Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi





È impossibile parlare di Babilonia in una prospettiva culturale ampia senza rifarsi ai testi biblici. Oltre che in Genesi 11 e nell’Apocalisse di Giovanni, testi a valenza mitica e simbolica, Babilonia appare nella Bibbia in un periodo ben determinato, quello dei profeti Geremia, Ezechiele e del Secondo Isaia, il periodo del Nuovo Impero Babilonese (605-539). Il regno di Giuda, che era in una posizione-cerniera tra la potenza babilonese e l’Egitto, si trovò preso in un’autentica tempesta. Con la caduta di Ninive nel 612, Babilonesi e medi avevano dato il colpo di grazia all’impero assiro. Nel 605, Nabucodonosor inflisse una cocente sconfitta al faraone. Per un certo tempo, Giuda oscilla tra questi due protagonisti, prima di cadere nell’orbita babilonese. La prima deportazione nel 597, poi la caduta di Gerusalemme nel 587 significano l’influenza totale di Babilonia. È in questo contesto che bisogna situare gli interventi profetici.

GEREMIA: LA SOTTOMISSIONE


A partire dal momento in cui gli Egiziani sono sconfitti da Nabucodonosor a Karkemiš, nel 605, il nemico del Nord, di cui Geremia aveva predetto la venuta quale castigo per Giuda, si precisa: sono i Babilonesi. Ma curiosamente, il profeta va a chiedere la sottomissione al re di Babilonia. Come spiegare questa posizione che lo fece considerare un collaborazionista dai suoi compatrioti?

Questa pressi di posizione antinazionalista si manifesterà in circostanze diverse. Prima di tutto la si scopre nel testo di Geremia 27,1-11. Siamo nel 594-593, sotto il regno di Sedecia.


«PROCURATI UN GIOGO E METTILO SUL TUO COLLO»


Il cambiamento del sovrano in Egitto suscita in alcuni vassalli di Nabucodonosor delle speranze di indipendenza. Una riunione di «ribelli» ha luogo a Gerusalemme: Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone rispondono all’appello. È allora che Geremia riceve dal Signore uno strano ordine: procurarsi un giogo, metterselo sul capo e presentarsi così davanti agli inviati dei regni vicini.

Il messaggio è chiaro: il Dio del cielo e della terra ha sottomesso tutti i popoli a Nabucodonosor. Chi si sottomette vivrà. Altrimenti sarà la disfatta e la morte certa. Nel suo oracolo, il profeta attribuisce a Nabucodonosor uno dei titoli più prestigiosi della monarchia in Giuda: egli è il «servo del Signore». Per Geremia, il Dio dell'universo si preoccupa di tutti i popoli e, nel suo disegno, Nabucodonosor ha un posto essenziale. Adesso, gli ha dato ogni potere. Ribellarsi contro di lui equivale a ribellarsi contro il Dio di Israele.

Da quel momento, la posizione del profeta diventerà sempre più delicata. Egli infatti non si accontenta di trasmettere questo messaggio di sottomissione, ma moltiplica i suoi interventi per far «passare» il suo punto di vista. Così, in questo stesso capitolo 27, altri due oracoli riaffermano che bisogna sottomettersi e annunciano la totale rovina se la ribellione si concretizza.


UN MESSAGGIO OSTINATO IN FAVORE DELLA SOTTOMISSIONE


Molto chiaramente, egli si oppone agli altri profeti e ai responsabili del regno: mette in guardia i suoi ascoltatori contro coloro che predicano la ribellione, affronta il profeta Anania che, da parte sua, annuncia la liberazione dal giogo babilonese «entro due anni» (28,3). Scrivendo ai deportati di Babilonia, consiglia loro di prevedere un esilio lungo, di stabilirsi in terra straniera e di non ascoltare coloro che annunciano un rapido ritorno (c. 29).

Dopo la caduta di Gerusalemme e l'attentato contro Godolia, il governatore posto dai Babilonesi in Giuda, Geremia raccomanda ancora a un gruppo di Giudei atterriti dalle conseguenze di questo assassinio di rimanere nel paese e di «non temere il re di Babilonia» (42,10ss).


TRADITORE DELLA PATRIA O SEMPLICEMENTE PRAGMATICO


Ma è soprattutto al momento della caduta di Gerusalemme, nel 587, che il profeta appare ai suoi concittadini come un traditore. Durante un'interruzione dell'assedio,Geremia esce dalla città per raggiungere il suo villaggio. Anatot, dove deve sistemare una questione di eredità. Nel momento in cui attraversa la porta, una guardia ferma Geremia e gli dice: «Tu passi ai Caldei!» (37,11ss). Poco più tardi, alcuni ministri chiedono al re la testa del profeta: «Si metta a morte questo uomo perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città»; e, afferratolo, lo gettano in una cisterna (38, 1-6). Dopo averlo liberato, Sedecia lo fa però guardare a vista. In breve, anche se non è stato il solo a prendere questa posizione, Geremia è apparso agli occhi dei Giudei conte il traditore per eccellenza.

La sua posizione era certo ben nota ai Babilonesi, come rivela il loro atteggiamento dopo la caduta di Gerusalemme: lo lasciano libero di circolare e Geremia resta nel paese con coloro che, come Godolia, avevano sostenuto la sottomissione a Nabucodonosor. Sfortunatamente, dopo l'assassinio di Godolia, le cose si metteranno male per lui, e sarà così costretto a fuggire in Egitto, oggetto di ogni critica (43,4-7).

L'atteggiamento di Geremia di fronte a Babilonia può sorprendere. Esso riflette la fedeltà del profeta alla fede d'Israele. Dio, padrone del mondo e della storia, ha un progetto per tutti i popoli: le loro relazioni, spesso tumultuose, devono servire a guidare Israele, il suo popolo eletto, verso il destino che Dio gli prepara. Il suo atteggiamento rivela ancora un’intelligenza politica improntata al pragmatismo, di fronte a un tentativo di ribellione completamente irrealistico.


EVOLUZIONE ULTERIORE DEL LIBRO DI GEREMIA

Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Geremia, squalificando le posizioni dei suoi avversari. Da allora, i suoi oracoli e i suoi interventi politici sono stati accuratamente tenuti in considerazione, come prova della legittimità religiosa della sua parola profetica. Ma nel libro di Geremia non si trovano solo le parole e le prese di posizione del profeta. Il suo libro ha continuato a vivere. I suoi discepoli ed epigoni, sempre messi a confronto con Babilonia, si sono trovati davanti ad altri problemi. Il popolo di Israele - i deportati, come gli altri rimasti nel paese - subì con forza la pressione del dominatore del momento.

L'atteggiamento verso Babilonia cambierà radicalmente. Non è del resto escluso che Geremia stesso abbia previsto un ulteriore castigo di questa grande potenza (cf 27,7: 25,26). Nel grande blocco degli oracoli contro le nazioni (Ger 46-51), gli ultimi due capitoli sono dedicati a questo. Al lamento che Israele rivolge al Signore sul comportamento di Babilonia, il Signore risponde: «Ecco, io difendo la tua causa, compio la tua vendetta» (51,36). L'idea di vendetta implica che Babilonia ha avuto torto in un certo momento: «Ha peccato contro il Signore!». Questo peccato dei popoli contro il Signore è un motivo classico: si tratta dell'orgoglio: «Eccomi a te, o arrogante» (50,31). Babilonia a sua volta dovrà dunque essere punita: «Ripagherò Babilonia di tutto il male che hanno fatto a Sion» (51,24). Così, le sorti di Sion e di Babilonia saranno sempre opposte, ma la loro posizione si ribalta. «Babilonia non è guarita... poiché la sua punizione giunge fino al cielo... il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa: venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore, nostro Dio» (51,9-10).

IL tema del castigo di Babilonia ritorna più volte nei capitoli 50-51. In un primo momento sorprende il contrasto con le posizioni di Geremia. Questo paradosso riflette il radicamento della parola profetica nella realtà storica: gli avvenimenti hanno spostato i ruoli dei protagonisti, ma le due letture della storia partono dalla stessa fede in un Dio che si prende cura del suo popolo attraverso la mediazione degli attori della storia.


EZECHIELE: L’ESILIO E LA SPERANZA


Ezechiele, sacerdote del tempio di Gerusalemme, fa parte degli esiliati della prima deportazione nel 597. Non c'è motivo di mettere in dubbio le notizie del suo libro secondo le quali egli è vissuto in Babilonia, a Tel Abib, presso il fiume Kebar, vicino a Nippur.

Il suo libro contiene un buon numero di date o di allusioni che permettono di situarlo nel tempo. Così, non solamente egli ha atteso e annunciato la caduta di Gerusalemme, ma ha seguito le peripezie della lotta di Nabucodonosor per l'egemonia politica nel Vicino Oriente. Quanto all'ultimo oracolo datato del suo libro, è stato pronunciato il 26 aprile 571 e tratta delle controversie del re babilonese con Tiro e l'Egitto (29, 17-21). Ezechiele ha 52 anni. È sempre a Babilonia. Poi, se ne perdono le tracce.


EGIZIANI E CALDEI DI FRONTE ALLA PROSTITUTA GERUSALEMME


Ezechiele ama gli affreschi storici in cui Giuda e Israele sono gli attori principali. La storia del suo popolo gli appare come una sequenza di infedeltà al Signore, che si manifesta con la ricerca di legami politici e religiosi con le grandi potenze dell'epoca. L'Egitto non appare come «l'amante» più ricercato? Anche gli Assiri sono ricordati, ma il loro potere è scomparso da tempo. Sono dunque i Caldei di Babilonia che si contendono, insieme all'Egitto, la prostituta Gerusalemme. Con questa chiave giuridico-politica il profeta esprime i rapporti tra Giuda e il potere babilonese (Ez 16,29; 23,14-18).


L'INFEDELTÀ Dl GIUDA AL GIURAMENTO DATO


Aldilà dello sfavillio delle immagini più o meno scabrose, il fondo del problema è politico e religioso. Il capitolo 17 di Ezechiele è un modello di questo genere. All'inizio è il simbolo dell'albero piantato dalla grande aquila per mostrare la situazione di vassallaggio di Giuda nei confronti dei Babilonesi dopo la prima deportazione e i tentativi di rivolta del re di Gerusalemme che volge all'Egitto.

Giuda ha prestato, di buono o cattivo grado, un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, facendo Dio testimone e garante della sua fedeltà. I suoi tentativi di ribellione manifestano la sua infedeltà alla parola data al re di Babilonia, ma anche al Signore, suo testimone e garante. Così, è il Signore stesso che è messo allo scoperto. Gli tocca punire l'infedele: «Lo porterò a Babilonia [= il re di Gerusalemme] e là lo giudicherò per l'infedeltà commessa contro di me» (17-20b). Inutile dire clic Nabucodonosor, di fronte all'infedeltà del suo vassallo, ha anche lui voluto dare un castigo!

Questo testo non è datato. Ma si sa che gli inviati dei paesi vicini a Giuda si sono riuniti a Gerusalemme nel 593, per liberarsi dal giogo babilonese. Ora, è proprio nel 593 che Ezechiele pone l'inizio del suo ministero profetico (1,2). È dunque in un momento di grave crisi che il Signore manda il suo profeta per fare un estremo tentativo di evitare la catastrofe.


BABILONIA, STRUMENTO DELLA COLLERA DI YHWH


Ezechiele, biasimando le scelte dei responsabili di Gerusalemme e l'infedeltà di Giuda, giustifica in qualche modo la reazione di Nabucodonosor. Ma la visione del profeta non può ridursi a questo aspetto.

Tutta la prima parte della sua predicazione (fino al momento della caduta di Gerusalemme) è consacrata a denunciare le colpe del suo popolo. I capitoli 8-11 ne sono il quadro più avvincente. L'idolatria è dipinta con una forza e una fantasia sorprendente. Poi, al capitolo 22, è tutta la società gerosolimitana ad essere denunciata per la sua ingiustizia: la città è corrotta, senza prospettive.

Il castigo è inevitabile: «Il Signore disse: Seguitelo attraverso la città e colpite. Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia! (...) Neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere» (9,5ss). Il legame tra il castigo meritato da Giuda e l'azione di guerra di Nabucodonosor diventa ben presto più esplicita: «Nella sua [del re] destra è uscito il responso: Gerusalemme, per far udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra... Perciò dice il Signore: Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, voi resterete presi al laccio» (21,27-29). E più avanti: «I figli di Babilonia e di tutti i Caldei... verranno contro di te (...). Deporteranno i tuoi figli e te tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,23.25).


LA RICOMPENSA DEL RE DI BABILONIA


Che il re di Babilonia sia lo strumento della collera del Signore, o che egli abbia il diritto di punire Giuda per la sua infedeltà, questo a rigore lo si può capire. Ma Ezechiele va oltre. Nel suo ultimo intervento datato, il profeta presenta un oracolo sconcertante. Promette l'Egitto al re di Babilonia: «Per l'impresa compiuta io gli consegno l'Egitto, perché l'ha compiuta per me. Oracolo del Signore» (29,20). Inutile dire che i Giudei deportati hanno dovuto far fatica ad accettare una simile visione delle cose!


LA GLORIA DI DIO HA SEGUITO IL SUO POPOLO IN ESILIO


Ma il Signore non abbandona i deportati. Essendosi manifestata a lui la Gloria di Dio, è a Babilonia che Ezechiele ha saputo di essere stato chiamato al ministero profetico (Ez 1,1-3,15). La Gloria di Dio è a Babilonia: Ezechiele l'ha vista, in una visione grandiosa, lasciare la sua casa, il Tempio di Gerusalemme (8.11), e questo è avvenuto ancora prima che Gerusalemme cadesse, tra le due deportazioni. Coloro che sono rimasti in Giuda sono certi che Dio è con loro, nel suo Tempio, mentre gli esiliati soffrono duramente la loro lontananza dal Signore. Ora, Ezechiele, con le sue visioni come con il racconto della sua vocazione, mostra che è una concezione falsa: «Se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove sono emigrati» (11,16).

Tuttavia, l'orizzonte non si chiude, per il profeta, nel paese della deportazione. Le prospettive di ritorno sono spesso enunciate. Ma soprattutto, a partire dalla caduta di Gerusalemme, tutto cambia. Ezechiele diventerà il cantore della speranza. Con lo stesso vigore con cui aveva annunciato il castigo, predicherà la salvezza per Israele. La vita del popolo è assicurata nella affascinante visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37), il ritorno della Gloria di Dio è annunciato.


UN'IMMAGINE POSITIVA CHE NIENTE INTACCHERÀ


Babilonia ha incontestabilmente un ruolo positivo nel pensiero di Ezechiele: come potenza politica, ma soprattutto come il paese da cui uscirà Israele, in un nuovo ed autentico esodo. Questa visione è così forte che, diversamente che in Geremia, non si trova un oracolo contro Babilonia nel blocco «oracoli contro le nazioni» del libro di Ezechiele. E niente nemmeno nel suo libro che, venendo dalla sua scuola, dai suoi successori, abbia attenuato il ritratto positivo di Babilonia che egli aveva tracciato. Sui questo tema, non ci sono state, da parte dei discepoli, aggiunte o sviluppi in funzione delle nuove circostanze. Questo è tanto più notevole in quanto il libro testimonia molte riletture e aggiunte, che talvolta deformano il testo fino a dare del Profeta un'immagine patologica. Ma l'immagine Positiva di Babilonia rimane intatta.


IL SECONDO ISAIA: L’ANNUNCIO DELLA LIBERAZIONE


Non c'è più praticamente nessuna discussione circa la paternità dei capitoli 40-55 del libro di Isaia comunemente chiamato Secondo Isaia o Deutero-Isaia. Non è il profeta conosciuto sotto questo nome, autore dei capitoli precedenti, che era vissuto nell'VIII secolo. Il Secondo Isaia, anonimo, ha esercitato il suo ministero profetico tra il 550 e il 520. Come dire che è stato il testimone degli ultimi anni dell'impero babilonese e della speranza suscitata in tutto il Vicino Oriente dall'arrivo al potere del persiano Ciro. In tale contesto si deve situare Babilonia nei suoi oracoli.

Gli oracoli su Babilonia sono poco numerosi. Le menzioni esplicite si trovano nella prima parte (40-48) il cui asse essenziale è costituito dall'annuncio della liberazione degli esiliati e del ritorno nel paese. La seconda parte (49-55) tratta principalmente della restaurazione di Gerusalemme.


«COSÌ DICE IL SIGNORE, VOSTRO REDENTORE»


L'annuncio della caduta di Gerusalemme si trova in un breve oracolo in 43, 14-15: «Così dice il Signore, vostro redentore, il Santo di Israele: per amor vostro, l'ho mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutti». Si può accostare a questo testo un altro versetto, anche se Babilonia non vi appare direttamente: «A terra è Bēl (uno dei nomi di Marduk), rovesciato è Nebo... ed essi se ne vanno in schiavitù» (46,1-2). Così il movimento della storia provocherà la caduta di Babilonia: una lieta notizia per gli esiliati!

Questa caduta, i capitoli 40-80 l'annunciavano già: era come instancabile invito alla fede e alla speranza. Non era evidente per i deportati credere che Dio volesse fare ancora qualcosa per loro, che aveva punito così pesantemente. Il Deutero-Isaia si adopererà per convincerli. Da una parte ricorderà le meraviglie che il Signore ha compiuto nel passato a favore di Israele, e in modo particolare l'esodo. Colui che ha fatto, farà. Farà addirittura delle azioni ancora più sorprendenti in favore di Israele, suo servo. Dall'altra, l'argomento cosmologico avrà un ruolo importante: il Creatore dell'universo continua ad agire nella storia. È il Dio di Israele. Egli è il padrone degli avvenimenti, li conduce secondo il suo disegno. E il profeta insiste a più riprese sulla volontà di questo Dio onnipotente.


BABILONIA PUNITA PER IL SUO ORGOGLIO E LA SUA MAGIA


In questo contesto, ancora una volta in modo indiretto, il posto che Ciro assume nel libretto è molto significativo. Il percorso di questo conquistatore fu tanto straordinario quanto folgorante. Geremia aveva, a nome del Signore. chiamato Nabucodonosor «mio servo». Ezechiele aveva annunciato la ricompensa data a questo stesso re pagano dal Signore per i servizi resi. Il Secondo Isaia si volge verso un altro personaggio. Il servo del Signore è ora Ciro, il Persiano. È lui che realizzerà la liberazione del suo popolo.

Il posto che Ciro occupa nel libretto dei Deutero-Isaia è tanto più interessante in quanto i testi del conquistatore attribuiscono le sue vittorie a Marduk, il dio babilonese. La lettura della storia non è univoca.

Il profeta arriverà fino al punto di pronunciare una sorta di lamento su Babilonia vinta. Ma egli non si dilunga sulla sua caduta. Strumento della collera del Signore contro il suo popolo, Babilonia ha superato i limiti della sua missione: la sua mano fu troppo dura e il suo orgoglio smisurato: «Tu pensavi: Sempre io sarò signora, sempre... Eppure dicevi nel tuo cuore: Io e nessuno fuori di me» (14,7-8,10). Fatale errore: ella, la sovrana, lavorerà come una schiava: ella che aveva lasciato tante donne vedove e senza figli, eccola improvvisamente vedova e senza figli.

A questi motivi classici si aggiunge un capo d'accusa poco frequente negli oracoli contro le nazioni. Babilonia è accusata di avere una forte propensione per i sortilegi e la magia, il che aggrava considerevolmente la sua situazione.


«USCITE DA BABILONIA, FUGGITE DAI CALDEI»


Il ruolo di Babilonia nei confronti del popolo del Signore è esaurito. Dopo aver annunciato il castigo che ha meritato per i suoi eccessi, il profeta può cantare il ritorno, l'uscita, l'esodo: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa... per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (43,16-21). E dopo questi preparativi: «Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei, annunziatelo con voce di gioia... Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe» (48,20). Il cammino di Israele è così compiuto.

La politica di Ciro fu generosa e abile. Il suo editto del 538 permette ai Giudei che lo desideravano di ritornare a Gerusalemme. Da quel momento, Babilonia sparisce dall'orizzonte del Secondo Isaia. Gerusalemme ritorna ad essere «la Città della Santità»: «... perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata» (54.1)


DALLA REALTÀ STORICA AL SIMBOLO


I profeti sono gli interpreti del presente alla luce della fede di Israele. Le loro posizioni sono ispirate da un principio teologico di base: Dio è presente nella storia, Egli la guida. Ma l'interpretazione di questa storia richiede un grande discernimento: in caso contrario, questo principio applicato in modo troppo meccanico porrebbe togliere all'uomo le sue responsabilità o far identificare troppo rapidamente ogni avvenimento con l'intervento di Dio. Al contrario, interpreti del presente, Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia sono con discernimento e intelligenza politica. Vedendo in Babilonia lo strumento della collera di Dio contro il suo popolo, vanno contro ogni rigido nazionalismo. Tuttavia, quando le circostanze cambiano, anche le loro posizioni si evolvono: il libro di Geremia è il testimone esemplare di questi contrasti.

A partire da questo vissuto storico, Babilonia diventerà a poco a poco il simbolo dell'oppressione che Israele ha subito nella storia. Una serie di oracoli contro Babilonia si troveranno inseriti posteriormente anche nella prima parte del libro di Isaia, integrata in un insieme di «oracoli contro le nazioni» (13-14, 23; 21, 1-10).

Ma è sopratutto nel libro di Daniele che Babilonia diventa, nei racconti come nelle visioni, il simbolo della potenza politica ostile al popolo eletto. Siamo così preparati a comprendere come mai, nell’immaginario cristiano, Babilonia venga ad essere il simbolo del male, come si vede nel libro dell'Apocalisse, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola...

* Professore all’Institut Catholique di Parigi.


(Da Il mondo della Bibbia n. 20)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IX. Il Patriarcato di Alessandria
di P. John Nellykullen


Fino al periodo seguente al Concilio di Calcedonia (451 d.C.), i cristiani d’Egitto erano uniti in un singolo patriarcato. La controversia intorno all’insegnamento cristologico di Calcedonia, tuttavia, portò ad una divisione tra la maggioranza che rigettò il Concilio (la Chiesa Copta) e buona parte della minoranza che lo accettò. Il patriarcato greco ortodosso d’Alessandria è nato dal secondo gruppo. È stato calcolato che nel secolo VII vi erano in Egitto 17 o 18 milioni di Copti e circa 200 mila (ufficiali imperiali, soldati, mercanti e altri Greci) di quelli che avevano accettato il Concilio di Calcedonia. In quel tempo ambedue i gruppi usavano l’antica liturgia alessandrina, ma nel Patriarcato greco fu gradualmente sostituito dalla liturgia bizantina, e con il secolo XII il rito alessandrino scomparve.

Nel 642, con la conquista araba e il ritiro dell’armata bizantina, i Greci in Egitto furono perseguitati per il loro legame con l’impero bizantino. La difficile situazione peggiorò nel 1517 con la conquista turca. Il patriarca greco d’Alessandria cominciò a vivere dentro e fuori Costantinopoli e il Patriarcato ecumenico spesso gli affidò degli incarichi.

Solo nel 1846, con l’elezione del patriarca Hierotheos I, i patriarchi risedettero di nuovo ad Alessandria.

Il coinvolgimento del Patriarcato ecumenico nell’amministrazione della Chiesa d’Alessandria cessò nel 1858 con la morte di Hierotheos I.

Il Patriarca Melitios II (1926-1935) formulò le leggi locali del patriarcato e le sottopose al governo egiziano. Con queste leggi il patriarcato si rese indipendente e si giovò della protezione governativa. Melitios fu il primo patriarca ad essere riconosciuto dal decreto reale, poiché in quel tempo l’Egitto non faceva più parte dell’impero ottomano. Melitios inoltre fondò il seminario S. Atanasio, organizzò il tribunale ecclesiastico e stabilì la giurisdizione del patriarcato in Africa, introducendo nel suo titolo “Tutta l’Africa” al posto di “Tutto l’Egitto”.

Nei primi anni del secolo XX una significativa immigrazione di Arabi greci e ortodossi in Egitto e in altre parti d’Africa aumentò i membri del Patriarcato. Nel 1907 il numero dei Greci in Egitto era stimato essere di 192.000 e nel 1997 il numero era sceso a circa 165.000. Oggi il Patriarcato ha la giurisdizione su tutti i fedeli d’Africa greco-ortodossi.

Nel 1930 uno spontaneo movimento d’indigeni africani verso la Chiesa ortodossa cominciò in Uganda sotto la guida dell’anglicano Reuben Spartas. Egli fu ammesso alla piena comunione con il Patriarcato greco ortodosso d’Alessandria nel 1946 e le comunità ortodosse nell’Africa dell’est, fondate sotto la sua guida, sono state organizzate nel 1958 nell’arcidiocesi di Irinoupolis con quartiere generale a Nairobi. Questo gruppo è ora servito dall’aumentato clero indigeno africano, che annovera tre vescovi. Nel 1998 vi erano 80 sacerdoti in Kenia, 22 in Uganda e 11 in Tanzania.

Nel novembre 1994 il Santo Sinodo del Patriarcato ha creato una diocesi separata per l’Uganda e ha eletto il vescovo ausiliare di Irinoupolis per l’Uganda, Teodoro Nagiama, come suo primo metropolita. Questi è stato il primo vescovo nero eletto capo di una diocesi della Chiesa ortodossa.

Il Patriarca Partenios III, che fu in carica dal 1987 fino alla morte nel 1996, è stato energico esponente del movimento ecumenico e uno dei Presidenti del Consiglio Mondiale della Chiese. Il Papa o Patriarca Petros VII, suo successore a 47 anni, alla sua intronizzazione confermò la sua partecipazione al Consiglio Mondiale delle Chiese e al Consiglio Africano delle Chiese. Inoltre s’impegnò a riorganizzare la struttura amministrativa del Patriarcato, a curare la missione nell’Africa nera, a riaprire l’Istituto degli Studi orientali in Alessandria e a far rivivere Analecta, la rivista patriarcale. Egli è morto prematuramente nel 2004 per un incidente aereo.

Il Patriarcato è governato sulla base di una serie di regolamenti, adottati alla fine del secolo XIX. E’ stabilito un sistema sinodale d’amministrazione, in contrasto con il precedente governo del solo Patriarca; il Patriarca è eletto dal clero e dai laici. Il Santo Sinodo, composto da almeno sette metropoliti, deve riunirsi almeno una volta all’anno, ma ordinariamente lo fa ogni sei mesi.

Attraverso gli sforzi dell’arcivescovo Macario III di Cipro, nel 1981 è stato aperto un seminario in Nairobi. Originariamente chiamato Macario, nel 1998 esso è stato rinominato Scuola Patriarcale Ortodossa. In quell’anno (1998) contava 42 studenti provenienti dalle varie parti d’Africa. Vi sono due comunità religiose greche e due composte da elementi di etnia araba. Il Patriarcato conta in tutto circa 200.000 africani neri e 150.000 degli altri, i più d’etnia greca.



Territorio
: Egitto ed altre nazioni africane.

Guida: Papa Theodoros II (nato nel 1954, eletto nel 2004)

Titolo: Papa e Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa.

Membri: 350.000

Sito web: www.greece.org/gopatalex

Le Chiese dell'oriente cristiano
VIII. Il Patriarcato di Costantinopoli
(Patriarcato Ecumenico)
di P. John Nellykullen


La cultura greca era predominante nella regione orientale dell’impero romano durante il tempo iniziale dell’espansione cristiana quando il lavoro missionario di San Paolo portò alla cristianizzazione della cultura greca.

Il processo di adozione del Cristianesimo come religione imperiale, iniziato dall’imperatore Costantino, fu realizzato in pieno da Teodosio alla fine del quarto secolo. Costantino aveva già trasferito la capitale dell’impero a Bisanzio, una città greca, nel 330, chiamandola Costantinopoli, nuova Roma.

La Chiesa di Costantinopoli ha avuto subito grande importanza, grazie allo stato di capitale dell’Impero Romano. Il Concilio di Costantinopoli nel 381 stabilì, nel canone 3, che il vescovo di questa città avrebbe avuto un primato di onore dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli era la nuova Roma. Così Costantinopoli ha avuto la precedenza rispetto agli antichi patriarcati di Alessandria e di Antiochia. Il canone 28 di Concilio di Calcedonia nel 451 ha riconobbe poi l’estensione del territorio del Patriarcato di Costantinopoli e la sua autorità sui vescovi delle diocesi “tra i barbari”, cioè sui luoghi fuori dell’impero Bizantino o non-greci. Il patriarca di Costantinopoli ha presieduto la Chiesa dell’Impero Romano orientale per almeno mille anni e il lavoro missionario di questa Chiesa ha portato la fede Cristiana nel territorio nord dell’impero. Haghia Sophia, la cattedrale di Costantinopoli era il centro della vita religiosa del Cristianesimo nell’Oriente.

Lo scisma tra Roma e Costantinopoli preceduto da un lungo periodo di tensioni più o meno esplicite culminò nel 1054, con la mutua scomunica tra il Patriarca Michele Cerulario ed il legato papale, cardinale Umberto. La quarta crociata ed il saccheggio della città da parte dei Crociati Latini nel 1204 causò la vera divisione anche nella mentalità della gente comune. Dopo lo scisma tra Roma e Costantinopoli questa ebbe il primato sulle Chiese di tradizione bizantina.

Nel 1453 i Turchi (Ottomani) conquistarono Costantinopoli e nonostante diverse restrizioni contro Cristiani, il Patriarca venne nominato etnarca, cioè capo della comunità etnica ortodossa dell’impero e mantenne la sua posizione di “primus inter pares” tra i patriarchi ortodossi. Così mantenne una autorità morale sui patriarcati greci di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Però l’assunzione dell’autorità civile comportò un prezzo molto caro. Quando i Greci insorsero contro i Turchi nel 1821 il Patriarca Gregorio V fu ritenuto responsabile ed impiccato alla porta del patriarcato. Due metropoliti e 12 vescovi furono ugualmente impiccati.

Una Chiesa autocefala greca, distaccata da Costantinopoli, fu fondata nel 1833, dopo la formazione dello stato indipendente greco nel 1832. Dopo la prima guerra mondiale una persecuzione contro i Greci residenti in Istanbul, nuovo nome di Costantinopoli, causò un forte esodo dei greci .

Oggi nel territorio turco vi sono appena 5000 o 6000 greci appartenenti al Patriarcato al quale appartengono anche alcune parti della Grecia (il Monte Athos, la Chiesa quasi-autonoma di Creta, e le isole del Dodecanneso). Al patriarcato apparteneva anche la scuola teologica nell’isola di Halki, presso Istanbul, ma questa fu chiusa dal governo nel 1971.e malgrado i tentativi di riapertura e le mezze promesse da parte del governo la situazione non è ancora stata risolta. Il patriarcato sovrintende anche ad alcuni Istituti Teologici Accademici in Grecia, così pure alla Scuola nel monastero di Giovanni il Teologo nell’isola di Patmos, all’Istituto Patriarcale per gli studi patristici a Tessalonica, ed all’Accademia Ortodossa di Creta. Nel 1993 il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha istituito l’Istituto Ortodosso “Patriarca Atenagora” presso la Graduate Theological Union a Berkeley, California, come Istituto Patriarcale ufficiale. Il patriarcato ha anche un centro ortodosso a Chambésy, Svizzera, preso Ginevra.

La Repubblica Monastica del Monte Athos, sebbene sia in Grecia, è sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico. La costituzione Greca ammette l’autonomia amministrativa dei monasteri. Questi dopo un periodo di rilevante diminuzione numerica vedono oggi di nuovo un periodo di fioritura di nuove vocazioni

Nel mese di dicembre del 1989 il Patriarcato ha inaugurato il nuovo ufficio centrale amministrativo al Phanar (un quartiere di Istanbul), ricostruendo l’edificio che era stato distrutto dal fuoco nel 1941. …

Il Patriarca Bartolomeo ha dato nuovo vigore al ruolo della sua Chiesa nell'ambito dell'ortodossia ed oltre. Nel marzo 1992 ha convocato i capi di tutte le chiese autocefale ad Istanbul, e nel settembre del 1995 nell’isola di Patmos. Il patriarca ecumenico ha rivolto un discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo nell’aprile del 1994, visitato Papa Giovanni Paolo II nel giugno 1995 ed altre volte successivamente, visitato l’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 1995. Nello stesso anno ha partecipato al Concilio Mondiale delle Chiese a Ginevra. Un’ altra iniziativa è stata la ripresa della pubblicazione della rivista patriarcale, Όρθοδοξία, che usciva regolarmente dal 1926 al 1963, in collaborazione con l’Istituto Patriarcale di Tessalonica. Per sua iniziativa un’ufficio patriarcale è stato aperto presso l’ufficio centrale della Comunità Europea in Bruxelles il 10 gennaio 1995.

Purtroppo la situazione della comunità greca e del Patriarcato rimane precaria in Turchia come è evidente per tutta una serie di eventi dolorosi come la profanazione del cimitero greco a Istanbul e l’incendio di una scuola greca. Konrad Raiser, allora segretario generale del Concilio Mondiale delle Chiese ha scritto al primo ministro turco nel novembre del 1993, esprimendo preoccupazione sulla restrizione dei diritti fondamentali della minoranza greca nel paese, ha chiesto al governo turco di proteggere la minoranza greca contro l’intolleranza religiosa, di garantire il suo diritto alla sua cultura ed alla sua lingua, di evitare l’uso della comunità come una pedina da giocare nella dispute internazionali, di mostrare la buona volontà permettendo la riapertura della scuola teologica di Halki. Però i problemi rimangono: nel maggio 1994 tre bombe sono state disattivate prima della esplosione nell’ambito della residenza patriarcale; nel settembre 1996 è stata fatta esplodere una granata nel complesso del patriarcato, fortunatamente senza ferire nessuno; un’altra esplosione di una bomba nel dicembre 1997 ha danneggiato gravemente il complesso. Un diacono è stato ferito. Nel gennaio 1998 una chiesa nella città è stata saccheggiata e incendiata. Il custode è stato ucciso.

Anche in questa circostanza il patriarca Bartolomeo ha rifiutato il suggerimento di trasferire il patriarcato a Tessalonica o in un’altra città greca, perché Istanbul è stata sempre la sede del patriarcato, salvo qualche breve interruzione nel 13mo secolo. Inoltre, rimanere a Istanbul, incrocio di diverse civilizzazione e lingue, permette al patriarcato di stare oltre le concorrenze e le chiusure nazionaliste. Infatti il patriarca ha vigorosamente condannato i nazionalismi eccessivi come detrimento dell’Ortodossia e della pace nel mondo. Per questi motivi il Patriarca crede che la presenza del patriarcato in uno stato laico a maggioranza islamica sia vantaggioso per la Chiesa Ortodossa.

Il Santo Sinodo presieduto dal Patriarca governa la Chiesa patriarcale. Il Sinodo comprende 12 vescovi metropoliti che hanno le loro diocesi in Turchia e recentemente anche fuori di essa malgrado l’opposizione del governo turco. Dopo l’abolizione del Concilio misto nel 1923, non vi è più stata una partecipazione laica all’amministrazione del Patriarcato.

Sia la Chiesa Ortodossa in diaspora, che altre giurisdizione di varie etnie fanno parte del Patriarcato Ecumenico. Arcivescovo Gregorio di Tiatira e della Gran Bretagna risiede in Londra e guida nella sua diocesi 4 monasteri, 100 parrocchie e cappelle in Inghilterra ed una parrocchia a Dublino, Irlanda.

L’Arcivescovo Stylianos presiede ai fedeli Ortodossi greci in Australia. Qui l’arcidiocesi ha 120 parrocchie e 2 comunità monastiche, ha aperto la Scuola Teologica Ortodossa Greca di San Andrea a Sydney nel 1986. L’arcidiocesi è divisa in cinque distretti. Tre vescovi ausiliari, sotto l’autorità dell’arcivescovo, presiedono a tre di questi circoscrizioni. Sia i greci ortodossi della Nuova Zelanda, che in Corea ed in Giappone sono sotto la cura pastorale del Metropolita Dyonosios. La Metropolia di Hong Kong fondata nel 1996, è presieduta dal Metropolita Nikitas che ha giurisdizione sulle comunità greco ortodosse di Cina, Singapore, India, Indonesia e Filippine.

Il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha diviso, nel 1996, l’ Arcidiocesi del Nord e Sud America in quattro metropolie: 1) America (Stati Uniti), 2) Toronto e tutto il Canada, 3) Buenos Aires e Sud America, 4) Panama e America Centrale. L’arcidiocesi greco ortodossa d’America è presieduto dall’ Arcivescovo Spyridon. Negli Stati Uniti ci sono otto diocesi, 570 parrocchie, e 8 comunità monastiche. La Metropolia del Canada ha 76 parrocchie e due monasteri sotto la guida di metropolita Sotirios (…). L’arcidiocesi dell’America amministra la Scuola Teologica greco ortodossa di S. Croce in Brookline, Massachusetts. La Metropolia del Canada ha aperto una Accademia Teologica Greco Ortodossa a Toronto nel 1998.


Territorio: Turchia, Grecia, le due Americhe , Europa Occidentale, Australia.

Guida: Patriarca Bartolomeo I (nato 1940, eletto 1991)

Titolo: Arcivescovo di Costantinopoli/Nuova Roma, Patriarca Ecumenico.

Residenza: Istanbul (Costantinopoli), Turchia.

Membri: 3.500.000

Mercoledì, 27 Settembre 2006 01:22

Attraversare il deserto ( Maurizio Costa)

Per incontrare Dio nel profondo del cuore e aprirci alla comunione piena con lui e con il prossimo dobbiamo stare “lontano dalle piazze”, vivere una spiritualità della solitudine.

Lezione Quarta
Il Dio liberatore nell'esperienza dell'esodo


Introduzione

Il Credo di Israele, contenuto in Gios. 24,2-13 e in Dt. 26,5-9, descrive l’intero cammino della storia salvifica vissuta da Israele. Il punto centrale della fede israelitica è la proclamazione della liberazione dall’Egitto.

Questo evento era già stato anticipato nelle narrazioni patriarcali (cfr. Gen. 15,13: «Sappi che i tuoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro; saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni»).

La Madre di Dio non si impone alla fede. Nel cammino di fede, semplicemente, la troviamo sempre presente, o all'inizio o alla fine, perché porta dentro, per aver una volta portato il Figlio, tutta l'umanità che da lei il Figlio ha preso e mai lasciato.

Martedì, 19 Settembre 2006 00:56

Salviamo l'umanità (Pierre Teilhard de Chardin)

Salviamo l'umanità
di Pierre Teilhard de Chardin



Oggi bisogna arrendersi all’evidenza: l’Umanità è or ora entrata in quello che rappresenta probabilmente il maggior periodo di trasformazione che abbia mai vissuto.

La sede del male di cui soffriamo è da localizzare negli stessi fondamenti del pensiero terrestre. Qualcosa sta accadendo nella struttura generale della coscienza umana. E’ un’altra specie di vita che comincia.

Di fronte, o meglio sotto, il colpo di simili scosse nessuno può rimanere indifferente.

Come vedere ed agire “chiaro” in seno alla corrente che ci trascina? Alla base di tutte le reazioni provocate in noi dagli eventi attuali, dobbiamo porre una fede robusta nel destino dell’Uomo, e, se questa fede esiste già, consolidarla. E’ anche troppo facile esimersi dall’agire con un discorso sulla decrepitezza delle civiltà e persino sulla vicina fine del Mondo!.

Un tale disfattismo (di temperamento, di virtù o di parata) è, a parer mio, la più pericolosa tentazione del momento attuale. Il disfattismo è sempre morboso ed inoperante. E’ forse possibile dimostrare la sua infondatezza? Penso di sì.

Per chi sa leggere oggi il diagramma dei fatti registrati dalla scienza, l’umanità non è più un fenomeno accidentale, apparso fortuitamente su uno dei più piccoli astri del cielo. Rappresenta invece, nel campo della nostra esperienza, la manifestazione più elevata verso la quale tendeva l’intero movimento della materia e della vita. E’ forse necessario sottolineare quale ricchezza arreca al credente la conoscenza di questa continuità intenzionale dell’opera del Creatore? Prototipo compiuto, la cui perfezione spiega gli abbozzi anteriori, chiave di volta in cui convergono le linee architettoniche dell’intero edificio, l’Uomo, in queste nuove prospettive, capisce meglio i suoi titoli per una regalità sull’Universo.

Interamente diversa dall’antico antropocentrismo che faceva dell’Uomo il centro geometrico e statico dell’Universo, questa certezza che il “fenomeno umano” è una forma supremamente caratteristica del fenomeno cosmico ha una portata morale incalcolabile: essa trasforma il valore e garantisce la perennità dell’opera che noi compiamo e più precisamente di quella che si compie per nostro tramite.

La situazione così critica di oggi deve essere una crisi di progresso. Possiamo e dobbiamo crederlo: noi andiamo avanti.

Ma in quale direzione progrediamo? E, anzitutto, cosa succede esattamente nella profondità della massa umana? Noi andiamo avanti; va bene. Ma perché tutto questo disordine attorno a noi?

Tre influenze principali si affrontano e lottano ciascuna per il dominio della Terra.

Democrazia, Comunismo, Fascismo (1). Da dove proviene la potenza di queste tre correnti? E perché tra di loro la lotta è cosi implacabile?

In ciascuna delle tre masse, si riconoscono, distintamente ma allo stato di abbozzi incompleti, le tre aspirazioni che rappresentano le caratteristiche della fede nell'avvenire; passione per ti futuro, passione per l'universale, passione per il personale, tutte e tre intese male o insufficientemente, ecco la triplice molla che tende ed oppone tra di loro, attorno a noi, le energie umane.

Nel caso della Democrazia, la cosa è ovvia. Due errori di prospettiva, logicamente correlati, intervengono per indebolire e viziare la visione della democrazia del mondo; l'uno riguarda il suo personalismo e l'altro di conseguenza il suo universalismo. L'elemento sociale assume piena originalità e pieno valore solo in seno ad un insieme in cui egli si differenzia. Per non aver veduto questo, lo spirito democratico, anziché liberare, ha emancipato. Ogni cellula si è creduta pertanto autorizzata ad erigersi a centro per se stessa. Ne risulta lo sparpagliamento, condannato dai fatti, dei falsi liberalismi intellettuali e sociali, e anche il rovinoso egualitarismo che minaccia ogni seria costruzione di una Terra nuova. Abbandonando al popolo la direzione della marcia in avanti, la Democrazia sembra soddisfare all'idea di totalità. Ma non ce presenta che una contraffazione. Il vero universalismo pretende, certo, invitare ad entrare nelle sue sintesi tutte le iniziative, tutti i valori, tutte le più oscure potenzialità, senza esclusione, ma è essenzialmente organico e gerarchizzato.

Per aver confuso individualismo e personalismo, folla e totalità, per sbriciolamento e livellamento della massa umana, la Democrazia ha corso il rischio di compromettere le speranze nate con essa, di un avvenire umano. Ecco perché ha visto separarsi da essa, a sinistra, il Comunismo ed erigersi contro, a destra, tutti i Fascismi.

almeno alle origini, magnificamente esaltata. Ciò che costituisce una tentazione per una élite del nei marxismo russo, non è tanto il suo vangelo umanitario, quanto la sua visione di una civiltà totalitaria, fortemente legata alle potenze cosmiche della materia. Il vero nome dei Comunismo dovrebbe essere “terrenismo”. Purtroppo anche da quella parte l'ideale umano appare gravemente lacunoso e deformato. Da un lato, nella sua reazione troppo vivace al liberalismo anarchico della Democrazia, il Comunismo arriva al punto di sopprimere virtualmente la persona e di ridurre l'uomo ad una termite. Dall'altro lato, nella sua ammirazione mal equilibrata per le potenze tangibili dell'Universo, esso ha sistematicamente chiuso le sue speranze alle possibilità di una metamorfosi spirituale dell'Universo stesso. Di conseguenza il fenomeno umano (essenzialmente definito dallo sviluppo del pensiero), si è trovato ridotto agli sviluppi meccanici di una collettività senz'anima. La materia ha occultato lo spirito. Uno pseudo-determinismo ha ucciso l'amore. Assenza di personalismo, che determina una limitazione e addirittura una perversione dell'avvenire, e che mina perciò stesso la possibilità e persino la nozione di universalismo, ecco, ben maggiormente di tutti gli sconvolgimenti economici, i veri pericoli del bolscevismo.

Non v'è dubbio che il movimento fascista sia sorto in gran parte da una reazione alle idee dette della "rivoluzione”. E una tale origine spiega l'appoggio compromettente che non ha cessato di trovare tra i numerosi elementi interessati (per svariati motivi di conservatorismo intellettuale e sociale) a non credere in un futuro umano. Ma nessuno si appassiona per l'immobilità; ora, il fascismo non manca di ardore. E' aperto al futuro. La sua ambizione è quella di coinvolgere ampi insiemi nel suo dominio. Ma purtroppo il campo che prende in considerazione è molto limitato. Sembra che voglia ignorare la trasformazione umana critica e gli irresistibili intertegami materiali che hanno fatto, sin da ora, accedere la civiltà alto stadio dell'internazionalismo. Si ostina a pensare ed a realizzare il mondo moderno che vive dentro di lui, in dimensioni appartenenti ad epoche trascorse. Preferisce il razziale all'umano; vuoI rendere un'anima al suo popolo e non sì preoccupa che il mondo sia privo di anima. Naviga verso l'avvenire con l'idea di ritrovare forme di civiltà definitivamente scomparse.

Queste forze che si affrontano a noi non sono potenze puramente distruttive, ma contengono ciascuna delle componenti positive. Per queste stesse componenti, convergono segretamente verso un concetto comune del futuro. In ciascuna di esse, è il mondo stesso che lotta e vuol venire alla luce. Crisi di nascita e non sintomi di morte. Affinità essenziali e non odio definitivo.

Ecco ciò che, sotto le correnti e nella tempesta, è sufficiente avere scoperto per intravedere la manovra che deve salvarci.

Come unire tutti i valori positivi della civiltà in una totalità che esalti i valori individuali? Come giungere alla passione superiore in cui verranno al tempo stesso reintrodotti e compiuti in una nuova sintesi, e il senso democratico della persona e la visione comunista delle potenze della materia e l’ideale fascista delle “élites” organizzate?

In ultima analisi, nonostante l’entusiasmo (relativo) che trascina ampie frazioni dell’umanità nelle correnti politiche e sociali di oggi, la massa umana rimane insoddisfatta. Né a destra, né a sinistra s’incontra una mente veramente progressista che non confessi la sua parziale delusione di fronte a tutti i movimenti esistenti. Si entra in un partito o in un altro perché bisogna pur fare una scelta se si vuole agire. Ma, in fondo, ognuno nel posto che occupa si sente a disagio, mutilato, sdegnato. Tutti vorrebbero qualcosa di più ampio, di più comprensivo e di più bello.

Disseminati nelle masse apparentemente ostili che si affrontano, esistono dappertutto degli elementi che aspettano solo una spinta per orientarsi e radunarsi. Cada su questa polvere il raggio appropriato, l’appello che corrisponde alla loro struttura intima, e, attraverso tutte le denominazioni e le barriere che sussistitono ancora per convenzione, vedremo gli atomi viventi dell’universo ricercarsi, trovarsi,organizzarsi. Una volta i nostri padri sono partiti per la grande avventura in nome della giustizia e dei diritti umani. Noi, a cui la scienza nuova apre spazi e tempi insospettati dai nostri avi, non dobbiamo più commisurare il nostro impegno alle mediocri dimensioni che tuttavia li esaltavano.

Ecco perché la nostra epoca è stanca dei settarismi che spezzettano la simpatia umana. I vortici dei partiti ci trascinano verso una atmosfera irrespirabile. Aria! Bisogna unirsi. Non già dei fronti politici, ma un fronte generale di avanzata umana.

Il democratico, il comunista, il fascista si liberino dunque dalle deviazioni o limitazioni dei loro sistemi e vadano avanti sino alla pienezza delle aspirazioni positive che animano il loro slancio. E allora con piena spontaneità, lo spirito nuovo frantumerà gli esclusivismi che l’imprigionano ancora. Le tre correnti saranno portate a concepire un’opera comune: promuovere cioè l’avvenire spirituale del mondo. Unanimità relativa agli inizi, ma unità reale nella misura in cui tutti sarebbero definitivamente d’accordo per riconoscere che la funzione dell’Uomo è costruire e dirigere la totalità della Terra… Dopo essere vissuta per millenni nel dissidio interno,l’Umanità, pervenuta a questo stadio del suo sviluppo, si muoverebbe allora, come un blocco unico, in avanti.

Mi si obietterà che un fronte umano per costituirsi ha finalmente bisogno dell’esistenza di un “antagonista” da combattere. Da parte mia non credo in una suprema efficacità dell’istinto di conservazione e della paura. A spingere l’Uomo nell’esplorazione della natura, nella conquista dell’etere, sulle strade dell’aria, non è stato il timore di perire, ma l’ambizione di vivere. La calamita che deve magnetizzare e purificare in noi le energie il cui crescente eccesso viene oggi dissipato in scontri inutili e in raffinate perversioni, io la situerei dunque, in ultima analisi, nella manifestazione graduale di un qualche oggetto essenziale la cui ricchezza totale, più preziosa dell’oro e più affascinante di ogni bellezza, rappresentasse per l’Uomo diventato adulto, il Santo Graal e l’’Eldorado di cui sognavano gli antichi conquistatori: una cosa tangibile per il cui possesso fosse infinitamente bello sacrificare la vita.

Ecco perché, se cominciasse a delinearsi un Fronte spirituale umano, ci vorrebbero accanto gli ingegneri impegnati ad organizzare le risorse e i collegamenti della Terra, altri “tecnici” unicamente incaricati di definire e di far conoscere le mete concrete, sempre più elevate, sulle quali deve concentrarsi lo sforzo delle attività umane. Per validi motivi ci siamo sinora appassionati per la rivelazione dei misteri nascosti nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo della materia. Per l’avvenire, sarebbe lo studio delle correnti e delle attrazioni di natura psichica: un’energetica dello spirito. Forse, spinti dalla necessità di costruire l’unità del mondo, ci renderebbe finalmente conto che la grande opera oscuramente perseguita dalla scienza è molto semplicemente la scoperta di Dio.

Di fronte ad una umanità che rischia di lasciar risucchiare dalla “seconda materia” dei determinismi filosofici e dei meccanismi sociali la parte di coscienza già svegliata in essa dai progressi della vita, il cristianesimo difende il primato del pensiero riflesso, cioè personalizzato. E lo fa nel modo più efficace: non solo sostenendo speculativamente con la sua dottrina la possibilità di una coscienza incentrata seppure universale, ma anche di più con la trasmissione e lo sviluppo, mediante la sua mistica, del senso e, in qualche modo, dell’intuizione diretta di questo Centro di convergenza totale. Il meno che debba oggi ammettere un non credente, se intende la situazione biologica del mondo, è che la figura del Cristo (quale la si trova non soltanto descritta in un libro, ma concretamente realizzata nella coscienza cristiana) è la più perfetta approssimazione sinora apparsa di un oggetto finale e totale verso il quale possa tendersi, senza stancarsi né deformarsi, lo sforzo umano universale.

Pechino 11 novembre 1936


N.B. – P. Teilhard de Chardin non escludeva dalla cristianità nessuno di coloro che, esplicitamente o implicitamente, credono nell’Amore. Sapeva che l’ora di conoscere come l’Amore Essenziale, origine e fine dell’Universo, si è incarnato nel suo seno, non è uguale per tutti.

Questo testo si trova in Science et Christ, Oeuvres vol. 9, Parigi, Le Seuil, 1965, pp. 167-191 passim.

NOTA

(1) L’espressione è ormai estesa ad ogni forma di nazionalismo di tendenza dittatoriale.

Quando ci si accosta alla vita (penso ad un bambino che nasce, ad un seme che germina, ad un fiore che si apre alla luce del giorno...) ci si deve accostare in punta di piedi, in un atteggiamento di rispetto, di contemplazione.

Venerdì, 15 Settembre 2006 02:12

I primi e gli ultimi (Giovanni Vannucci)

I primi e gli ultimi
di Giovanni Vannucci

La parabola riportata in Mt 20, 1-16, per certi particolari, e per il contenuto di fondo, si ricollega a quelle del figlio prodigo e del pastore che, lasciando le novantanove pecorelle, va in cerca di quella smarrita. Il figlio maggiore, le novantanove pecorelle, rimasti sempre nella casa paterna e nell'ovile, non hanno conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli avvilimenti del prodigo e della pecorella smarrita; così gli operai della prima ora patteggiano liberamente il prezzo, ignorano la pena di veder passare le ore senza essere ricercati, di veder arrivare la sera e la notte senza aver lavorato; gli altri non sanno come verranno pagati, accettano il lavoro, felici di poter guadagnare qualcosa.

Gli operai dell'undicesima ora avevano atteso tutto il giorno che qualcuno li cercasse; se i primi avevano durato la fatica e il gran caldo, gli altri avevano conosciuto l'avvilimento e l'angoscia dell'inutile attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna, giustamente rimprovera gli insoddisfatti: «Vedi tu di malocchio ch'io sia buono? Non mi è lecito di fare del mio quello che voglio?».

Tutta l'idea dell'annuncio cristiano è contenuta in questa affermazione. Cristo è venuto non per i giusti e i sani, ma per i peccatori e gli ammalati; non per le pecorelle sicure nell'ovile, ma per quelle smarrite; non per i vignaioli che possono contrattare il prezzo del loro lavoro, ma per quelli che accettano il lavoro senza domandarsi quale ricompensa verrà data loro. Come il malato e non il sano abbisogna del medico, il peccatore e non il giusto ha necessità del Redentore, così colui che a lungo è stato disoccupato necessita di occupazione e di lavoro, egli non discute di ricompense, è solo pago di lavorare.

L'operaio dell'undicesima ora non è soltanto, come comunemente s'intende, il peccatore che si converte all'ultima ora. Ordinariamente è l'uomo buono, intelligente, spesso colto, spiritualmente disoccupato; l'uomo cioè privo di idealità, non perché ne sia incapace ma perché sino ad allora nessun vero ideale gli si è presentato. E di questi uomini ne esistono in tutte le razze e in tutte le religioni. Spesso si vive un'intera vita senza interessarsi ai massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese e i riti della propria religione, senza preoccuparsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai della parabola, si aspetta qualcuno che ci cerchi, qualcuno che ci faccia lavorare, finché qualcuno giunga; talora il padrone che ci manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria, dolore! Giungerà colui che ci domanderà: «Perché ve ne state ancora inoperosi?»; risponderemo: «Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l'ultima ora del giorno». Ed egli ci dirà: «Andate anche voi nella vigna».

Spesso, dopo una vita inutile e vuota, con un richiamo improvviso, come un bagliore sopra gli occhi chiusi, comincia il lavoro dello spirito. Che esso duri molto o poco non importa, importa che esso ci sia, importa che tutta la giornata terrena non sia conclusa nell'ozio. Così vediamo persone anziane, vissute fino ad allora tranquille, che di colpo, come obbedendo a un richiamo, si gettano in attività, si dedicano a studi cui mai avevano pensato, si interessano appassionatamente al mondo che le circonda, e, con uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del Signore.

L'operaio dell'undicesima ora è stato chiamato e ha risposto, avrebbe risposto prima se prima fosse stato cercato. L'operaio dell'undicesima ora non dice mai «è tardi», ma risponde sempre «eccomi!». Il premio degli ultimi sarà giustamente uguale a quello dei primi, poiché attendere di essere chiamati e mantenersi liberi con l'animo di aderire al richiamo, è già lavorare.

La ricompensa dei primi come degli ultimi è unica. La ricompensa è l'indiamento, il possesso beato della pienezza della vita; vi è solo una vita divina, la quale non può darsi ai suoi fedeli se non nell'identica maniera. I brontolamenti, le proteste dei figli rimasti sempre nella casa paterna, degli operai della prima ora, attireranno solo lo sdegno del padre e la dura risposta del padrone, che testimoniano un'infinita comprensione in un infinito amore. «Tu sei sempre stato con me», dice al figlio maggiore il padre del figlio prodigo. «Amico, non ti fo alcun torto, non hai convenuto con me per un denaro?», risponde il padrone della vigna.

La parabola termina con un aforisma che ci deve far pensare: «Gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi». Perché questa predilezione divina verso gli ultimi? Spesso mi chiedo: verso chi andavano le preferenze di Gesù morente sulla croce, al buon ladrone o all'altro che accetta fino in fondo le conseguenze della sua vita delittuosa? Il primo, in qualche maniera, approfitta di Cristo: «Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno»; il secondo vive fino all'estremo la sua scelta di libertà.

E non è una domanda retorica questa, facciamocela e forse riusciremo a spogliarci di tutte le nostre albagie di figli buoni e di operai della prima ora!

Spesso lo stato d'animo dei figli prodighi, degli operai dell'ultima ora corrisponde a quello che Ornar Khayam descrive in un suo poema: «Ho visto un uomo solitario in un luogo arido. Non era ne eretico, ne ortodosso. Non aveva né ricchezze, né religione, né Dio, né Verità, né Legge, né certezze. Chi in questo mondo è capace di tanto coraggio?». Quando questi uomini entrano nella vigna, vi portano il loro coraggio, la loro forza, la loro dedizione che hanno raggiunto in una solitudine libera e spoglia. Allora «gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi».

Gli ultimi non porteranno nel Regno le meschinerie, le rivalità, le ambizioni dei primi!

(Da Giovanni Vannucci, «I primi e gli ultimi» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 25a del tempo ordinario, Anno A; pp. 165-167).

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Venerdì, 15 Settembre 2006 01:49

Il sacrificio di Abramo (AA.VV.)

Il sacrificio di Abramo


Abramo è il padre comune dei credenti appartenenti alle tre religioni monoteistiche. Egli ha una duplice discendenza: Isacco, nato dalla sua legittima moglie Sara, e Ismaele, il figlio nato da Agar, la schiava di Sara. La tradizione attribuisce al primo la discendenza ebraica e all'altro la discendenza araba. Il testo coranico non precisa se il figlio che Dio chiede ad Abramo di immolare sia Isacco o Ismaele.




Genesi 22,1 - 19


Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo! Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato.

Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?”.

Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!“. Proseguirono tutt'e due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull'altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. L'angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.



Sura 37, dal versetto 101.


Gli demmo la lieta novella di un figlio magnanimo.

Poi quando raggiunse l'età per accompagnare suo padre, questi gli disse: “Figlio mio, mi sono visto in sogno in procinto di immolarti. Dimmi cosa ne pensi”. Rispose: “Padre mio, fai quello che ti è stato ordinato: se Allah vuole, sarò rassegnato”.
Quando poi entrambi si sottomisero, e lo ebbe disteso con la fronte a terra,
Noi lo chiamammo: “O Abramo,
hai realizzato il sogno. Così Noi ricompensiamo quelli che fanno il bene.
Questa è davvero la prova evidente”.
E lo riscattammo con un sacrificio generoso.
Perpetuammo il ricordo di lui nei posteri.
Pace su Abramo!
Così ricompensiamo coloro che fanno il bene.
In verità era uno dei nostri servi credenti.
E gli demmo la lieta novella di Isacco, profeta tra i buoni.


1 - Una lettura ebraica
di Armand Abécassis (1)




L'ordine divino si riferiva di fatto al problema dell'iniziazione di Isacco e alla sua promozione alla condizione di figlio.

Che cosa saremmo pronti a sacrificare per il nostro ideale personale o collettivo? Fino a qual punto si deve amare la patria, i genitori, i figli, la sposa, un idolo della musica o dello spettacolo, una filosofia, o più semplicemente un maestro, un guru? Sembra che sia difficile trovare obbiezioni alla risposta: “L'amo e sono pronto a morire per lui”. In questo senso la logica immanente dell'amore sarebbe quella del sacrificio, come le madri lo vivono per i loro figli, per esempio, o l'eroe che muore per la patria, o come Rabbi Aqiba scorticato vivo dai Romani perché si ostinava a insegnare la Torah nonostante la proibizione o il martire cristiano nelle arene di Roma. Una simile concezione dell'amore è ammirevole e perciò è presentata come modello dalle religioni, dai capi militari e dagli agitatori rivoluzionari. È sinonimo di abnegazione, di dono, di generosità, di abbandono e di purezza, quando non di santità.

. Moloch era una divinità del popolo di Ammon, di Tiro e degli Assiri, al quale gli Ebrei e persino i loro re furono indotti a sacrificare i loro figli nella valle della Geenna! In altri termini, il Dio di Israele, il Dio monoteistico, non desidera che gli vengano sacrificati i bambini. Il racconto biblico insiste dunque sui limiti del potere paterno che in quei tempi era assoluto e giungeva fino alla morte del figlio per molte stupide ragioni, come per esempio un handicap. Il racconto biblico insegna che neppure per Dio il padre ha diritto di attentare alla vita del figlio, perché questo è un rito pagano.

Ma, soprattutto, gli interpreti ebrei mostrano che la prova di Abramo non poteva consistere, come sempre si insegna, nel sacrificio del figlio su richiesta di Dio. In quel caso sarebbe spettato ad Abramo stesso di dare la sua vita per provare il suo amore! L'angelo mandato al patriarca gli dice: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” e non: “Ora so che tu ami Dio”.Temere Dio è rispettarlo, cioè obbedire alla sua legge e non alla legge che noi ci dettiamo da soli, individualmente o collettivamente. La prova era dunque quella della Legge e non quella dell'amore. Si trattava per Abramo di mostrare che era capace, in quanto essere umano, di interiorizzare una legge che riceveva dall'esterno, una legge trascendente.

E su che cosa verteva questa legge? Lo enuncia il versetto due di questo capitolo: Dio disse: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Rashi, il famoso commentatore della Torah, osserva: “Dio non ha detto ad Abramo: 'Sgozzalo!', perché il Santo, sia Benedetto, non voleva l'immolazione di Isacco, ma 'farlo salire sulla montagna' per dargli il carattere di una offerta a Dio. Quando lo fece salire gli disse : 'Fallo discendere!'” .

Comprendiamo bene ciò che questa lettura significa: il patriarca avrebbe mal compreso l'ordine divino che di fatto si riferiva al problema dell'iniziazione di Isacco, alla sua elevazione e alla sua promozione alla condizione di figlio. La funzione del padre non è, come ha creduto di comprendere Abramo, di insegnare al figlio a morire, ma a innalzarsi fino a quel punto da cui possa ridiscendere con il padre. Potrà allora sposarsi, come narra il racconto seguente, e divenire padre a sua volta. “Immola tuo figlio” non poteva essere un ordine divino; purtroppo il padre interpreta l'iniziazione del figlio come la sua sottomissione totale e assoluta alla sua propria comprensione del mondo e della trasmissione umana. Ma l'angelo non lascia che Abramo tocchi il figlio Isacco. Attende che lo leghi, perché questo è tutto ciò

che è richiesto, ma il coltello non tocca Isacco e il sangue del figlio non scorre, perché Dio non lo voleva. Per questo la tradizione ebraica ha dato all'episodio biblico il titolo di “Legatura di Isacco” e non quello di “sacrificio di Isacco”.In questo racconto biblico è analizzata la relazione fra le generazioni, cioè, in realtà, la relazione fra padre e figlio, fra la paternità e la filialità. Se Abramo avesse sacrificato il figlio sarebbe stato un pagano. La sua prova consistette nel poter compiere il suo sacrificio lasciando vivere il figlio e ridiscendendo con lui dalla montagna. Non nella salita aveva luogo la prova, secondo l'interpretazione di Rashi, ma nella discesa “con” il figlio.


2 - Una interpretazione musulmana
di Eric Geoffroy (3)

Il testo coranico orchestra il tema della prova, vera pedagogia spirituale per i credenti.

Secondo l'islam il Corano è il punto terminale della Rivelazione. Si presenta come la ricapitolazione e la sintesi dei messaggi presedenti, e vari messaggi biblici vi sono riportati in maniera condensata e allusiva.

L'episodio del sacrificio di Abramo illustra il tema coranico della prova (bala) che agisce come una vera pedagogia spirituale per i credenti e, a maggior ragione, per i profeti: la loro elezione e la loro investitura hanno come passaggio obbligatorio la purificazione di Abramo (Ibrahim in arabo) perché egli ha subito con successo varie prove. Una delle più intense fu senza dubbio quel sogno nel quale il patriarca si vide nell'atto di immolare il figlio: “Figlio mio, mi sono visto in sogno in procinto di immolarti. Dimmi cosa ne pensi”. Rispose: “Padre mio, fai quello che ti è stato ordinato: se Allah vuole, sarò rassegnato”.

Tutti i traduttori rendono questo passo al passato: “Figlio mio, mi sono visto in sogno…”-, ma è importante restituire il presente usato nel testo arabo: egli vede la visione in diretta, non in differita! I commentatori insistono sulla dimensione onirica della scena, assente nel testo biblico. Tuttavia Abramo non ha interpretato, “trasposto” dice l'arabo, questa visione, perché, secondo l'opinione dei commentatori, il sogno o la visione dei profeti appartiene alla rivelazione (wahy) ed è da loro percepito come una realtà immediata. Infatti: “Quando poi entrambi si sottomisero, e lo ebbe disteso con la fronte a terra, Noi lo chiamammo: “O Abramo, hai realizzato il sogno. Così Noi ricompensiamo quelli che fanno il bene”. In realtà la visione ricevuta da Abramo non gli ordinava di immolare materialmente il figlio, ma di consacrarlo a Dio. L'islam si accorda su questo con la tradizione ebraica.

Questa è davvero la prova evidente”. Prova suprema di sottomissione a Dio quella di credersi obbligato a sgozzare il proprio figlio! Secondo alcuni sufi, la prova consisteva nel dare il vero significato alla visione. Essi fanno notare che il figlio è il simbolo dell'anima. Quel che Dio chiede ad Abramo è dunque di immolare il suo “io”, questa anima profetica, elevata certo, ma ancora capace di amore per uno che non è Dio. Ora, per essere investito pienamente dell'intimità divina, Abramo deve vuotare il suo cuore di ogni attaccamento alle creature. D'altronde, l'episodio del sacrificio segue immediatamente a un passo in cui si vede Abramo distruggere gli idoli adorati dal suo popolo (84-98).

E lo riscattammo con un sacrificio generoso”, perché la posta è enorme. Un ariete proveniente, secondo la tradizione, dal paradiso e portato sulla terra dall'angelo Gabriele per il sacrificio, si sostituisce al figlio: grazie a questo scambio, Dio riscatta ad Abramo tutta la sua discendenza, profetica e non, per meglio preservarla e benedirla. Così: “Perpetuammo il ricordo di lui nei posteri. Pace su Abramo!” : dopo la sottomissione (islam) viene la pace (salam). L'animale, essere puro perché conosce per intuizione diretta il creatore, come i regni minerali e vegetali, può infatti prendere il posto di un essere umano puro, profeta e figlio di profeta. Con il suo sacrificio consentito, egli permette ai “figli di Adamo” - e non soltanto di Abramo - di rigenerare la loro energia vitale e quella spirituale.

Rimane il fatto che la commemorazione del sacrificio di Abramo, attualizzato ogni anno con il sacrificio di animali, è diventato la “grande festa” (al-îd-al-kabir) dei musulmani, celebrata il 10 del mese di dul-hijja, mese del pellegrinaggio, lo Hajj. Coloro che l'hanno compiuto lo sanno bene, lo Hajj è una prova. A somiglianza della bestia, il pellegrino è l'offerta sacrificale il cui percorso rituale consente alla comunità musulmana, e all'umanità intera, di rigenerarsi. Se il sacrificio dell'animale conserva ancora oggi la sua pertinenza, e se la condivisione e il dono della carne perpetuano “l'ospitalità sacra” di Abramo, è importante non perdere di vista il senso primo del sacrificio: la purificazione interiore.

Si osserverà che il Corano non precisa se il figlio offerto in oblazione è Ismaele, padre degli Arabi, figlio della serva Agar, oggetto della gelosia da Sara, oppure Isacco, suo fratello minore, padre degli Ebrei. Questa imprecisione ha diviso i musulmani e ciascuno trae dagli stessi passi coranici argomenti opposti, a favore di Isacco o di Ismaele.

Il silenzio del Corano sull'identità del figlio sacrificato - o immolato - nel contesto attuale, può essere interpretato sia come fonte di rivalità e di inimicizia, sia come fonte di vicinanza o di intimità fra ebrei e musulmani. Non sarà forse nel superamento dell'ego, vero senso del sacrificio di Abramo, che gli uni e gli altri arriveranno a restaurare una armonia secolare guastata da sviluppi politici recenti?


3 - Un punto di vista psicologico
di Marie Romanens (4)

Come non stupirsi che il Dio di Israele, che chiede all'uomo di non uccidere, sembri qui esigere un assassinio? Questo dio che ha promesso ad Abramo una posterità innumerevole, che ha concesso alla sua sposa, Sara, donna anziana e sterile, di mettere al mondo un figlio, come può essere che voglia con un sol gesto cancellare tutte le sue parole e i suoi fatti? Sarebbe dunque un dio pieno di incoerenza, crudele e despota?

Si può ben capire che molte persone si siano allontanate da lui dopo aver recepito una simile immagine come una rappresentazione divina. L'interpretazione che è stata loro data andava nel senso della sottomissione: bisogna obbedire ciecamente per non spiacere a questo dio geloso. Nel senso del dolorismo, anche: per rientrare nelle sue grazie, bisogna accettare ciò che fa soffrire di più!

Tuttavia questo passo biblico sembra dire una cosa diversa. Certo, parla di prova: “Dio mise alla prova Abramo”. Ma la prova è inerente alla vita. Essa è ciò che conduce ciascuno a crescere in umanità, cioè a divenire più cosciente e più capace di apertura. Non stupisce dunque che il destino di Abramo prima o poi lo confronti con questa esigenza. Non potrebbe anche essere, infine, che questo testo non parli di subordinazione, ma piuttosto di liberazione? Il suo scopo non sarebbe di conservare in uno stato di piccolezza, ma al contrario di favorire lo sviluppo pieno dell'essere.

Il suo aspetto sommamente paradossale ci interroga. Quando Abramo lascia i servi, ordina loro di aspettare il ritorno di “noi“, cioè del padre e del figlio, mentre noi pensiamo che dovrà tornare da solo. Sembra che Dio esiga un sacrificio per rifiutarlo subito dopo. Ci si può domandare se questo aspetto fuorviante della scrittura non sia là proprio per consentire al lettore, attraverso le domande che suscita, un cammino, un cammino appunto per la sua crescita .

Il mistero si fa più profondo quando si pensa al comportamento di Isacco. Un figlio quasi muto, che si lascia legare senza ribellarsi. Eppure la sola volta che apre la bocca è per porre una domanda cruciale: “Dove è l'agnello per l'olocausto?” Come ogni bambino ha il dono di andare al cuore dell'argomento. e interpella questo padre ambiguo che lo ama come “suo” figlio, il suo “unico”, e che si aggiusta perché possano andarsene “tutt'e due insieme”. Non si sente forse l'agnello sacrificato questo figlio, così desiderato da farci immaginare i genitori intenti a covarlo continuamente con un'attenzione piena di angoscia? Non deve restare legato, se suo padre, ancora tanto immaturo, ha bisogno per vivere di restare così aggrappato a lui?

Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!”. Così il patriarca accetta, volgendosi verso chi è più in alto di lui, di non sapere, di non restare in posizione di potere. La psicanalista Marie Balmary (5) osserva che le parole “figlio mio” e “se ne andarono tutt'e due insieme”, che manifestano un'unione soffocante, sembrano quasi messe al posto dell'agnello. Il coltello è chiamato a tagliare il legame di dipendenza, a rendere il figlio libero e così a far diventare questo padre pienamente padre. Abramo si dimostra capace di superare le sue angosce, di dimenticare i suoi bisogni affettivi troppo invadenti e di lasciare Isacco libero di andare al suo destino. L'immolazione dell'ariete significa che egli accetta la perdita. Così ognuno, padre e figlio, e forse anche il lettore, sfugge alle forze di morte generate da un Io troppo possessivo per accedere alla Vita feconda.



Note

1) Armand Abécassis è professore di filosofia generale e comparata all'Università Michel de Montagne (Bordeaux III). Autore fra l'altro di La pensée Juive (4 tomi, Le Livre de Poche) e di Puits de guerre, source de paix (Le Seuil).

2) Levitico 18,21; 20,2,3,4,5; 1 Re 11,7; 2 Re 23,10, Geremia 32,35.

3) Eric Geoffroy è professore di arabo e di islamistica all'Università Marc-Bloch di Strasbourg. È autore fra l'altro di l'Instant souf (Actes sud) e di una Initiation au soufisme (Fayard).

4) Marie Romanens è psicanalista. È autore fra l'altro di le Divan et le Prie-dieu (DDB).

5) Le Sacrifice interdit (Grasset, 1999).


(da Le monde des Religions, n. 1, septembre-octobre 2003)



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