Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Giunto ad un grado superiore nella padronanza di se stesso, lo spirito della Terra scopre in sé un bisogno man mano più vitale di adorare: dall’evoluzione universale, Dio emerge, nelle nostre coscienze più grande, e più necessario che mai.

L'affermazione del titolo non è un'iperbole né una provocazione, ma un allarme sui pericoli di certi modi di intendere e vivere erroneamente la religione. Pericoli non ipotetici ma consentiti storicamente. È meno pericoloso un agnostico umanista integrale che un credente nell'errore. Come imperfetto seguace di Gesù, intendo offrire un'ipotesi di pensiero, contributo modesto ma sincero in un'epoca di crisi, tanto religiosa come di civiltà.

Dal sacrificio di Abele
a quello di Cristo
di Marcel Neusch


Di Abele, la liturgia ha colto tre aspetti: è chiamato «Giusto», il suo sacrificio è stato gradito da Dio, egli costituisce una prefìgurazione del sacrificio del Cristo. La preferenza di Dio per il sacrificio di Abele è il solo tratto che viene direttamente dal racconto biblico: «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gn 4,4-5). La cosa appare ingiustificata. Se, al contrario di quello di Caino, il sacrificio di Abele fu gradito a Dio, non è ad in relazione alla sua qualità di giusto, od in relazione alla natura dell'offerta. Non ci si può impedire di pensare a un'altra scelta di Dio, altrettanto arbitraria: «Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (Ml 1 ,2-3, citato in Rm 9,13).

Il sangue dl Cristo e quello di Abele

La rilettura cristiana andrà oltre. Allungherà la catena delle spiegazioni nel passato e nel futuro. Prima del sacrificio, vi sono le disposizioni d'animo di Caino e Abele: il primo diventa il prototipo del malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto. Secondo la Lettera agli Ebrei, la differenza concerne la loro fede: «Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino...» (Eb 11,4); mentre Giovanni accusa la mancanza d'amore e pone il cristiano davanti a una scelta: «Non come Caino, che era dal Maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo lo uccise? Perché le opere sue erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste» (1 Gv 3,12). Per quanto coerenti, queste spiegazioni sono assenti dal racconto biblico nel quale è dopo il rifiuto del suo sacrificio da parte di Dio, e non prima, che Caino si rivela malvagio.

Nella lettura cristiana, il sacrificio di Abele aderisce soprattutto a un nuovo statuto: è inteso come una prefigurazione, pertanto resta incompiuto e sarà portato a compimento dal Cristo (At 3,14).

Dove è la differenza? Se il sangue del Cristo, «Mediatore della Nuova Alleanza», è «più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24), è per la trasformazione della vendetta in perdono. Avendo subito la stessa sorte dei giusti del passato, «dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria...» (Mt 23,35) il Cristo ha scelto la riconciliazione al posto della vendetta (cfr. Gn 4,10; Ap 16,6). C'è una dissimmetria tra il sacrificio di Abele e quello del Cristo. Tra l'uno e l'altro si opera una nuova relazione tra l'uomo, Dio e gli altri uomini. Pur dicendo che il sacrificio di Cristo porta quello di Abele a maggiore perfezione, il confronto si stabilisce tuttavia meno tra due tipi di sacrifici - l'offerta di animali da parte di Abele o il sangue versato dal Cristo -che tra due esistenze entrambe definite come giuste, a dispetto dell'ingiustizia di cui essi furono vittime. Così si annuncia un cambiamento radicale, già fondato nell'Antico Testamento. Ciò che ha valore agli occhi di Dio non è il sacrificio, ma la disponibilità alla sua volontà. La lettera agli Ebrei farà dire al Cristo: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Allora ho detto: Ecco io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,4-7). Il racconto di Caino e Abele già rivela, nelle sue riletture, che un rito sacrificale separato dall'impegno verso il prossimo non sarebbe gradito a Dio. Il rito è allora ridimensionato e, in taluni casi, anche rifiutato.

Al centro del sacrificio: l'amore

Bisogna arrivare a ciò che costituisce il centro del sacrificio: l'agapé. A questo proposito, il rito può diventare un ostacolo, a meno che non sia in relazione con un al di qua e un al di là. Al di qua del rito, al di qua anche delle disposizioni d'animo dei sacrificanti, si colloca un dono originario: Dio dona l'animale come cibo (Gn 9,3-4), e non gli si può mai offrire altro che quello che lui ha donato. Ogni sacrificio presuppone dunque una rinuncia di possesso nel cuore del sacrificante, per esprimere che il dono è accolto. Ma c'è anche un al di là del rito: l'amore. Se, nel racconto di Caino e Abele, nulla è detto sul dono iniziale di cui essi sono beneficiari - dono della terra per Caino, degli animali del gregge per Abele - i loro gesti di offerta lo implicano. Inoltre, l'al di là del rito è fortemente sottolineato, in negativo: «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4,8).

Questa violenta contro il fratello è la negazione stessa del significato del rito appena compiuto. Davanti al rischio di una frattura tra l'etico e il religioso, alcuni profeti giungono al punto di negare che il sacrificio sia di istituzione divina, per non considerare altro che le due dimensioni al di fuori delle quali non c'è più senso: l'ascolto della voce del Signore e la giustizia verso il prossimo. «Aggiungete pure i vostri olocausti ai vostri sacrifici e mangiatene la carne! In verità io non parlai nè diedi comandi sull'olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dal paese d'Egitto. Ma questo comandai loro: Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; e camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici. Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio» (Ger 7,21-28).

Nella tradizione cristiana, la critica più aspra contro il sacrificio la dobbiamo ad Agostino. I due luoghi classici che gli servono a «spiritualizzare» il sacrificio (cfr La città di Dio, X, 5) sono da un lato la Lettera agli Ebrei: «Non scordatevi della beneficienza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace»; e dall'altro il profeta Osea: «Voglio l'amore e non il sacrificio» (Os 6,6). Ai sacrifici pagani, falsi sin dalle radici, e anche «agli antichi sacrifici dei santi», ridotti a non essere che «figure», sant'Agostino oppone il «vero sacrificio», quello del Cristo, precisando che questo trae il suo valore non dall'immolazione, ma dalla fedeltà al Padre. Se il sacrificio del Cristo merita di essere definito come verissime, è perché esso è espressione di un amore che è andato «sino in fondo». Ne risulta che, per i cristiani, il «sacramento quotidiano» (l'eucaristia), non ha valore che in rapporto da un lato a ciò di cui fa memoria: la vita donata del Cristo, e dall'altro a ciò che essa produce: una vita giocata al seguito de Cristo. Troviamo anche il criterio che distingue i rispettivi sacrifici dei due fratelli, Caino e Abele. Agostino scrive: «Non ci fu carità in Caino; e se non ci fosse stata più carità in Abele, Dio non avrebbe gradito la sua offerta. Avendo entrambi offerto un sacrificio, l'uno i frutti del suolo, l'altro i primogeniti del gregge, perché, secondo voi, fratelli miei, Dio ha rifiutato i frutti del suolo e gradito i primogeniti del gregge? Dio non ha guardato le mani, ma ha visto il cuore: vedendo che l'offerta dell'uno era accompagnata dalla carità, gradì il suo sacrificio; vedendo che l'offerta dell'altro era accompagnata dall'invidia, non gradì il suo sacrificio» (Commento alla prima lettera di S. Giovanni, V, 8). Senza questo nucleo di carità, il sacrificio è privo di senso.

Il sacrificio dinanzi alla critica

Una valanga di critiche si è riversata sul sacrificio. La maggior parte rientra nell'ottica del sacrificio come riparazione di un debito che l'uomo, di fronte ad un Dio terribile e geloso, non finisce mai di scontare. Secondo Freud, il cristianesimo sarebbe la miglior soluzione del complesso di Edipo, che grava sull'inconscio dell'uomo a partire dal primo omicidio, e che nessuna religione è mai riuscita a risolvere. Vero despota orientale, Dio non poteva essere soddisfatto che da un sacrificio totale del figlio, che pagasse per tutti gli altri! Questo genere di teologia, molto diffuso all'epoca, anche nella Chiesa, costituisce inoltre lo sfondo della critica di Nietzsche per il quale la morte sacrificale del Cristo segna la fine della Buona Novella. «In un solo colpo, ecco già fatto l'Evangelo! Il sacrificio espiatorio, e nella forma più ripugnante, più barbara, il sacrificio dell'innocente per i peccati dei colpevoli! Che spaventoso paganesimo! - Gesù aveva tuttavia abolito l'idea di "colpa", aveva negato ogni barriera tra l'uomo e Dio: aveva vissuto l'unità "Dio-uomo", e l'aveva vissuta come la sua "Buona Novella", e non come un privilegio!» (L'Anticristo, § 41).

Ma, se si vuole rendere giustizia al «sacrificio» cristiano, bisogna cominciare col disfarsi da certi pregiudizi. Sacrificare significa donare, ma si può donare per due motivi; per ricevere in cambio, o perché si è gi ricevuto. Nel primo caso, il rischio è quello di una devozione mercenaria: si fa un dono in vista di un contraccambio. Nel secondo caso prevale la logica del rendimento di grazie poiché il «sacrificante» è nella condizione di chi contraccambia: riconosce che Dio lo ha preceduto, sia che si tratti del dono della vita che delta salvezza.

Il contraccambio non può tuttavia ridursi alla semplice offerta di una cosa: «Il sacrificio, nella sua totalità, siamo noi stessi», dice sant'Agostino. «Perché questi due uomini, Abele che significa pianto (luctus) e il fratello Seth che significa resurrezione, sono la figura della morte del Cristo e della sua resurrezione dai morti. Da questa fede nasce quaggiù la città di Dio» (La città di Dio XV, 18).

Più acuto di Nietzsche, Kierkegaard ha visto che tale era già la logica del sacrificio di Abele. Ciò che dà valore al suo sacrificio, è la vita. Il vero cristiano non ha bisogno né di giorni sacri, né di luoghi per i suoi sacrifici, e neppure di altare, perché il vero sacrificio è l'esistenza nella sua totalità, si estende a tutti i giorni della settimana. C'è una priorità: «Va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23). Ecco l'alternativa, scrive Kierkegaard nel suo Discorso per la comunione del venerdì (1848) «Quale sacrificio, pensi tu, gli sia più gradito: quello che fai riconciliandoti con colui che ha qualche cosa contro di te, cioè sacrificando a Dio la tua collera - o l'offerta che potresti deporre sull'altare? Ma se il sacrificio di riconciliazione è il più caro a Dio, a Cristo, allora anche l'altare è là dove il sacrificio più gradito a Dio si compie… Non dimenticare che là dove esso si compie, vi è anche l'altare».

Nel sacrificio del Cristo vi è una carica sovversiva che fa esplodere l'idea stessa di sacrificio. Se c'è una lezione da trarre, già implicita nei sacrifici di Caino ed Abele, è che l'esistenziale deve avere la precedenza sul sacrificale, la relazione verso gli altri sul culto a Dio perché, diceva Levinas, Dio ha tutto il tempo per attendere, mentre il servizio del prossimo non tollera né ritardi né interruzioni.

* Teologo, Assunzionista - Institut Catholique di Parigi

(da Il mondo della Bibbia, n. 43)

Giovedì, 23 Novembre 2006 23:33

Dio: fedele e inafferrabile (Giuseppe Bellia)

Dio: fedele e inafferrabile
di Giuseppe Bellia



Quando il lento processo di progressiva identificazione dell'insegnamento sapienziale con la Torah cominciò ad affermarsi nella prassi interpretativa del giudaismo rabbinico della diaspora, si avviò un profondo e inarrestabile mutamento nella sensibilità religiosa del popolo ebraico e nel modo di concepire il suo rapporto con la divinità. Si era compreso, in terra d' esilio, che l' effettiva esperienza di Dio non avrebbe più avuto il riverbero grandioso delle solenni teofanie tramandate dai racconti di fondazione o l' alone mistico degli oracoli trasmessi dalla fervida attività profetica: l'incontro personale avrebbe avuto il sapore più familiare della quotidianità, attraverso l' ascolto attento e, soprattutto, lo studio della parola divina ormai sigillata nella tradizione testuale. Le vicende umilianti dell'esilio e quelle deludenti del ritorno, insieme alI' impatto devastante che le culture egemoni esercitavano sulle giovani generazioni, facevano scricchiolare la fiducia di molti israeliti nel valore o nel significato da assegnare alla testimonianza dei padri su YHWH, sicché s'imponeva un necessario riesame e una seria rilettura dei testi fondanti, per avere una raffigurazione più solida e attendibile del Dio della fede, utile per quei tempi di transizione e di crisi. I frutti maturi e le conseguenze estreme di questa laboriosa metamorfosi antropologica e teologica si sarebbero visti nel lungo periodo, approdando finalmente, dopo l'appassionata denuncia morale di Giobbe e il realismo sconcertante del compassato Qohelet, alle più mature icone di Siracide e Sapienza.

Verso un nuovo volto di Dio

Il libro dei Proverbi, pur nella complessità della sua molteplice stratificazione redazionale, rivela il travaglio di questo delicato passaggio verso una di- versa e non meno avvincente visione di Dio, colto nella sua verità più profonda e nascosta, raggiungendo così un volto meno appariscente, attraverso gli strumenti del processo interpretativo della rivelazione accolta dai padri, Si sta- va gradualmente acquisendo la consapevolezza che la conoscenza personale della divinità non si realizzava più nella remota eccezionalità di un incontro diretto con Dio, ma nell' oscura ordinarietà dell' esperienza di fede che, mediante le pratiche interpretative delle tradizioni religiose precedenti, conduce- va a scoprire una nuova, intima e più coinvolgente presenza di Dio nel mon- do e nella storia. Questo percorso teologico, a guardare il legalismo ottuso dei consolatori molesti di Giobbe o le glosse interpretative dei pii correttori di Qohelet, non fu agevole e dovette incontrare non poche resistenze, come si può leggere tra le righe della stessa redazione finale di Proverbi, dove inerzie conoscitive e il rischio di penose distorsioni e mistificazioni, hanno convinto a inquadrare in senso teologico i punti più difficili da arginare.

È tuttavia merito della riflessione speculativa dei sapienti scribi d'Israele aver prospettato, e con molta audacia, a partire dal IV secolo a.C., la concretezza di un incontro personale con Dio, attraverso la mediazione di una sapienza personificata che, all'inizio (1,20-33) e alla fine (8; 9,1-6.11) della prima sezione, è raffigurata come amabile figura femminile.

In realtà la sapienza è presentata come intimamente legata alI' opera creatrice di YHWH di cui dispensa generosamente i doni materni che permettono ogni forma di vita. Il volto di Dio resta però velato e misterioso, infatti, è sua gloria nascondersi (25,2); e il suo governo del mondo è esercitato con discrezione, per mezzo di una moltitudine di intermediari, finalmente presieduti da una sapienza creatrice e ordinatrice. L'introduzione di questa figura mediatrice serviva a far quadrare i conti di chi prendeva atto, con i suoi strumenti conoscitivi, dell'apparente contraddizione tra antropologia e teologia, fra l'insondabile trascendenza divina e la sensatezza dei giudizi morali formulati dall'uomo. La razionalità del precetto divino consegnato alla fede dei credenti, consenti- va al sapiente, attraverso un'accurata opera di ricognizione di causa-effetto, di formulare il prevedibile esito del giudizio di Dio sulle azioni dell'uomo: ma proprio il giudizio ultimo di Dio era inarrivabile e la figura di YHWH restava sempre un mistero inscrutabile che lo sforzo conoscitivo dei sapienti non poteva mai riuscire a imbrigliare dentro gli schemi di una teodicea rigida e conclusa. Il Signore si offre come un misericordioso e giusto sovrano, insieme fedele e inafferrabile, che garantisce l'affidabilità del giudizio morale del sapiente, mentre nel contempo si sottrae a ogni cattura idolatrica da parte dello stesso credente.

Il redattore di Proverbi, nel tentativo di comporre la statica visione teologica della tradizione deuteronomista con la lezione aggressiva e inevitabile della storia, ha rischiato di presentare un Dio inappagante, dalla configurazione discontinua, dove le zone d' ombra evidenziavano elementi di irrisolta ambiguità. Accanto a una serie di passi rassicuranti che confortano lo scriba timorato sul giudizio etico di Dio, si possono allineare una serie di massime e di aforismi, oltretutto provenienti dalle raccolte più antiche, dove appare in tutta la sua evidenza l'imprevedibile e incommensurabile realtà divina. Vediamo prima alcune affermazioni in linea con la teodicea della tradizione.

«In tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri. Salute sarà per il tuo corpo
e un refrigerio per le tue ossa» (3,6.8).

«Onora il Signore con i tuoi averi
e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; i tuoi granai si riempiranno di grano
e i tuoi tini traboccheranno di mosto» (3,9-10).

«Non temerai per uno spavento improvviso, ne per la rovina degli empi quando verrà,
perchè il Signore sarà preserverà il tuo piede «Il Signore non lascia
ma delude la cupidigia
la tua sicurezza,
dal laccio» (3,25-26). (...)

Ed ecco altri passi in cui Dio mostra la sua imprevedibile e incontenibile trascendenza:

«AlI 'uomo appartengono i progetti del cuore, ma dal Signore viene la risposta della lingua.
Tutte le vie dell'uomo sembrano pure ai suoi occhi, ma chi scruta gli spiriti è il Signore» (16,1-2).

«Il cuore dell'uomo pensa molto alla sua via,
ma è il Signore che dirige i suoi passi» (16,9 e 19,21).

«C'è una via che sembra diritta all'uomo, ma sbocca in sentieri di morte» (16,25).

«La casa e il patrimonio si ereditano dai padri,
ma una moglie assennata è dono del Signore» (19,14).

«Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo
e come può l'uomo comprendere la propria via?» (20,24).

«Il cuore del re è un corso d'acqua in mano al Signore: lo dirige dovunque egli vuole» (21,1).

«Non c'è sapienza, non c'è prudenza, non c'è consiglio di fronte al Signore.
Il cavallo è pronto per il giorno della battaglia,
ma al Signore appartiene la vittoria» (21.30-31).

E infine, con disincantato realismo, si osserva:

«Il ricco e il povero si incontrano,
è il Signore che ha creato l'uno e l'altro» (22,2).

«Il povero e l'usuraio si incontrano;
di tutti e due il Signore illumina gli occhi» (29,13).

Il redattore ultimo ha cercato di far confluire i detti più sconcertanti sulla condotta divina, frutto di una consolidata esperienza umana, difficilmente contestabile, dentro le sponde rassicuranti di una visione teologica innovativa che doveva tuttavia conservare elementi di continuità con la tradizione.

A questo serviva la sezione d'introduzione dei cc. 1-9 e la conclusione di 31,10-31: sposare la sapienza e rallegrarsi dei suoi frutti fino a tesserne l'elogio, significa assegnarle un ruolo guida in ordine al volere divino, in pratica coincidente con la stessa funzione ermeneutica svolta dall'attività scribaIe. Insomma, la via additata per trovare una composizione tra le affermazioni tradizionali della fede e le contrastanti conclusioni del comune buon senso, consisteva proprio nell' incontro felice e benedetto con la Sapienza, sposa e madre. Si proponeva in questo modo un'esperienza religiosa imperniata sulla convergenza tra iniziativa sapienziale e corretta comprensione della Torah, che solo con Ben Sira si spingerà verso quella mirabile e feconda identificazione della sapienza con il libro della legge (Sir 24,23), che grande ripercussioni avrà nel pensiero giudaico e protocristiano.

La parola luogo d’incontro con Dio

A grandi linee, è questo l'articolato quadro religioso delineato dall'ingegnosa e irrisolta teodicea di Proverbi. Il tentativo di coniugare l'affabile e misteriosa trascendenza divina con la dignitosa e terrigena immanenza dell'uomo era iniziato, ma l' esegesi di maniera non sembra poter dire altro su questa controversa ermeneutica teologica: si devono allora tentare altre vie di accesso. L'approccio delle scienze umane, attraverso una rigorosa interrogazione sociologica e antropologica del testo e con l' apporto delle altre fonti, può tentare di circostanziare e contestualizzare la portata reale di queste asserzioni contraddittorie, consentendo alla teologia implicita di uscire dalle nebbie di una tradizione sapienziale che un perdurante luogo comune insiste nel volere astorica e atemporale. In realtà, proprio nella complessità della trama storica e non solo nel chiuso universo letterario, va invece ricercato l'ambiente originale, il linguaggio e la stessa intenzionalità comunicativa di ogni nuova esperienza religiosa.

Se si guarda alla culturologia di Proverbi, a quanto è condiviso e accettato, implicitamente, da parte dello scrivente e dei suoi destinatari, ritengo si possano far emergere alcuni tratti indicativi sfuggiti ad altre investigazioni. Nel libro, accanto all'assenza della funzione templare e davanti a un ruolo defilato della legge, emerge come centrale il primato indiscusso assegnato alla parola viva del sapiente (padre o maestro), oppure del suo antitipo (il malvagio e la prostituta). L'analisi lessicografica, pur con i suoi limitati parametri quantitativi, comprova il ruolo svolto dal campo semantico che ruota attorno a dbr (parola), in un contesto, è bene precisarlo, dove non si dà una presenza autorevole della profezia, della divinazione, del sacerdozio e della legge. Giustamente, è stato fatto notare che «la parola è lo strumento principale nel campo della sapienza e dei suoi contrari», abbracciando sia la parola precettiva della legge, sia quella subdola dei perversi traviatori; e ancora, quella persuasiva dell'anziano e quella aggressiva del beffardo, quella limpida della sapienza e quella seducente della straniera. Inquesta prospettiva si può inoltre vedere l'analisi statistica di termini come «bocca», «labbra» e «lingua», attorno ai quali si sviluppa la cosiddetta «morale del linguaggio».

Il tema della parola è accompagnato da quello dell' ascolto che il figlio, il giovane, il suddito e il discepolo devono dare al consiglio, all'insegnamento o al precetto. Da notare che il redattore presenta il giovane non come inesperto ma come ingenuo (1,4), come chi è «senza genere»: si tratta del giovane che, non avendo ancora ricevuto il seme del precetto divino e l'acqua della parola del saggio o, alI' opposto, il veleno mortale del seduttore o la chiacchiera fuorviante del malvagio, non è in grado di conoscere il bene e il male e non può quindi assumere un comportamento buono o cattivo. L'israelita sapeva che la parola accolta nel cuore, germinando, produce necessariamente il suo frutto (Is 55,10-11): o il sapere secondo Dio o l'inganno del conoscere in proprio. Davanti a questa parola originaria e originante il cuore del giovane si può disporre, dunque, in due modi contrapposti: o all'apertura dell'ascolto o alla chiusura dèl rifiuto, incamminandosi così rispettivamente verso i sentieri luminosi della sapienza o verso i luoghi scabrosi della stoltezza. Per il saggio che permane in un atteggiamento di ascolto si apre la possibilità di diventare «giusto», mentre per lo stolto che si radica in un atteggiamento di rifiuto si spalanca davanti a lui I'habitus dell' empietà e del cinismo. L' interferenza o la sovrapposizione costante che in tutto il libro si stabilisce tra il tema della lingua e termini connessi («bocca» 27 volte, «labbra» 37 volte e «lingua» 16 volte), con le categorie etiche della stoltezza e della saggezza, disegna a tinte forti le contrapposte tipologie del giusto e dell' empio, a seconda del differente esito che la parola di Dio produce nel cuore docile o ribelle.

Questa articolata visione antropologica, imperniata sul primato della parola, ha un sicuro valore storico, perchè spiega il senso della funzione sapienziale in un'epoca di mutamento, collocandosi proprio nel punto d'incontro del testo biblico con la concreta società religiosa in cui il libro è stato prodotto, accolto e trasmesso. La centralità della parola viene così a coincidere con il ruolo sociale dello scriba sapiente e con il suo impegnativo compito pedagogico, dal momento che in un tempo di offuscamento degli ideali e davanti alI' assenza delle autorità, tradizionali o istituzionali, si poteva fare affidamento solo sull'autorevolezza morale di un'argomentazione paziente e persuasiva, affidata alla parola del saggio.

L'irruzione poderosa della parola nella vita del popolo d'Israele aveva prodotto però un effetto non meno sconvolgente nella sua sensibilità religiosa e nella sua diveniente teologia. Come spiega Beauchamp, le interpellazioni originarie della legge e dei profeti avevano cominciato a far posto allo stesso soggetto interpellato: la parola originaria di Dio alI'uomo aveva generato nel cuore del credente la parola di risposta a Dio, facendo accogliere anche questa parola umana come degna di fiducia. Si realizzava così una metamorfosi sorprendente che indicava la reale portata della mutazione antropologica in atto e della stessa intelligenza di fede, che invitava i credenti a entrare in un' età più adulta della storia della salvezza. L'impressionante svolta ermeneutica avvenuta nel processo scritturale d'Israele imponeva all'israelita di ricercare la presenza illuminante di Dio in quel rapporto personale che ogni credente, da li in avanti, doveva stabilire con le pagine sacre, attraverso lo stadio e la preghiera. Il luogo privilegiato dell'incontro con Dio si stava ormai spostando inesorabilmente dal tempio alla sinagoga e la sapienza creatrice e interprete non aspettava il credente dentro gli spazi sacri del recinto templare, ma veniva incontro anche nel cuore dissacrante delle caotiche città della dispersione: gli è solo richiesto di condurre nella quotidianità un'esistenza autentica, misurata dalla docilità all' ascolto della Torah mediata dal saggio.

Studio assiduo della Parola e vigile esistenza quotidiana sono, dunque, per i sapienti i luoghi indissolubili di un percorso di conoscenza che cominciava a dire qualcosa d'inedito della presenza nascosta del Dio dei padri, rivelando anche qualche nuova, timida, linea raffigurativa del suo volto.

Quale sviluppo?

In una città adagiata lungo le rive dell'Oronte, quando i gruppi ebraici non avevano ancora acquistato peso politico e il culto sinagogale non aveva ancora assunto forma istituzionale, un ceto intellettuale colto e timorato in un oscuro tempo di mutazione aveva interpretato, nelle pagine di Proverbi, la ricerca della sapienza come tentativo sponsale di incontrare Dio nel proprio luogo e nel proprio tempo. L'opera di mediazione di questi scribi sapienti, attraverso un processo teologico non sempre lineare, permetterà alle generazioni successive di entrare a piccoli passi nel segreto di una presenza divina nascosta fin dentro l' opaca quotidianità della storia.

Lezione magnifica e duratura che dalla tradizione sapienziale giungerà fino al disvelamento pieno del volto di Dio in Cristo, come ci tramanda Matteo a conclusione del parlare in parabole del rabbi galileo: ogni scriba divenuto discepolo saprà trarre dal tesoro della parola accolta «cose nuove e antiche» (M t 13,51). E com'è annunciato nella dirompente rivelazione di Gesù alla samaritana: non c'è luogo o tempo dell'esistenza dove Dio non si lascia incontrare da chiunque lo cerca «in spirito e verità» (Gv 4,24).

(da Parole di vita 1, 2003)

 

 

 

Il tempo dell'attesa e il mestiere della cura

di Vittorio Nozza

 

Pochi giorni al 25 dicembre. È il tempo dell'attesa, dei preparativi per lasciare che Qualcuno entri nella nostra vita. Come succede in una casa che aspetta la nascita di un figlio: c'è da fare spazio, un letto da preparare, del tempo da dedicare alla nuova vita: non a caso il mistero dell'Incarnazione ci viene raccontato dalla culla di Betlemme. Anche l'attesa di un figlio può sembrare un avvenimento impossibile. Soprattutto può creare scompiglio in casa, mandare all'aria i progetti e le idee di una giovane coppia. Come ogni grande sorpresa che ci investe, non ci sentiremmo mai pronti, mai adeguati: è quasi naturale parlare di turbamento e paura. Nessuno ci ha mai preparato all'imprevedibile: attendere un figlio è una scommessa sul futuro, confidare in un dono, dare credito a qualcuno, mettersi a servizio della vita.

Il tempo della vita, poi, è alternanza di gioie e dolori, fatiche e speranze. A volte i nostri occhi si spalancano nello stupore di fronte alle meraviglie della vita, ma possono riempirsi anche del grigio della noia o del nero della disperazione. Ogni angolo della terra ha un popolo che grida, una donna che sperimenta la minaccia, un figlio che ha paura: tutti aspettano un tempo di riposo e un po' di pace. Anche angoscia e ansia fanno parte dei nostri tempi, fatti di attesa e di domande. C'è una speranza che interroga le nostre paure: che ne sarà della vita? Chi ci dirà qualcosa del futuro? Ha senso che cerchiamo di prenderci cura della storia per "crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti", come dice l'apostolo?

I pastori, i consumi, la sete

Il tempo dell’attesa per educarci ad accogliere non è un tempo vuoto d’azione. C’è da fare un grande lavoro di costruzione di una nuova umanità, dentro e attorno a noi. Una domanda per tutte: che cosa dobbiamo fare? Cambiare vita in modo radicale oppure occuparci umilmente del nostro quotidiano? Ci dicono: urge una svolta. Sì, ma perché o per chi dovremmo cambiare? Ci deve essere una ragione davvero forte per metterci in viaggio, per farci invertire la rotta. Non per calcolo. Non per convenienza. Ci deve essere qualcuno così forte da afferrarci la vita. Nessuno cambia se non viene incontrato da una presenza che lo emoziona, gli scalda il cuore, gli dà speranza, vince la morte.

Oggi i pastori sono un po’ diversi: sono gli uomini della città, dei consumi; sono gli uomini che hanno tutto e che continuano ad avere sete. Però, quando si tratta di vigilare, di custodire, di andare alla ricerca, ci sentiamo un po' tutti dei pastori. Il cui mestiere è la cura. Cura della natura, del mondo, dell'altro. Cura dell'uomo.

Soprattutto, cura del mistero della vita, della parola che dà corpo alle nostre domande e abbevera i desideri: Dio che si fa carne è al di là di ogni aspettativa.

La nostra è la società della fretta e dell'efficienza. Abbiamo tante cose da fare, da costruire e da comperare... Ci sembra che nulla possa esistere se non è subito nelle nostre mani e sotto i nostri occhi. Anche le nostre città, i nostri quartieri, le nostre vie, così conosciuti, così familiari, così nostri, possono assomigliare a un deserto, desolazione e solitudine, incomprensione e mancanza. Hanno bisogno di amore e di perdono. Qualcuno ha promesso di porre la sua tenda in mezzo a noi ed è ovvio prepararsi per accogliere la sua venuta. Prepararsi come per una grande festa. Un tempo di attesa, breve ma sempre più confuso da ciò che ci circonda e coinvolge: luminarie, corse all'ultimo regalo, pranzi, inviti, cene, vacanze.

Questo tempo ricco, sotto molti aspetti, deve ricordarci che ci sono anche i non-ricchi: i poveri. Qualcuno piange ancora per la fame e per la mancanza di un tetto sotto il quale trovare rifugio. L'Incarnazione è il modo in cui Dio si fa carico della povertà dell'uomo, di ogni uomo, per prestare orecchio al grido del povero e dell'oppresso, della vedova e dell'orfano, dello straniero e del carcerato. Accogliere Gesù che viene nella notte di Natale significa accogliere con Lui anche tutti coloro per i quali è venuto, significa accettare che la nostra vita cambi perché l'abbiamo incontrato, ascoltato e accolto.

Accolto. Ma in chi?

* In quel quinto della popolazione mondiale che vive ancora con meno di 1 dollaro al giorno: oltre 1 miliardo 200 milioni di persone che rischiano quotidianamente la morte e vedono compromesso il proprio sviluppo fisico e mentale;

* in quei 120 milioni di bambini che al mondo non vanno a scuola: una larga fascia delle nuove generazioni non saprà né leggere né scrivere, due terzi sono bambine;

* in quei 10 milioni di bambini con meno di 5 anni che ogni anno muoiono a causa di malattie curabili con vaccini adeguati e in quei 140 milioni che muoiono per Aids e malnutrizione;

* in quelle 500 mila mamme che muoiono ogni anno a causa delle precarie condizioni igieniche nelle quali sono costrette a partorire per l'assenza di personale qualificato, malnutrizione e malattie facilmente curabili;

* in quel 1 miliardo 100 milioni di persone che non hanno accesso all'acqua potabile, residenti in maggior parte nelle aree rurali.

Il sogno e il frammento

Natale: evento per sognare. Lasciateci sognare un'esistenza nuova, una politica con più fiato, una maggiore attenzione a chi ci sta accanto, una maggior credibilità delle istituzioni, più pace tra i rappresentanti delle istituzioni, meno egoismi privati e più coraggio pubblico, l'apparire di prospettive europee e mondiali in grado di giustificare i sacrifici che facciamo e che sono, in qualche modo, inevitabili, un mondo più giusto e in pace. Lasciateci sognare anche l'emergere di vocazioni sociali e politiche a servizio dell'umanità.

Natale: il tutto è nel frammento, l'eternità è nell'attimo, la luce squarcia le tenebre, la nostra attesa è colma, la speranza di un popolo di uomini trova verità. Tutto per dire il grande avvenimento: la Parola si è fatta carne. Dio si è fatto uomo. Egli ha posto la sua tenda e ha scelto di abitare in mezzo a noi. Un bimbo è lì per dire la verità dell'amore per ogni uomo, senza distinzione né differenze. Sbirciare in quella mangiatoia, accoglierlo nelle nostre braccia, sarà come ritrovare il nostro essere uomini, sarà come scoprire che Dio ha una parola per noi. Su di noi. Da sempre. Buon Natale.

(Tratto da Italia Caritas, dic. 2004, pag. 3)

Il commento di Girolamo
al profeta Isaia
di Iginio Passerini

Negli ultimi anni della sua vita (407-419) Girolamo si è dedicato a commentare i pro­feti maggiori. E' il frutto maturo di un'esi­stenza spesa nel servizio alla Parola di Dio.

Era nato a Stridone in Dalmazia verso il 347. Compiuti gli studi letterari a Roma, dove era stato battezzato, aveva raggiunto Treviri, sede imperiale, dove aveva matura­to la decisione di dedicarsi all'ideale asceti­co. Si era congiunto per questo, verso il370 ad Aquileia, con un gruppo che aveva le medesime intenzioni (Rufino, Bonoso, Cro­mazio, Eliodoro). Ma nel 373 ilgruppo si era sciolto e Girolamo partiva per Antiochia di Siria, per sperimentare la vita monastica in forma eremitica nel deserto di Calcide, tutto dedito allo studio linguistico ed esege­tico della Scrittura, alle opere patristiche e alla trascrizione di codici. L'esperienza so­stenuta in forme assai dure lo maturerà co­me guida e maestro di ascesi per gli anni successivi.

Nel 382 si trasferì a Roma, dove papa Da­maso lo fece suo segretario. Qui attese alla versione latina di quasi tutta la Bibbia, men­tre si interessava degli ideali ascetici che circolavano in alcuni ambienti aristocratici femminili della città.

Alla morte di papa Damaso, avvenuta nel dicembre 384, Girolamo riprese la via dell'Oriente. Con il fratello Paoliniano e con alcuni monaci nell'estate del 385 si imbarcò per Antiochia, accompagnato da Paola ed Eustochio, ormai votate all'ideale ascetico.

Nella primavera/estate del 386 ilgruppo si stabilì a Betlemme, e presso la Basilica del­la Natività, grazie ai finanziamenti della fa­coltosa Paola, vennero fondati due monaste­ri, uno per i monaci e uno per le vergini, con una foresteria per i pellegrini. Qui Gi­rolamo si dedicò interamente all'attività letteraria: traduzioni bibliche, adattamenti di commentari, qualche romanzo agiografico, raccolta di dati storici. Ai monaci spiegò la Scrittura e offrì istruzioni ascetiche; ai gio­vani, nella scuola annessa al monastero, in­segnò grammatica latina e letteratura clas­sica; mantenne i contatti con amici di Ro­ma; partecipò alle vicende della Chiesa.

400 ilcom­mento ai profeti maggiori, dove ildebito verso Origene, purificato dalle posizioni controverse, è decisamente abbondante, nel caso in cui Girolamo disponga della fonte.

Nel frattempo la vita di Girolamo aveva ri­cevuto diversi colpi: era morta Paola nel 404; Roma fu distrutta dai Goti nel 410; nel 418/419 morì anche Eustochio. E a pochi mesi di distanza da questo lutto, anche Gi­rolamo si spense a Betlemme il30 settem­bre 419, mentre stava commentando Gere­mia, l'ultimo del ciclo dei profeti.

* * *

Il Commento a Isaia (1) appartiene agli anni 408-409: siamo ormai nell'ultima fase del­l'attività esegetica, quando il criterio erme­neutico di Girolamo ha raggiunto la sua più matura formulazione e applicazione. Scrive nel Prologo: commento a Daniele, mi costringi, vergine di Cristo Eustochio, a passare al commento di Isaia (…). Rendo a te ciò che devo, obbedendo ai comandi di Cristo, che dice: Scrutate le Scritture (Mt 7,7); e: Cercate e troverete (Mt 22,29). Per non sentirmi dire, insieme ai Giudei: Vagate, ignorando le Scritture e la potenza di Dio (Mt 22,29). Se infatti, secondo l'apostolo Paolo Cristo è poten­za di Dio e sapienza di Dio e colui che non conosce le Scritture non conosce la potenza di Dio e la sua sapienza, allora ignorare le Scritture è ignorare Cristo. Quindi sostenuto dall'aiuto delle tue preghiere, dato che giorno e notte tu mediti la legge di Dio e sei tempio dello Spirito Santo, imiterò il padrone di casa, che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e antiche; imiterò la sposa che dice nel Cantico dei cantici: Cose nuove e antiche fratello mio ho conservato per te (Ct 7,13); e così esporrò Isaia, in modo da presentarlo non solo come profeta, ma anche come evan­gelista ed apostolo. Egli stesso di sé e de­gli altri evangelisti dice: Quanto sono belli i piedi di coloro che annunciano il bene, che annunciano la pace (Is 52,7). E a lui come ad un apostolo Dio si rivolge in questi termini: Chi manderò e chi an­drà da questo popolo? Ed egli risponde Eccomi, manda me (Is 6,8)».

Il commentario è molto esteso (18 libri) ed applica sistematicamente i criteri che si so­no progressivamente delineati nel corso del­la sua multiforme attività esegetica:

a) anzitutto un'aderenza critica al testo, spesso con duplice riferimento, per la scelta della lezione, all'originale ebraico e al testo greco dei LXX;

b) in secondo luogo egli è attento sistemati­camente a due livelli di interpretazione: il primo è quello letterale (littera o histo­ria); l'altro è quello spirituale (allegoria, anagogè, tropologia, spiritus).

Nella lettera 120,12 riprendendo Origene, aveva riconosciuto tre livelli di esegesi: quello letterale, quello morale, quello spiri­tuale. Generalmente però non si riconosce in questo schema ternario, ma preferisce quello binario, attento alla lettera del testo accompagnata da un'interpretazione di ca­rattere allegoric.o (2) Così Girolamo fa siste­maticamente nel commento ad Isaia: pre­messa l'attenzione al livello letterale, anco­ra più costantemente che in altri commenti, sviluppa discretamente l'interpretazione allegorica. Lo dimostra anche il fatto che, mentre in un saggio esegetico del 397 sui capitoli 13-23 di Isaia, gli oracoli contro le nazioni erano stati esaminati solo in chiave letterale, allo stesso commento riproposto tale e quale in quest'opera nel libro 5°, fa seguito l'interpretazione allegorica degli stessi capitoli nei libri 6° e 7°. (3)

Così si esprime Girolamo nel Prologo del suo com­mentario:

«All'interpretazione letterale (historiae veritatem) deve seguire quella spirituale (spiritaliter accipienda sunt omnia); così Giudea e Gerusalemme, Babilonia e Fili­stea, Moab e Damasco, Egitto e deserto, Idumea e Arabia, la valle della Visione fi­no all' estremità di Tiro, la visione dei quadrupedi sono tutte realtà da interpre­tare, per coglierne il significato e ricono­scere che in esse l'apostolo Paolo come sapiente architetto ha posto il fondamen­to, che non è altro che Cristo Gesù».

E sulla necessità di accedere al livello profondo dell' interpretazione, là dove non arrivano coloro che non hanno la fede in Cristo e la sua luce, siano essi pagani o giu­dei, aveva appena detto, sempre nel Prolo­go:

«Nessuno pensi che voglia contenere l'argomento di questo testo in una breve trattazione, perché questo libro contiene tutti i misteri (sacramenta) del Signore e vi si predica sia l'Emmanuele nato dalla vergine, sia colui che ha compiuto opere mirabili e gesti significativi, morto sepol­to e risorto dagli inferi è il Salvatore di tutte le genti. Che dirò dei contenuti di fi­sica, etica e logica? Tutto ciò che è proprio delle sante Scritture, tutto ciò che può proferire lingua umana, ciò che i sensi dei mortali possono ricevere, tutto quanto è contenuto in questo libro. Dei suoi misteri rende testimonianza colui che scrisse: E sarà per voi la visione di tutto come le parole di un libro sigillato, che viene consegnato a uno che sa legge­re, dicendogli: Leggilo. E quello rispon­de: Non posso, perché è sigillato. E verrà consegnato il libro a chi non sa leggere, dicendogli: Leggi. E risponderà: Non so leggere (Is 29,11.12). Sia dunque che tu consegni questo libro al popolo dei paga­ni che non sa leggere, ti risponderà: Non posso leggere, perché non ho imparato a leggere le Scritture. Sia che lo consegni agli scribi e ai farisei, che si vantano di conoscere le lettere della Legge, rispon­deranno: Non possiamo leggere, perché il libro è sigillato. Come mai è sigillato proprio per essi? Perché non hanno ac­colto colui sul quale il Padre ha posto il sigillo, colui che tiene la chiave di Davi­de: Colui che apre e nessuno può chiude­re; che chiude e nessuno può aprire (Ap 3,7)».

Le fonti del commento di Girolamo sono esplicitamente ammesse nel Prologo della sua opera, dove dichiara di aver attinto le spiegazioni allegoriche al commento di al­cuni ecclesiastici viri. Si tratta del commen­to di Eusebio di Cesarea prevalentemente di carattere letterale; inoltre per gli sviluppi allegorici Girolamo si è rifatto sia al com­mentario di Origene in 30 libri (Girolamo dichiara di non disporre del libro 26), che si fermava al passo di Is 30,5; sia al commen­tario di Didimo di Alessandria per Is 40-66.Tra le fonti latine ricorda solo Vittorino di Petovio, in un suo commento perduto a Isaia. Nel commento di Girolamo il registro dell' interpretazione letterale riprende da Eusebio il motivo del trasferimento dei rife­rimenti profetici dal tempo delle invasioni assira e babilonese al tempo delle guerre con i romani, con spazi anche per una lettu­ra cristologica. L'interpretazione allegorica attinge ai temi più cari ad Eusebio, come la vittoria della Chiesa sull'idolatria pagana e la sostituzione della Chiesa ad Israele, ma anche a temi tipici di Origene e di Didimo, quali il confronto con l'eresia e il rapporto individuale di Cristo con l'anima del cristia­no. Dichiara Girolamo, sempre nel Prologo:

«Voler commentare tutto il libro di Isaia è un impegno di grande portata, con cui si è misurato l'ingegno dei nostri padri, dico dei Greci. Per il resto tra i latini c'è grande silenzio, fatta eccezione per il martire di santa memoria Vittorino, che poteva dire con l'apostolo: Anche se ine­sperto nel linguaggio, non però nella scienza. Origene ha scritto su questo pro­feta, fino alla visione dei quadrupedi nel deserto, trenta volumi, di cui non si trova il 26°. Sono a lui attribuiti altri due libri sulla visione dei quadrupedi, che sono ri­tenuti non autentici; cosippure venticin­que omelie e Semeiòseis, che noi possia­mo chiamare Excerpta. Anche Eusebio Panfilo ha pubblicato quindici libri se­condo la spiegazione storica (= interpre­tazione letterale); e Didimo, della cui amicizia ci siamo avvalsi, dal passo dove sta scritto: "Consolate, consolate il mio popolo, sacerdoti; parlate al cuore di Gerusalemme", fino alla fine del libro, ha pubblicato diciotto volumi. Apollinare poi, secondo il suo stile tocca tutti i pas­saggi ( ... ) ma in modo che ci sembra di leggere non tanto dei commenti, quanto piuttosto un indice per sommi capi».

Il riferimento a queste fonti non toglie nulla all'originalità della sua esegesi, espressa in una forma letteraria degna di un grande scrittore della tarda antichità.

Note

1) Il commento di Girolamo ad Isaia è apparso in edi­zione critica nel «Corpus Christianorum» nel 1963 ad opera di M. Adriaen: S. HIERONYMI PRESBYTERI, Commentariorum in Esaiam libri, curo M. ADRIAEN, Turnholti 1963, CCSL 73-73A.

2) Vedi P. JAY, Saint Jérome et le triple sens de l'Ecri­ture, in «Revue des Etudes Augustiniennes» 26 (1980),214-227.

3) Vedi M. SIMONETTI, Sulle fonti del «Commento a Isaia» di Girolamo, in «Augustinianum» 24 (1984), 451-469; ID., Lettera e/o allegoria, Studia Epherneri­dis «Augustinianum» 23, Roma 1985,334-336.


(da Parole di Vita, 1, 1999)
Giovedì, 23 Novembre 2006 00:45

Il Trono di Dio (Timothy Radcliffe o. p.)

Da una conferenza tenuta dal R. P. Timothy Radcliffe o. p. al Congresso degli abati dell’Ordine di San Benedetto sul tema del

La “terza via” degli anglicani
di
Marino Parodi

La Chiesa anglicana gioca oggi come ieri un ruolo fondamentale nel contesto della Riforma. Nata, come dice il nome, sul suolo inglese e sin dalle origini strettamente intrecciata con la storia e la cultura di questo Paese, essa è diffusa in tutto il mondo: sulla base di stime ragionevoli, sembra che i fedeli raggiungano la quota complessiva di 75 milioni (pur tenendo conto delle grandi difficoltà, tipiche d’altra parte di tutte le Chiese tradizionali, che si incontrerebbero volendo distinguere i “praticanti” dai “non praticanti”).

In Italia sono presenti quindici comunità, per lo più formate da cittadini di origine inglese, americana, australiana, o canadese, con duemila fedeli. Per comprendere come e perché è nata la Chiesa anglicana, occorre un ripasso della storia, che inevitabilmente ci porta indietro al secolo decisivo, che segnò la nascita del protestantesimo, ossia il XVI.

Alle origini dello scisma

Enrico VIII (1491-1547), re d’Inghilterra all’epoca della Riforma, si era sempre mostrato un cattolico fervente, strenuo oppositore di Lutero, tanto da guadagnarsi da papa Leone X il prestigioso titolo di defensor fidei. A scatenare lo scisma sarà invece la pretesa, da parte del sovrano inglese, di ottenere da papa Clemente VII la dichiarazione di nullità del proprio matrimonio con Caterina d’Aragona, zia dell’imperatore di Spagna Carlo V (per sposarla era stata necessaria una dispensa papale), la quale non era riuscita a dargli figli.

Se il Pontefice rimase sempre fermo nel suo rifiuto di avallare ciò che ai suoi occhi sarebbe stato un divorzio, a questa vicenda matrimoniale si intrecciano peraltro complesse questioni politiche. Nel 1531 la Camera dei Lords proclama Enrico “Capo supremo della Chiesa e del clero d’Inghilterra”.

Siamo ormai allo scisma, consacrato dalla nomina del filo-luterano Thomas Cranmer (1489-1556) ad arcivescovo di Canterbury. Egli nel 1533 annulla il matrimonio di Enrico e Caterina per consacrare le nozze che presto seguono con Anna Bolena, dalla quale nascerà la futura regina, Elisabetta I. E’ l’Atto di Supremazia del 1534, preceduto dalla scomunica di Roma, a segnare la nascita di una nuova Chiesa nazionale. La Chiesa anglicana inizialmente si discosta ben poco da quella cattolica: soltanto dopo la morte di Enrico VIII, Cranmer - che cadrà vittima dell’effimera “restaurazione” cattolica di Maria Tudor - redige nel 1549 una nuova liturgia in lingua inglese (Prayer Book), la quale vede una seconda edizione nel 1552, maggiormente distanziata dal cattolicesimo, nonché una terza, nel 1559, per volontà di Elisabetta I (1533-1603), a quest’ultimo invece più vicina.

E’ ancora la nuova sovrana a trasformare nel 1571 i Quarantadue articoli di .fede nei Trentanove articoli di fede, risalenti al 1553: la nuova versione è più orientata verso il protestantesimo, benché in termini moderati. Sin dai suoi esordi l’anglicanesimo si presenta del resto come un compromesso tra cattolicesimo e protestantesimo, benché una certa avversione per Roma e per il Papato non sia mai mancata. Non a caso, alcuni studiosi considerano la confessione anglicana staccata dal protestantesimo, vedendovi piuttosto una “terza via” tra quest’ultimo e il cattolicesimo. E’ interessante notare come tale nuova interpretazione dell’anglicanesimo, sul piano teologico come su quello storiografico, abbia trovato riscontro nel Magistero cattolico: basti pensare alla Lettera apostolica Tertio millennio adveniente di Giovanni Paolo Il, in cui si fa riferimento ai martiri recenti, ritenuti «patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti». Nel corso del tempo le due tendenze hanno dato vita a due movimenti detti “Chiesa alta” (più conservatrice e “cattolica”) e “Chiesa bassa” (più filo-protestante).

In concreto e schematizzando, l’anglicanesimo accoglie gli elementi essenziali del protestantesimo sul piano teologico e dottrinale (rifiuto del Papato, giustificazione per fede, riduzione dei sacramenti all’eucaristia e al battesimo, sola Scriptura ecc.), mentre si mantiene molto vicino al cattolicesimo per quanto riguarda la liturgia (la messa anglicana è assai simile alla cattolica) nonché la struttura stessa della Chiesa (sostanzialmente gerarchica, strutturata in diocesi, con vescovi e arcivescovi). Quest’ultimo punto si spiega agevolmente tenendo presente che l’anglicanesimo si trova comunque d’accordo col cattolicesimo per quanto riguarda un importante punto, rifiutato invece, salvo qualche eccezione, da tutta la Riforma: viene conservato il principio della successione apostolica. Va peraltro precisato che vi è un altro punto ancora più importante sul quale la Riforma inglese ha deciso di conformarsi al Magistero cattolico, ossia la natura dell’eucaristia.

Il “risveglio” e i problemi di oggi

Tra Settecento e Ottocento entrambe le ali videro la nascita di un movimento “evangelical”, legato alla grande corrente del “risveglio”, il quale venne a sconvolgere un po’ tutto il protestantesimo mondiale nel segno di una spiritualità più viva rispetto a una religione percepita come troppo rigida e formale, prima, nonché di un movimento “trattariano”, poi, (da una serie di opuscoli detti Tracts for the time, pubblicati dal 1833), meglio conosciuto come “movimento di Oxford”, più marcatamente filo-cattolico. Tra gli esponenti di rilievo di quest’ultimo spiccano John Henry Newman, il quale aderì nel 1845 alla Chiesa cattolica e divenne cardinale, nonché Edward Bouvene Pusey (1800-1882), il quale creò un movimento “anglo-cattolico” all’interno della Chiesa anglicana, destinato ad acquistare notevole peso sul piano culturale e sociale.

Se oggi i confini tra “Chiesa alta” e “Chiesa bassa” sono assai meno chiari e netti rispetto al passato, tuttavia la spaccatura che si è delineata nell’ultimo ventennio all’interno della Chiesa a causa di questioni spinose quali l’ordinazione sacerdotale femminile e la “questione omosessuale” ha, per forza di cose, portato esponenti anglicani su posizioni sempre più vicine a Roma, giungendo in alcuni casi alla piena adesione al cattolicesimo. E’ quanto si è verificato, ad esempio, con quei pastori anglicani passati in massa alla Chiesa cattolica, diventati a pieno titolo sacerdoti cattolici e accolti a braccia aperte da Giovanni Paolo ll, benché molti di loro fossero coniugati e con prole.

La Chiesa anglicana ha definitivamente e ufficialmente detto “sì” al sacerdozio femminile, attraverso una pronuncia solenne del suo Sinodo, nel novembre 1992. Da parte della Chiesa anglicana sarebbe stato peraltro, obiettivamente, ben difficile persistere nel rifiuto del sacerdozio femminile, giacché al suo vertice, e nemmeno per la prima volta nella sua storia (si pensi alla regina Vittoria e alla già citata Elisabetta I), si trova una donna, la regina Elisabetta. Le prime ordinazioni risalgono al marzo 1994 e ciò ha complicato notevolmente quel processo di riavvicinamento ecumenico - il che costituisce un passo avanti notevole rispetto al “dialogo”- tra Chiesa di Roma e Chiesa anglicana. Una tappa fondamentale di tale cammino fu la visita ufficiale della regina Elisabetta Il a Roma nel 1960: lo storico incontro tra lei e papa Giovanni XXIII si svolse in un clima di euforia generale e fu seguito con grande partecipazione dall’opinione pubblica mondiale.

D’altra parte le donne erano già state ammesse al sacerdozio in altre Chiese anglicane: in Australia e Sud Africa (1992), negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda (1976), in Canada (1975),a Hong Kong (già dal 1944). Infatti fanno capo alla Chiesa madre di Canterbury ventisette Chiese nazionali autonome, che costituiscono la Comunione anglicana e ogni dieci anni, a partire dal 1867, si riuniscono nelle Conferenze di Lambeth. Contrariamente a quanto accade in tanti altri Paesi del globo, dove gode di ottima salute ed è in continua crescita, la Chiesa anglicana soffre nel suo Paese d’origine di una certa crisi, che non si può ridurre ai pur ben noti problemi dell’ordinazione femminile e dell’omosessualità.

Di tale crisi è un sintomo evidente il passaggio alla Chiesa cattolica di vari personaggi pubblici, già profondamente legati a quella anglicana, quali il primo ministro Tony Blair e lady Frances Fermoy, madre della principessa Diana. Il problema principale consiste forse nello stretto legame tra Chiesa e potere politico che, come abbiamo visto, risale alle sue stesse origini: se la tensione tra dimensione temporale e sfera spirituale può forse considerarsi una spina nel fianco per vasti settori della cristianità, ivi comprese la Chiesa di Roma, tante confessioni nate dalla Riforma e l’Ortodossia, nel caso inglese la situazione si presenta particolarmente complessa. Infatti oltre Manica alla Chiesa è venuta a mancare quella “purificazione” dal potere che nel caso di Roma è derivata dalla fine del governo del “Papa-Re” e, in quello della Russia, dalla persecuzione e dai martiri inflitti dal comunismo.

Al di fuori della Gran Bretagna, la Chiesa anglicana più influente è quella degli Stati Uniti, riorganizzatasi nel 1783, dopo la Rivoluzione americana, con il nuovo nome di Chiesa protestante episcopale. Pure negli Stati Uniti le due vexatae quaestiones del sacerdozio femminile e dell’omosessualità hanno provocato negli anni vari scismi di stampo “tradizionalista”. La comunità episcopaliana occupa tuttora posizioni importanti nella cultura, nella politica e nell’economia degli Stati Uniti, al di là del numero non troppo alto dei suoi membri (circa due milioni e mezzo).

Una ricca tradizione di spiritualità

La Chiesa anglicana è da sempre vitalissima in ogni campo: come abbiamo accennato, sul piano teologico; sul fronte dell’ecumenismo (cui ha aderito con decisione sin dai suoi esordi e i rapporti con la Chiesa di Roma stanno tornando al livello eccellente di un tempo), a livello pastorale (il clero, severamente selezionato soprattutto per quanto riguarda le motivazioni, viene preparato attraverso un rigoroso iter di studi universitari nonché un impegnativo tirocinio mentre le iniziative per la formazione dei fedeli sono numerosissime), nel mondo della solidarietà e del volontariato (in particolare nei Paesi del Terzo Mondo) e sul piano propriamente spirituale. La Chiesa anglicana è infatti sempre stata assai ricca di spiritualità e si è sempre contraddistinta per la libertà che oggi come ieri lascia ai propri fedeli, privilegiando nettamente la via personale rispetto al dogma. Non a caso nel suo seno si è sviluppata sin dalle sue origini una mistica assai fiorente, agevolata sia dalla natura inglese, tendenzialmente riservata e portata alla riflessione -inglese è anche Giuliana di Norwich, una delle maggiori mistiche di tutti i tempi, vissuta molto prima della Riforma -, sia dal fatto che la Chiesa anglicana, grazie alla tradizione platonica conservata sin dal Rinascimento, possiede un terreno di accoglienza del tutto naturale, molto autentico e originale, per tutto quanto riguarda la contemplazione dei misteri cristiani.

Pensiamo soltanto al caso di Richard Hooker, considerato il teologo più rappresentativo dell’anglicanesimo: persino nella sua importante opera in cinque volumi, The Laws of Ecclesiastical Polity, teoricamente dedicata a tematiche non direttamente spirituali, è facile scoprire il soffio possente che anima tutta la teologia. avvicinandola ai confini della vita mistica. Mettendo in luce temi tanto cari alla spiritualità anglicana, approfondisce la preghiera la quale «accende nell’anima il desiderio di contemplare Dio» e apre la porta all’ascolto della parola divina. La preghiera, così collocata nel mistero della partecipazione del fedele a Cristo, diventa «offerta presentata dagli angeli davanti a Dio», nonché «affezione luminosa di gioia».

Una spiritualità così forte come quella anglicana non poteva restare indifferente alla grande riscoperta dei carismi portata nel secolo scorso in tutta la cristianità dalla corrente pentecostale, di cui le esperienze come il Rinnovamento nello Spirito Santo possono considerarsi l’espressione cattolica. Un po’ tutti i carismi - in particolare quello della guarigione -sono tenuti in grande considerazione da parte della Chiesa anglicana, nella quale si celebrano con grande frequenza messe di “guarigione e di liberazione.


CAPO DELLA CHIESA D’INGHILTERRA

Il sovrano del Regno Unito è il capo della Chiesa d’Inghilterra, non però della Comunione anglicana, sulla quale egli non ha invece alcuna autorità. Tale funzione è nel corso del tempo diventata sostanzialmente formale, tant’è vero che Elisabetta II - la quale ha compiuto ottant’anni e regna dal 1952 - non ha particolare voce in capitolo neppure sulla scelta dell’arcivescovo di Canterbury, nominato sì dalla sovrana ma scelto dal Primo ministro. L’arcivescovo di Canterbury, è primate di tutta l’Inghilterra, metropolita, leader della Comunione anglicana. nonché capo effettivo della Chiesa.

Tuttavia la forte personalità della sovrana, con l’innegabile carisma che ne consegue -prova ne siano l’affetto e l’ammirazione di cui Elisabetta Il gode, come può constatare chiunque conosca anche soltanto un poco il popolo inglese -hanno senz’altro contribuito, lungo l’intero arco del suo lunghissimo regno, a mantenere vivo nell’opinione pubblica il senso di appartenenza alla storia e alla tradizione anglicana. Anzi, è assai probabile che tale fattore abbia giocato un ruolo significativo nella tenuta della Chiesa di fronte alla crisi di cui si accenna nell’articolo.

Elisabetta non ha mai fatto mistero del proprio “filocattolicesimo”, palesato sia da rapporti di amicizia e di collaborazione significativa con esponenti di spicco della Chiesa cattolica - è il caso di Madre Teresa, la cui missione è sempre stata massicciamente sostenuta dalla famiglia reale inglese tutta, nonché di Giovanni Paolo Il, con il quale i rapporti furono sempre eccellenti - sia da gesti pubblici clamorosi, quali la storica visita ufficiale a Giovanni XXIII nel 1960, nonché l’invito, prontamente accolto, rivolto al primate cattolico Cormac Murhpy O’Connor, a predicare nel corso della funzione religiosa ufficiale tenutasi nel 2002, in occasione dei cinquant’anni di regno della sovrana.

Elisabetta Il, devotissima anche sul piano personale, ha in particolare incoraggiato l’impegno ecumenico, la formazione spirituale e la dimensione sociale da parte della Chiesa di cui è capo.

(da Vita Pastorale, Aprile 2006)

Domenica, 12 Novembre 2006 17:35

Evagrio Pontico (Franco Gioannetti)

Evagrio Pontico
di Franco Gioannetti


Scrittore ecclesiastico nato ad Ibora nel Ponto (Asia minore) circa il 356, morto nel 399. è una figura di primo piano tra i teorici della spiritualità della Chiesa antica.

Fu nominato lettore da Basilio il Grande, diacono da Gregorio di Nazianio. Esercitò il ministero della predicazione a Costantinopoli fino al 382, poi prima brevemente a Gerusalemme, poi definitivamente in Egitto si dedicò alla vita ascetica. Fu discepolo di S. Macario l’egiziano. Scrisse: l’Antirrheticus, raccolta di sentenze bibliche; il Monasthicus, raccolta di massime per anacoreti; lo Specchio per i monaci; lo Specchio per le monache; 600 Problemi gnostici, di contenuto dogmatico e morale; 67 lettere; Piccolo Trattato sulla vita monastica; Capitula XXXIII di carattere allegorico; Sentenze; De Oratione; De malignis Cogitationibus; Commentarii ai Salmi ed ai Proverbi.

È il primo monaco che abbia lasciato una notevole eredità letteraria ed è il più fecondo ed originale fra i monaci dell’Egitto. Amò esprimersi in brevi massime, talora tolte dalla Scrittura.

Nel suo pensiero e nei suoi scritti distingue la vita attiva e la vita contemplativa. La prima non è che la preparazione alla seconda, che ha il suo compimento nella contemplazione della Trinità in cui consiste la perfezione ed il più alto grado della vita spirituale. L’ascesi mira a purificare l’anima per togliere gli impedimenti alla contemplazione. La vita attiva è caratterizzata dalla pratica delle virtù disposte in quest’ordine ascendente: fede, timor di Dio, osservanza dei comandamenti, da cui derivano la continenza, la prudenza, la pazienza, la speranza; da questa viene poi l’impassibilità (apàteia) da intendersi non certo come indifferenza ma come perfetta pace e libertà dello spirito, raggiunta con la totale rinuncia e la costante mortificazione.

Frutto dell’apàteia è l’amore, che introduce alla vita contemplativa. Nel campo ascetico Evagrio dà molta importanza alla lotta contro le passioni.

Distingue nella contemplazione vari gradi il cui vertice è la pura orazione. Si tratta di una conoscenza di Dio non discorsiva, che richiede una purità maggiore che la contemplazione iniziale, così che lo spirito sia tutto “nudo”. Per essa l’uomo vede la luce della Trinità ma in una visione che è “infinita ignoranza”, perchè l’infinito non può essere compreso dall’intelletto finito.

Con l’intuizione della Trinità lo spirito intuisce se stesso, ormai purificato e splendente di bellezza. Pace e riposo accompagnano questa contemplazione che afferra l’uomo con un potere irresistibile.

Il monaco, uomo dell'Avvento
di P. D. Donato Ogliari osb

Nel descrivere il monaco come "colui che si affretta verso la patria celeste" (RB 73,8), Benedetto lo inserisce in una prospettiva escatologica. Tale prospetti-va è anche una delle caratteristiche dell'Avvento. Esso, infatti, è un tempo che, da un lato, si fonda su un “ricordo" - la venuta di Gesù nella carne e dall'altro su una "promessa futura" - la definitiva venuta del Cristo nella gloria.

Questa doppia valenza rappresenta un forte richiamo a vivere i nostri giorni tenendo lo sguardo rivolto in avanti, e ad evitare di ripiegarlo sulle nostre preoc­cupazioni quotidiane.

Nella Liturgia monastica delle Ore vi sono alcune antifone dell'Avvento che ci spronano a vivere protesi verso un futuro che si annuncia carico di salvezza. Si pensi, ad esempio, alle seguenti: "Levate capita vestra: ecce appropinquabit redemptio vestra" (Lc 21,28); "Leva Jerusalem oculos et vide potentiam regis: ecce Salvator venit solvere te a vinculo" (Levate il capo, perché la vostra libera­zione è vicina; Alza gli occhi econtempla la potenza del tuo re, o Gerusalemme: ecco, il Salvatore viene a liberarti dalle catene).

1. Il monaco: proteso verso il futuro

Su tale sfondo, il monaco è dunque invitato a vivere il periodo avventuale con lo sguardo vigile, premuroso di scrutare il presente per cercarvi le tracce di Colui che viene a visitarci e che si offre alle nostre esistenze come "sole che sorge" (Lc 1,78), giorno dopo giorno. Come il sole, infatti, non cessa di risplendere anche quando il cielo è coperto di nubi, così il Signore si rende presente in noi e in mezzo a noi ogni giorno in maniera inedita, indipendentemente dalla nostra capa­cità di scorgerlo e di accoglierlo.

Questo è il motivo per cui la dimensione escatologica che l'Avvento ripropone ogni anno con insistenza - dimensione che caratterizza dal di dentro la stessa vita monastica - si raccorda intimamente con la celebrazione del Natale. È quest'ulti­mo, infatti, che riempie e avvalora, alla luce dell'evento dell'Incarnazione, la diuturna ricerca di Dio da parte del monaco. Il suo essere "proteso in avanti" verso il futuro nel quale lo stesso Dio gli viene incontro e lo cerca, non può che nutrirsi di una fede "incarnata" nella storia, una fede che gli fa "affrettare" il passo per riconoscere, nel dipanarsi dei giorni, la visita del Signore che ci rag­giunge e ci invita ad accoglierlo nella fede e nell'amore, nella disponibilità inte­riore e nell'attiva generosità.

Come sappiamo, rispetto all'unicità dell'incarnazione e della Parusia, san Bernardo di Chiaravalle amava definire questa quotidiana visita del Signore come un medius adventus, un "avvento di mezzo", reiterato eppur sempre nuovo. Simil­mente Pietro di Blois descriveva questo avvento intermedio come un incontro che si compie nell'anima ogni qualvolta essa si apre a Dio. E se vissuto nella fede e nell'amore, tale incontro non solo va a incidere sulla "micro-storia" di chi si lascia da esso coinvolgere, ma finisce anche col ripercuotersi sulle nostre comuni­tà, sulla Chiesa e sul mondo intero.

2. Il monaco: vigile e gioioso

Nell'invitarci a vivere la tensione escatologica e l'attesa dinamica che ad essa fa riscontro, l'Avvento ci suggerisce anche alcuni atteggiamenti congeniali per accostarci proficuamente al mistero del Deus semper veniens. Tra di essi vi sono la vigilanza e la gioia, atteggiamenti che sono propri di coloro che non vogliono essere sorpresi nella notte dall'arrivo dello Sposo (cf Mt 25,1-13) o del Padrone (cf. Mc 13).

In questi due atteggiamenti è racchiuso il senso del nostro cammino. Un cam­mino da compiere con cuore "vigile" e nello stesso tempo con passo "lesto e gioioso" verso l'incontro che si spera di realizzare un giorno ma che, in qualche modo, ci è dato di anticipare quaggiù, dove la nostalgia di Dio motiva e illumina la nostra attesa.

C'è un'antifona gregoriana, tra quelle proposte per l'Avvento, che esprime bene questo aspetto così "monastico" dell'attesa vigilante e insieme dinamica. E l'antifona: "Jerusalem surge, et sta in excelso: et vide iucunditatem, quae veniet tibi a Deo tuo" (Communio - III settimana), formata da due emistichi tratti dal libro del profeta Baruc: "Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull'altura (5,5a): osserva la gioia che ti viene da Dio (4, 36b)".

In questo imperativo "sta in piedi sull'altura", possiamo leggere un'esortazio­ne rivolta al monaco affinché stia ritto, ossia perseverante in quella fede che consente di guardare alle cose di quaggiù nella prospettiva che proviene dall'alto, dal Signore stesso. E ciò anche quando sopraggiungono lo scoraggiamento e le delu­sioni, o quando le difficoltà personali e comunitari e sembrano non lasciare tregua e il futuro si profila incerto. Anche allora, quando si tocca con mano la precarietà del cammino e le emergenze che in esso affiorano, il monaco "sta in piedi", e non permette che il suo animo sia raggiunto da un senso di disfatta.

In alcuni passaggi della propria storia personale o di quella comunitaria, lo "star in piedi sull'altura" potrebbe assomigliare molto allo "stare" di Maria sul Calvario, presso la Croce di Gesù. Potrebbe, cioè, essere un forte richiamo a per­severare sotto il peso dell'incertezza.

Per il monaco questo impegno si esprime soprattutto nella generosità della preghiera e nella dedizione al lavoro, vissuto in una maniera seria e responsabile che non lasci appigli all'ozio, nemico del progresso spirituale. Ma è un impegno che prende forma e si dispiega anche nelle relazioni con gli altri nell’apertura della condivisione, al dialogo fraterno e al perdono reciproco. Solo così una comunità può riconoscere le "visite" che il Signore le rende quotidianamente e attirarsi le sue grazie.

Infine, nelle medesima antifona Jerusalem surge, ci viene anche rivolto l’invito ad "osservare la gioia che viene da Dio" o come dice il versetto 5b (a completamento del v. 5°): a guardare verso oriente ("...guarda verso oriente"), ossia a tenere gli occhi fissi su Gesù che come sole sorge per illuminare le genti (cf Lc 2,32). In Lui, e nell'esperienza della sua misericordia, che abbondantemente riversa su di noi, la gioia e l'esultanza del cuore trovano il loro accordo più vero e profondo.

3. Il monaco: afferrato dalla speranza

fruire di quella "prossimità salvifica" che è frutto dell'incarnazio­ne del Figlio di Dio nella storia, non può non far vibrare il nostro animo di una speranza sempre nuova, capace di illuminare ogni volta da capo il nostro cammino.

Se la fede ci permette di aderire cori certezza alla Verità, che è Cristo - quel Cristo al quale abbiamo detto il nostro "sì" nel battesimo e che abbiamo deciso liberamente di seguire abbracciando la vita monastica -, la speranza agisce sulla nostra volontà spronandoci a riconsegnarci a Lui ogni giorno con gioia. Una ri­consegna che ha come presupposto la certezza che in Cristo si manifesta la fedeltà a Dio e la sua azione liberatrice nei nostri confronti.

La speranza non è una virtù facoltativa, da relegare in un angolino e da rispolverare quando si ha l'acqua alla gola. Come le altre virtù teologali, anch'es­sa è saldamente radicata in Dio, ed è quindi intimamente e quotidianamente con­nessa col cammino cristiano-monastico. La speranza è quel seme foriero di vita che preme nel buio della terra in attesa di germogliare; è quella molla segreta o quella "tensione escatologica" che dà impulso alla ricerca quotidiana di Dio nelle pieghe della storia,

Eucharistia, n. 20).

Che l'Avvento sia un tempo in cui forte è il richiamo alla speranza, è illustrato anche dall'antifona Ad te levavi animam meam, tratta dal Sal 24,1-3 e posta - quasi a dargli il "La" - in apertura del periodo avventuale: "A te, Signore, elevo l'anima mia, Dio mio, in te confido: non sia confuso! Non trionfino sudi me i miei nemici! Chiunque spera in te non resti deluso". È il canto della fiducia che si dipana nell'intreccio tra speranza, da una parte, e la reale possibilità di cadere preda della confusione e della delusione dall'altra. Affinché ciò non si verifichi la speranza viene fatta propria e vissuta dal credente come un'attesa fiduciosa nella potenza salvifica del Signore, antidoto sicuro di fronte al momentaneo o apparente trionfo dei nemici, ossia del male in tutte le sue forme.

4. Il monaco: lungimirante nella pazienza

il passo, egli sa anche "attendere" quello che spera, nella consa­pevolezza che l'oggetto sperato non può essere forzatamente anticipato.

Ad esempio, è fuor di dubbio che ogni monaco nutra il profondo desiderio di vivere radicalmente la bellezza della sua vocazione, di darsi completamente al Signore seguendolo senza riserve, di spendersi perché la sua comunità si edifichi sempre di più nell'amore, nel sostegno reciproco, nella condivisione fraterna ed amicale, e perché possa risplendere come segno di comunione in un mondo lace­rato e profondamente segnato dalla logica dell'individualismo e del tornaconto. Eppure, nonostante un siffatto desiderio alberghi nel cuore di ciascun monaco, questi tocca con mano il divario esistente tra l'ideate da perseguire e la realtà del suo quotidiano. Ciò significa che se da una parte egli assume l'impegno di perse­guire l'oggetto che intravede nella speranza, dall'altra egli è anche capace di at tendere con pazienza il suo avverarsi. Il monaco, cioè, perseverando nel dono di sé alla luce di quella "sapienza interiore" che anima e sorregge la sua non si arrende di fronte alle contraddizioni della vita e non cede alle contrarietà e alle tribolazioni che potrebbero frenare il suo cammino di fede e di ricerca di Dio.

La pazienza insita nella speranza non fa dunque a pugni con essa e non le tarpa le ali, poiché non è sinonimo di arrendevolezza ma piuttosto di tenacia, una tena­cia irrorata di fiducia o - come dice I 'Apostolo - una "virtù provata" che dà spes­sore alla speranza: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza" (Rm 5,3-4).

In ultima analisi - e il tempo di Avvento è lì a ribadircelo con forza - la speran­za cristiana è sempre in grado di aprirsi un varco luminoso verso la luce del Cristo, il "sì" fedele di quel Dio che è Padre e per il quale nemmeno le tenebre "sono oscure e la notte è chiara come il giorno" (Sal 138,12).

Come la notte di Natale, appunto, quando la Luce divina si è aperta un varco e ha fatto irruzione nell'oscurità del mondo depositando nella storia umana il segno indelebile di una Presenza che non verrà mai meno.

(da Il sacro speco di S. Benedetto, 6, 2005)

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