Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
S. Agostino
di Franco Gioannetti
Vita e opere
La vita e gli scritti di Aurelio Agostino fanno un tutt’uno con la sua eredità spirituale, trasmessaci in tre fonti principali: le Confessioni (l’autobiografia di Agostino, a. 397-401); le Retractationes (la recensione delle sue opere, a. 426-427); la Vita Augustini, con il famoso Indiculum o indice dei suoi scritti (registra 1030 opere), scritto dall’amico e discepolo Possidio, tra il 431-439, utilizzando’ricordi personali e scritti conservati nella biblioteca di Ippona.
Aurelio Agostino nasce nel 354 a Tagaste (l’odierna Souk-Ahkras in Algeria), nella Numidia dell’Africa proconsolare, dal padre Patrizio, di professione “curiale” (esattore delle tasse) e di religione pagana, e dalla cristiana Monica (m. 387). Egli espleta il suo curriculum scolastico prima a Tagaste poi nella vicina Madauros, quindi per la retorica a Cartagine. Trascorre in Italia cinque anni (384-388) che gli cambiano la vita. A Roma lo aveva preceduto l’amico Alipio. Nella ex capitale dell’Impero egli inizia ad insegnare retorica continuando a frequentare i manichei ai quali si è legato a Cartagine. Questi ultimi, insieme al prefetto di Roma, Simmaco, lo aiutano ad ottenere l’insegnamento di retorica a Milano (cf Ibid. 5, 13, 23), ove Agostino da un orientamento diverso alla sua vita. Difatti, conosce il suo definitivo disincanto dal manicheismo già iniziato a Roma, il superamento dello scetticismo nella ricerca; la conversione al cristianesimo della Chiesa cattolica, maturata nel semestre trascorso a Cassiciacum nella villa di Verecondo. Adducendo motivi di salute, il giovane retore abbandona l’insegnamento. Fa ancora ritorno a Milano ma solo per iscriversi, con il nome di Agostino, tra i battezzandi della successiva Pasqua e per ricevere il battesimo dal vescovo Ambrogio (veglia Pasquale del 24 aprile del 387). Subito dopo ritorna in Africa, fermandosi un anno ad Ostia in attesa di potersi imbarcare. In quel frattempo muore sua madre Monica. È l’anno 388 ed Agostino all’età di 33 anni, ritorna a Tagaste dove soggiornerà sino al 391. La egli vive con alcuni amici e il figlio Adeodato la sua prima esperienza cristiana a guisa di filosofo cristiano che poi si verrà configurando in quella di monaco, dedicandosi allo studio delle Sacre Scritture ed inserendosi più attivamente nella realtà della Chiesa africana. Nel 391 Agostino viene chiamato dal vescovo d’Ippona, Valerio, a svolgere colà la mansione di presbitero. La nuova situazione incide profondamente nel suo dialogo con la vita, facendo maturare in lui soprattutto la stima per i valori cristiani della gente comune. Agostino è poi vescovo per ben 35 anni: ausiliare tra il 395-396, data della sua ordinazione e dal 397 (data di morte del vescovo Valerio) a pieno titolo. Egli lascia allora il suo monastero di laici, “ i servi di Dio”, che ha fatto costruire ad Ippona e, per potere disporre di una maggiore ospitalità soprattutto a favore di vescovi di passaggio per Ippona, si porta nell’episcopio che trasforma in una monastero di chierici. Agli anni dopo il 396 appartiene la maggior attività di Agostino sia come vescovo che come scrittore. A tale periodo appartengono tra l’altro le sue famose Confessioni. Gli altri scritti di Agostino,divisi per lo più in tre blocchi principali, furono legati a tre fattori principali:alla sua conversione (in particolare i Dialoghi di Cassiciacum e le Confessioni); al ministero svolto in seguito alla sua elezione a presbitero e vescovo della Chiesa d’Ippona strettamente congiunto a quello della sua predicazione (Tractatus in Ioannem, Enarrationes in psalmun o in psalmos, Sermones) – oltre cinquecento – a particolari questioni da lui approfondite. Tra le opere relative a queste ultime ricordiamo le principali. Il De Trinitate in cui Agostino propone la categoria delle relazioni per parlare del mistero trinitario; la proprietà personale dello Spirito Santo come “amore”, peso, dono, comunione, a differenza del Verbo che è immagine; il rapporto tra il ministero trinitario e la vita di grazia, basato sull’essere dell’uomo formato a immagine e somiglianza trinitaria, in particolare nella sua dimensione spirituale. Egli sintetizza tale rapporto in alcune trilogie diventate patrimonio comune, quali “mens-notitia-amor”, “memoria-intelligentia-voluntas”, ecc. Il De civitate Dei verte sulla storia temporale ed eterna dell’umanità (le due città). “Due amori – egli scrive – danno origine a due città: la città terrena il cui amore di sé giunge sino al disprezzo di Dio; la città celeste il cui amore di Dio giunge sino al disprezzo di sé”. Il De doctrina christiana tratta della chiave di lettura delle Sacre Scritture, che è costituita dall’amore di Dio e del prossimo.
Eredità spirituale
Porre in Agostino il problema della sua spiritualità significa voler cogliere il filtro unificante dei suoi scritti come del suo vissuto cristiano. Risulta, pertanto, difficile isolare in lui alcuni aspetti spirituali, chiedendosi ad esempio se il vescovo d’Ippona sia stato mistico o meno, ecc. Da parte nostra, percorrendo i suoi scritti e la sua attività in ordine storico-genetico, tenteremo di cogliere alcune coordinate che costituiscono il tessuto spirituale della sua letteratura che, allo stesso tempo, risulta una delle principali chiavi di lettura della sua opera. In lui vanno distinte, in ordine cronologico, almeno due fasi concernenti la sua spiritualità: 1. dalla conversione all’ordinazione presbiteriale (386-391); 2. dall’elezione episcopale alla morte (397-430). I cinque anni di Agostino presbitero (391-395-396) possono considerarsi di transizione tra i due periodi.
1. Fase dalla conversione al presbiterato. Le attività dell’anima. Negli anni 386-391, Agostino matura due coordinate unificanti: la prima, circa il primato di Dio; la seconda, circa l’autorità della Chiesa cattolica che è degna di fede su quanto essa afferma (Dio, Cristo, i Vangeli, ecc.). In tale ottica egli scrive ad esempio il De moribus ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum. Nel dialogo con il mondo della cultura di allora e con le contrapposizioni manichee tra fede e ragione, Agostino propone la pari considerazione delle due strade possibili di ricerca della verità:l’auctoritas e la ratio. Quanto al primato di Dio, esso costituisce l’incessante ricerca e passione di Agostino durante l’intero arco della sua esistenza. Dal punto di vista metodologico, egli ipotizza la spiritualità del dialogo quale metodo per cercare Dio. In tale contesto scrive i suoi famosi Dialoghi (Contra academicos, sulla possibilità della ricerca della verità; De beata vita, sull’oggetto dei desideri dell’uomo, che è Dio quale suo sommo bene, quindi felicità; De ordine, sul senso della storia umana e la cultura della libertà che essa è chiamata a promuovere). Vuole poi sperimentare i tentativi teorici e ascetici neoplatonici per raggiungere Dio. Ciò coincide con l’abbandono, in un primo momento, del metodo dialogico nella ricerca di Dio, per affidarsi alle forze dell’individuo. I Soliloqui registrano in tal senso un suo duplice tentativo di ricerca di Dio: tramite la virtù (il primo libro) che lo porta ad uno scoraggiamento totale, tanto da volerne abbandonare la ricerca e tramite l’intervento della ragione che lo incoraggia a tentare di cercare ancora (il secondo libro). Questi due tentativi falliti di cercare Dio conducono Agostino a rinunce più profonde per cercarlo ancora, per poter forse raggiungere il momento estatico con Dio. Egli rinuncia prima alla carriera professionale (cursus honorum), quindi al matrimonio facendo una scelta celibataria. Sposa infatti la continenza, come avevano fatto alcuni soldati che si erano ritirati dalla corte imperiale, come egli riferisce nell’ottavo libro delle Confessioni. Quel rapimento estatico tanto sognato e inseguito non costituisce, tuttavia, l’ago della sua spiritualità, anche se egli nelle Confessioni (9, 10, 23-26) narra di un momento estatico avuto ad Ostia insieme a sua madre. Egli compone, nel 391, il De vera religione e, parlando della rinascita interiore e del progresso spirituale, lo descrive ancora secondo lo schema settenario dell’attività dell’anima, benché questa volta faccia riferimento allo schema classico delle sette età dell’uomo. L’infanzia, la seconda età, la puerizia, la terza età, la gioventù (iuventus), la quarta età è la crescita adulta dell’uomo interiore che supera le difficoltà, la quinta età è lo stadio della pace e della serenità dello spirito, la sesta età è l’oblio della vita temporale, vivendo ad immagine e somiglianza di Dio; la settima età è la vita fuori del tempo e di ogni età, quella della felicità eterna. L’estasi di Agostino ad Ostia va collocata verosimilmente nella sesta età (cf Conf. 9, 10, 24). Dopo la morte della madre, Agostino ritorna alla casa paterna dedicandosi con gli amici all’otium filosofico della ricerca di Dio, in una solitudine che sa di monachesimo. Ama quel genere di vita, vi coinvolge altri amici e, nella paura di venirne distolto – racconta lui stesso - si astiene dal visitare città prive di vescovi. Dentro lo schema delle attività dell’anima che vuole ascendere a Dio, Agostino programma a Tagaste la vita dell’otium sanctum dal 388 in poi. La lettera a Nebridio ne costituisce, per così dire la teorizzazione. Ivi delinea la necessità per il saggio di vivere lontano dal mondo , esercitandosi nella virtù per rendersi simile a Dio, una situazione da lui resa con l’espressione deificari in otio. Agostino esplicita tale attività nel rendere a Dio un culto interiore dotato di “securitas” e di “tranquillitas”, descrivendolo come una donazione di Dio nei penetrali della mente “ (Ep. 10,3).La conoscenza diventa la virtù dell’anima che, esercitandosi a cercare Dio, si assimila a lui rendendo l’essere pio, “già divino”. Agostino deriva facilmente tale spiritualità dagli Oracoli filosofici di Porfirio, da lui citati nel De civitate DeiContra academicos (2,2,3) e nel De magistero (1,2) il saggio neoplatonico, che cerca Dio e lo prega e, così facendo, lo adora in penetralibus mentis, viene tradotto da Agostino nell’uomo interiore nel quale abita lo Spirito di Dio, Cristo, il maestro interiore. Le espressioni bibliche di “Spirito di Dio, Cristo” nel De vera religioneDe sermone Domini in monte del 393. In esso l’ascensione dell’anima contempla ancora sette gradi, ma si riferisce non più all’attività secondo lo schema neoplatonico o a quello delle sette età dell’uomo esteriore, bensì alle attitudini evangeliche e ai doni dello spirito Santo. Egli inizia dal primo gradino, il timore del Signore o l’umiltà cui seguono l’ascolto della Sacra Scrittura, la conoscenza di sé con la preghiera, la fortezza, l’esercizio della carità, la purificazione del cuore sino al tranquillo possesso della sapienza o della pace. Nella prima fase della spiritualità agostiniana è presente tutto il fascino greco dello spirito, della mente o dell’anima che cerca o contempla Dio e le cose oltre il sensibile, fascino che trova un riscontro esperienziale nelle attività dell’anima del cristiano nella linea del sapiente greco. (19,23). Nel prendono una forma articolata, ma sono adoperate ancora in contesto neoplatonico. Egli scrive infatti: “Non uscire fuori di te, rientra in te stesso, perché la verità abita nell’uomo interiore”. Egli parla della redenzione di Cristo nei seguenti termini”(Il Verbo) si è fatto esteriore nella carne per richiamarci dall’esteriorità all’anteriorità, perché lui solo è il vero maestro interiore, essendo lui stesso la verità”. La visione dell’uomo spirituale e biblico anche riguardo al linguaggio, inizia in Agostino con il
2. Fase 391-430 (dal presbiterato alla morte). La spiritualità dell’amore. Le opere e il passaggio alla seconda fase di maturazione del pensiero spirituale di Agostino sono date dal De vera religione del 391 e dall’Ep. 10 a Nebridio in relazione alle attività dell’anima; dal De sermone Domini in monte e dal De fide et operibus del 393 in relazione allo Spirito Santo, principio della vita spirituale. L’insistenza sulle attività dell’anima, prima in versione neoplatonica e poi in quella cristiana dello Spirito Santo, quale principio che santifica e pacifica l’anima, ha come interlocutori prima i manichei e poi i donatisti. Nella polemica donatista Agostino recupera il dono dello Spirito Santo santificatore non come principio in sé, bensì come dono dell’unico mediatore Gesù Cristo, causa e mediazione di ogni santificazione e di vita spirituale.
Agostino divenuto presbitero nel 391, percepisce la non accorta azione pastorale sacramentale dei donatisti la quale, ancorata ad una insufficiente teologia dello Spirito Santo, ha diviso la Chiesa africana in donatisti e cattolici. Egli inizia d’allora a percepire in modo diverso la Bibbia quale fonte della fede e della spiritualità cristiana. Ne individua il messaggio essenziale e ad esso adegua la sua visione spirituale, che risulta nuova rispetto a quella della prima fase dei suoi scritti (sino al 391). Agostino recepisce la sostanza evangelica della rivelazione biblica come carità di Dio e del prossimo. Essa pertanto va ricercata nella Bibbia quale: rivelazione divina, dono dello Spirito Santo diffuso nel cuore dei credenti, chiave ermeneutica delle Scritture, impegno da vivere in ogni stato di vita anche in monastero, sostanza di ogni progresso spirituale. La spiritualità della ricerca di Dio, come attività progressiva dell’anima, viene quindi ripensata dall’Ipponate come amore (carità) nel triplice ambito dell’esistenza del credente, vale a dire personale, ecclesiale e sociale. Egli articola così la spiritualità personale nell’esercizio costante della carità di Dio e del prossimo (il motivo per cui si entra anche in monastero); la spiritualità ecclesiale come comunione tra i battezzati non solo a livello sacramentale e delle comuni divine Scritture, ma anche a livello di condivisione quotidiana dell’eredità cristiana nel vivere l’unità e la pace della Chiesa. In caso contrario si tratterebbe solo di un’appropriazione di parte, come avviene nel caso di eretici e scismatici, e la mancanza della carità priverebbe di effetto salutare qualsiasi realtà cristiana. Gli stessi monasteri di Agostino vengono impiantati non tanto sugli sforzi ascetici del corpo, quanto sull’ascetica continuativa della dilectio di Dio e del prossimo. Agostino spinge il principio della carità sin nel sociale; è sua, infatti i, l’espressione amor socialis che, nei suoi Sermoni, nel Commento ai Salmi e nella Città di Dio, trova vasta applicazione. Del dono della carità, diffuso nel cuore dallo Spirito Santo, Agostino recepisce un po’ alla volta tutta la sua portata nella vita dell’uomo redento. Essa infatti, essendo nell’uomo principio di ogni bene, lo è anche del suo essere spirituale. L’uomo spirituale tuttavia, è in redenzione continua, lo Spirito Santo, perciò, lo santifica, ma non sino ad eliminare in lui, nel tempo della storia, tutta la carnalità di cui parla l’apostolo Paolo. In tale ottica, Agostino attribuisce, all’inizio dell’esercizio del suo episcopato (397), l’affermazione dell’apostolo lex spiritalis est, ego autem carnalis sum (cf Rm 7,14), non solo all’uomo soggetto alla legge mosaica, ma allo stesso uomo redento dalla grazia di Cristo.
Agostino riflette poi in profondità sulla concezione cristiana dell’uomo spirituale. Egli dedica all’argomento l’opera De perfectione iustitiae hominis nella quale, assieme ad altre opere del medesimo periodo riguardanti il rapporto della grazia con la libertà, esplicita un concetto fondamentale. L’uomo spirituale è l’uomo redento che, tuttavia, resta sempre assoggettato alla legge della concupiscenza. Egli, perciò, dovrà invocare ogni giorno l’aiuto divino e il suo perdono, secondo l’insegnamento della preghiera del Signore che chiede per tutti “rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6, 12). Il dominio assoluto dello spirito sulla carne si avrà solo con la risurrezione, quando il corpo corruttibile si sarà vestito d’immortalità. La vita spirituale ha il suo inizio nel germe di vita divina ricevuta del battesimo; la sua crescita contempla la lotta quotidiana contro ogni concupiscenza, in particolare la superbia, cui vanno contrapposte l’umiltà, la fede, la preghiera, la carità. I peccati commessi per errore, ignoranza e debolezza o imperfezioni che, nel De sermone Domini in monte, sono
considerati peccati della vita presente.
L’uomo spirituale, creando la propria dimensione spirituale in costante riferimento alla carità, si pone al servizio dell’evangelizzazione della Chiesa. In tale ambito di carità evangelizzante, Agostino comprende particolarmente quanti scelgono di vivere nei suoi monasteri (i “ servi di Dio “, gli “spirituali “ a disposizione della missione evangelizzatrice della Chiesa). Parla, infatti, della loro spiritalis dilectio (Regula 6,43), definendoli spiritalis pulchritudinis amatores (Ibid.8,48) dove lo spiritalis non si oppone al materiale, ma connota ciò che nasce dalla carità. Nei Tractatus sul Vangelo di Giovanni (in particolare Tr.98 e 120) Agostino offre una sintesi dell’insieme in relazione al Verbo incarnato, Redentore degli uomini, quale filtro spirituale nel fronteggiare il vissuto quotidiano. Quanto al riferimento a Cristo, il Verbo incarnato è cibo dell’uomo spirituale come di coloro che iniziano a credere, che l’apostolo Paolo qualifica come i “piccoli” (cf In Io. Ev. 98, 6). Nel Tractatus in Io. Ev. 120Agostino, riprendendo l’immagine del Cristo crocifisso, raccoglie sotto la croce tutti i battezzati, i piccoli e gli spirituali, ponendoli in relazione all’intera umanità. Essi, infatti, dopo che, salendo la croce, passano attraverso il costato aperto del Crocifisso, ne ridiscendono unificati divenendo Chiesa, inseriti così nel suo ministero di incoraggiare l’umanità delle generazioni che si susseguono a salire anch’esse la croce perchè, purificandosi nel cuore trafitto del Salvatore, diventino “Chiesa”. Nella Chiesa di Cristo, pertanto, c’è chi arriva prima e chi arriva dopo, ma comune è il servizio da rendere all’umanità costituendo, tra cristiani e non cristiani un unico essenziale rapporto, quello di incoraggiarsi a lasciarsi unificare dall’unico Redetentore dell’umanità, il Signore crocifisso. Nella capacità-dono consiste, per Agostino la vita spirituale con ogni sua possibile crescita. Si diventa spirituali per mezzo della carità, diffusa nel cuore dallo Spirito Santo. Per Agostino conosce Dio e l’uomo, non chi ne fa oggetto di studio, ma chi li ama. Non si può amare ciò che s’ignora del tutto ma, quando si ama ciò che in qualche modo si conosce, grazie a tale amore si riesce a conoscerlo meglio e più in profondità. L’amore, dunque, a una forza unitiva e conoscitiva per assimilazione. La crescita spirituale è quindi relazionato alla carità dalla nascita al suo compimento.
L’uomo spirituale, modellato su Cristo, porta in sé l’immagine dell’uomo celeste; a lui tuttavia sono necessarie, allo stesso modo che al neofita, la fede, la speranza, il lottare e la preghiera per il perdono quotidiano finché si vive nel corpo. Costituisce pertanto l’uomo spirituale non la scienza, ma la carità, che lo spinge ad uscire dal suo deificari in otio per la missione della Chiesa.
Agostino indica un’articolazione particolare della spiritualità della carità nella trilogia semantica di “cuore-misericordia-amicizia”.
L’espressione antropologica di “cuore”, che allora connotava l’uomo concretamente orientato quanto al suo destino, la esplicita nelle categorie di libertà e di grazia; di misericordia e di amicizia. Il cor è la risultanza base dell’incontro tra il libero arbitrio dell’uomo e la grazia di Dio. Il termine “misericordia” appartiene a sua volta alla famiglia semantica di cor (da urere = bruciare la miseria), e l’oculus cordis diventa la capacità propria dell’uomo spirituale. L’oculus cordis affonda le sue radici nei recessi del cuore, che genera il desiderio, l’anima “del vedere del cuore”. Per l’oculus cordis, d’altra parte, “attingendo Dio”, in proporzione del distendersi del desiderio, diventa importante il come nutrirlo. Agostino, evitando di proposito di far leva sull’ascetica del corpo, soggetta di per sé a troppe ambiguità, insiste sugli auxilia comuni a tutti, vale a dire: le divine Scritture, l’assemblea del popolo di Dio, la celebrazione dei misteri, il santo battesimo, il canto delle lodi di Dio, la predicazione, proponendo ancora una volta la vita spirituale come un bene comune. Se la misericordia è l’atto iniziale necessario per il rapportarsi di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro, l’amicizia ne è il frutto, la conseguenza possibile e inoltre necessaria per vivere la vita umana che è comunicazione interpersonale. Prescindendo dall’amicizia, i rapporti umani verrebbero mediati non dalla realtà delle persone quali esse sono, bensì dall’idea che reciprocamente esse si fanno le une delle altre, cioè a livello di fantasmi, come si esprime Agostino. L’amicizia, infatti, fa sì che i cuori s’incontrino ed appartiene alla categoria dei beni comuni o di tutti. Ogni essere umano, perciò, va educato alla capacità di amicizia e va messo in condizione di poterne usufruire, ponendo Cristo a suo fondamento perché possa essere duratura.
L’Agostino credente intravede che Dio porta in sé il segreto del mistero dell’uomo, che anzi proprio nel suo cor ha la sua dimora. Dio, infatti, con la sua presenza risana il cuore contrito, accoglie come offerta gradita il cuore umile e l’uomo “ritrova quel Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere”. (Sol. 1, 1, 3). In Cristo le due vie, quella di Dio e quella dell’uomo, s’incontrano, perciò lui è la via, la verità e la vita dell’uomo. Agostino chiama pertanto Dio e Cristo col nome di “misericordia”.
“Questa terra ha un padrone”
di Marcelo Barros
Fu il grido di battaglia di Sepé Tiaraja, leader della resistenza guaranì contro l’imperialismo portoghese. Oggi è ripetuto dalle comunità indios latino-americane che lottano per la propria terra e scorgono in “São Sepè” un modello cui ispirarsi.
Per le comunità cristiane e per i gruppi popolari del Brasile, il mese di febbraio 2006 segna il 250° anniversario del martirio di Sepé Tiaraja, un cacicco guaranì che, nel secolo 18°, guidò il popolo indio nella difesa delle proprie terre ancestrali e nella lotta di resistenza contro il Portogallo e la Spagna.
Nella realtà attuale del Brasile, i contadini senza terra, i gruppi indigeni e i movimenti popolari celebrano questa memoria per riappropriarsi di quella stessa ‘”mistica di liberazione” che oggi mobilizza tutta l’America Latina, a partire dal concetto di “rivoluzione bolivariana” (dal generale venezuelano Simòn Bolivar, che nel 1813 liberò il Venezuela dagli spagnoli).
Il significato di ”guaranì” (termine che designa sia la lingua che il popolo) è “guerriero”. Dal 1610 al 1750, i gesuiti riunirono queste popolazioni guerriere in comunità pacifiche e fiorenti (le famose “riduzioni”, fondate presso i guaranì, specialmente tra i fiumi Paranà e Uruguay, e dal 1628 anche tra i tapi, sull’altra riva dell’Uruguay; al loro apogeo, nel 1731, le riduzioni del Paraguay contavano 141mila indios cristiani). I guaranì misero a frutto le proprie energie per edificare case e consolidare tecniche agricole (molto avanzate per quell’epoca). Arrivarono al punto di stampare libri, fondere il bronzo, fabbricare violini e comporre musica.
La cosiddetta “Repubblica dei guaranì” era formata da sette popolazioni del Rio Grande do Sul e da 26 villaggi nel territorio che oggi appartiene all’Argentina e al Paraguay. La pace che regnava nelle riduzioni trovava il suo fondamento nel lavoro comunitario e cooperativo, i cui frutti venivano equamente suddivisi tra gli abitanti. Contrariamente a quanto accadeva nel resto del continente, non c’erano marcate disuguaglianze sociali.
Si trattava, insomma, di un sistema sociale mai praticato prima di allora, ma elogiato prima dagli illuministi francesi (Voltaire, intellettuale francese dall’ingegno caustico e spregiudicato ed estremamente critico nel confronti del clero, ebbe a scrivere: «L’esperienza cristiana delle missioni guaranì rappresenta un vero trionfo dell’umanità») e poi anche da Gandhi, che lo considerava la realizzazione utopica di una società nonviolenta ed equa. (I resti di queste riduzioni sono ancora presenti nella foresta e considerate dall’Unesco patrimonio dell’umanità).
Questa esperienza comunitaria, dai marcati caratteri socialistici, preoccupò non poco gli imperi coloniali. Con la firma del trattato di Madrid del 1750, in base al quale le missioni della riva orientale del fiume Uruguay passarono sotto la giurisdizione portoghese (che si opponeva all’esperimento), cominciò la decadenza delle riduzioni. Subito dopo, gli eserciti coloniali dei due imperi si unirono per espellere oltre 50mila indios dalle riduzioni, obbligandoli ad abbandonare le case, le piantagioni, le chiese e le loro comunità.
José Tiaraju - più conosciuto come Sepé, cioè “Raggio di Luce” -, corregedor (sindaco, potestà, prefetto) della riduzione di São Miguel, democraticamente eletto dagli indios, non accettò le decisioni del trattato di Madrid e si mise a capo della resistenza guaranì, con il noto “grido di battaglia”: «Questa terra ha un padrone».
Il grande cacicco guaranì morì in uno scontro armato con le truppe portoghesi e spagnole: era il 7 febbraio 1756. Dopo altre battaglie, sia politiche che armate, la Compagnia di Gesù fu espulsa dai territori portoghesi (1759) e dalla zona d’influenza spagnola (1767).
Le ultime riduzioni guaranì sopravvissero di poco. Il sogno missionario di una società comunitaria cristiana fu fatto fallire. Ma la gente del sud del Brasile non ha mai dimenticato Sepé Tiaraju: lo ha anzi “canonizzato”, giungendo a dedicargli una città, São Sepé, nel 1876.
La speranza dei movimenti popolari latino-americani odierni è che la memoria del martirio di “São Sepé” torni a riaccendere la mistica-spiritualità della lotta popolare. In Bolivia, un indio aymara è stato eletto presidente. In Venezuela, il popolo sta vivendo l’esperienza di una riforma agraria e di una campagna massiccia di alfabetizzazione degli adulti. In Ecuador, il Coordinamento dei movimenti e delle comunità indigene (Conaie) sta donando agli indios un protagonismo politico che non hanno mai avuto prima. In tutti i paesi del subcontinenre, i popoli indios, come pure le comunità rurali e urbane, si stanno unendo per gridare a tutti che «un altro mondo è possibile» e per ripetere agli imperi di oggi il grido con cui São Sepé affrontava i portoghesi: «Stop! Questa terra ha un padrone!».
(da Nigrizia, febbraio 2006)Siate svegli!
di Giovanni Vannucci
Gesù disse: «Abbiate gli occhi aperti, siate svegli! La venuta del Figlio dell’Uomo non vi trovi addormentati» (Mc 13, 35).
Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha avuto la sua perfetta manifestazione in Gesù Cristo; il Figlio dell’Uomo viene continuamente, nella silenziosa ascesa di ogni coscienza nella verità e nella grandezza dell’uomo. Ascesa che rivela l’inconsistenza, la presunzione, la mancanza di saggezza di tante nostre limitazioni. Siamo noi cristiani? Per rispondere non guardiamo i registri di battesimo, le idee religiose, le pratiche devote; interroghiamo la nostra ascesa nella verità di figli dell’Uomo e di figli di Dio.
Il sussiego che caratterizza troppo spesso la nostra professione di fede cristiana è un impedimento alla nascita in noi dell’Uomo vero, figlio della terra e del cielo. L’Uomo vero è in cammino, ed è la silenziosa incarnazione della Parola eterna nell’umana coscienza, la non violenta, tenace come la forza della vita, regale presa di possesso degli uomini che le appartengono per quelle qualità che non sono di questo mondo, ma del mondo futuro, del tempo nuovo. «Verranno dall’Oriente e dall’Occidente uomini silenziosi e illuminati, che non appartengono alle ufficiali file dei cristiani, e prenderanno il loro posto».
Gesù è venuto a portare il tempo nuovo, tempo equinoziale per tutta l’umanità. Come l’equinozio separa la stagione, cosi il tempo nuovo portato da Gesù separa la pesantezza della carne dell’uomo dalla santità della sua natura spirituale. Come il gallo del mattino, Egli chiama i dormienti; quelli che si sveglieranno e che sapranno restare svegli, saranno la sua eredità; coloro che terranno chiusi gli occhi, che entreranno dormendo nel tempo nuovo, resteranno eredità della bestia che è in loro.
Egli fu innalzato per essere un segnale alle genti perché il suo grido venisse udito da tutti i dormienti.
Siate svegli! È il segreto della potenza e della vittoria umana. Siamo convinti di essere svegli, in realtà dormiamo un sonno profondo e siamo tormentati da sogni di incubo. Con fili di sogni ci siamo costruiti una rete ove siamo rimasti impigliati, più ci impigliamo e più ci addormentiamo, e più ci addormentiamo, più l’elemento bruto della nostra natura si risveglia. E così, ottusi, indifferenti al bene, incapaci di pensare autonomamente, molti di noi vanno per le strade della vita come mandrie verso l’ammazzatoio; altri, sognando e agitandosi nel sogno, credono di essere svegli, in realtà dormono ancora più profondamente, posseduti più profondamente dal torpore, e questi non sono affatto i poeti, i contemplativi, i dotati d’immaginazione creatrice, sono invece gli attivi, gli zelanti, i costruttori, gli iniziatori di movimenti di massa, i dominatori di popoli, i vari messia bruciati e distrutti dalla mania di agire; quelli che han sempre da fare, gli agitati. Pensano di essere svegli, di sapere quel che fanno, di volere ciò che vogliono, in realtà il sogno è il loro padrone, non essi i padroni del sogno.
Essere svegli significa partecipare con pensiero cosciente e vigile a ogni istante della vita, per avvertire i segni che vengono dall’alto e dal profondo, dalle dottrine stabilite e dalle coscienze viventi che tali dottrine sentono ormai legate a un passato che più non è per l’uomo. C’è il tempo dell’apparizione delle gemme e il tempo della fioritura, il tempo della fruttificazione e quello del ritorno del germe in seno aIla terra, per poi risorgere alla vita. E ogni tempo ha la sua parola e il suo annuncio; quando è l’ora dell’interramento, il rimpianto e la nostalgia dei fiori e dei frutti non hanno più senso, sono sogni dell’uomo che non è sveglio.
Essere svegli è l’atteggiamento richiesto a ogni coscienza lungo le tappe che costeggiano il cammino della Rivelazione, che ascende trascinando con se le anime vigilanti. Per noi, creature umane, il mistero religioso vien celebrato nell’essere svegli; dobbiamo imparare a passare da un risveglio all’altro, se vogliamo vincere la morte. La morte s’inizia a vincere superando il torpore, il sonno, il sogno. Il primo passo è vincere il primo nemico, il corpo, con le sue esigenze di vita comoda e protetta, di ricerca di beni confortevoli e di mura calde e protettrici; il secondo è l’anima con le sue richieste di essere stimata e applaudita, amata e considerata; il terzo è la ragione concreta, quella che da l’illusione della veglia, che identifica le sue conoscenze con la sapienza divina, i suoi piani con i valori divini, le sue ideologie con i pensieri divini. La vittoria sul primo dischiude il pensiero cosciente; quella sul secondo apre il dono del discernimento del proprio personale compito; quella sul terzo ci offre la grandezza dell’umiltà. La consegna evangelica a chiunque lotti per essere sveglio è di gettare allo sbaraglio la propria vita, la propria anima, per possederla.
Lo stato di veglia è la cosciente apertura mentale al mistero divino infinitamente lontano da noi, ma che ci avvolge dentro di sé, ed è in noi più assai che il battito del nostro cuore. Sempre avanti alla sua creazione, che guida alla perfetta fioritura di tutti i germi di vita che instancabilmente vi dissemina.
Essere svegli vuoi dire aver raggiunto l’apertura dell’occhio interiore che scorge il cammino di Dio nel creato e spinge tutto l’essere umano a seguirlo. Nello stato di vigilanza il corpo viene mutato nello spirito; il cuore si spoglia dalla cupidigia di prendere e di ricevere e si dischiude nella qualità divina del dare senza misura, senza tornaconto, senza bramosia di premio; la mente comprende i limiti, le angustie delle proprie visioni e con umiltà si offre alla vastità del pensiero di Dio.
Il tempo nuovo avvolge l’uomo vigilante, e attraverso di lui si rivela Colui che è venuto e che verrà sempre, nelle coscienze che aprono gli occhi al suo eterno ritorno.
(da Giovanni Vannucci, Siate svegli, 1a domenica d’Avvento - Anno B; in Verso la luce, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 11-14).
Le Chiese dell'oriente cristiano
XI. Il Patriarcato di Gerusalemme
di P. John Nellykullen
Data l’associazione con la vita di Gesù e con la comunità dei suoi primi discepoli, Gerusalememe è sempre stata di grande importanza per i cristiani. Data la grande accoglienza che la fede cristiana ha avuto nell’impero Romano, anche il prestigio di Gerusalemme è cresciuto in relazione. L’imperatore Costantino , che era molto favorevole al cristianesimo, fece costruire nel IV secolo delle magnifiche Basiliche nei luoghi sacri della Città Santa. La vita monastica giunse in Palestina immediatemente dopo la fondazione della prima communità in Egitto ed i monasteri hanno prosperato nella regione, specialmente nel deserto tra Gerusalemme ed il Mar Morto.
Nel 451 il Concilio di Calcedonia decise di elevare la Chiesa di Gerusalemme al rango di Patriarcato. Per questo motivo, tre provincie ecclesiastiche con 60 diocesi furono distaccate dal Patriarcato di Antiochia, cui avevano appartenuto fino ad allora. Sotto il dominio Greco-Bizantino, Gerusalemme continuò a crescere a causa dei numerosi pellegrinaggi verso“La Chiesa Madre”. Le invasioni dei Persiani nel 614 e degli Arabi nel 637 portarono questa prosperità verso la fine . Tante chiese e tanti monasteri furono distrutti. Una gran parte della popolazione si convertì all’Islam.
Nel 1099, i crociati presero Gerusalemme ed istituirono un Regno Latino che sarebbe durato un secolo. Durante questo periodo Roma creò un patriarcato latino in Gerusalemme. La linea dei patriarchi Greci continuò in esilio, di solito risiedendo in Constantinopoli. I patriarchi Greci tornarono poi alla loro residenza di Gerusalemme dopo la caduta del regno dei crociati.
Gerusalemme cadde in mano ai Turchi Selgiuchidi nel1187. Ma fu poi conquistata dai Mamelucchi Egiziani. I Turchi Ottomani ebbero il controllo della città nel 1516. Durante i 400 anni del dominio degli Ottomani vi furono molti conflitti tra i gruppi cristiani per il possesso dei Luoghi Santi. Nella metà del 19 secolo i Turchi confermarono il controllo greco su molti di questi luoghi. Questa situazione continuò senza cambiamenti durante il mandato della Gran Bretagna, iniziato nel 1917, e anche durante le amminastrazioni Giordana e Israeliana.
Il Patriarcato è governato da un Santo Sinodo presieduto dal Patriarca. I membri di questo Sinodo sono membri del clero nominati dal patriarca. Il loro numero non deve essere superiore ai diciotto, esiste inoltre un concilio misto che permette la partecipazione laica nel processo di presa delle decisioni da parte del patricato.
Il fatto che la gerarchia del patriarcato sia greca mentre i fedeli sono Arabi è stato occasione di contese anche in tempi recentissimi. Dal 1534 tutti i Patriarchi di Gerusalemme sono Greci, Adesso il Patriarca e i vescovi sono presi dalla Fraternità del Santo Sepolcro, una comunità monastica esistente in Gerusalemme fondata nel 16mo secolo. Essa ha 90 membri greci e 4 arabi. Il clero sposato proviene dalla popolazione araba locale. Quindi la liturgia Bizantina è celebrata in greco nei monasteri ed in arabo nelle parrocchie.
Le tensioni esistenti da lungo tempo, risultato di questa situazione, sono venute ancora una volta alla luce nel maggio 1992 per iniziativa del Comitato ortosio arabo per spingere verso l’arabizzazione del Patriarcato come unico modo di preservare un’autentica testimonianza ortodossa in questa regione. In quest’ultimo tempo nuove forti contestazioni sono nate dal problema dell’alienazione di proprietà ecclesiastiche, avvenuta a giudizio dei fedeli in modo ambiguo e lesivo del bene della Patriarcato e si è avanzata la richiesta che tutte le attività finanziarie del Patriarcato avessero carattere publico. Un’accusa è stata rivolta alla gerarchia greca e cioè quella di non avere veramente a cuore il bene della communità ortodossa araba, fatto reso evidente dalla costatazione che le scuole del patriarcato da 6 del 1967 si erano ridotte a tre nel 1994
Le tensioni e le contestazioni sono andate crescendo con le accuse al Patriarca di malversazione economica, di accordi e facilitazioni immobiliari segrete fatte al governo israeliano fino a che nel 1995, dopo gravi conflitti, il Patriarca Ecumenico con il suo Sinodo hanno deposto il Patriarca in carica sotituiendolo con l’attuale Theophilos III
Il patriarcato di Gerusalemme ha preso posizioni negative verso il movimento ecumenico. Nel 1989 ha ritirato i suoi delegati dai tutti i dialoghi teologici bilaterali in cui la Chiesa ortodossa era impegnato. Il Patriarca ha dichiarato che altri cristiani usavano i dialogi come mezzi per il proselitismo. Poiché la chiesa ortodossa ha già il possesso della pienezza della verità cristiana, ella non ha alcun bisogno di partecipare a tali discussioni.
Comunque, il patriarcato di Gerusalemme continua per far parte delle attività del del Concilio Mondiale delle Chiese e il Concilio delle Chiese in Medio Oriente. Il Patriarca Diodoros, predecessore del patriarca deposto Irinaios ha sottoscritto volontariamente nel 1993 la dichiarazione comune di responsabili delle Chiese locali, specialmente riguardo alla situazione dei cristiani della Terra Santa
Queste iniziative ecumeniche locali hanno preparato la strada alla stesura di un memorandum comune “Il significato dei cristiani di Gerusalemme”, che è stato sottoscritto dai Patriarchi e dai Capi di tutte le Chiese tradizionali presenti in Gerusalemme, il 23 Novembre 1994.Da questo periodo, i capi delle Chiese si radunano in ogni due mesi nel patriarcato Greco ortodosso sotto la presidenza del Patriarca in carica.
TERRITORIO: Israele, Giordania e Territori sottoposti al controllo dell’Autortà Palestinese
GUIDA: Theophilos III
TITOLO: Patriarca Greco-Ortodosso di Gerusalemme
SEDE: Gerusalemme
MEMBRI: 130.000
A questo punto è possibile e doveroso, nella nostra riflessione, confrontarci col dato biblico. Si tratta di un capitolo ben noto e ampiamente studiato, ma i testi biblici veramente rilevanti sono proprio molto pochi, e tutti a mio parere di non immediata interpretazione.
La rivelazione della misericordia di Dio come bontà benevola e costante, come amore fedele e forte, a dispetto delle debolezze dell'uomo, manifesta a questi il vero volto del Padre, capace di pazientare e pronto a perdonare...
Rinnegare se stessi
di Matta el Meskin
Il monachesimo è la via della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi. Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il monaco l'arena in cui si sottopone alla morte a se stesso. Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere in Cristo, le porte dell'Amore divino si spalancano davanti a lui. Quando l'amore divino s'accende nel suo cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la comunità monastica è diventata per voi un luogo di amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della vostra chiamata e la nuova vita. "Il nostro unico compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest'amore". Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte agli ordini delle vostre guide, agli errori dell'anziano e ai peccati del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra vocazione e ridiventare monaci da capo.
La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare a se stessi e dall'abbandono pronto, spontaneo e senza esitazione della propria volontà. Questa era la via seguita dai Padri nell'istruire i novizi. Dalla vita di Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale gli insegnò a dire: "Sì", "Volentieri" e "Ho peccato", tutte espressioni piene di significato. Alcuni Padri avevano l'abitudine di dare ai loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è più importante del successo in un qualsiasi compito.
Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita, sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli elementi che aiutano la graduale distruzione della volontà propria e delle passioni – come il sopportare l'ingiustizia, le offese e lo scherno, la noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che incontri nella vita – proprio questi elementi accendono l'amore divino e ne alimentano il fuoco. Le porte dell'amore divino sono spalancate per il monaco che vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce la forza dell'amore, perché il Signore si rivela solo nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui totalmente e completamente. "Se uno vuol essere mio discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mc 8,34).
Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il dio dell'uomo naturale è il suo proprio io; quest'uomo è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri desideri. Di conseguenza quando si intraprende la vita monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo. Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua persona.
Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei confronti del proprio io; vi può essere un'autentica lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo là dove c'è l'odio di se stessi, cioè l'odio della volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le abitudini e le gioie dell'ingannevole schiavitù di questo mondo.
Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall'inizio alla fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale, non apparente; esiste infatti una morte parziale che inganna e una morte esteriore che è falsa.
Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di morte del proprio io, perché l'io è pieno di tranelli e inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì che la morte si presenti come illusione o come forma esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al posto di quest'ultimo. Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il petto!
L'io è davvero morto quando accetta la propria morte apertamente e segretamente. Questa condizione è chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna volontà propria, ha abbandonato ogni polemica, ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello, inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera; non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per il suo bene e la sua edificazione. Tutto questo diventa naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare la divina verità che egli sta avanzando saldamente e sicuramente lungo la via della morte a se stesso.
D'altra parte, se l'io rifiuta di sperimentare segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo sulla strada dell'auto-rinnegamento, così da sembrare morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri, ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.
1. Il primo falso sentiero è quello che potremmo chiamare il grande inganno. In questo stato l'io, apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre in inganno il suo "padrone" nel compimento meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell'incitarlo a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato che non è morto, gli è impossibile prestare culto a Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono considerevolmente.
Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l'anima infatti è completamente asservita, crede di rendere culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al proprio io.
Abbiamo chiamato questo sentiero "il grande inganno", proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell'illusione di rendere culto a Dio, illusione creata dall'inganno del proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se prende atto delle tante specie di peccati segreti che commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo essere l'opera di un uomo veramente morto a se stesso e che vive nell'amore divino, formando un solo spirito con Cristo.
2. Il secondo falso sentiero può essere chiamato l'inganno esplicito. Qui l'io non può convincere il suo "padrone" a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori, ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti. Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata, in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se stessa, è consapevole delle proprie infamie e accondiscende all'inganno di fronte agli altri. Qui l'io inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e morto al mondo, ma non inganna il suo "padrone".
Questo è il motivo per cui l'abbiamo chiamato il sentiero dell'inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato il primo "il grande inganno", dato che in quel sentiero l'io inganna anche il suo "padrone".
In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell'io che rifiuta di morire per volontà propria è quello di venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto di se stessi e un'usurpazione del diritto esclusivo di Cristo alla gloria e all'onore.
3. Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore manifesto. Qui l'io non può convincere l'individuo a intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l'io preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto, lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l'io non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno dell'adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di tutti i diritti che l'uomo è tenuto a riconoscergli. Qui il rifiuto dell'amore di Cristo e la rinuncia ai nostri obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e aperti. L'io qui è smascherato davanti a se stesso e a tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del maligno.
"Le vostre parole sono state dure contro di me – dice il Signore –. Ora voi dite: «Come abbiamo parlato contro di te?». Avete detto: «È inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti? D'ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e li ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi saranno miei – dice il Signore degli eserciti – mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra il giusto e l'empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve" (Mal 3, 13-18).
Nella vocazione monastica non c'è quindi possibilità di scelta tra il morire o il non morire a noi stessi: infatti o c'è la morte a se stessi, oppure c'è il fallimento completo nella vita monastica, che terminerà con la condanna e l'inimicizia da parte di Dio. O moriamo a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, mentre il suo amore arde in noi finché raggiungiamo il cielo; oppure non moriamo a noi stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io, onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a onore dell'io, facendo cosi allontanare per sempre il vero Cristo dall'anima. Verrà allora il giorno in cui il monaco si renderà conto di aver invano faticato nella sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non era altro che il proprio io, che adorava e al quale rendeva culto.
L'autentico monachesimo è la pratica della morte radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le strade che conducono al proprio io, così che non possa mai più risorgere e rivivere.
Se la morte a se stessi fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe impossibile da realizzare, perché l'io è più forte della ragione e della volontà e le pone a suo servizio. Inoltre l'io coincide con l'uomo stesso quando questi lascia via libera agli istinti naturali.
Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un processo compensativo: come prima cosa riceviamo in anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa forza è la forza della croce, cioè della morte volontaria a se stessi. È una grande forza mistica, che Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise come un libero dono di grazia. Così per essa noi sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa dell'amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due elementi di supporto: la forza della croce, per far morire l'io facilmente, e la pregustazione della vita eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci nel faticoso processo della morte dell'io. La morte a se stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo. Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore la morte a noi stessi?
Nessuno pensi che il processo della morte dell'io sia complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può essere! È estremamente semplice, non è altro che la determinazione della persona di affidare l'intera sua vita in ogni particolare, il passato insieme al presente e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo, rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un bambino affida con amore al padre quanto di più caro possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora migliore. Consegnamo a Cristo il nostro "io" impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e al loro posto riceviamo l'Io stesso e la vita di Cristo, mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa volontà.
Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi! Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso tutto: l'io è, per così dire, tutto ciò che appartiene all'uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece di doverglisi sottoporre – prima o poi – contro la propria volontà.
L'io che non è morto chiede sempre di essere innalzato al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve anche della carità, dell'offerta di doni, della cortesia, dell'adulazione e della difesa degli oppressi in modo da distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l'io le dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da apparire più virtuoso di loro.
Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente. Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la gratificazione personale, l'essere onorati e rispettati dalla gente.
L'io che non è morto cerca sempre di evitare le occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la sua debolezza. Si trattiene perciò dall'accostarsi a tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la mancanza di esperienza, l'inadeguatezza dei fratelli o la malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e non lasciar trasparire i propri difetti.
Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l'occasione di purificare le vostre infermità, anche se sono all'inizio; chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per sempre di mezzo l'orgoglio. Chi invece nasconde i propri difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò subire la vergogna in questa vita che non nell'altra, davanti agli angeli e ai santi!
L'io che non è morto non può sopportare di essere disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito. Se lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da un padre, da un fratello, da un superiore o da un inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l'amore di Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore. L'uomo infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo ed è morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto, scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera ardentemente.
L'io che non è morto non può sopportare di ricevere ordini o direttive da uno che gli è inferiore per cultura, età o stato; questo infatti gli sembra un attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo rango. L'uomo il cui io è morto, invece, si considera all'ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né posizione sociale.
L'io che non è realmente morto a se stesso trova da un lato molto facile scegliere per sé l'ultimo posto, ma, d'altro lato, non può sopportare che altri gli assegnino un posto appena inferiore a quello che lui considera come la sua giusta posizione.
Questo io vive palesemente in modo conforme a un falso vangelo: per lui infatti l'adempimento del comandamento sta nel servire i propri interessi e non nell'obbedienza ai comandamenti di Cristo.
Ricordate sempre che chi sceglie l'ultimo posto è provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco il Siro, "colui che umilia se stesso per essere onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà".
Il segno invece che l'io è morto è il suo amore e il suo desiderio per l'ultimo posto: egli non lo ricerca, per timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato dagli altri!
Se l'io che non è morto non è onorato dai membri della comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non quello di Dio o l'amore di Cristo. Si vede così quanto può essere falso il culto a Dio!
Quanto invece all'io che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore, vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L'anima che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo alla comunità.
Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a morte il proprio io e così essere incapace di trovare la via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza; quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per quel che legge che per quel che ascolta, tanto più diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere. Ciò accade perché l'io sa bene che il compimento delle vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed egli non vuole morire! L'io inganna il monaco e lo illude, facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non appena sente parlare di qualche virtù o opera buona pensa di possederne anche di migliori, perché l'io fa suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per sé. Quest'uomo si inebria dell'amore di sé, loda se stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi. Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al proprio padre spirituale. Se commette un errore senza essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare critiche e chiede scusa solo per conservare la propria posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui una debolezza e lo scusarsi una vergogna.
Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento della vostra vita monastica di mettere in atto, sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che può metterlo sotto il potere della croce, perché questa è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via della virtù attraverso la porta della croce e non attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò che avete sperimentato, non di quello che avete letto o di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, "Noi ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui" (2Cor 10,15); "Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi" (2Cor 3,5); "Perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me" (2Cor 12,6); "Perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda" (2Cor 10,18).
È possibile anche che un monaco perda la capacità di mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada, dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito, cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole seno di Dio e quella semplicità che introdusse i pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato. Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi, perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre perché l'io si è gonfiato a causa del sapere. Così, pensando che tornare sui propri passi è così difficile da sembrare impossibile, s'inoltra di giorno in giorno lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso. Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si ricorda della propria debolezza e dell'umiltà di un tempo. Ama l'onore, ma non vi trova alcun conforto. Le cattedre dell'insegnamento sono estremamente allettanti, ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a causa dell'amaro rimorso per il passato di umiltà. L'io si rende conto che la volontà propria mette radici e che questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza dell'albero della ribellione non lasciano vedere le loro conseguenze. E così l'io assapora lo smarrirsi lontano da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per constatare di essere completamente fuori strada, lontano dall'albero della vita e anche dall'albero della conoscenza.
Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati dal desiderio della gloria mondana, se non volete precipitare, ancora giovani, nell'abisso.
Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo difficile da portare, arso com'è dalla fama mondana a basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo insistentemente a diventare un ladro al servizio del proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti, le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso, così da essere lodato per cose che non gli appartengono. Si illude di dar gloria a Dio. "Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? [...]. Come alcuni [...] ci calunniano dicendo che noi [così] affermiamo" (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto, lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune, mentre appare agli altri un ministro della virtù e un rappresentante della rettitudine.
Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni. Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!
Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere. Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni dell'io, in complicità con le sue passioni e le sue aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi fossero reali. L'individuo si sveglia solo per credere di essere diventato un santo durante la notte! Comincia a dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così si illude ancor di più, convinto com'è che sia tutto vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all'animo debole dall'ambizioso io. Questi costringe la mente a rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a tal punto che l'io sembra possedere una natura superiore a quella delle altre persone e soddisfà così la sua ambizione. Quando l'io non riesce a tenere sotto controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue brame con opere, parole e capacità pratiche, lo costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e risorse pratiche e così che l'io sia glorificato in ogni modo e a ogni costo.
Siate dunque attenti e vigilanti fin dall'inizio. State in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell'io e le sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando a tutti i talenti dell'anima e della mente di lavorare per la sua definitiva lode e glorificazione quale io soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni che dei sogni può impedirgli di procedere su questa strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire lungo la stretta via della salvezza, è possibile che visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura spirituale è elevata e la cui salvezza non corre pericolo.
L'io che non è morto odia ed evita la confessione, perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l'io che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella confessione e la ricerca con gioia, superando ogni ostacolo, perché nella confessione viene purificato e purificato nuovamente, fino a diventare candido.
L'io che non è stato messo a morte, se decide di non morire, nasconde i propri difetti nella confessione. Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti della confessione e del suo confessore, accusandolo di ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di esporre i propri difetti.
L'io che non è stato messo a morte e che ha deciso di non morire non trova vantaggio nelle parole o nei consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole diventano per lui un peso insopportabile. Ma l'io che è morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono dolci come il miele.
* * *
Coraggio, fratelli! Ecco, lo Sposo – che amiamo ma non possiamo vedere – viene come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci. Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che Egli troverà vigilante.
(tratto da Matta el Meskin, Comunione nell’amore, Qiqajon 1986, pp. 127-140 )
Dialogo Islamo-Cristiano
di Halim Noujaim
Direttore della scuola Terra Sancta College - Nazareth
Introduzione
Molti sono i pareri contraddittori riguardo al dialogo islamo-cristiano.
Molte le posizioni contraddittorie riguardo allo stesso argomento. Difficilmente possiamo trovare su questo argomento una posizione equa e stabile.
In questa mia esposizione cercherò di prendere una posizione media, fin tanto è possibile, riguardo alla serietà del dialogo e della sua necessità in una società come quella della Terra Santa.
Noi francescani e specialmente noi che operiamo in Terra Santa, non possiamo ignorare questo argomento, perché è punto focale nella nostra spiritualità francescana di Terra Santa. Come possiamo dimenticarlo, quando l’Assisiate fu tra i pionieri del dialogo tra cristiani e musulmani! Inoltre molte nostre istituzioni sociali e religiose vivono questa realtà quotidianamente!
Se osserviamo la storia cristiana in Terra Santa, troviamo che i cristiani di queste regioni hanno vissuto e vivono tuttora in condizioni molto difficili, mettendo in pratica la parola del Signore: "come hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" perché "il discepolo non è più grande del maestro".
Dopo l’islamizzazione di queste regioni, in Terra Santa si ebbero tre religioni monoteiste: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Di conseguenza l’autorità civile, lungo i secoli, apparteneva ad una o all’altra religione. Molte volte le "religioni" si sono fronteggiate con guerre dure e sanguinose. Conflitti e guerre per la sopravvivenza.
Ora tocca a noi capire che il nostro destino è di vivere insieme, prendendo lezioni dal passato, lontano e vicino, e accettare di formare una società multi religiosa, basata sulla uguaglianza, e sulla giustizia.
Il dialogo tra le tre religioni è così una esigenza irrinunciabile della Terra Santa.
Cristianesimo:
Nel cristianesimo troviamo l’invito all’apertura a tutti i popoli. Questo invito già lo troviamo nell’Antico Testamento specialmente quando dichiara che la Salvezza si estende a tutti i popoli e non solo agli israeliti.
Cristo Signore, nonostante che nel Vangelo affermi che è stato inviato per i figli d’Israele, lo troviamo a conversare con la samaritana, la cananea e fare miracoli a beneficio dei pagani, come il centurione. Cristo loda la fede dei pagani (Dialogo e Proclamazione, n. 21) … e invia i suoi discepoli a portare il Vangelo a tutte le genti senza distinzione tra popoli, razze e religioni.
Papa Paolo VI, dice (16) : "La religione musulmana merita la nostra ammirazione per tutto quello che c’è di vero e buono nell’adorazione di Dio", e di nuovo, nel suo discorso a Kampala, in Uganda, ha espresso il suo profondo rispetto per la fede che i musulmani hanno, ed ha auspicato la speranza che "ciò che noi possediamo in comune possa servire a unire cristiani e musulmani, sempre più strettamente, in una autentica fraternità". (17)
Questa affermazione di Paolo VI, causò scompiglio nella chiesa cattolica. Alcuni sono arrivati a pensare che la missione della Chiesa di convertire i popoli alla fede di Cristo, perché possono salvarsi, non era più necessaria, purché i credenti delle altre religioni vivessero la propria fede con coerenza.
Dopo un lungo silenzio, il Papa pubblica la "Evangelii Nuntiandi", per chiarire la posizione della Chiesa, e dire che, nonostante la presenza di alcuni elementi buoni e veri nelle altre religioni, tuttavia rimane solamente la religione di Cristo, che la Chiesa proclama, attraverso l’Evangelizzazione, ad essere l’unica religione che pone la persona umana, oggettivamente, in relazione con Dio. In altre parole la nostra religione stabilisce effettivamente un’autentica e viva relazione con Dio, che le altre religioni non sono riuscite ad avere. (18)
Attualmente la dottrina della Chiesa in questo campo dice che i cristiani non devono pensare di possedere tutta la verità, e quelli delle altre religioni non hanno nulla di vero. Piuttosto devono essere pronti a riconoscere la presenza dello Spirito nell’altro. Non possiamo porre limiti all’azione dello Spirito.
Anche se si trova qualche cosa di buono nelle altre religioni, tuttavia non si deve pensare che ogni cosa sia perfetta nelle varie tradizioni religiose del mondo. Esse hanno anche i loro lati oscuri. Possono includere riti degradanti o pratiche che sono moralmente discutibili. Questi elementi sono quindi soggetti a giudizio.
Perciò quanto di bene si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non deve andar perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria di Dio… Papa Giovanni Paolo II dice che "il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa". (19)
Questo dialogo può assumere molte forme, ovunque stiano insieme persone di differenti religioni: cercare di vivere in armonia, fianco a fianco, lavorare insieme a beneficio della società, chiarire le idee sull’altro attraverso scambi formali, condividere esperienze spirituali ecc...
Sappiamo, che le relazioni fra persone di differenti religioni non sempre sono facili. Possono sorgere tensioni. Mediante il dialogo, i cristiani e gli altri sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso, e a rispondere, con crescente sincerità, all’appello personale di Dio e al dono gratuito che egli fa di se stesso. (20)
Giovanni Paolo II, a più riprese parla chiaramente della presenza dello Spirito Santo anche nelle altre religioni. E, nell’Enciclica "Redemptor Hominis", afferma chiaramente la presenza dell’opera dello Spirito oggigiorno persino fuori del Corpo Visibile della Chiesa".(6) Questa affermazione è da intendersi nel senso che, "secondo Giovanni Paolo II, l’azione dello Spirito della verità è limitata a ciò che vi è di buono nella vita dei musulmani e nella loro religione". (21)
Nel discorso agli 80.000 giovani a Casablanca, il 19 agosto 1985, Papa Giovanni Paolo II, dopo d’aver affermato che cristiani e musulmani hanno molte cose in comune, come credenti e come uomini, parla pure di differenze, che non possiamo sottovalutare: "La lealtà esige pure che riconosciamo e rispettiamo le nostre differenze. Evidentemente, quella fondamentale è lo sguardo che posiamo sulla persona e sull’opera di Gesù di Nazaret. Inoltre, aggiunge il Papa, che "dobbiamo rispettarci, e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio". (22) Ad ogni modo "il dialogo deve esser condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza (23) e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza" , e "il Papa classifica le altre religioni come teologicamente immature, incomplete e bisognose di aiuto".
1 – Dialogo di vita:
Il dialogo è il mezzo in cui i cristiani e i musulmani s’incontrano per camminare insieme verso la verità e per lavorare insieme in progetti di comune interesse…
Il dialogo richiesto dalla regola francescana con persone di altre religioni ci ha insegnato che, come cristiani, dobbiamo vivere la nostra fede in maniera più integra ed essere veri testimoni di Cristo nella collaborazione con gli altri credenti, proprio come scrive S. Francesco nel capitolo 16° della Regola non bollata, dove si legge: "I frati - che vivono tra i musulmani (saraceni) - non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio, e confessino di essere cristiani".
Dai cristiani di oggi ci si attendono atteggiamenti, non di confronto e di conflitto, ma di vero spirito di collaborazione… La semplice ma salda testimonianza di Francesco d’Assisi… ci spiega che cosa voleva dire Gesù quando invita i suoi discepoli ad essere "il sale della e la luce del mondo". San Francesco è oggi venerato non solo dai cristiani ma anche da molti seguaci di altre tradizioni religiose. (26)
E’ questo il dialogo che conviene alle società, multi religiose, come la nostra: discutere i problemi di divergenza e solverli con oggettività e razionalità, favorendo una convivenza pacifica e vera collaborazione in tutti i campi del sapere.
2 – Dialogo di servizio sociale:
Collaborazione dei cristiani e musulmani per sviluppare i progetti del servizio sociale, per arrivare a stabilire la giustizia sociale, per aiutare gli abbandonati dalla società e per difendere i diritti dell’uomo
3 – Dialogo nelle attività spirituali:
I cristiani e i musulmani che vivono una vita spirituale di relazione intima con Dio, debbono scambiarsi queste esperienze.
4 – Dialogo teologico:
Lo scopo di questo dialogo è di chiarire i dubbi e le false idee che uno ha riguardo all’altro. Riguardo ai dogmi della propria religione, per giungere ad una convivenza pacifica e al rispetto reciproco. Questo dialogo non mira a trovare la vera religione, ma ad accettare il principio della molteplicità delle religioni in una società come la nostra.
(conferenza tenuta a Gerusalemme il 26/11/2002)
Note
1) Tim. 4:2.Reciprocità: moschee per chiese?
di Giuseppe Scattolin
Nei nostri rapporti con i musulmani c'è, a mio parere, o molta ignoranza o molta ingenuità. In ogni caso, mi pare che pochi si rendano conto che essi esigono da noi tutti i diritti senza concedere nulla nei loro paesi. Le nazioni islamiche risultano, infatti, in fondo alla lista per quanto riguarda i diritti umani e noi chiudiamo gli occhi su tutto... Si sa bene che nell'Arabia Saudita nostro grande amico in mammona-petrolio - non solo non c'è libertà religiosa (per cui, un musulmano che volesse cambiare religione viene sistematicamente messo a morte), ma è addirittura proibita qualsiasi manifestazione religiosa non islamica. Al punto che, se uno celebra la messa, anche se nel segreto della sua casa, può essere messo in prigione ed espulso. Ma tutto ciò è sistematicamente ignorato dai nostri politici e dai nostri maitre-à-penser televisivi. Possibile che non ci si renda conto che stiamo noi stessi aprendo il nostro paese al più retrogrado oscurantismo religioso, cioè quello islamico? È tempo che si cominci a dare l'allarme. Osi tratta di vera parità - e, quindi autentica reciprocità - o non si-tratta. Punto e basta!
Giulio Crescetino - Napoli
"Reciprocità vera". È un’espressione – quasi una invocazione! – che ricorre spesso, soprattutto in occasione di incontri con il mondo islamico. In essa si avverte tutta l’amarezza di chi si sente preso in giro da tante belle parole, proclamate anche da persone autorevoli, ma che, in pratica, lasciano il tempo che trovano.
Pertanto, la reazione normale è quella di sbattere i pugni sul tavolo e dire: «O vera reciprocità, oppure si chiude... E "gli estranei" se ne tornino a casa loro, ché noi stiamo meglio senza di loro!».
Posta in questi termini, la questione sembra molto semplice. Non si tiene conto, però, che la realtà - soprattutto quella umana - è molto più complessa. Non si tratta di condurre una compravendita: io ti do una moschea, se tu mi dai una chiesa.
Innanzitutto, ognuno vede la realtà dal proprio punto di vista. Se noi, in Europa, ci possiamo lamentare dei "fastidi" che la presenza dei musulmani causa nelle nostre società, dovremmo, per lo meno, ammettere che anche essi hanno delle rivendicazioni nei nostri confronti, tenendo presente il passato coloniale. Potrebbero anch'essi, quindi, sentirsi in diritto di sbattere i pugni sul tavolo. Ma a suon di pugni sbattuti non si va molto lontano. Ed è facile immaginare che i pugni, prima o poi, possano facilmente cambiare direzione: dal tavolo alla faccia dei contendenti!
Il problema che sta alla base della questione della reciprocità è, in realtà, molto più profondo e serio. Si tratta della questione dei diritti umani. Dobbiamo operare insieme per creare società umane pluraliste, in cui le differenze non sono eliminare, marginalizzare e combattere (come lo furono nel passato), bensì accolte e rispettate. E, questo, nel discorso che va molto al di là delle contrattazioni tipo "una moschea in cambio di una chiesa". Occorre, invece, promuovere all'interno di tutte le società una vera "rivoluzione culturale" (ben diversa da quella ideo-politico-partitica di Mao Tsedong, la "grande guida" della Cina moderna).
Una rivoluzione culturale degna di questo nome richiede, innanzitutto, un serio lavoro culturale a lungo termine. I diritti umani saranno accertati e rispettati, se e quando tutte le persone delle nostre società "globalizzate" saranno formate alla loro conoscenza e alla loro pratica. La storia della nostra vecchia Europa dovrebbe insegnarci qualcosa in materia. Non bastò, infatti, ghigliottinare il re per riconoscere e dare ai cittadini francesi i loro diritti. Proprio gli autori della Grande Rivoluzione si rivelarono, alla fine, i peggiori dittatori (e quelli della rivoluzione comunista non sarebbero stati di meno).
Ma come si può realizzare una simile "rivoluzione culturale"? Molti gli ambiti di un simile impegno! In primo luogo, metterei le scuole. In Egitto, ad esempio, noi missionari occidentali abbiamo un'importante presenza scolastica, con migliaia di studenti e studentesse, nella stragrande maggioranza musulmani, che frequentano le nostre scuole; anzi, fanno la gara a iscriversi ad esse. Ma la domanda è: abbiamo maturato un vero progetto formativo per studenti e professori, in cui la dimensione dialogica è parte integrante del programma? Questo è un punto di capitale importanza, dato che le scuole sono chiamate a essere i primi luoghi di dialogo e di apertura verso gli altri, autentiche palestre e laboratori per la conoscenza e il rispetto dei diritti umani.
Oltre alle scuole, ci sono tante altre opere di promozione umana in quasi tutti gli ambiti della società. La nostra presenza in tali ambiti deve contribuire a far crescere e maturare una nuova mentalità di vero dialogo interreligioso e interculturale.
Prima di lamentarci e assumere atteggiamenti di rifiuto, dovremmo domandarci se stiamo facendo buon uso delle occasioni che ci sono offerte per creare questa nuova mentalità di apertura e dialogo a tutto campo, la sola in grado di garantire una vera reciprocità in materia di diritti umani.
Non nego che occorra agire anche a livello diplomatico e giuridico per esigere da tutti gli stati il rispetto dei questi diritti. Un'azione non esclude l'altra. Credo, tuttavia, che la vera carta vincente è da ricercare in una formazione capace di cambiare alla base la mentalità di ogni popolo e di ogni individuo, perché ogni persona esca dal "tribalismo tradizionale" e si apra a una vera mondialità, avvertita come arricchimento umano comune.
(da Nigrizia, aprile, 2005, pag. 74)
Lezione Sesta
L’ALLEANZA
1. I cristiani chiamano il loro libro con il nome di “Testamento”: esso si divide in Antico e Nuovo. Questo titolo vuole essere riassuntivo del contenuto della Bibbia, indicare il filo conduttore e l’idea matrice di tutto il testo ispirato. In realtà, ci troviamo di fronte all’idea e alla realtà centrale della Bibbia. Giustamente, Alonso Schöckel ha definito l’alleanza «il sacramento fondamentale del popolo eletto». Testamento è sinonimo di alleanza, patto.