si può, come canta Giorgio Gaber:

"Si può, trasgredire qualsiasi mito,

si può, invaghirsi di un travestito,

si può, fare i giovani a sessant'anni,

si può, far riesplodere il sesso dei nonni."

Al fine di riflettere su quanto può essere fatto in positivo, citiamo le seguenti righe:

Il permissivismo inopportuno

La nuova pedagogia accoglie
ormai come buona la regola di saper dire "no" alle troppe richieste dei
ragazzi, soprattutto se queste sono esagerate. Ancor peggio se sono il
frutto di un dispositivo inquietante.

(Seconda parte)

Naturalmente è sempre possibile esprimere un
giudizio antitetico ai molti che vengono espressi in senso negativo nei
confronti del "permissivismo", a cominciare da certi fatali confronti
con il passato, ad esempio con l’educazione impartita a suon di
cinghiate paterne, che spesso otteneva l’effetto contrario. Freud ci ha
spiegato l’origine di tante nevrosi e di tanti disturbi psichici con i
ricordi di infanzie trascorse nel terrore di stanze buie comminate per
punizione, e il complesso di Edipo non è stato scoperto ieri mattina.
Anche se il dottor Spok non avesse concorso a mettere al mondo almeno
due generazioni di disadattati e impreparati alle difficoltà della vita
con l’invito ai genitori a farsi amici dei loro figli, abdicando
praticamente ai loro doveri di educatori, il proibizionismo non è mai
stato un efficace antidoto al permissivismo.

Il difficile è trovare la via di mezzo. L’esperienza
degli altri, degli stessi genitori e nonni, aiuta, ma non del tutto. I
luoghi comuni spesso ingannano, come è nella loro natura. Chi dice che
i bambini caratterialmente più inclini a irrigidirsi di fronte a
qualsiasi ostacolo sono i figli unici, ai quali troppo facilmente "si
concede tutto", fino a viziarli, non ha mai assistito a certe furiose
liti tra fratelli e sorelle, segnali originari di gelosia destinate a
durare tutta la vita, ben oltre la morte dei genitori che senza volerlo
le hanno suscitate con i loro comportamenti, con le loro vere o
presunte preferenze. Ma detto questo, è pur vero che la socializzazione
è una componente essenziale nella formazione di adulti responsabili.

La misura utile e necessaria è frutto di un
difficile esercizio di diverse virtù incrociate fra loro: la prudenza
nel concedere e nel negare, la fortezza nel mantenere certe decisioni
che si sanno giuste, la comprensione di momenti particolari nella
crescita dei caratteri e delle intelligenze, la pazienza nel sopportare
pianti e capricci senza abbandonarsi all’ira, il coraggio certe volte
indispensabile per dire i "no", evitando di farli apparire immotivati e
soltanto punitivi. E la temperanza, utile a far capire che certi
oggetti del desiderio sono in realtà spese inutili, che offendono la
povertà della maggioranza delle persone e mortificano la consapevolezza
della dannosità individuale e sociale dello spreco. Anche se sullo
spreco è fondata gran parte della società moderna occidentale.

Tipico è il caso della sovrabbondanza di giocattoli
con cui molti bambini vengono illusi sul loro steso futuro: la vita non
sarà mai altrettanto generosa. Del resto, basta osservarli proprio
mentre giocano: bambole, automobiline, giochini elettronici, simil
computer, ministrumenti musicali, libri oggetto scomponibili, tutto un
micromondo che viene rapidamente a noia, buttato alla rinfusa in un
angolo, ma nello stesso tempo occasione di litigi furibondi tra
fratelli o compagni di gioco perché uno vuole esattamente quello che ha
in quel momento in mano l’altro.

Ma nel giudizio complessivo e finale sul
permissivismo ci sembra che sia inconfutabile un argomento: il genitore
permissivo, pur pensandoci comprensivo e premuroso nel non far mancare
nulla al suo tesoro, è molto spesso soltanto un genitore indifferente,
che non vuole fastidi, che delega ad altri la parte fondamentale dei
suoi doveri: l’educazione dei figli. Fino al punto da negare talvolta
clamorosamente anche agli insegnanti il diritto a esercitare il loro
mestiere con la necessaria severità: il bambino "ha sempre ragione".

Beppe Del Colle

da"Famiglia Oggi" (10)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:12

Il permissivismo inopportuno - Parte 1

EDUCARE IL BAMBINO SIGNIFICA ANCHE CONTRARIARLO

In uno degli Ultimi numeri di
"Psicologia contemporanea" intitolato l'Io lieve" l'autore, Fernando
Dogana, Ordinario di Psicologia all'Università Cattolica di Milano,
scrive che l'Io post-moderno è sedotto e tradito tanto dalla cultura
della diversità, quanto da quella della omologazione, rischiando così
la frammentazione dell'identità. Con in aggiunta l'illusione che tutto
si può, come canta Giorgio Gaber:

"Si può, trasgredire qualsiasi mito,

si può, invaghirsi di un travestito,

si può, fare i giovani a sessant'anni,

si può, far riesplodere il sesso dei nonni."

Al fine di riflettere su quanto può essere fatto in positivo, citiamo le seguenti righe:

Il permissivismo inopportuno

La nuova pedagogia accoglie
ormai come buona la regola di saper dire "no" alle troppe richieste dei
ragazzi, soprattutto se queste sono esagerate. Ancor peggio se sono il
frutto di un dispositivo inquietante.

(Prima parte)

Come ci ricorda il filosofo spagnolo Fernando Savater nel libro A mia madre mia prima maestra,
"Kant dice che uno dei primi e nient’affatto trascurabili risultati
della scuola è insegnare ai bambini a rimanere seduti, cosa che, in
effetti, non fanno mai volontariamente a lungo, se non quando si
racconta loro una bella storia (è chiaro che al tempo di Kant non c’era
ancora la televisione…). In una parola, non si può educare il bambino
senza contrariarlo, in un modo o in un altro. Per poter illuminare il
suo spirito bisogna prima formarne la volontà, e questo è sempre
piuttosto doloroso".

Possiamo dirlo in tanti modi: "Non bisogna farlo
piangere"; "piuttosto che faccia un capriccio…"; "prima che cominci a
odiarmi"; "quel giocattolo ce l’hanno tutti" e così via, elencando gli
atteggiamenti che consideriamo nel termine del "permissivismo".
Tuttavia proprio il permissivismo viene sempre più spesso portato al
centro delle discussioni che riguardano l’educazione dei bambini in un
mondo che nel prevedibile futuro chiederà loro, diventati adulti, ben
altra preparazione alla vita di quella richiesta da alcuni decenni
nella cosiddetta civiltà dei consumi.

Da alcune inchieste a raggio internazionale
risulterebbe che i bambini e gli adolescenti italiani sono i peggio
educati di tutto l’Occidente. Ciò avverrebbe anche a causa di un
sistema televisivo nazionale che lungi dal concorrere a educarli,
costringendoli a stare seduti come chiedeva Kant, "propina cartoni
animati o telefilm di qualità mediocre, spesso infima, che inducono gli
scolari a sprecare tante ore della giornata. Domina l’attrazione
morbosa d’ogni trivialità o spettacolare violenza". Ben detto: è
l’esatta descrizione di molti spettacoli televisivi e di molte
videocassette destinate al pubblico infantile, che già a tre-quattro
anni è in grado di proiettarsi da solo, in assenza di adulti o nella
loro più completa indifferenza (quando non con l’esplicita
approvazione, "pur che stiano tranquilli e non diano fastidio").

Beppe Del Colle

da"Famiglia Oggi" (10)

Domenica, 20 Febbraio 2005 17:11

LA VITA NON E' MAI INDOLORE

LA VITA NON E' MAI INDOLORE

La domanda di liberazione dai conflitti non dovrebbe
contenere quella della liberazione dalla conflittualità della vita
stessa, ossia dalla sana tensione inerente alla polifonia della forma
umana dell'esistere. Se, dunque, marito e moglie litigano perché non
sono d'accordo su una serie di decisioni pratiche da prendere, fanno
bene a farsi aiutare per individuare le forze psicologiche in atto
nella contesa: capire ad esempio che il litigio rientra nel loro stile
relazionale di lotta per il potere, per cui nelle decisioni concrete
ognuno, a turno, tende a dominare l'altro o a fare resistenza passiva
per non essere dominato.

Giustamente devono pretendere di essere aiutati a trovare processi
comunicativi più maturi per contenere e superare non solo l'episodio,
ma lo stile di lotta. Ma per non cadere in false aspettative, devono
riconoscere che quel conflitto , anche se superato positivamente,
ricorda la non superabile ambivalenza della relazione d'amore che deve
conciliare il desiderio di incontrarsi e la voglia di conservarsi,
l'amore per l'altro e l'amore per se stessi. Il conflitto di
dominazione /passività va risolto, ma quello ontologico
sull'ambivalenza dell'amore maturo va accettato. Il che significa che
l'amore umano non è quello delle bestie né quello degli angeli, ma,
semplicemente, umano, fatto di sublimi altezze e infime cadute.
Polifonico, appunto.

A un livello immediato è il conflitto caratteriologico a farci paura
("non voglio più lottare con mia moglie"), ma a un livello più radicale
è il mistero dell'amore umano a farci problema ("non voglio provare la
polifonia dell'amore"). Preferiamo ridurre la vita al suo polo sublime
("voglio amare come un angelo!") e se quello umiliante si affaccia,
diciamo che la vita si è spenta ("le voglio bene , ma non l'amo più"),
anziché a questo polo togliere il suo pungiglione di morte e lasciarlo
come parte di un vivere finalmente realista. I temi universali come
intimità, benessere comunicazione, identità sono stati resi patologici
dalla fantasia distruttiva che la vita debba essere sempre indolore.

Alessandro Manenti

(Famiglia Oggi n° 3/2002)

Search