Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Una "identità" in esodo...di Dalmazio Mongillo, o. p.

L'importanza di una corretta impostazione del problema

La riflessione sulla vita consacrata nella Chiesa e nel mondo d'oggi introdotta con un'analisi sulla "natura e l'identità" di essa (Lineamenta, Prima parte), risulterebbe più vigorosa e convincente se si chiarisse meglio la problematica che si vuole affrontare e la prospettiva nella quale la si considera. La vita consacrata prima che in se stessa e nei valori essenziali che la costituiscono, va vista nel disegno dell'autorivelazione di Dio manifestata in Gesù Cristo e condotta alla sua piena intelligenza e realizzazione nello Spirito. Questa rivelazione è per l'umanità e per la Chiesa, e il consenso, la recezione di essa, è per tutti fonte di unità e di pace, condizione di salvezza. Anche quando l'attenzione si concentra su un aspetto di essa è nell'insieme e dall'insieme che trae forza e vigore, e nel contesto del tutto arricchisce e vincola le decisioni e le responsabilità sia del tutto sia delle singole parti che lo costituiscono e che sono corresponsabili della pace del tutto, della sua armonia storica e finale. Diventa perciò un modo di procedere che depista l'attenzione dal vero problema attuale e non facilita la diagnosi dei mali che oggi devitalizzano il dinamismo interno e missionario della comunità cristiana nella molteplicità delle sue componenti, limitarsi a fare l'elencazione degli "elementi fondamentali" della vita consacrata considerata come una monade e attuare questa lettura con sottolineature così diverse che non si riesce a coglierne il criterio ispiratore e a percepire la meta a cui si vuole pervenire e i mali che si intende riparare.

Inizialmente vengono enumerati i tratti "comuni ed essenziali" a tutte le forme di vita consacrata in un'ottica astratta, universale, atemporale e la riflessione culmina nel richiamo dell'impegno spirituale (nn. 5-13) che la chiamata alla vita consacrata comporta. I nn. 27-28 rileggono la stessa realtà considerando le "res novae", le nuove espressioni e manifestazioni della vita consacrata (n. 27) e, sul piano negativo, i fenomeni di deterioramento favoriti dalle ambiguità e sfide contemporanee che variano secondo i contesti culturali; il tutto si abbina alla rilevazione degli aspetti maggiormente in crisi e di quelli da promuovere con consenso diffuso.

Queste ultime rilevazioni rendono ancora più inquietante il bisogno di diagnosticare le vere situazioni che ritardano la recezione di quanto ha proposto il Vaticano II sul mistero della Chiesa e delle entità che la compongono e, inoltre, di chiarire come e perché, nonostante il riconosciuto "profondo rinnovamento" spirituale e apostolico promosso dal Vaticano II (cf n. 25) e gli "essenziali progressi" (ivi) compiuti negli ultimi decenni nelle diverse famiglie religiose, e nonostante la fioritura di nuove forme di vita evangelica (n. 24), non possiamo ancora constatare che le cose vecchie sono passate e le nuove sono nate (cf 2 Cor 5, 17) e si attende quella primavera di fioritura, armonia, pace, sia per le famiglie della vita consacrata., sia per la Chiesa e la sua missione di evangelizzazione. L'identità che oggi si cerca di delineare è multidimensionale e ha parecchi livelli.

È quella costitutiva della vita consacrata nell'interno del più ampio mistero della Chiesa e del disegno di salvezza.

E quella relazionale interna alla Chiesa tutt'intera è se stessa nel disegno che il Padre ha rivelato e nel quale si riconosce come una comunione di comunioni costituite da un dono sacramentale o da una vocazione carismatica. La comunione con e tra tutte queste sue componenti è dignità e responsabilità personale e solidale. Nessun membro della Chiesa è vivo e vitale se non nella relazione reciproca nella medesima sorgente e nella orientazione comunionale verso lo stesso fine. Sottrarsi alla verità comune è nuocere a sé e alla comunione di cui si è parte. Questo riconoscimento non si identifica e non si valuta definendone gli elementi essenziali ma qualificando le relazioni. Le mutuae relationes di cui si trattò nel 1978 tra vescovi e religiosi, oggi vanno impostate in un contesto globale. Anche se hanno una loro attuazione a livello di vertice, diventano effettive quando coinvolgono e trasformano la vita delle singole comunità e delle persone, quando integrano i programmi di vita e orientano le attività quotidiane. Le mutuae relationes di oggi debbono partire da quelle interne alle singole famiglie, superando certi orientamenti verticistici e rivedendo la questione dei rapporti tra le loro componenti maschile-femminile-laicale ed estendersi a tutta la vasta gamma di comunioni che si sviluppano nella comunità cristiana e nell'umanità. Si pensi per esempio a quelle tra vita consacrata-presbiteri-laici e, nell'ambito di questi ultimi, alle relazioni tra uomini e donne, tra le famiglie, i popoli, le religioni, per far sì che tutti insieme cooperiamo alla giustizia e alla pace reciproca e con Dio. La vita consacrata è per la santità della Chiesa e del mondo e l'entità non ha confini, ha una sua specifica valenza ma non è settoriale.

L'identità della vita consacrata oltre che sul piano relazionale va ridescritta alla luce della situazione contemporanea. La vita consacrata si conosce e si apprezza nelle relazioni che vive e nella presenza che attua nella Chiesa e nel mondo. Oggi queste relazioni sono disturbate da tutta una gamma di situazioni che vanno da quelle estreme delle omissioni e dei silenzi, alla disattenzione e ai sofferti tentativi di realizzare una presenza significativa, alle incomprensioni che ostacolano l'intesa e la collaborazione, non è un mistero per nessuno il fatto che la vita consacrata nel suo sviluppo e nel suo dinamismo interno, non risplende per gioiosa e armonica comunione; nella vita ecclesiale ha una presenza che spesso è "esente"; nell'influsso sulle nuove generazioni del mondo occidentale è incerta e molto diversificata.

Un approccio ristretto al problema quale sembra quello seguito dai Lineamenta si presta a dar credito all'idea di coloro che pensano che l'attuale fiorire di interesse per la vita consacrata sia ispirato da un progetto di allineamento, di serrare le file, di eliminare i sintomi negativi (cf n. 28), fornendo parametri in base ai quali controllare la situazione e porre le premesse per riaffermare con forza il diritto dei pastori della Chiesa universale e locale a comandare, e il dovere della vita consacrata, particolarmente femminile, di obbedire e di partecipare alla realizzazione dei progetti pastorali.

Per un approccio all'individuazione del nodo del problema

La prima domanda del questionario - la percezione e la valorizzazione della vita consacrata, con particolare riferimento alla professione pubblica dei consigli evangelici - mette su una pista che meglio fissa l'attenzione sulla fisionomia occidentale contemporanea della vita consacrata. Essa non è né un'essenza, né una categoria logica, nè un'istituzione solo giuridica: è una famiglia di famiglie radunate per la grazia dello Spirito e vive nella comunione di comunioni che strutturino la comunità cristiana pellegrina e missionaria nel mondo. Come comunione sussiste nelle sue relazioni multiple, sempre nuove, da costruire, verificare, nelle quali si riconosce e che concorre a qualificare e perfezionare. Lo Spirito che di questa comunione è la sorgente e l'ispirazione, la guida in tutta la verità (Gv 16, 13) e, nelle diverse fasi della storia, le affida compiti che, nella linea della medesima fedeltà, sono sempre diversi e si qualificano per il crescente orientamento verso la perfezione finale, verso il non ancora del compimento. Ciò conferisce una fisionomia specifica all'identità comunionale che non si fissa solo in base a criteri e realizzazioni già consolidate e riconosciute, bensì in riferimento alla specificazione che assumono nelle ere della storia. Ciò non significa, è evidente, relativizzare i carismi, ma disporre di un criterio per l'identificazione delle loro esigenze. L'identità carismatica non si oppone a quella istituzionale, resta primaria nei confronti di essa, in essa si attua, in obbedienza allo Spirito che guida alla conformazione con Cristo che, nel tempo della Chiesa e in essa, porta a compimento la missione del Padre.

Nel delineare in qualche modo la complessa e multiforme realtà con temporanea prendo come punto di riferimento il cammino promosso e iniziato dal Vaticano II. Esso in gran parte ha segnato lo spartiacque di un processo che negli anni successivi è cresciuto in intensità ed estensione e che ha avuto riflessi determinanti sull'autocomprensione e sulla valutazione ecclesiale ed umana della vita consacrata. Il Concilio è stato il kairos che ha risvegliato e beneficamente inquietato una situazione a dir poco di stallo.

Ridurrei a tre i dati veicolatori di stimoli di rinnovamento.

* Il legame intimo tra Chiesa e vita consacrata. Questa sussiste, è se stessa, nella, con e per la Chiesa vivificata dallo Spirito che guida l'umanità e il cosmo alla pienezza della verità comunionale in Cristo per la gloria del Padre.

* Il fatto che la vita consacrata, radunata dal e nel carisma di fondazione, è una realtà carismatica.

* Infine l'autopresentazione della Chiesa come mistero-comunione-missione che inizia e affretta la parusia, la piena manifestazione del Regno ed è costituita missionaria di unità e di pace nel mondo.

Queste tre verità hanno messo in moto un profondo processo di rinnovamento per la vita consacrata. Esso si è verificato soprattutto a livello della ricerca della sua identità carismatica, della revisione delle costituzioni e dell'apertura missionaria delle comunità più vive e dinamiche. La missione è stata sempre più chiaramente vista non nella linea della riproduzione interna delle comunità ma della presenza solidale e di servizio nel mondo, soprattutto presso i settori più poveri dell'umanità. Questo cammino ha coinciso con il verificarsi di molte e radicali trasformazioni in tutti i settori della vita personale e associata. La pretesa di elencazioni esaustive è inutile e improba. Si pensi, per citare qualche esempio, alle rivoluzioni nell'assetto politico ed economico dei popoli dell'Est-Europa e dei Paesi nei quali la vita consacrata occidentale ha avuto una presenza più lunga e incisiva; all'affermarsi di nuove relazioni ecumeniche e tra le religioni; alla radicalità della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale; all'affermarsi e dilatarsi di nuove epidemie e piaghe sociali, ecc. Il tutto ha alimentato grandi speranze e profondi conflitti, ha fatto percepire il peso delle strutture tradizionali inadeguate alla dinamicità, complessità, precarietà, evoluzione delle situazioni odierne. Le speranze sono diventate contesto di belle e nobili iniziative, le resistenze hanno prodotto divisioni, discussioni che hanno minato seriamente l'intesa comune sulla stessa identità carismatica delle famiglie, sulla rilevanza pubblica di essa, sull'unitarietà e la comunitarietà degli stili di vita, sulla qualità e la portata delle relazioni con la gerarchia e con i movimenti ecclesiali e politici e con le altre comunioni specifiche che operano nella Chiesa.

Si è parlato di Chiese parallele, di settarismi e si sono determinate fratture e separazioni tristi e dispersive, ecc. Il tentativo di ovviare a queste situazioni ha assorbito enormi energie e in molti è maturato il dubbio se sia ancora il caso di prenderle in considerazione o di impegnarsi seriamente nella missione nella speranza che siano le cose nuove a disincantare le caduche. Le difficoltà di armonizzare pacificamente, vitalmente, reciprocamente, comunitariamente queste diverse esigenze sono però vive e ritardano la partecipazione alla missione della Chiesa, per liberare e potenziare "in" e "con" l'umanità, le relazioni di appartenenza, condivisione, convergenza che rendono giusto, pacifico, amico di Dio, il cammino storico. Il fatto che oggi non sussistono le condizioni perché in tutta la Chiesa - e perciò nella vita consacrata - si realizzi questa condivisione mi pare un elemento qualificante e imprescindibile della diagnosi e soprattutto della terapia che il Sinodo propone. Per vocazione la Chiesa deve operare perché questa vasta rete di rapporti si sviluppi nella verità e carità e sia immagine e riflesso della Comunione Trinitaria (CS 24).

Identità in tempo di esodo

1. La descrizione dell'identità della vita consacrata non può prescindere dalla esplicitazione delle relazioni in cui sussiste e in cui si configura nel contesto contemporaneo. È perciò fondamentale promuovere ed evidenziare le condizioni e le prerogative del riconoscimento affettivo ed effettivo da parte di tutta la comunità ecclesiale, dell'insostituibile e imprescindibile presenza della vita consacrata nella sua identità di comunione di mistero e di santità. La vita consacrata è dono dello Spirito al Cristo e alla sua Chiesa per la gloria del Padre occorre affermare con assoluta chiarezza che nessun fedele può vivere in amicizia e docilità con lo Spirito se non riconosce e non si adegua a questo suo dono alla Chiesa e a ciascuno dei suoi membri. La vita consacrata non è una realtà opzionale, senza di essa la Chiesa non è quella che Gesù e lo Spirito vivificano e conformano. Non è, però, neppure opzionale per la vita consacrata la sollecitudine e la missione per la santità della Chiesa. Essa non è mandata per fare qualsiasi cosa, per svolgere attività di supplenza, ha una sua inequivoca e specifica missione la cui qualificazione concreta e specifica deve essere autenticata dai pastori. Il servizio del Sinodo dei vescovi, in questo senso, è dono prezioso e servizio di portata eccezionale. Tutta la Chiesa, e la vita consacrata in essa, ha la responsabilità di chiedere e volere che la vita consacrata sia riconosciuta per quello che la Chiesa stessa ha affermato: dono di santificazione per se stessa nella Chiesa e nell'umanità. Se omette questa sollecitudine non può in alcun modo vivere in pace con Dio. La fedeltà alla comunione e alla missione integra e struttura la fedeltà a Dio. Poiché questa fedeltà oggi si vive in contesto di rapidi e profondi cambiamenti ed è caratterizzata da conflittualità profonde e acute tra carisma e istituzioni (costituzioni, regole, tradizioni, ecc.), dalle lacerazioni prodotte dall'invecchiamento e dalla carenza di persone, dalla necessità di lasciare opere cui vincolano legami affettivi intensi, da incertezze sul domani, da appelli urgenti per nuove presenze, e anche in rapporto a tutto ciò che occorre discernere e qualificare con indicazioni concrete e orientamenti fecondi l'identità personale e comunitaria.

2. Per usare un'espressione di matrice biblica, si può qualificare il nostro come tempo di esodo. Siamo sempre pellegrini, in cammino verso la patria. La vita consacrata è per vocazione testimone di questa condizione che impone di tenersi all'erta, vigili docili nel discernere e seguire le indicazioni dello Spirito che orienta verso la meta. Questa itineranza si vive con maggiore intensità quando occorre inventare e realizzare nuovi assetti personali, comunitari, ecclesiali, interumani, relazionali. L'esodo è un tempo di grazia e di liberazione, è denso di gioie e di teofanie, porta nel deserto e in esso mette in contatto con il mistero luminoso e conformante della presenza di Dio. Esso però è anche il tempo delle prove, dello spogliamento, delle tentazioni, delle recriminazioni. La perseveranza fedele in questa realtà complessa esige contemplazione, digiuno, implorazione, lotta, discussioni. ecc. Il tutto comporta investimento e logorio di energie, concentrazione di potenzialità, capacità di rigenerare gli entusiasmi, povertà e vigilanza per non sottrarre persone e creatività alle urgenze indilazionabili dell'evangelizzazione, della testimonianza, della solidarietà: persone e comunità tanto occupate di sé, dei problemi interni e relazionali, non riescono a riservare disponibilità all'ascolto di ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. Tutto ciò ha riflessi molto importanti sul piano delle prerogative nelle quali le persone e le comunità oggi debbono coltivarsi. L'oggi, può essere vissuto in fedeltà solo da persone profondamente innamorate del Signore e intensamente contemplative. La vera questione non è se oggi si può essere contemplativi, ma se si può essere fedeli e onesti senza coltivarsi costantemente nella contemplazione del mistero, senza tener viva nella comunità credente la nostalgia della comunione storica e finale con Dio. L'urgenza del vigilare e operare perché il popolo si tenga in esodo, Mosè l'attesta in modo inequivoco, esige persone che vivano in costante unione, amicizia, contemplazione di Dio. Solo nella relazione con lui maturano e si purificano le prerogative di mediazione, di riconciliazione, di perseveranza, che integrano la personalità di coloro che rendono testimonianza della speranza (cf 1 Pt 3,16). Solo persone dialogali, sagge, forti e perseveranti nel gestire la solitudine e l'isolamento che si accompagnano ai cammini fedeli possono impedire che la comunicazione diventi tattica, temporeggiamento accomodamento. Qualcuno ha osservato che lo spirito evangelico non è tanto forte da vincere la logica dell'interesse delle istituzioni (Quinzio). Ciò è vero a corto termine e quando le comunità e le persone in esodo omettono di vigilare e non hanno più l'autorevolezza e la forza di distruggere gli idoli che il popolo si costruisce e di riportarlo a riconoscere e assecondare l'alleanza. La vita consacrata deve imparare a trarre dalla sua origine carismatica, la luce e la forza che la sostiene nel non tradire la vocazione e la missione, nonostante le sofferte resistenze personali e sociali, interne ed esterne. Nei tempi di transizione la fedeltà al carisma si esprime nella vigilanza e nel discernimento per far sì che non si attenui la nostalgia della terra promessa e le comunità abbiano la forza di liberarsi delle armature che impediscono l'agilità di movimento necessaria per lottare contro Golia (1 Sam 17, 32 ss).

Il carisma è dono dello Spirito; abilita coloro che ne vivono, ad implorare, accogliere (disporre della forza di perseverare nella riconciliazione intelligente e amorosa del mondo con Cristo nel Padre). Nessuna persona può vivere in santità se omette di essere fedele al carisma e questa fedeltà oggi passa attraverso la perseveranza nella conversione alla cooperazione nella riconciliazione. Descrivere qual è la vera grazia di Dio, per quali vie si esprime la fedeltà ad essa, quali "strutture" ne potenziano e assecondano le espressioni, esortare e sostenere nel restare saldi in essa, sapendo che i fratelli e le sorelle sparsi nel mondo subiscono le stesse sofferenze (cf 1 Pt 5,9 ss.) è indicare la via per la quale la vita consacrata si rigenera e vive. Le grandi trasformazioni che si verificano nella storia sono opera delle persone che seguono la via di Gesù Cristo, il giusto per gli ingiusti. Le piaghe che in lui hanno prodotto le ferite inflitte dalla perversità umana di cui egli si è fatto carico, indicano da quale sorgente scaturisce la guarigione dei mali umani e per quali vie il pastore riconduce le pecore erranti (cf 1 Pt 2, 21.25; 3,18).

La vita e la forza di irradiazione della comunità è la comunione. La resistenza. a volersi in comunione reciproca; la lentezza nel darsi autentiche strutture di comunione e nel discernere e attuare comunitariamente e reciprocamente quelle adeguate; la difficoltà. a consentire sulle esigenze del carisma e assumerle nella trasformazione e programmazione del vissuto, sono aspetti che evidenziano le situazioni di crisi, potenziano gli individualismi, le appartenenze con riserva, le iniziative di gruppo, tutte le tendenze che favoriscono divisione e dispersione, che insidiano la vitalità delle comunità e stancano la fedeltà e la perseveranza delle persone. La rigenerazione di tutta la comunione ecclesiale che scaturisce, vive e culmina in quella trinitaria è oggi compito primario e indilazionabile. La difficoltà di attuarlo è il segno più inequivoco delle resistenze che incontra l'inculturazione del vangelo e la chiamata a lasciarsi accogliere nella comunione trinitaria a confidare in quella dei santi e delle sante ispirandosi al cammino delle prime comunità cristiane (At 2,42 ss.): l'esperienza attesta che non sono insormontabili. La vitalità, o la carenza della comunione effettiva e affettiva, costituisce la questione centrale della vita consacrata e della Chiesa in cui sussiste.

3. Illustrare le prerogative, le esigenze e le dimensioni di questa comunione di comunioni; orientarne le condizioni di crescita e di sviluppo; discernere le espressioni che la rendono vitale e il contesto in cui si purificano e crescono, smascherare le pseudo manifestazioni di fedeltà, sono altrettante vie che affrettano il superamento di quella condizione di stallo che contestualizza la sofferenza e la mancanza di vitalità di molte comunità cristiane contemporanee. Non alimentano comunione le attese, le pretese, le incomprensioni, le strutture di manipolazione o di comodo che quale che ne sia la sorgente prossima, mettono in crisi i rapporti e potenziano gli individualismi, favoriscono le iniziative non condivise, nutrono i pregiudizi, le diffidenze, le incomprensioni, ecc. Queste situazioni fanno sì che ciascuna componente della realtà ecclesiale si ritenga falsamente percepita e riduttivamente valorizzata, e perciò legittimata a impostare e vivere male le relazioni interne ed esterne e a rinchiudersi nell'indifferenza nei processi di autorealizzazione o nell'autocommiserazione o nell'accusa, terreno fecondo del malessere che impedisce di perseverare insieme nella via della pace (Lc 1,79; 19, 42; Rm 3,17).

Conclusione

Questa lettura diventerebbe deviante qualora da essa si traesse la conclusione che la questione è morale, intendendo questo termine in accezione riduttiva e che, conseguentemente, la soluzione di essa vada cercata sul piano normativo, in provvedimenti e controlli dettati da una rivalorizzazione dell'obbedienza non sottoposta a una radicale conversione nei parametri di riferimento che ne normano le espressioni; essa è e resta essenziale nella linea del riferimento permanente all'autorivelazione del Padre e all'obbedienza di Gesù. Senza un'esperienza autentica di Cristo non c'è vita cristiana e consacrata, e questa non si realizza al di fuori dell'obbedienza al Cristo che nella sua Chiesa gerarchicamente ordinata, opera quello che piace al Padre, si fa carico del peccato del mondo per liberarlo nella sua carne. La conversione della Chiesa a quanto afferma di se stessa nella LG esige il riconoscimento fedele, esistenziale, dinamico, strutturale delle vocazioni specifiche in cui sussiste la promozione della loro comunicazione. Come in altre svolte importanti della storia della Chiesa, il rinnovamento della vita consacrata è frutto e espressione di un più vasto movimento di evangelismo che la rinnova tutta e assume configurazione specifica nella vita consacrata, la quale spinge in questa via in proporzione alla docilità a lasciarsi muovere dalla forza del carisma dello Spirito che la vivifica nella e con la Chiesa e tutto opera per la santificazione del Corpo di Cristo nella sua obbedienza al Padre (cf 1 Pt 1, 2). La comunione ecclesiale è riflesso e via a quella trinitaria e solo nella conversione permanente a questa sua sorgente è autentica. Gli aspetti socio-culturali della questione da soli non sono sufficienti a operare quel cambiamento da tutti auspicato e di primaria importanza per la pace delle famiglie religiose e la vitalità della loro missione.

La conversione alla comunione ha riflessi morali ma è fondamentalmente frutto di azione e implorazione di persone che si lasciano conformare nella misericordia del Padre e che ne traggono ispirazione e vitalità dal dinamismo delle missioni trinitarie creduto, celebrato, assecondato, implorato nella fedeltà alle Costituzioni e alle esigenze attuali della missione. La teologia oggi deve promuovere la conseguenza verso una più comune e condivisa visione del progetto di Dio nel quale la Chiesa, nella pluralità delle comunioni in cui sussiste, si riconosca radunata per essere riconciliata alla disponibilità totale a cooperare alla volontà salvifica universale del Padre nella luce di Ef 1 e di 2 Cor 5,16 ss.

Venerdì, 12 Gennaio 2007 02:04

Lezione Settima. Il dono della terra

Lezione Settima
Il dono della terra


Introduzione

Se Israele, all’uscita dalla terra d’Egitto, non avesse avuto una meta verso la quale dirigersi, sarebbe stato condannato a girovagare da nomade per il deserto, ai margini dei paesi occupati da altri popoli. Il suo esodo sarebbe stato un evento puramente spirituale: un’uscita verso la libertà del servizio di Dio, ma senza un segno fisico del dono divino. In realtà la vita umana non si realizza senza un rapporto con le risorse della terra: anche il nomade dipende dal regime economico realizzabile in zone non coltivate e, giuridicamente, non lottizzate. La scarsa vegetazione desertica consente la pastorizia e l’attendamento presso le oasi e le fonti d’acqua.

Venerdì, 12 Gennaio 2007 01:38

Oltre il deserto (Guido Davanzo)

La sofferenza è una dura prova della nostra maturità umana e cristiana, fa cadere le pretese sicurezze, mette in crisi le motivazioni ideali non adeguatamente approfondite e assimilate, stimola una revisione della nostra visuale di vita e sul nostro modo di capire e accettare Dio.

Le Chiese libere, una realtà in espansione
di Marino Parodi

Un capitolo di notevole importanza nel contesto del protestantesimo moderno è costituito dalle Chiese libere. Si tratta di un mondo assai variegato, complesso, estremamente fluido e a tratti sfuggente, di conseguenza non sempre facile da cogliere e da interpretare.

Cominciamo col premettere che per Chiesa libera si intende qualsiasi denominazione, associazione o comunità cristiana che corrisponda a due caratteristiche di fondo: libertà da qualunque vincolo governativo o politico nei confronti di qualunque istituzione, statale o religiosa; autonomia sul piano dottrinale e teologico. Le Chiese libere sono una realtà in continua espansione, soprattutto nell’America del Nord e nei Paesi di lingua tedesca: l’accennato carattere “fluido” del fenomeno rende praticamente impossibile qualsiasi valutazione numerica, benché approssimativa.

Per certo sappiamo che esistono nel mondo svariate migliaia di Chiese libere, nelle quali si riconoscono altrettanto svariati milioni di fedeli. Il fenomeno delle Chiese libere è tuttora in ascesa, da circa un trentennio, nelle aree geografiche appena citate, ma è ancora troppo recente per interessare il nostro Paese, nel quale normalmente le novità riconducibili alla Riforma approdano in un secondo tempo, per lo più a seguito di un certo consolidamento già raggiunto in Paesi a tradizione protestante. Ad aderire a una Chiesa libera sono sia cristiani provenienti da altre comunità, nelle quali non hanno trovato la spiritualità che cercavano, sia neofiti attratti dall’essenzialità e dall’apertura che normalmente lì si trova.

Due grandi famiglie

Schematizzando non poco, possiamo raggruppare le Chiese libere in due grandi famiglie. Il primo gruppo si può ricondurre alle Libere Chiese evangeliche, il secondo alle libere Chiese che si richiamano ai principi e alla filosofia del New Thought. Le prime, parecchie delle quali negli Stati Uniti, hanno dato vita alla federazione Libere Chiese evangeliche d’America. Sono, sul piano teologico e dottrinale, più vicine al protestantesimo tradizionale, di impostazione luterana. Ciò è abbastanza evidente da un semplice sguardo ai principi alla base della Dichiarazione di fede, sottoscritta da tutte le Chiese aderenti alla federazione. Ossia, totale fede nelle Scritture (Antico e Nuovo Testamento), in quanto parola di Dio; fede nella Trinità e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, nostro redentore in virtù della sua morte sulla croce e risurrezione, asceso in cielo alla destra del Padre; fede, nello Spirito Santo.

La sua presenza salvifica nella vita del fedele e della Chiesa viene particolarmente sottolineata, in particolare sul piano della rigenerazione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, caduto nel peccato, comunque assolutamente capace, proprio grazie all’azione dello Spirito, di rinascere a vita nuova. E ancora, la salvezza è attribuita all’opera redentrice compiuta una volta per tutte da Gesù Cristo; i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia vengono conservati, ma non considerati strumenti di salvezza. Inoltre, «la vera Chiesa è costituita da tutti coloro i quali, in virtù della loro fede salvifica in Gesù Cristo, sono stati rigenerati dallo Spirito Santo e sono riuniti nel corpo di Cristo, del quale egli è il capo».

Essendo Gesù Cristo il solo Signore capo della Chiesa, a ogni Chiesa locale è riconosciuto il diritto di regolare la propria vita. Altrettanto profonda ed essenziale è l’attesa nella «imminente venuta di Nostro Signore Gesù Cristo, a livello della vita personale» del fedele come sul piano storico. Infine, segue la fede nella risurrezione della carne, nella vita eterna e nel giudizio universale.

Per quanto riguarda l’altro grande gruppo, ci troviamo di fronte a una rilettura delle Sacre Scritture che possiamo sintetizzare in base ad alcuni principi compresi come essenza di quel cristianesimo dei primi secoli che tali Chiese vogliono riscoprire. Alla base di tale rilettura vi è come si accennava, il New Thought, nuovo pensiero, scuola teologica e di pensiero e, a un tempo, libero filone protestante risalente alla prima e alla seconda metà dell’Ottocento americano, pur nella diversità dell’impostazione corrispondente alle altrettanto diverse personalità dei suoi maestri (R. W. Emerson, Mary Baker Eddy, le sorelle Brooks e altri ancora), caratterizzato dall’idea di fondo della presenza di Dio nella vita umana e delle conseguenti, enormi, possibilità create da questa.

La consapevolezza della profonda unione tra Dio e la natura umana avviene sulla base dell’intuizione spirituale e viene vista come la fonte di una radicale trasformazioni dell’esistenza a livello di salute, rapporti, lavoro. Il principio del “libero esame” delle Scritture è inoltre tenuto in gran conto. Il regno di Dio è in noi, che siamo tutt’uno con il Padre, e un’enorme importanza è attribuita all’amore del prossimo e al perdono, mentre si sottolinea la necessità di ricambiare il male col bene. La guarigione attraverso la preghiera e la mente, ossia la guarigione spirituale, costituisce un cardine irrinunciabile, così come il costante perfezionamento, cioè l’evoluzione interiore che dimostra la natura in fondo divina dell’essere umano, è visto come lo scopo dell’esistenza.

Dio viene percepito come saggezza universale, amore incondizionato, vita eterna, verità e armonia assoluta, forza suprema, pace e gioia totale, pienezza. In lui noi viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro essere. Proprio in considerazione dell’unità tra natura umana e natura divina, tutte queste caratteristiche sono potenzialmente messe a disposizione dell’uomo. Di conseguenza, una certa enfasi viene posta sul fatto che il regno di Dio comincia già qua e ora. La realtà è vista come causata dai nostri pensieri e viene attribuita importanza pure alla legge di causa ed effetto. La consapevolezza della vita eterna, e quindi della nostra natura di esseri spirituali che si trovano a vivere un’esperienza in questa dimensione terrena, costituisce un altro punto-chiave.

Un universo spirituale

Di qui la sdrammatizzazione della morte, vista come approdo a uno stato di coscienza più elevato. L’intero universo è visto come una creatura spirituale, governato da leggi parimenti spirituali, al di là di ogni apparenza. Vale la pena di ricordare che alcuni di questi principi, in particolare per quanto riguarda le potenzialità della mente umana e la natura dell’universo, i quali una volta potevano sembrare stravaganti assiomi, sono stati confermati da importanti ricerche scientifiche del secolo scorso. Basterà dire che la natura fondamentalmente spirituale dell’universo, nonché il conseguente carattere “inconsistente” della materia, sono stati constatati dalla fisica quantistica, mentre la psicologia da sempre ha superato ogni dubbio circa le straordinarie potenzialità della mente: molti studiosi sono convinti che, per lo più, gli esseri umani non utilizzano che il cinque o sei per cento di tali potenzialità.

Se le Chiese libere del primo tipo sono imparentate col luteranesimo, pur attualizzato e reinterpretato con la massima libertà, quelle del secondo piuttosto con la Christian Science (cf VP 7/2006, “Salute e guarigione” pp. 84-86). La divisione non è peraltro, a livello concreto, così rigida, non solo perché, proprio in quanto “libere”, al di là dei principi di fondo del cristianesimo stesso, non vi è molto spazio per irrigidimenti dottrinali, ma anche perché le une come le altre nascono dalla stessa esigenza di fondo. Ossia quella di vivere la fede cristiana come un’esperienza spirituale capace di trasformare profondamente l’esistenza. Non a caso la guarigione, che è tematica centrale per le seconde Chiese, è tenuta in gran conto anche presso quelle più vicine al protestantesimo tradizionale.

i quali le donne fanno la parte del leone -scrivono libri di successo, per lo più dedicati a tematiche spirituali, compaiono spesso in televisione, scrivono su giornali autorevoli, tengono conferenze gremite dal pubblico, riescono insomma in vario modo a riportare il cristianesimo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica.

Non meno interessante è poi notare il ruolo di grandi confidenti che essi assumono nei confronti dei fedeli, in un certo senso paragonabile a quello di cui godevano i nostri parroci nella cultura contadina e patriarcale, riuscendo a incarnare al tempo stesso la guida spirituale e il terapeuta, l’amico autorevole e il consulente professionale di fiducia. Non a caso, il libero protestantesimo cerca di conciliare, in linea di principio, l’attenzione alla dimensione sociale e professionale tipica della Riforma con la solidarietà caratteristica del cattolicesimo. Le Chiese libere più orientate verso il protestantesimo tradizionale dedicano largo spazio alle attività di volontariato, mentre quelle del secondo, pur non trascurando tale dimensione, dedicano maggiore attenzione alla formazione spirituale sul piano personale, sulla scia dell’insegnamento del New Thought che riconduce la guarigione, intesa nel senso più lato possibile, come superamento della sofferenza e scoperta della dimensione della gioia, alla valorizzazione delle facoltà da Dio donate all’uomo, prima fra tutte la preghiera.

La guarigione, d’altra parte, è vista non solo come soluzione del problema (di salute o di altro genere), bensì come scoperta della propria natura di origine divina - quindi orientata verso l’amore a Dio, a sé e al prossimo -, di cui la soluzione del problema è poi la logica conseguenza. Pur prive della risonanza istituzionale, le Chiese libere sono orientate in senso ecumenico e la stessa proposta di cristianesimo essenziale di cui esse si fanno portatrici viene recepita con interesse da molte comunità di più antica tradizione.

(da Vita Pastorale, 11, 2006)

Associazione mariologica interdisciplinare italiana
La vergine con i cristiani nel mondo attuale
di Alberto Valentini *

Con l’atto costitutivo dell’associazione nel 1990, si è realizzato il sogno degli studiosi e degli innamorati della Madre del Signore. L’obiettivo è di illuminare la figura della Vergine Maria nel contesto delle scienze teologiche e umane; nello stesso tempo si desidera incentivare sempre più il dialogo ecumenico, talvolta difficile.

L’idea di costituire anche in Italia un’associazione di studi mariologici, sull’esempio di quelle esistenti in altre nazioni, era stata presa in considerazione negli anni cinquanta del secolo scorso, ma per diversi motivi non si era realizzata.

Più di trent’anni dopo, il problema riemerse nell’ambito del Collegamento mariano nazionale: il 12.10.1988, nel corso di una verifica circa le attività svolte dal Collegamento, il direttore Alberto Valentini evidenziava la necessità di un’istituzione italiana di ricerca in campo mariologico.

Cenni storici

Il progetto di una nuova associazione scientifica appariva ambizioso e stimolante, ma comportava non poche difficoltà. Per prima cosa si trattava di sondare il terreno e preparare l’ambiente: con questo intento i monfortani Stefano De Fiores e Alberto Valentini iniziarono degli approcci presso alcuni centri universitari romani.

Incoraggiati dai risultati d itali incontri preliminari, si decise di convocare - con lettera firmata da Salvatore Meo (allora preside del Marianum), De Fiores e Valentini - circa trenta studiosi di teologia, uomini e donne, provenienti da vari centri universitari e istituzioni culturali d’Italia, per studiare insieme il progetto, le finalità e i compiti della nuova associazione.

Nel giro di alcuni mesi si ebbero tre incontri, rispettivamente il 21.12.1989, il 15.2 e il 5.4.1990, sempre a Roma, presso il Santuario di Maria Regina dei Cuori. Nella riunione del 5 aprile si pervenne alla costituzione dell’Ami, Associazione mariologica interdisciplinare italiana, sottoscritta da venticinque soci fondatori. L’atto legale, costitutivo dell’associazione, venne firmato davanti al notaio il 9.5.1990.

Membri e finalità

Attualmente l’associazione (sede: via Cori, 18/A — 00177 Roma, telefono 06.83.39.63.02 [segretario Enrico Vidau], www.mariology.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) conta un centinaio di soci tra ordinari, onorari e sostenitori sparsi in tutta Italia. Tra di essi ci sono anche non italiani, per lo più residenti a Roma. Soci ordinari sono coloro che, in possesso di laurea o licenza in mariologia o in scienze teologiche, oppure di laurea in scienze umane, sono attivamente interessati alla ricerca mariologica. Soci onorari sono studiosi di riconosciuta competenza in campo mariologico o che abbiano acquisito particolari benemerenze nel promuovere le finalità dell’associazione. Soci sostenitori sono quanti in diversi modi cooperano alle attività e iniziative dell’Ami.

Dallo statuto dell’associazione emergono alcune note imprescindibili - come la scientificità e l’interdisciplinarità, l’apertura ecclesiale, il dialogo col mondo contemporaneo - che qualificano l’Ami, ne giustificano la ragion d’essere e ne precisano gli obiettivi. L’Associazione mariologica italiana intende inserirsi con umile, ma consapevole determinazione, nel contesto delle scienze teologiche e umane, per illuminare la figura della Vergine Maria all’interno dell’esperienza cristiana e nel cammino del popolo di Dio in mezzo al mondo.

L’associazione, che non ha fine di lucro, si prefigge i seguenti scopi:

1 promuovere la ricerca scientifica concernente la Vergine Maria Madre di Gesù, nel contesto della fede ecclesiale, con apertura alla dimensione ecumenica, in dialogo con le scienze teologiche e umane, e in collaborazione con analoghe associazioni a livello internazionale, specialmente europeo;

2 elaborare adeguati criteri teologici per illuminare la pietà mariana, prestando attenzione agli orientamenti pastorali della Chiesa italiana;

3 favorire lo studio della mariologia nei suoi vari aspetti, specie tra i giovani ricercatori e gli operatori di pastorale, con particolare riferimento alla tradizione italiana.

Per realizzare questi scopi, l’Ami ricorre alle seguenti iniziative:

• organizzare incontri, convegni, giornate di studio;
• pubblicare e diffondere libri e riviste a carattere mariologico;
• elaborare una banca dati riguardanti Maria, a servizio di tutti e in particolare degli studiosi;
• svolgere qualunque altra attività diretta a incentivare la ricerca mariologica e integrare gli ambiti suddetti.

Pubblicazioni

Organo ufficiale dell’associazione è la rivista scientifica semestrale Theotokos. Ricerche interdisciplinari di mariologia, sorta a Roma nel 1993. Dal 1993 al 2000 la rivista, in una serie di ampie monografie interdisciplinari, ha trattato “Maria secondo le Scritture”. Dal 2001 a oggi ha continuato con studi sistematici a studiare “Maria nei Padri e scrittori ecclesiastici dei primi secoli”.

Alla rivista Theotokos è stata affiancata la collana “Biblioteca di Theotokos”, che raccoglie contributi di valore circa gli aspetti più significativi e attuali della figura di Maria, seguendo i vari approcci delle scienze teologiche e umane. Essa raccoglie in particolare gli Atti di incontri svolti in Italia e dei colloqui internazionali di mariologia. Un’ulteriore serie di studi, “Nuovi percorsi di mariologia”, in linea con, gli obiettivi dell’Ami, intende promuovere il rinnovamento della ricerca mariologica, pubblicando gli Atti dei convegni nazionali dell’Ami. Infine l’Associazione mariologica italiana sta realizzando un arduo e affascinante progetto, con l’impegnativa edizione di Monumenta italica mariana. Studi e Testi. Con essa si intende sottrarre all’oblio opere e documenti della millenaria, ricchissima e variegata tradizione mariana presente in Italia.

Come si vede, sono tante le attività e i campi d’interesse dell’Ami: dalla Bibbia alla patristica, alla teologia, alla liturgia, alla catechesi, fino all’arte e alla bellezza estetica, ambiti nei quali la figura della Vergine è presente in maniera puntuale ed esemplare. Proprio alla dimensione della bellezza, alla via pulchritudinis in mariologia, l’Ami ha dedicato gli ultimi quattro convegni annuali, cercando di illuminare e valorizzare questo sentiero poco battuto, ma indubbiamente promettente e imprescindibile. Si tratta di un’indagine, in qualche misura pionieristica, al servizio della mariologia e della riflessione teologica, in sintonia con la ricca e molteplice sensibilità contemporanea.

* presidente Ami, professore di Nuovo Testamento all’Università gregoriana, Roma, e mariologia biblica al Marianum

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

Bibliografia

L’Ami opera fondamentalmente su un duplice versante: la ricerca scientifica, mediante un approccio serio e critico alla mariologia, e il servizio alla fede e alla pietà del popolo di Dio. Di questo duplice orientamento sono espressione i volumi indicati, utili a diversi lettori e operatori di pastorale. Marraccii HiIippolyti, Biblioteca mariana. Trascrizione del testo originale edito in Roma nel 1648, Edizioni Ami 2005, Roma, pp. 1024; Langella A. (ed.), Via pulchritudinis e mariologia, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 304; Dall’Aglio W. - Vidau E. (edd.), La Madre di Dio per una cultura di pace, Edizioni monfortane 2001, Roma, pp. 222; Colasanti G. - Borzomati P. - Vidau E. (edd.), Maria e l’impegno sociale dei cristiani, Edizioni Ami 2003, Roma, pp. 240; Scalisi B. - Vidau E. (edd.), Maria e la cultura del nostro tempo a trent’anni dalla Marialis cultus, Edizioni Ami 2005, Roma 2005, pp.183.

La Bibbia giustifica la pena capitale?
di Gianfranco Ravasi

Ricordo che tempo fa uno dei lettori dei miei scritti sui giornali a cui collaboro mi aveva tempestato di lettere, convinto di avere una giustificazione per la condanna alla pena di morte a causa del fatto che essa appare a più riprese all’interno dell’Antico Testamento.

Preparai, dunque, una risposta che pubblicai su Famiglia Cristiana: naturalmente, essendo necessario un discorso articolato di taglio interpretativo, non mi fu possibile esaurire la questione sottesa a quelle pagine. A questo punto quel lettore cambiò registro e si orientò su un passo evangelico specifico, abbandonando quindi il terreno anticotestamentario e rivolgendosi un Nuovo Testa,mento che dovrebbe essere all’insegna della legge dell’amore.

Proprio per questo si riesce a comprendere che una corretta ermeneutica non vale solo per le Sacre Scritture ebraiche, ma anche per l’orizzonte cristiano che noi consideriamo sgombro da equivoci interpretativi: in realtà i rischi del letteralismo nella lettura della Bibbia possono essere in agguato in ogni pagina.

Il lettore, infatti, faceva riferimento a un detto (tecnicamente un lòghion) di Cristo che riflette lo stile orientale e che ha forti segni di autenticità storica. Egli sospettava che dietro la frase di Gesù: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola d’asino e lo buttassero in mare», presente nei vangeli di Marco (9,42), Matteo (18,6) e Luca (17,2), si celasse un invito ad applicare «la pena di morte anche per i non assassini».

In realtà, come da tempo si insegna, ogni linguaggio adotta alcuni canoni di comunicazione (i cosiddetti “generi letterari”) che richiedono di essere interpretati per cogliere ciò che essi realmente vogliono dire, così da evitare equivoci o fraintendimenti.

Ora è ben noto che Gesù - come tutta la Bibbia - usa un linguaggio simbolico legato alla cultura semitica del suo tempo: esso ha formule espressive, immagini, simboli differenti dai nostri e quindi da comprendere e interpretare.

Nel passo in questione egli sta parlando non tanto dei bambini (in greco paidìon) - a cui pure si fa riferimento nel contesto, assunti però come emblemi della fiducia pura e serena - ma dei “piccoli” (io greco mikròs), una categoria non anagrafica ma esistenziale. Infatti si dice esplicitamente: «I piccoli che credono». Di scena sono quasi certamente coloro che sono deboli nella fede, piccoli nel credere e che devono ancora crescere (non si tratta, dunque, della pur esecrabile e infame vergogna della pedofilia).

È facile che, con superficialità o cattiveria, un fratello che si sente più sicuro nella sua fede possa far cadere questi “piccoli”: si usa infatti la parola “scandalo”, che in greco letteralmente indica la pietra o la trappola che fa inciampare la selvaggina nella caccia. Anche san Paolo, scrivendo la prima lettera ai Corinzi (8,7-13) e la lettera ai Romani (14,1-15,4), affronta questo problema suggerendo carità e pazienza: «Accogliete fra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Cristo, contro coloro che invece mettono consapevolmente in crisi il fratello, “piccolo” nella fede, pronunzia una sorta di maledizione, esprimendola con un’immagine colorita e veemente desunta dal mondo in cui egli viveva e dalle sue consuetudini.

Si tratta del cosiddetto katapontismòs, ossia dell’esecuzione dei colpevoli per annegamento. Essa era praticata dai romani: l’imperatore Augusto aveva fatto annegare il precettore e i servi di suo figlio Gaio, stando almeno allo storico romano Svetonio; mentre un altro storico, l’ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), menzionava il caso dei galilei ribelli che avevano annegato nel lago di Tiberiade alcuni sostenitori di Erode.

Gesù, che ha insegnato l’amore e il perdono dei nemici, non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a quell’immagine per indicare la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. E’ un modo simbolico vigoroso, tipico del linguaggio orientale che ama le tinte forti e le passioni accese, per ricordare il severo giudizio divino su un atto considerato come grave.

L’idea di legare al collo la pesante macina con un foro destinata a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare - un oggetto noto anche dai reperti archeologici - diventa così un segno della condanna grave che incombe sullo “scandalizzatore”. Anzi, come scrive un esegeta, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo dì Dio colui che h provocato lo scandalo».

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico
Un decalogo per il dialogo
di Brunetto Salvarani


Tre indicazioni - 2° ottobre 2006, ultimo venerdì di Ramadam 1427, quinta giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico - per un unico giorno del calendario. Esemplari, per cogliere la lettura plurale con cui il processo di moltiplicazione di sguardi religiosi con cui, anche nel nostro paese, si legge la realtà: ma anche per evidenziare il bisogno di più dialogo (e non di meno dialogo, come strillano di regola le gazzette che contano) per affrontare con speranze di successo la sempre più difficile situazione in atto. Semmai. di un dialogo più qualificato, consapevole e popolare, su cui le chiese cristiane italiane - così come le comunità musulmane - investano e in cui credano, come l’unico linguaggio credibile per dire Dio nell’oggi della storia.

E’ una volta di più, la linea del Vaticano II con la dichiarazione Nostra aetate, della pedagogia dei gesti così cara a Giovanni Paolo II, della Charta oecumenica stilata nel 2001 a Strasburgo, ma anche delle prime dichiarazioni di Benedetto XVI, non appena eletto al soglio di Pietro lo scorso anno, e ancora alle comunità islamiche di Colonia, ai margini della Giornata mondiale della gioventù, la scorsa estate. Poi, venne Ratisbona, con i ben noti fraintendimenti più o meno cercati, su cui ormai è già stato detto tutto. In ogni caso, segnale vistoso della complessità estrema delle relazioni interreligiose, in una stagione di identità troppo spesso esibite, urlate e violente; nonché, una volta di più, cercando di volgere in positivo la cosa, occasione di purificazione per un colloquio (quello cristianoislamico, in particolare) che è ancora bambino e troppo influenzato dal surriscaldatissimo clima planetario.

La convivenza come “sfida”

In tale contesto, appare quasi miracoloso che l’esperienza della Giornata ecumenica del dialogo, nata all’indomani dell’11 settembre 2001 con un appello firmato da un gruppo qualificato di cristiane e cristiani di diverse confessioni e impostasi con la forza del passaparola, senza finanziamenti e senza amplificazioni mediatiche, sia giunta al termine del suo primo lustro in buona salute.(1) Tra le molte manifestazioni previste un po’ in tutta Italia, cito almeno quella di Roma, che si svolgerà presso la grande moschea e culminerà in una tavola rotonda dal titolo La sfida della convivenza e il dialogo tra le fedi. Vi parteciperanno Abdellah Redouane, segretario del Centro islamico culturale d’Italia, il vescovo Vincenzo Paglia, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, la pastora Maria Bonafede, moderatore della Tavola valdese. mons. Piero Coda, presidente dei teologi italiani, Paolo Naso, direttore della rivista Confronti. e il ministro per la solidarietà sociale, On. Paolo Ferrero.

Se la Giornata ecumenica ha saputo attraversare indenne questi anni complicati e faticosi, e questi ultimi mesi addirittura affannati, densi di slogan beceri e di contrapposizioni frontali, è perché, in fondo, al dialogo non esiste alternativa. Il problema, piuttosto, riguarda, da un lato, la sua praticabilità, in un contesto di reiterate e penose strumentalizzazioni, di ascolto reciproco sostanzialmente nullo e di reciproche scomuniche quotidiane; e, dall’altro, i suoi contenuti, quelli di una parola che rischia il depotenziamento a causa del suo abuso e della sua banalizzazione.

Ecco allora che, opportunamente, il comitato organizzatore, di anno in anno allargatosi fino a comprendere molte riviste e associazioni oltre ai singoli che lanciarono il primo appello, propone stavolta, quale motto, Un decalogo per il dialogo, con l’obiettivo di riempire di contenuti concreti tale cammino, recuperando e facendo proprio il lavoro prezioso di un gruppetto di specialisti impegnati in prima persona, il sociologo Stefano Allievi, il linguista Paolo Branca, il giurista Silvio Ferrari e Mario Scialoja, presidente per l’Italia della Lega musulmana mondiale. (2)

La loro riflessione prende le mosse dalla constatazione secondo cui la presenza di musulmani nella nostra penisola ha ormai raggiunto una tale mossa critica da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, da una parte e dall’altra, con numerose iniziative, conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo ma, proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri paesi europei, appare indispensabile che le istituzioni e i cittadini italiani e non, coinvolti a vario titolo nella questione, trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.


La dimensione politica del dialogo


Per questo, mentre il nostro paese vive un decisivo momento di riformulazione degli equilibri politici e delle sue prospettive di riforma, il documento motiva il richiamo ad alcuni punti che sembrerebbero di cruciale rilevanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni tracciate come pensate esclusivamente per loro, anche se il testo ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica.

La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che ad un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto ad un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende ad enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.

I quattro si dicono consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità li spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune:

Per entrare più nel dettaglio, riprendiamo un paio di punti del decalogo, a partire dal primo, il più esteso e quello, per certi versi, maggiormente strategico, secondo il quale occorrerebbe incoraggiare la collaborazione con le istituzioni ad ogni livello per promuovere una reale partecipazione, dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo sarebbe utile, in particolare, partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto, anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche; e promuovere interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia...) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.

Importante è altresì il punto sette in cui s’incoraggiano i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa imparziale. Gli esempi delle ultime settimane, ancora una volta, esprimono la centralità di un simile assunto.

La novità più evidente riguarda la dimensione politica del dialogo che non può più restare confinato nelle spesso anguste formulazioni del religioso. Anzi. Questo è il messaggio di fondo, ineludibile: per lavorare nel dialogo con la prospettiva di un confronto sincero quanto fruttuoso, dovremo sempre più usare parole laiche e stili di comportamento laici. Laici e, beninteso, piaccia o no, politici.


Non è lo scontro tra bene e male

Va infatti sottolineato come, attualmente, il dialogo si riveli sovente più aspirazione che realtà: e sarà perciò, per ora, più onesto limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, o, più in generale, di rapporti interreligiosi, o ancora, come fa la teologia più avvertita, di scambi o conversazioni tra religioni. Del resto, in più di un documento vaticano - fra cui la stessa Nostra aetate e l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI - il termine dialogo traduce il latino colloquium, evocarne una versione maggiormente dimessa e quotidiana: è la dimensione dialogica che si manifesta nelle relazioni sociali tra credenti di differente appartenenza. Infatti, accade spesso, oggi, che la fondante dimensione dialogica sia quella personale, privata, concreta, come quella di fatto sperimentata da quanti hanno a che fare, direttamente e non superficialmente, con immigrati di religioni altre. ad


Papa Ratzinger. lo scorso 25 settembre, nel ricevimento degli ambasciatori dei paesi musulmani e dei membri della Consulta islamica voIuta dal governo italiano, ha detto fra l’altro: «E’ necessario che, fedeli agli insegnamenti delle loro rispettive tradizioni religiose, cristiani e musulmani imparino a lavorare insieme, come già avviene in diverse comuni esperienze, per evitare ogni forma d’intolleranza, e opporsi ad ogni manifestazione di violenza; è altresì doveroso che noi, autorità religiose e responsabili politici, li guidiamo e incoraggiamo ad agire così».
La grande sfida che attende i fautori del dialogo - come ha scritto recentemente Enzo Bianchi (3) – è infatti quella di evitare una lettura delle differenze, anche profonde, come scontro tra il bene e il male, di rifuggire l’identificazione tra un islam astratto e l’incarnazione del male e di rifiutarsi di demonizzare l’altro. Per riuscire in tale impresa, ciascuno deve fare appello alla ragione di cui tutti sono muniti e che, nel suo fecondo intrecciarsi con i dati della rivelazione, ci può ricondurre sulle vie della pace e della fratellanza umana

(da Settimana, 15 ottobre 2006)

Note(1) Per il testo dell’appello, e per i materiali relativi alle scorse edizioni, si può visitare il sito dell’iniziativa: www.ildialogo.org
(2) Il testo in questione è comparso per la prima volta proprio su queste pagine, in Sett., n. 22 (4 giugno 2006), p. 4
(3) Bianchi E., “Il dialogo con l’Islam, un’occasione offerta ai cristiani, in La Stampa (24 settembre 2006).

La sincerità implica il concetto di reciprocità. Quando tra due o più persone si instaura un rapporto (affettivo, di amicizia, di lavoro, di assistenza), l’essere sinceri diventa un imperativo al quale non ci si può sottrarre...

La risurrezione di Cristo,
fonte di ogni nostra speranza
di Vladimir Zelinskij




Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la vostra predicazione « ed è vana la vostra fede», dice san Paolo. Non lascia lo spazio al vago e passeggero “senso religioso” che dice che «Dio è nell’anima» e non importa, se ci sia, cosa faccia fuori. Sembra che l’apostolo voglia sottomettere l’impalpabile “tessuto” del credere alla logica aristotelica che esclude la terza via. Non è la logica a essere in gioco, però. Non si tratta di un evento esterno a noi, di un dogma imposto, di un articolo del Credo che siamo costretti a fare nostro.

Il messaggio di Paolo può essere letto diversamente: ogni esistenza umana porta dentro di sé il suo fuoco segreto, un nucleo nascosto che si chiama speranza. E’ la fede che dà alla speranza la gioia di crescere nella fiducia in Dio che, nato da uomo, morto da uomo, sia anche resuscitato da uomo. La fede nella risurrezione è il linguaggio della speranza inespugnabile e irriflessiva, messa in noi, che ci parla della vita del «mondo che verrà». Se Cristo non fosse risuscitato, ogni speranza sarebbe una fantasia, un inutile slancio d’animo, l’evidenza della decomposizione generale sarebbe più forte di quella voce pazza dentro di noi che grida, come Giobbe: «Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso» (19,27).

La speranza dice che si può gridare senza paura, senza cercare le parole corrette e bilanciate perché la notizia della risurrezione porta la promessa folle in cui “io” trovo me stesso solo nell’incontro con il Risorto. La mia vera personalità si rivela solo nella sua rivelazione. Essa tocca me come grano di sabbia nella terra deserta che un giorno, secondo le Scritture, diventerà di nuovo il giardino dell’Eden, come ossa secche che si ricopriranno dalla carne viva nella profezia di Ezechiele.

La promessa s’accende con la Luce che illumina ogni uomo, con la Parola che entra e s’incarna nel nostro cuore, col Volto che ci guarda negli occhi. Quella promessa è la radice di ogni fede cristiana, ma anche il suo “segno di contraddizione”, perché la speranza può parlare con toni diversi. Nell’Ortodossia il suo modo di esprimersi è piuttosto paradossale: Dio è più vicino a noi di quanto lo siamo noi stessi, ma per raggiungerlo ci manca tutta la vita; il Regno è gratuito, è dato a tutti, ma - come dice Gesù nel Vangelo di Matteo - solo «i violenti se ne impadroniscono» (11,12); la promessa è eredità di ciascuno di noi, ma bisogna combattere per acquistarla nel proprio spirito.

L’attesa troppo sicura, quando la salvezza ti arriva come il premio per essere concepito, non è quella che non delude. Il vero messaggio della risurrezione inizia con la follia e la lotta per quella vita che ci fu promessa e che dobbiamo scoprire con «l’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori».

Teologia africana
Incisività cercasi
di Bénézét Bujo

Studiare e insegnare teologia – come pure scrivere libri in materia – non è un lusso o un motivo di vanto, ma un ministero ecclesiale. Che va curato, rafforzato e apprezzato.

Teologia come ministero

«Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 4-7). In una comunità cristiana ci sono apostoli, profeti, maestri, operatori di miracoli, guaritori, leader…..: sono tutti indispensabili per un armonioso andamento delle cose.

ministero è di governare la chiesa locale. Per fare ciò, ha bisogno di collaboratori. Tra questi figura il teologo, che studia, indaga, analizza, elabora, propone, scrive….. La sua opera va offerta al vescovo, il quale è chiamato ad ascoltare, giudicare, decidere….. Più teologi un vescovo ha, meglio saprà condurre la chiesa locale.

Temi teologici

Il ministero di teologo va oggi compiuto nel contesto africano del 21° secolo. Un contesto che ha molte dimensioni, tuttora profondamente permeate dalla cultura africana. E superficiale affermare che la mentalità tradizionale è stata spazzata via della modernità. Essa, invece, dà forma al modo di pensare, sentire e agire delle nostri genti. Basti pensare alla diffusa credenza nella stregoneria, all’importanza data ai riti di guarigione, alle diverse concezioni del matrimonio….. Il nostro compito di teologi è quello di ascoltare la nostra gente per scoprirne l”anima” africana.

L’attenzione non dovrà perdersi nell’esame di particolarismi etnici, ma concentrarsi sulla ricerca del vero centro dell’universo simbolico africano, che è comune a molti gruppi. Così, potremmo diventare sempre più consapevoli del modo in cui i vari popoli dell’Africa nera possono dare vita a un dialogo culturale. E’ mia convinzione che il dialogo tra le diverse culture africane risulterebbe più facile di quello tra esse e quelle non africane. Un esempio: invece di presentare all’africano Adamo come antenato, per poi presentare Cristo come “secondo Adamo”, è più sensato sviscerare il concetto africano di antenato per poi “inculturarvi” la fede in Cristo “Proto-antenato”.

Anche il dialogo ecumenico tra le varie denominazioni cristiane risulterebbe più fecondo, se fosse più radicato nella cultura africana. La venerazione degli antenati è un ottimo punto di partenza per una comprensione del mistero della comunione dei santi accettabile anche dai protestanti. E il ruolo riservato a Maria, in quanto Madre di Dio, sarebbe più comprensibile, se visto sullo sfondo dell’importanza attribuita alla madre, “sorgente di vita”, nelle culture africane.

Linguaggi teologici

Se vogliamo che la teologia fatta in Africa diventi veramente africana, dobbiamo cominciare a insegnarla e scriverla nelle nostre lingue, usando concetti e simbologie locali. Le accezioni africane di “padre”, “madre”, “fratello-sorella”, “figlio-figlia”….., non sono quelle occidentali. Quando noi parliamo di “famiglia”, intendiamo una realtà che difficilmente europei e nordamericani capirebbero. Un esempio: l’attuale codice di diritto canonico ammette matrimoni tra due persone imparentate (fino a un dato livello) che le culture africane considerano autentiche unioni incestuose.

Anche il linguaggio riguardante la povertà va rivisto. Per la mentalità africana, povera è soprattutto la persona che “non-è-con” l’altro o gli altri, priva, cioè, di relazioni. In molte lingue nostre non esiste il verbo “avere”, ma soltanto l’”essere con” (kuwa na, kuzala na, kü na…,dove na sta per “con”). Tutto ciò che ci circonda non è lì per essere da noi posseduto, ma per invitarci a creare sempre nuove relazioni. Il possesso individualistico è totalmente fuori posto.

Il linguaggio va ricreato anche a livello di liturgia, omiletica, preghiere... In tutto ciò, è indispensabile che i vari modi di espressione siano liberi di offrire i propri contributi. A questo fine, è auspicabile che nelle facoltà africane di teologia si creino dipartimenti di linguistica. Non possiamo più farne a meno, se vogliamo dare ascolto all’appello lanciatoci da Paolo VI nel lontano 1969, a Kampala: «Africani, voi potete e dovete avere un cristianesimo africano».

(da Nigrizia, febbraio 2006)

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