Religioso Marista
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Etiopia, laboratorio di tolleranza
di Giuseppe Caffulli
«Credo che l'Etiopia nella sua lunga storia sia stata e sia tuttora un esempio di pacifica coesistenza di genti e culture diverse. Il cristianesimo, l'ebraismo, l'islam ed altri hanno una lunga storia in Etiopia. L'antica tolleranza ha portato alla coesistenza pacifica dei credenti di queste religioni per secoli. Diversamente da altre parti del mondo, percorse da estenuanti scontri civili, abbiamo creato sistemi sociali e culturali che ci hanno permesso di gestire i conflitti che sorgevano da incomprensioni tra confessioni religiose. È una lezione buona, che tutti dobbiamo seguire per poter ostacolare le conseguenze pericolose del fondamentalismo. Anche se dobbiamo essere onesti: la strada della pace non è automaticamente segnata». Abuna Paulos è patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia, una delle Chiese cristiane di più antica tradizione, calata in un contesto dove il dialogo tra le religioni e le Chiese è una sfida (e una necessità) costante. Ma anche il rischio del fondamentalismo religioso si fa ogni giorno più concreto. In margine alla partecipazione al meeting Uomini e religioni di Milano, ha concesso in esclusiva questa intervista a Mondo e Missione.
Santità, qual'è oggi la situazione della Chiesa ortodossa d'Etiopia?
La nostra Chiesa ha conosciuto svariati problemi nel corso dei secoli. Durante le diverse dominazioni la Chiesa ha sofferto molto, perché è diventata il bersaglio del potere di turno. Oggi viviamo un periodo di sostanziale tranquillità. Il governo attuale ha imboccato la strada della democrazia e questo atteggiamento si riflette positivamente anche nelle relazioni con la Chiesa. Il popolo, durante il regime comunista, ha sopportato - insieme a molte altre vessazioni - anche la proibizione di partecipare alla vita della Chiesa. Ora invece si assiste a un risveglio della frequenza alle celebrazioni e dell'interesse per la religione, specie nei giovani. I nostri monasteri stanno vivendo una stagione felice: sono moltissime le nuove vocazioni. Viviamo un momento di grazia, che spero possa continuare. Mi auguro solo che chi, come me, ha ruoli di responsabilità nella Chiesa, sappia cogliere e dare risposte alle esigenze spirituali dei giovani.
E lo stato delle relazioni con la Chiesa cattolica?
Le relazioni con la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane presenti in Etiopia sono buone. Non ci sono conflitti tra le nostre Chiese. Lavoriamo insieme per rispondere alle sfide comuni, che sono quelle che un Paese come il nostro propone ogni giorno. Un impegno è quello del bene del nostro popolo.
Ci sono esempi di collaborazione con la Chiesa cattolica ormai di lunga data. Ad Arba Minch, nell'estremo sud del Paese (M.M., aprile 1998, pp. 60-61), i padri spiritani si sono messi al servizio della formazione dei diaconi ortodossi... Che giudizio ha di questo esperimento, peraltro discusso anche in casa cattolica?
Sono convinto che le forme di collaborazione bilaterale vadano approfondite e sviluppate tra la nostra Chiesa e quella cattolica. Penso al campo della scuola, dove i cattolici hanno una tradizione e una competenza riconosciuta. Sarebbe davvero una cosa ottima per tutti poter lavorare insieme. Detto questo, a differenza di Arba Minch, non sempre i rapporti corrono su questi binari. Non c'è nessuna forma di antagonismo verso i cattolici in quello che sto dicendo. Pongo la questione da un punto di vista semplicemente cristiano. La Chiesa cattolica è ricca di personalità e risorse, di saggezza e forze spirituali. La critica che faccio è questa: perché utilizzare questa ricchezza in ambito missionario? Perché adoperarla nella logica di includere? La varietà delle confessioni religiose è un patrimonio straordinario. Le differenze delle nostre Chiese di antica tradizione sono semplicemente modalità diverse per esprimere la ricchezza della medesima radice cristiana. Le differenze costituiscono una forma di bellezza, sono come note che insieme formano un accordo. Esiste una unità da ricercare sul piano teologico ed ecclesiologico. Esiste un’altra forma di unità, già visibile, che si evidenzia nell'aiuto fraterno. La competizione, invece del sostegno, non è un atteggiamento cristiano.
Le forme di collaborazione tra le nostre Chiese esistono non solo ad Arba Minch. Ma mi chiedo: perché non lavorare ancora di più insieme? Questo vale anche per le altre Chiese cristiane, che possono fornire il loro apporto di incoraggiamento e sostegno.
In Etiopia esiste una forte componente musulmana...
La comunità musulmana è presente nel Paese da moltissimo tempo. Nel passato non ci sono stati conflitti né con i musulmani né con altre confessioni religiose. L'atteggiamento complessivo della Chiesa ortodossa nei confronti delle altre religioni è sempre stato di tolleranza. Anche i re d'Etiopia hanno sempre avuto un atteggiamento di benevolenza nei confronti dei musulmani. Oggi nel Paese, ma questo è una costante che accomuna diversi contesti, la situazione dell'islam è cambiata rispetto al passato. Ho visto una grande moschea a Roma, del costo di molti milioni di dollari. Ci sono molte moschee in Germania e in Gran Bretagna e in Francia, dove l'islam è la seconda religione. L'islam è cambiato, si sta diffondendo ovunque e sta rivendicando spazi. Bene, il mondo è di tutti. E questo fenomeno di espansione è legittimo. Ma proprio perché il mondo è di tutti dobbiamo cercare di vivere insieme.
L'Etiopia non è l'unico Paese in cui gli islamici stanno portando avanti un'azione nei confronti dei cristiani. Questo avviene anche in Europa, in America. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che i musulmani siano in Etiopia, perché sono ormai ovunque. Ciò che preoccupa me personalmente è che gli organismi internazionali, e l'Onu in prima battuta, non perdano l'occasione di proporre delle politiche d'inclusione sociale e di lotta alla povertà capaci di togliere terreno fertile al fondamentalismo e di offrire a tutti delle opportunità di vita, in modo che insieme si possa costruire una convivenza pacifica.
Il Paese è uscito di recente da una sanguinosa guerra con l'Eritrea.
Siamo amareggiati per la guerra scoppiata con l'Eritrea, perché i nostri Paesi hanno radici comuni, siamo un solo Paese, siamo fratelli e sorelle. È stata una sciagura questa guerra. Il popolo ha pregato fortemente per la pace e la fine del conflitto, e così è avvenuto anche in Eritrea. Non credo personalmente che l'Etiopia abbia intrapreso questa guerra per ambizione o espansionismo. Certamente qualcuno ha spinto e incoraggiato. Non so chi. Ma non c'era ragione perché due popoli fratelli si combattessero, Appena poi la guerra è scoppiata, si sono fatte avanti nazioni per controllare e condizionare.
Ricordo che il governo dell'Etiopia ha sempre chiesto una soluzione pacifica del conflitto. Nessuno ha voluto ascoltare. Il costo di vite è stato enorme da entrambe le parti. L'eventualità della guerra tra i due Paesi non sembra ancora risolta. E per questo chi ha responsabilità deve parlare molto chiaramente, per spazzare il campo da ogni possibilità di scontro armato. Noi condanniamo fermamente la guerra, ma non possiamo negare la possibilità di difesa.
Per secoli la Chiesa etiope è stata legata alla sede di Alessandria. Come sono oggi i rapporti?
L'Etiopia ha ricevuto il Vangelo nel 34 d.C. Le comunità che si erano formate erano però povere di mezzi e di risorse umane. Allora il re mandò degli ambasciatori ad Alessandria, che era la Chiesa più vicina, per avere aiuto. Chiese di ottenere istruzioni circa la vita delle comunità cristiane e la consacrazione di un vescovo. Cosa che avvenne per mano dell'allora patriarca Atanasio il Grande. In seguito la Chiesa d'Alessandria non permise che ci fosse nessun vescovo che non fosse egiziano. Così è stato per secoli. Siamo stati sempre trattati come una Chiesa bambina e abbiamo sempre avuto vescovi stranieri. Solo cinquant'anni fa abbiamo potuto consacrare un patriarca etiope e vedere riconosciuta la nostra tradizione di Chiesa autocefala. E questo è stato possibile anche grazie al nostro imperatore (Haile Selassie, l'ultimo negus - ndr). Ora noi vogliamo vivere in pace, come Chiese sorelle. Sento dire spesso che in Egitto sono contrariati e non desiderano cooperare. A dire il vero non lo hanno mai fatto. Innumerevoli volte abbiamo patito la fame e la siccità in Etiopia, e da quella che si riteneva la nostra Chiesa madre non abbiamo mai avuto nessun aiuto. Ripeto: agli inizi della nostra storia cristiana, siamo stati noi a chiedere un aiuto ad Alessandria; poi abbiamo avuto la pazienza di aspettare secoli. Infine abbiamo ottenuto legalmente il diritto di proclamarci Chiesa indipendente. Non vogliono esserci amici? Mi dispiace, ed è una cosa triste da un punto di vista cristiano. Credo che comunque sia una diatriba che riguarda le alte gerarchie della Chiesa. Sono stato al Cairo e a Gerusalemme. Il popolo mi ha sempre accolto con deferenza e simpatia.
Esiste oggi una forte diaspora dei cristiani etiopi all'estero. Come assicurare loro assistenza pastorale?
Fin dall'occupazione italiana nel Paese è iniziata una forte diaspora. Ora ci sono circa 40 milioni di cristiani ortodossi etiopi nel Paese, cinque milioni all'estero, in tutti i Paesi del mondo. In Italia esiste una numerosa comunità. Ma mentre anni fa la diaspora era iniziata sull'onda di questioni politiche, oggi le motivazioni sono essenzialmente di ordine economico. La ricerca di condizioni di vita migliori porta a scegliere l'emigrazione. Molti comunque decidono poi di ritornare e costituiscono oggi una risorsa per la ricostruzione del Paese. Uno dei nostri maggiori problemi oggi è quello dell'assistenza pastorale ai nostri fedeli fuori dal Paese. Abbiamo parrocchie e diocesi in diversi Paesi del mondo, in Europa, America del Nord e del Sud. Ovunque ci siano fedeli cerchiamo di inviare un sacerdote. Abbiamo Chiese anche in diversi Paesi musulmani, dove andiamo in pace per assistere i nostri fedeli. Si tratta di zone dove non siamo mai stati presenti, anche se l'attività pastorale è limitata alla sfera dell'amministrazione dei sacramenti e alle celebrazioni. È un grande impegno, perché siamo una Chiesa povera e non abbiamo grandi possibilità finanziarie.
Santità, più volte ha denunciato la pratica del proselitismo, specie da parte dei gruppi protestanti...
Specialmente negli anni segnati da profonde difficoltà economiche e dai periodi di siccità e carestia, questo aspetto si è reso evidente. In quei frangenti la generosità dei cristiani all'estero si è manifestata con la raccolta e l'invio di aiuti. Per distribuirli sono stati inviati in Etiopia dei rappresentanti che li hanno usati in modo diverso, cioè per attrarre i fedeli nelle proprie comunità. Questa non è l'attitudine dei cristiani. È stato fatto spavaldamente, sfacciatamente. Sappiamo che gli aiuti non provengono dalla persona che li distribuisce direttamente, ma dalla generosa solidarietà di comunità di varie parti del mondo. Ma quei loro rappresentanti si sono comportati in modo egoistico, come gente che vuol essere vincente, la più forte, maggioranza. Credo che solo il cuore semplice e onesto, l'atteggiamento cristiano, è l'unico che risolverà un certo tipo di problemi. Purtroppo questo atteggiamento aggressivo continuerà, non c'è più timidezza (pudore), non c'è più paura. Penso che la gente sia libera di scegliere in cosa credere, ma questo comportamento non è ammissibile... Non è possibile fare leva sulla povertà per condizionare le scelte di fede.
Durante l'occupazione italiana in Etiopia, nel 1937, ci fu la pagina nera di Debre Libanos. Qui il generale Graziani fece sparare su centinaia di monaci e diaconi indifesi. Crede che l'Italia debba chiedere perdono per quell'eccidio?
La richiesta di perdono è un passo importante, una soluzione. Chi si pente merita il perdono. Chiedere scusa è un gesto di comprensione, di coraggio, di forza, non di umiliazione; il segnale di una volontà di costruire permanenti relazioni di pace. L'Italia oggi è in grado di aiutare l'Etiopia nella sua fase di ricostruzione e rinascita. Credo che i fatti di Debre Libanos debbano certamente essere inquadrati nella loro fase storica, quella della colonizzazione dell'Africa. Ma riconoscere il proprio errore potrebbe essere un segno di grandezza di cui andare fieri.
La Chiesa ortodossa etiope è tra i membri fondatori del Consiglio mondiale delle Chiese. Lei è ottimista o pessimista circa il cammino verso l'unità dei cristiani?
La meta dell'unità visibile non è ancora raggiunta. Dobbiamo chiederci tutti insieme perché non siamo riusciti a raggiungere l'obiettivo originale dell'ecumenismo. Da parte mia, credo che abbiamo fallito perché il nostro legame con Dio è stato troppo debole. Indebolendosi questo legame con Dio, si è ridotto anche il nostro amore gli uni per gli altri. La parola stessa di nostro Signore - «ama il prossimo tuo come te stesso» - è disattesa ed è stata sostituita dall'amore per sé. Quando ciascuno pensa a sé, come si può raggiungere l'unità? Questa è la ragione per cui assistiamo ad una tendenza a tradirsi tra Chiese Cristiane, ad un atteggiamento di superiorità, alla tendenza del proselitismo. Sono questi inciampi che ci impediscono di camminare verso la cooperazione fraterna e l'unità delle Chiese.
(Tratto da Mondo e Missione, gennaio 2005, pp. 28-32)
Il sacramento dell'Eucaristia racchiude in sé la totalità del dono che il Padre ha fatto di sé agli uomini, nella persona del suo Figlio Gesù Cristo: tutto il piano delta salvezza si concentra come in una sintesi vitale nel Pane spezzato e nel Sangue sparso, in cui si ratifica la nuova ed eterna alleanza.
I poveri occupano un posto importante nella Bibbia, dal profeta Amos a Matteo: Dio ha per essi uno sguardo particolare. Egli ha con loro una relazione privilegiata. E, secondo san Paolo, bisogna scoprire in essi l’immagine di Cristo che si è fatto povero.
Alla luce della Parola
(come leggere la Bibbia)
di Matta el Meskin *
La Bibbia di fronte al lettore
La Bibbia è un libro diverso da tutti gli altri: gli altri libri sono scritti dall'uomo, la Bibbia invece non solo contiene le parole e i comandamenti di Dio, ma è anche stata interamente scritta sotto ispirazione divina. Perciò possiamo dire che è il libro di Dio, quello che egli ha dato all'uomo per guidarlo fino alla vita eterna.
Nell'Antico e nel Nuovo Testamento, sebbene il discorso, gli eventi, la storia e tutti i racconti si concentrino sull'uomo, in realtà chi è nascosto in essi è Dio. La Bibbia infatti ci descrive Dio e ce lo rivela attraverso gli eventi. Ma una descrizione completa di Dio non ci è data nello spazio di una generazione né di un libro e nemmeno di un intero periodo storico. È con grande difficoltà che la Bibbia si sforza di darci un'immagine mentale semplificata di Dio, narrando il suo rapporto diretto con l'uomo lungo un arco di cinquemila anni. Questo perché nessuno, in nessuna epoca, sia privato della possibilità di percepire riguardo a Dio qualcosa che appaghi la sua sete, a tal punto che ciascuno può sperimentare un tal fiume di gioia da credere di essere arrivato a conoscere Dio e di averlo compreso in pienezza. Chiunque invece ha l'audacia intellettuale di tentare di mettere da parte i propri limiti umani cercando dentro di sé di percepire un'immagine perfetta di Dio, è destinato a fallire e perde la capacità di raggiungere anche i più piccoli risultati compatibili con la sua statura umana.
È immensamente difficile per l'uomo comprendere Colui i cui giorni non hanno inizio né fine, perché Dio è perfetto e, pur essendo vero che noi possiamo percepirlo, la sua perfezione, come pure tutte le sue opere, restano insondabili.
La Bibbia cerca in molti modi di preparare intimamente l’uomo a ricevere Dio, sia rivelandocelo che facendocelo conoscere. Anche se apparentemente può sembrare che sia l’uomo ad andare incontro a Dio, la gioiosa e meravigliosa verità è che è Dio che viene verso l'uomo, come un amante e un padre pieno d'amore. “Se uno mi ama osservi le mie parole e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora in lui” (Gv 14,23). Questo è il motivo per cui il Signore ci ha comandato di preparare il nostro cuore per la sua venuta benedetta: “Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto” (Sal 57,7).
Così vediamo che la Bibbia nella sua interezza misteriosamente rivela Dio e ci prepara a riceverlo nei nostri cuori, perché possiamo d'ora in poi vivere con lui, preparandoci a ciò che sarà alla fine dei tempi, quando Dio sarà rivelato apertamente e noi lo incontreremo faccia a faccia per vivere con lui per sempre.
Il lettore di fronte alla Bibbia
Esistono due modi di lettura: il primo si ha quando uno legge e pone se stesso e la propria mente come padroni del testo e cerca di sottometterne il significato alla propria comprensione, che confronta poi con quella di altri; il secondo si ha quando uno legge ponendo il testo al di sopra di sé e cercando di rendere sottomessa la propria mente al suo significato, o anche ponendo il testo come giudice su di sé, considerandolo come il criterio più alto.
Il primo metodo è adatto per qualunque libro al mondo, sia che si tratti di un’opera di scienza che di letteratura; il secondo è indispensabile nel leggere la Bibbia. Il primo metodo porta alla signoria dell'uomo sul mondo, che è il suo ruolo naturale; il secondo porta alla signoria di Dio come Creatore onnisciente e onnipotente.
Ma se l'uomo confonde i ruoli di questi due metodi, viene a perdere le potenzialità di entrambi: se infatti legge le opere di scienza e di letteratura come dovrebbe leggere l'Evangelo, rimpicciolisce la sua statura, la sua abilità accademica diminuisce e scema la sua dignità in mezzo al resto della creazione; se d'altro canto legge la Bibbia come dovrebbe leggere le opere di scienza, comprende e sente Dio come qualcosa di piccolo, l'essere divino appare limitato e il timore di Dio si spegne. L'uomo acquista una falsa sensazione di superiorità sulle cose divine: è esattamente l'azione proibita commessa da Adamo agli inizi.
Comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale
Leggendo la Bibbia miriamo dunque alla comprensione e non alla ricerca, all'indagine o allo studio, perché la Bibbia deve essere capita, non investigata. È allora opportuno a questo punto far rilevare la differenza tra comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale.
La comprensione spirituale è centrata sull'accettazione di una verità divina che cresce costantemente, sorgendo all'orizzonte della mente fino a invaderla completamente. Se la mente e le sue reazioni sono ricondotte a una volontaria obbedienza a questa verità, la verità divina continua a permeare la mente sempre di più e la mente si dilata con essa senza fine “per conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,19).
È chiaro da questo versetto che la conoscenza e l'amore di Dio, e delle cose divine in generale, sono immensamente superiori al livello della conoscenza umana. È perciò futile e sciocco per l'uomo cercare di "investigare" le cose di Dio, in un tentativo di afferrarle e sottometterle al suo potere intellettuale.
Al contrario, è l'uomo che deve essere sottomesso all'amore di Dio, così che la sua mente possa aprirsi alla verità divina. Allora sarà in grado di ricevere la conoscenza che sorpassa ogni altra. “E così, radicati e fondati nell'amore, abbiate il potere di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità” (Ef 3.17-18).
La memorizzazione intellettuale richiede che una persona passi da uno stato di sottomissione alla verità (attraverso la comprensione) a uno stato di dominio e di possesso su di essa. Richiede che la mente avanzi passo passo attraverso l'investigazione fino a trovarsi allo stesso livello della verità, e poi si innalzi a poco a poco al di sopra di essa fino a poterla padroneggiare, richiamandola e ripetendola a suo piacimento, come se la verità fosse un possesso e la mente il suo padrone.
Perciò la memorizzazione consiste nel determinare la verità, nel riassumerla e definirla nel modo più aderente possibile, così che la mente possa assorbirla e immagazzinarla. Cioè, la memorizzazione intellettuale è il contrario della comprensione spirituale, perché la comprensione spirituale si espande con la verità e la verità con essa fino “a tutta la pienezza di Dio”, cioè all'infinito. La memorizzazione intellettuale invece indebolisce la verità divina e la priva del suo vigore e del suo respiro: non è quindi una via adatta per avvicinarsi alla Bibbia, e porta a risultati minimi.
La memorizzazione spirituale
C'è un altro modo per memorizzare la parola di Dio, per mezzo del quale si può richiamare e riesaminare il testo, sebbene questo non lo si possa fare quando e come uno lo desideri, ma piuttosto quando e come lo desidera Dio. Questa è la memorizzazione spirituale, non intellettuale, e Dio la accorda attraverso lo Spirito santo a quanti comprendono le sue parole: “il Consolatore, lo Spirito santo, che il Padre vi invierà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che ho detto” (Gv 14,26).
Proprio come Dio concede la comprensione spirituale a quelli che con sincerità e onestà chiedono di conoscerlo, “a coloro le cui menti sono aperte a comprendere il testo”, così anche la memorizzazione spirituale è un'opera spirituale che Dio accorda a coloro ai quali è stato concesso di essere suoi testimoni. Quando lo Spirito santo richiama alla nostra mente determinate parole, lo fa con profondità e larghezza di spirito, non semplicemente facendoci ricordare il testo o il versetto, ma dandoci insieme una sapienza irresistibile e il potere spirituale di far emergere la gloria di quel versetto e la potenza di Dio in esso. Inoltre con le parole è inviato uno spirito di rimprovero, allo scopo di compungere il cuore.
Perciò vi è una straordinaria differenza tra la meccanica memorizzazione intellettuale e la memoria attraverso lo Spirito santo.
Nondimeno l'uomo deve prepararsi a questa memoria, rendendo il suo cuore consapevole della parola di Dio, meditandola frequentemente e immagazzinandola nel suo cuore con amore e diletto: "quando le tue parole mi vennero incontro, io le divorai” (Ger 15,16) ed esse erano “più dolci del miele alla mia bocca” (Sal 119,103). L'uomo così disposto le ripete costantemente a se stesso: “sulla tua legge ho meditato giorno e notte” (Sal 1,2), e ogni volta che incontra una parola che possa essergli utile la imprime nel suo cuore: “Ho conservato le tue parole nel mio cuore per non peccare contro di te” (Sal 119,11), proprio come ammonisce Dio chiedendo di parlare di esse “quando siedi in casa tua e quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. E tu le legherai come segnale alla tua mano e saranno come pendaglio tra i tuoi occhi” (Dt 6,8-9).
Ora, c'è una grande differenza tra un uomo che medita la parola di Dio perché è dolce e vantaggiosa alla sua anima, rallegra il suo cuore e consola il suo spirito, e uno che medita su di essa per ripeterla ad altre persone, per potersi distinguere come maestro e abile servitore dell' Evangelo. Per il primo la Parola rimane salda, perché fonda una consapevolezza del cuore o una relazione con Dio; per il secondo la Parola passa semplicemente nella memoria intellettuale, dove egli può usarla per tessere relazioni con gli altri.
Così, se uno cerca di leggere la Bibbia e imparare a memoria i versetti per usarli nell'insegna- mento alla gente e per una testimonianza fatta di parole - senza prima aver sottomesso se stesso alla verità divina, in modo da agire conformemente ad essa e da aprire la mente per ricevere comprensioni spirituali - egli ne ricava soltanto delle conoscenze e non dà una testimonianza utile, per quanti versetti o dimostrazioni chiare possa presentare con grande abilità intellettuale; lo Spirito infatti lo avrà abbandonato. Il peggior uso che possiamo fare della Bibbia è utilizzarla solo come fonte di versetti dimostrativi.
La comprensione spirituale delle parole, dei comandamenti e degli insegnamenti di Dio è il nostro penetrare nel mistero dell'Evangelo: “A voi è stato dato di conoscere i misteri del regno di Dio” (Mt 13,11). Il segno poi della comprensione spirituale è la sensazione di un'inesauribile sorgente interiore di intuizioni spirituali riguardanti la parola di Dio e la percezione che ogni verità è collegata a tutto il resto. Allora l'uomo diventa capace di collegare nel proprio cuore ogni verset to che legge con un altro versetto e ogni intuizione si dilata in armonia con un'altra, cosicché l'Evangelo diventa facilmente un tutto unitario.
Questa condizione non è raggiunta solo da chi ha speso molti anni nella lettura della Bibbia. È possibile che a qualcuno con un'esperienza di pochi mesi sia concesso di percepire questa sensazione, così da essere capace, usando i pochi versetti che gli sono familiari, di parlare di Dio con uno zelo, una sincerità e una forza tali da attirare a Dio il cuore degli altri. A costui basta leggere un versetto una volta sola perché gli resti poi indelebilmente impresso nel cuore per sempre, perché la parola di Dio è spirituale; in un certo senso è addirittura spirito, come dice il Signore: “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).
Introduzione pratica alla comprensione dell' Evangelo
Non esiste alcun mezzo intellettuale per entrare nell'Evangelo, perché l'Evangelo è spirituale. Deve essere obbedito e vissuto attraverso lo Spirito, prima di poter essere compreso. Se qualcuno, che vive fuori dell'Evangelo cerca di capirlo, inciamperà e cadrà, e se osa cercare di insegnarlo sarà una pietra d'inciampo per quelli che lo seguono. Ma se qualcuno ha uno zelo autentico, un amore ardente e un'obbedienza totale a Dio ed esegue fedelmente anche un solo comandamento dell'Evangelo, questi penetra nel mistero dell'Evangelo senza esserne consapevole.
La prima cosa che scopre è la fedeltà di Dio nel compiere, nella sua anima, le promesse. Ciò rende la sua mente desiderosa di ricevere la scintilla della fede viva che accende nel cuore un grande fuoco di amore e di timore di Dio e ve lo fa ardere. L'esperienza spirituale di una persona e il grado della sua comprensione dell'Evangelo si approfondiscono proporzionalmente al grado di obbedienza fedele e puntuale ai comandamenti dell'Evangelo stesso.
Una sincera e umile accettazione dell'obbedienza a Dio, che scaturisce da un cuore non macchiato da falsità, ipocrisia, amore del mettersi in mostra o esibizionismo, e che non cerca qualche particolare risultato, può essere considerato l'inizio della vera via alla conoscenza di Dio. Infatti, quando l'uomo cerca di osservare i comandamenti, la sua intenzione è messa alla prova da tentazioni. Egli è aiutato a seconda del grado della sua fede e della sua perseveranza e, nella misura in cui riceve aiuto, la sua fiducia aumenta e la sua conoscenza di Dio e delle sue vie cresce più sicura.
Questo per dire che la comprensione spirituale dell'Evangelo e di Dio è il risultato del nascere di una relazione con Dio attraverso l'obbedienza ai suoi comandamenti. Non si tratti semplicemente di una comprensione di testi e versetti, bensì di una comprensione del potere della Parola e di una conoscenza della vita che scaturisce dal versetto, basate sull'esperienza, la fiducia, la testimonianza e su un'incrollabile fede in Dio.
Un eccellente esempio di lettura e comprensione dell'Evangelo
Il più grande comandamento attraverso cui l'uomo può sperimentare la provvidenza di Dio e ottenere il potere spirituale che svela i misteri e i segreti della Bibbia e illumina il cammino, è che l'uomo lasci ogni cosa e segua Cristo. Questo comandamento riassume infatti l'intero Evangelo. Questo è il versetto che sant'Antonio ascoltò: ne fu profondamente colpito e lo osservò con precisa determinazione. Così facendo raggiunse una vita in accordo con l'Evangelo e una comprensione, una conoscenza e una memoria della Bibbia che stupiva gli studiosi e i teologi, come sappiamo da sant'Atanasio il Grande. E tutto ciò, nonostante che Antonio non sapesse né leggere, né scrivere.
Molti Padri seguirono lo stesso modello e si verificarono in loro le stesse meraviglie, perché raggiunsero le vette della conoscenza della Bibbia, di Dio e della direzione spirituale, pur essendo analfabeti. Tra questi c'erano i grandi monaci Pambo e Pafnuzio, discepolo di Macario il Grande, di cui Palladio dice che aveva la grazia della conoscenza dei libri sacri e dell'arte di trasmetterli, sebbene non sapesse leggere né scrivere.
Molti altri nel mondo, uomini o donne, colti o ignoranti, sono entrati nel mistero dell'Evangelo attraverso uno fra i molti comandamenti, come la povertà volontaria e la semplicità di vita, rifiutando di mettere da parte del denaro per le eventuali necessità e mettendo la loro fede in Dio al di sopra di tutte le altre considerazioni. Attraverso ciò hanno sperimentato le meraviglie di Dio, le loro menti sono state aperte, hanno percepito il mistero del piano divino e capito le parole di Dio essendo persone che le sperimentavano nella vita quotidiana e le realizzavano. In questo modo erano capaci di evangelizzare con grande fede e coraggio.
Altri hanno abbracciato il rinnegamento dei piaceri mondani e dei divertimenti privi di vita; hanno sperimentato il potere della parola di Dio e trovato in essa grande consolazione e delizia; hanno capito che l'uomo vive della Parola più che del cibo e della scienza medica; hanno conosciuto Dio e lo hanno gustato e le loro menti sono state illuminate dalle sue parole.
Altri invece sono entrati nel mistero dell'Evangelo attraverso atti segreti di sacrificio, offrendo il loro denaro, le loro energie, il loro tempo per servire i poveri, gli indigenti, gli afflitti e i curvati dalle più svariate tribolazioni. Essi hanno agito con muto coraggio, dando tutto quanto avevano e sopportando ogni cosa al limite delle proprie possibilità. Tutti costoro hanno acquistato conoscenza, intuizione e comprensione dell'Evangelo e dei comandamenti del Signore, ma non la comprensione che deriva dal meditare sulla bellezza delle parole e della spiegazione del loro significato. La loro comprensione è invece quella che sgorga dall'esperienza ed è trasformata in vita eterna, perché costituisce una relazione vivente tra l'uomo e Cristo.
La meditazione accademica e la meditazione pratica
Vi è una comprensione accademica della meditazione della bibbia e ve n'è una pratica.
La meditazione accademica è il prodotto di idee derivanti dallo studio e dalla ricerca, dalla riflessione sul significato dei versetti e sui loro reciproci legami, è l'insieme di ragionamenti che arrivano a cogliere i fatti attraverso un processo di deduzione logica.
La meditazione pratica consiste nell’ispirazione che l'anima percepisce come risultato della propria esperienza, delle prove e delle lotte con la verità sostenute nel corso della sequela dei comandamenti evangelici. A questo si aggiungono anche la luce e i dettami dello Spirito, che l'uomo riceve nel giusto momento, senza aver in precedenza acquisito la conoscenza delle cose rivelategli.
La meditazione accademica della Bibbia stimola la mente, ma non mette in moto lo spirito; rende l'ascoltatore desideroso della verità senza mostrargli come accedervi; fornisce un'immagine di Dio, ma non può portare al faccia a faccia con Dio.
Questa discordanza della meditazione accademica rispetto all'esperienza spirituale e al segreto adempimento dei comandamenti porta a un culto puramente formale e a una falsa devozione intellettuale all'Evangelo. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma i loro cuori sono lontani da me” (Mt 15,8).
Per quanto deplorevole, è questo il tipo di lettura, di comprensione, di esperienza e di insegnamento della Bibbia oggi più diffuso nella nostra Chiesa e, a dire il vero, in tutto il mondo. L'Evangelo è stato ridotto a una fonte da cui si possono citare dei versetti o in base alla quale dimostrare dei principi, e le idee che contiene sono diventate punti accademici per avvalorare sermoni e articoli. Così l'Evangelo è diventato una strada sicura per acquistar fama, titoli accademici e ammirazione mondana, anche se i fondamenti dell'Evangelo e la verità che contiene sono all'opposto della fama e della falsa sapienza del mondo, sono i nemici dell'ammirazione degli uomini. La chiesa subisce dunque una grave perdita quando abbandona l'insegnamento pratico della Bibbia e si occupa di quello accademico.
Quanto alla meditazione pratica della Bibbia, essa si raggiunge accogliendo la verità divina attraverso la segreta obbedienza ai comandamenti e come risultato della fedele adesione del cuore a Dio, con dovuto timore e autentica umiltà. Questo è il fondamento di una relazione pratica e sicura con Dio.
Ciò significa che la meditazione pratica edifica una vita interiore con Dio la quale infonde nelle parole, nei pensieri e negli insegnamenti dell'uomo la potenza divina. Così l'uomo può, con una sola parola, comunicare la verità all'ascoltatore, proprio come facevano i Padri, i quali vivevano l'Evangelo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Le loro parole non erano eloquenti o ripiene di ampollose meditazioni, ma trasmettevano il mistero, perché avevano il potere di conferire una vita nuova all'ascoltatore.
Nei detti dei padri monastici del IV secolo, e di quelli successivi, questo era lo schema tipico in cui veniva data l'istruzione: un novizio andava da un anziano e diceva: “Dimmi una parola, che io possa vivere”. L'anziano gli diceva poco o niente, ma a causa della potenza della sua esperienza e della grazia contenuta in essa, questo poco bastava al novizio per vivere e superare tutte le difficoltà che incontrava. Questa è l'immagine più vera di come l'Evangelo deve essere compreso e predicato. Quanto appropriate sono per noi, oggi, le parole dell'Evangelo secondo Giovanni: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).
La potenza di una vita di effettiva semplicità
Se guardiamo indietro agli albori della chiesa, siamo sorpre si della sua forza, soprattutto di quella delle chiese appena fondate. Nonostante si trattasse di persone semplici, che non conoscevano la Bibbia – perché solo raramente un singolo cristiano possedeva dei manoscritti – e nonostante la loro fede in Cristo fosse recente e i precedenti costumi pagani avessero una profonda influenza, la loro vita spirituale e la manifestazione di fede, amore e zelo erano chiaro esempio di una vita robusta vissuta in accordo con i precetti dell'Evangelo, modello per una comprensione concreta del significato della vita eterna del regno di Dio, del vivere per fede, del morire al mondo, della fedeltà a Cristo, dell'attesa della sua seconda venuta e di una fede viva nella risurrezione. Ancor oggi facciamo ricorso alla loro fede e alla loro tradizione e solo a fatica comprendiamo le lettere inviate loro, quelle lettere che essi comprendevano facilmente e mettevano in pratica. Il segreto di tutto questo è che vivevano di quello che ascoltavano: ogni comandamento cadeva in cuori fedeli, disposti ad agire sinceramente di conseguenza; tutte le parole di Cristo penetravano profondamente nel tessuto della vita quotidiana, l'Evangelo era tradotto in azione e vita.
Queste persone semplici capivano l'Evangelo, capivano che era vita da essere vissuta, non principi da discutere, e rifiutavano di comprenderlo a livello puramente accademico. Fino a oggi quanti sono alla fedele sequela di Cristo traggono ancora vita per se stessi dalla sorgente viva della comprensione dei primi cristiani.
Queste prime comunità, ardenti di amore per Cristo, non avevano alcun credo, né patrologia, né interpretazione della Scrittura, ma le poche parole di Cristo che raggiungevano le loro orecchie diventavano immediatamente il loro credo, senza bisogno alcuno di spiegazione o insegnamento o interpretazione, ma bisognose solo, come essi compresero, di essere sperimentate e vissute. Attraverso l'esperienza scoprivano costantemente la potenza delle parole e portavano alla luce i misteri in esse contenuti. E così il loro zelo, il loro amore e la loro fede in Cristo e nell'Evangelo crescevano costantemente.
Quando ascoltavano: “Beati i poveri nello spirito” vendevano tutto e deponevano il denaro ai piedi degli apostoli.
Quando ascoltavano: “Beati quelli che ora sono afflitti” non badavano alle sofferenze e alle fatiche nel servizio del Signore.
Quando ascoltavano: “Beati i perseguitati a causa della giustizia” sopportavano le più crudeli umiliazioni, gli insulti e le aggressioni.
Quando ascoltavano: “Vegliate e pregate” si riunivano nelle catacombe per vegliare e pregare tutta la notte.
Poiché ascoltavano: “Amate i vostri nemici”, la storia non registra alcuna resistenza opposta dai cristiani, né attiva, né passiva, contro i loro persecutori. E piegarono il loro collo alla spada in umiltà e obbedienza per onorare le parole di Cristo.
Questo significava per loro leggere l'Evangelo e comprenderlo. In loro era nata la fame e la sete per la giustizia di Dio ed è per questo che lo Spirito santo aveva piena libertà di operare con loro: da quel momento avrebbe conferito potenza alla parola, rinsaldato i loro cuori, li avrebbe sostenuti nelle debolezze, guidati nell'oscurità, nell'angoscia e accompagnati nel cammino fino a quando, con grande gloria, avrebbero consegnato lo spirito nelle mani del loro creatore.
Lettura senza applicazione pratica e lettura realizzata
La lettura resta priva di utilità, la comprensione priva di forza, la memorizzazione una pura ripetizione di parole vuote se uno non si sottomette all'obbedienza del comandamento che legge e se la Parola non diventa una norma di vita, qualunque sia il sacrificio, il costo, la fatica o il disprezzo che ciò può generare. Il Signore Gesù dice anche molto di più, afferma che chiunque legge le sue parole e le capisce, ma non vi obbedisce, subirà distruzione e grande danno, come un uomo che fonda la sua casa sulla sabbia. “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, e la sua rovina fu grande” (Mt 7,26-27).
Forse potete convenire con me che sarebbe stato meglio se non avesse costruito nulla, o ascoltato o conosciuto o imparato alcunché.
La vita dei farisei, dei sadducei era di questo tipo: obbedienza minuziosa alla legge, spiegazione ed esposizione qualificata dei comandamenti, pareri legali così dettagliati da oltrepassare la verità e la semplicità dello Spirito, il tutto riunito a opere morte e a una vita spiritualmente in rovina. “Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene: fa' questo e vivrai»” (Lc 10,25-28).Invece il Signore paragona chi ascolta le parole e vi obbedisce a un uomo che costruì la sua casa sulla roccia. Questo è segno che la potenza della Parola è interamente dipendente dall'esperienza pratica che uno ha di essa, poiché l'aiuto lo si può ricevere e lo si può conoscere solo nelle difficoltà e nel pericolo, e il misterioso soccorso dello Spirito santo solo attraverso l'obbedienza sincera ai precetti dell'Evangelo. Una parola posta sulle labbra di un uomo, se questi veramente vive di essa, è simile a una casa fondata sulla roccia; è salda e non deve temere alcun disastro: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia; cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,24-25). A questo punto direte con me: “Oh, se solo la mia casa fosse fondata sulla roccia, e la mia lettura, la mia comprensione e la mia conoscenza dell'Evangelo fossero usate per vivere, e non come argomento su cui parlare e predicare, come soggetto di conversazione e di meditazione!”.
Un triste esempio di grande conoscenza senza realizzazione
Balaam era un veggente, capace di vedere nel futuro e dotato di poteri profetici: era quindi in grado di ascoltare e parlare delle meraviglie di Dio. Ma fu rigettato e divenne un avvertimento terribile e un esempio di quelli che annunciano la parola di Dio, sono capaci di svelare misteri, di fare profezie autentiche, di pronunciare benedizioni e offrire sacrifici, come Balaam, mentre i loro cuori sono impuri perché vivono segretamente lontano da Dio. Ascoltate cosa dice di se stesso: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, oracolo dell'uomo dall'occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell'Altissimo, che vede la visione dell'Onnipotente, e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi” (Nm 24,15-16). Ma tutti questi doni non furono sufficienti per stornare il cuore di Balaam da una condotta malvagia. Balaam cadde in un grave errore, come dicono i santi apostoli: Giuda nella sua lettera (Gd 11), Pietro nella sua seconda lettera (2Pt 2,15) e Giovanni nel libro dell'Apocalisse (Ap 2,14). Anche se esternamente benediceva il popolo di Dio, segretamente stava agendo contro di esso con un consiglio malvagio e si compiaceva di ricevere una ricompensaper quel peccato.
Balaam raggiunse il massimo grado di conoscenza, di comprensione, di visione e profezia accessibile all'uomo spirituale, ma il suo comportamento non era migliore di quello del più malvagio e disonesto tra gli uomini. La sua storia mostra chiaramente che la comprensione e l'insegnamento delle cose spirituali, anche a livello della profezia, se non sono sorretti da una vita e una condotta sante, nell'integrità e nel timore di Dio, non ci possono salvare dalla maledizione e dalla morte che sigillarono la vita di Balaam.
“Fate attenzione dunque a come ascoltate”
Prima di leggere la Bibbia o ascoltare la parola di Dio, guardate in voi stessi per vedere dove la parola di Dio andrà a posarsi. Torniamo a questo punto alla tanto amata parabola del seminatore.
“I semi caduti lungo la strada sono coloro che hanno ascoltato; ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo e nell’ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine, sono coloro che dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,12-15). “Fate attenzione dunque a come ascoltate” (Lc 8,18).
Di fronte all'annuncio dell'Evangelo ci sono quattro tipi di ascoltatori: non c'è bisogno di spiegazioni o chiarimenti, perché il Signore Gesù l'ha fatto lui stesso. Perciò guardate e vedete come il Signore dice che dovete ascoltare: con un cuore che trascorre la giornata al margine della strada? oppure con un cuore che non ha profondità, perché ha paura di sedersi in disparte a esaminare la propria vita? o con un cuore propenso a mettere da parte denaro come assicurazione per il futuro? o con un cuore sempre appesantito da preoccupazioni immaginarie?
Fate attenzione a come dovete ascoltare l'Evangelo. Sembra che il Signore voglia dire che uno ascolta con il cuore più che con le orecchie, e che la sua vita interiore influisce sulla parola di Dio: o uccidendola oppure facendola vivere e crescere rigogliosa. Così chiunque vuol ascoltare bene la Parola, comprenderla e custodirla in un cuore integro e buono, deve preparare interiormente il suo cuore, in modo che la Parola possa mettervi radici senza correre rischi, trovando in esso fedeltà a Dio e veracità nelle parole e nelle promesse. È assolutamente impossibile che uno possa capire quel che ascolta della parola di Dio, se non è assolutamente onesto di fronte a Dio e non ha deciso di rinunciare alla propria vita, agli incarichi, agli interessi, al denaro, al futuro e all'amor proprio per deporli ai piedi di Dio.
Infatti come può un uomo timoroso per il futuro comprendere questa parola del Signore: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34) e “Non datevi pensiero per la vostra vita” (Lc 12,22)? E come può capire la croce chi si interessa del proprio onore? Come può comprendere la risurrezione chi ha paura della malattia e della morte?
Chi chiede di leggere l'Evangelo sta di fatto cercando la vita eterna e chi cerca la vita eterna deve assumere una posizione chiara nei confronti della sua vita presente!
La smemoratezza della Parola è un inganno psicologico
Non c'è illustrazione migliore di quella dataci dall'apostolo Giacomo quando descrive l'uomo che ascolta la parola dell'Evangelo e la dimentica come uno che vede la propria faccia in uno specchio, ma non appena lascia lo specchio dimentica qual è il suo aspetto. Infatti, chiunque disprezza la Parola che ascolta, perde immediatamente la percezione di sé.
Vi sono alcuni che porgono l'orecchio all'Evangelo, accolgono la Parola e la ripongono nel tesoro del proprio cuore. Sono sempre consapevoli dell'istruzione ricevuta e la pongono davanti a sé come uno specchio, servendosene continuamente per correggere le proprie azioni.
Vi sono altri invece che porgono l'orecchio all'Evangelo, ma non una sola parola di quel che ascoltano resta nel loro cuore, perché sono smemorati, non sanno valutare il peso delle cose e sono preoccupati da questioni per loro più importanti dell'Evangelo e della vita eterna, quali possono essere il lavoro, le preoccupazioni, i piaceri, tutte cose che essi possono considerare come facenti parte del servizio di Dio. Oppure nel loro cuore può non esserci assolutamente nulla, e anche questo è un disastro, perché mentre leggono l'Evangelo possono essere così commossi da gemere e persino piangere, ma in seguito restano invischiati nei propri affari e dimenticano sospiri e lacrime. Persone di questo tipo possono pensare che la loro smemoratezza sorpassa le capacità di controllo che possiedono, ma questo è un inganno psicologico. La verità è che l'anima vuol dimenticare l'Evangelo, perché l'Evangelo non le piace.
Uno può leggere l'Evangelo con regolarità ogni giorno, ma percepire una distanza incolmabile tra quello che ogni giorno legge e quello che ogni giorno fa. Questa distanza incolmabile è scavata dalla smemoratezza. Con il passare dei giorni la lettura dell'Evangelo è privata della sua potenza e efficacia, e non avviene alcun cambiamento di vita né alcun progresso nel cammino.
Questa smemoratezza è quel che l'apostolo Giacomo chiama autoillusione: ”Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era” (Gc 1,21-24).
L'orecchio incirconciso
Questa espressione, così ricca di significato spirituale, fu pronunciata dal santo martire Stefano davanti al sinedrio riunito per giudicarlo, quando percepì che i membri di quell'assise stavano resistendo allo Spirito santo per assecondare i loro disegni.
“O gente testarda, incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito santo” (At 7,51).
Lo Spirito santo parla a noi attraverso l'Evangelo, ma solo l'orecchio circonciso può sentire la sua voce, cioè l'orecchio dal quale è stato rimosso il prepuzio. Con prepuzio Stefano intende la mancanza di sottomissione a Dio e l'avere un cuore troppo lontano da Dio per ascoltarne la voce. Quelli che hanno le orecchie o i cuori incirconcisi sono stranieri in mezzo al popolo di Dio: non comprendono i suoi comandamenti o non vi si adeguano, perché guardano a se stessi come a persone che non devono obbedire ad alcun impegno.Colui il cui orecchio è incirconciso non ascolta lo Spirito, né viene da esso influenzato, né gli obbedisce. Di sua propria volontà, infatti, ha rifiutato di sottomettersi allo Spirito santo, senza provarne timore. Teme che lo Spirito possa chiedergli di rinunciare a cose, o posizioni, o principi, o relazioni che trova benefiche, o piacevoli e importanti per lui personalmente. Rinunciarvi sarebbe una perdita che egli non vuole accettare, così ha paura che lo Spirito santo possa chiedergli di agire contro se stesso e contro il mondo, perché il suo io gli è caro e il mondo è la sua delizia. L'uomo che ha l'orecchio incirconciso è colui che non ha reciso il prepuzio del suo io e non vuole recidere il prepuzio del mondo né dal suo cuore né dal suo orecchio. Non è mai disposto a sacrificare qualcosa o, per lo meno, non è disposto a sacrificare tutto per Dio. Ascolta lo Spirito santo ma non gli presta alcuna attenzione, cercando ogni volta di soffocare la voce della coscienza. Fin dall'inizio si è esonerato dalla responsabilità di ascoltare la voce di Dio.
Questa situazione era già stata descritta dal profeta Isaia e il Signore stesso ne ha fatto un significativo commento: “Vedendo non vedono e ascoltando non ascoltano e non comprendono (...). Perché il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi, e non intendere con il cuore, e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,13-15; Is 6,9).
Qui il Signore denuncia l'intenzione dei suoi ascoltatori: facevano mostra di leggere e ascoltare i comandamenti di Dio, ma in realtà erano ben decisi a non lasciarsi influenzare. Così chiudevano i loro occhi e le loro orecchie in modo da non vedere e non sentire. Per questo il Signore denunciò le loro motivazioni: in realtà avevano paura che la voce di Dio risuonasse talmente chiara e che il biasimo dello Spirito santo diventasse così persuasivo da essere forzati a rinunciare alle loro posizioni errate e agli indebiti possessi, ai piani che avevano fatto per il futuro e alle peccaminose relazioni per le quali avevano venduto l'anima, e non solo l'anima, ma anche la vita eterna e persino Dio stesso. Essi, come molti di noi, non rifiutavano di leggere o ascoltare l'Evangelo, ma quando giungevano a certi passi, a certe frasi o a certi comandamenti, rimanevano confusi e li tralasciavano velocemente e chiudevano gli occhi, fuggendo ansiosamente lontano dalla voce dello Spirito santo. In questa situazione l'orecchio incirconciso rivela se stesso, poiché è disturbato dalla voce di Dio e la evita, proprio come il serpente chiude le orecchie per non ascoltare la voce dell'incantatore, per non obbedire né sottomettersi a lui: “O stolti Galati! Chi vi ha incantato affinché non aveste a obbedire alla verità?” (Gal 3,1; 5,7).
Fermiamoci un momento e torniamo ai passi e ai versetti e ai comandamenti che abbiamo evitato deliberatamente con vile determinazione. I nostri cuori protestavano per la nostra caparbietà, tremavano e battevano in fretta e con dolore, poiché eravamo consapevoli di opporre resistenza allo Spirito santo, rischiando la morte e l'allontanamento da Dio con questo andare per vie traverse. Correggiamo in fretta il nostro atteggiamento nei confronti della voce di Dio! Forse è questa l'ora per impadronirci pienamente del nostro io, per spezzarne l'ostinazione e l'orgoglio, per troncarne i piaceri e le paure e volgerci a seguire la voce di Dio. “Ricorda da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (Ap 2,5).
Può darsi che vi dispiaccia essere messi di fronte al vostro desiderio di grandezza e di comando, o alla vostra impurità e inimicizia, alla malizia e all'odio verso quelli che minacciano i vostri interessi, alla vostra slealtà o crudeltà, all'ingiustizia o ai vostri loschi giudizi, oppure alla vostra disonestà, al furto, all'illecito acquisto di beni, alla vostra mancanza di fiducia in Dio e al confidare nel denaro e nell’assicurazione per il futuro; oppure si può trattare di qualcosa di più di tutto questo, poiché state scappando con tutto il vostro essere lontano dal volto di Dio. Non avete alcun appoggio su terreno sicuro e state cercando ora di nascondere la vostra faccia da Colui che siede sul trono ”chiudendo i vostri occhi per non vedere!" (cf. Lc 8,10). In questa situazione, leggere l'Evangelo non è di alcuna utilità e ascoltarlo è solo causa di giudizio.
All'orecchio circonciso, invece, il prepuzio è stato tolto e non c'è più alcuna barriera che gli impedisca di ascoltare la voce di Dio, come per l'orecchio del giovane Samuele, che viveva in purezza e umiltà nel santuario: “Parla o Signore, perché il tuo servo ascolta” (1Sam 3,10). L'orecchio è aperto all'autorità dell'Evangelo e gioiosamente sottomesso alla voce di Dio, vigile alla sua chiamata, pronto a rispondere, qualunque cosa venga chiesta. Infatti chi ha l'orecchio circonciso è pieno di coraggio e capace di sostenere azioni contro se stesso in obbedienza alla voce dell'Altissimo. Il cuore che è pronto ad accettare le grandi richieste di Dio è capace di percepire ogni inflessione nella voce di Dio e non si lascia sfuggire nemmeno una parola.
Se a questo punto qualcuno mi chiedesse: “Come posso acquistare un orecchio che ascolta la voce di Dio?”, risponderei: “Prepara innanzitutto te stesso ad accogliere le sue domande, le sue richieste e indicazioni, e sii pronto nel tuo cuore a portarle a compimento, qualunque ne sia il prezzo. Immediatamente avrai un orecchio che ascolta la voce dell'Altissimo!”. “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio, e io non ho opposto resistenza” (Is 50,4-5).
Onorare la lettura e l’ascolto dell' Evangelo
L'uomo che è consapevole di Dio non permette che la parola dell'Evangelo gli sfugga o sia dimenticata. Egli invece con rispetto, venerazione e timore ne fa una corona per la sua testa e la pone al di sopra di tutta la sua vita.
L'ardore degli uomini di fede è estremamente evidente quando ascoltano l'Evangelo: sembrano entrati alla presenza di Dio, o in piedi presso l’altare, in procinto di ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Non è che abbiano semplicemente preso l’abitudine di onorare l'Evangelo, o che fingano di comportarsi così, come gli ipocriti: la realtà è che dall'ascolto dell'Evangelo ricevono potere su potere, come se stessero ascoltando la voce di Dio stesso.
Tutto ciò era molto chiaro nella chiesa primitiva e la chiesa conserva ancora lo stesso zelo, rispetto e venerazione verso la lettura e l'ascolto dell'Evangelo. La tradizione della chiesa ha conservato alcuni gesti significativi, ed è per questo che il prete non potrà mai leggere l'Evangelo in chiesa senza aver prima innalzato una preghiera particolare perché lui e l'assemblea possano esser resi degni di ascoltare il santo Evangelo. Prima di incominciare a leggere, il diacono chiede a tutta l'assemblea di alzarsi in piedi nel timore di Dio per ascoltare l'Evangelo e tutta l'assemblea risponde alla sua richiesta e glorifica Dio. Inoltre il prete si toglie le scarpe per leggere l'Evangelo, perché sta alla presenza di Dio. Poi, dopo la lettura, l’intera assemblea passa in fila a baciare con gioia e lacrime l'Evangelo che il prete tiene aperto in mano. Nella chiesa primitiva la gente faceva questo spinta dallo zelo, dal timore e dall'amore per l'Evangelo ed esso è rimasto come un rito nella chiesa.
Coloro che hanno sperimentato la potenza dell'Evangelo nella loro vita non considerano ciò eccessivo, ma vanno anche oltre nel mostrare la loro venerazione: ci sono alcuni che digiunano sempre prima di leggere l'Evangelo; altri, quando leggono l'Evangelo da soli, si inginocchiano; altri ancora lo leggono sempre con pianto e lacrime.
Gli ammaestramenti di Dio all'uomo sono per lo più dati attraverso la lettura e l'ascolto dell'Evangelo, quando uno si trova in condizione di umiltà e preghiera, con un cuore aperto.
La voce del Figlio di Dio
“Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il Signore non solo bussa alla porta del cuore, ma anche chiama le sue pecore per nome, così che possiamo udire e aprire per lasciarlo entrare nelle nostre vite, affinché condivida con noi le lacrime che sono nostro cibo e condivida poi con noi il suo banchetto nuziale.
Non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di Dio, come se fosse nascosto lontano; in questo modo non faremmo altro che consumarci nella ricerca riflettendo, meditando e andando a investigare nei libri. In ogni momento egli sta davanti a noi, alla porta del nostro cuore e non se ne allontana mai. Colpi della sua mano alla porta sono le sue parole ed egli non cessa mai di bussare, ogni giorno della nostra vita, così che lo spirito può destarsi dal sonno e distinguere la voce dell'Amante.
Non abbiamo bisogno di ricorrere ad ardenti suppliche, a lacrime e implorazioni commoventi, perché il Signore venga a noi: egli infatti è sempre presente e sta bussando anche in questo momento. E non smetterà, perché vuol entrare nelle nostre vite: è con noi infatti che egli trova riposo; condividere con noi la nostra croce e il buio della nostra notte è la sua gioia più grande, poiché egli ama ancora la croce.
Siamo noi invece che non diamo il giusto peso alla sua voce, attribuendole erroneamente poca importanza e disprezzandola.
Maria Maddalena subì la stessa tentazione quando sedette piangendo presso la tomba e credette che il Signore, che stava in piedi davanti a lei, fosse il giardiniere. Allora cominciò a implorarlo di darle il corpo di Gesù per poterlo avvolgere in un lenzuolo. Ma il Signore, non sopportando più a lungo il suo lamento, la chiamò per nome ed ella lo riconobbe immediatamente. Quante volte ce ne stiamo piangenti, guardando lontano verso il cielo, dove pensiamo che il Signore Gesù viva! Egli è presente e sta in piedi davanti a noi e tutto quello che ci impedisce di incontrarlo è la mancanza di percezione del nostro cuore! Quante volte ce ne siamo stati in preghiera davanti a lui, implorandolo di parlarci, sperando che potesse sentirci, ma era tutto inutile! Egli non smette mai di chiamarci per nome, e nulla ci impedisce di ascoltare la sua voce, se non la preoccupazione dei nostri problemi quotidiani.
L'errore che facciamo è quello di volerlo vedere nel tempo, nel mezzo degli eventi quotidiani che riempiono il nostro vuoto mentale ed emotivo. Ma in realtà il Signore è presente ora al di là di tutte queste cose, al di là del tempo e degli eventi, che egli governa secondo il suo piano sapiente. L'anima vigilante e semplice si accorge del tocco della mano del Signore, che scrive la storia della salvezza di ciascuno attraverso gli anni e la successione degli eventi. I nostri successi e i nostri fallimenti, guidati dall'Altissimo, cooperano positivamente alla nostra salvezza. Le sconfitte materiali non sono sconfitte spirituali; l’afflizione, la tristezza, la pena e la malattia sono il linguaggio della divina provvidenza, il suo codice segreto, che una volta decifrato nello Spirito, si traduce in risurrezione, gioia e gloria eterna.
L'altro errore che commettiamo è che vogliamo ascoltare la voce del Figlio di Dio con il nostro orecchio fisico e sentirla parlare un linguaggio umano con la voce di un uomo: ma la voce del Figlio di Dio non può avere questi limiti! Essa è una potenza che trasporta l'anima, la fa risorgere e la ristora; è una profonda, incommensurabile pace, è quiete e consolazione; è la vita stessa nel suo sconfinato respiro e nella sua altezza. Dove trovare allora le parole per esprimere il suo linguaggio e la sua voce?
Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce né muore allo spirare della brezza, né si smorza, né ritorna a lui vuota. E verrà l'ora in cui egli chiamerà e l'intera creazione risusciterà da morte.
“Se uno ascolta la mia voce...”. Ma nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio se non chi si è innalzato nello spirito al livello in cui Dio può guidarlo e chiamarlo, il livello del regno e della vita con Dio, il livello cioè al di sopra degli eventi quotidiani. Qui può ricevere da Dio l'istruzione per la sua vita e un piano per la sua salvezza e questo proprio attraverso gli eventi quotidiani, addirittura servendosene. Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.
Se il vostro orecchio è così addestrato spiritualmente da comprendere i simboli del messaggio divino come si manifestano negli eventi temporali, quando leggerete le parole sentirete la mano di Dio che bussa alla porta. Egli a volte busserà alla porta con delicatezza, a volte forte, e voi ascolterete la sua voce nel clamore e nelle tempeste così come nella brezza leggera. Egli vi chiama perché gli apriate la porta, perché riceviate da lui il mistero del suo banchetto nuziale, dopo aver condiviso il pane delle vostre lacrime.
Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell'uomo, ma profonda, più profonda dell'eternità stessa.
Il dramma della religione
di Vladimir Zelinskij
Dall’inizio di quest’anno quasi tutta la Russia credente e pensante è diventata lettrice appassionata di questo libro. Perché? Perché tanti ortodossi, spesso senza accorgersene, vivono lo stesso conflitto interiore, per cui ciò che è di Dio e ciò che è dalla carne e dal sangue, nascostamente si contestano reciprocamente. Perché nella nostra esistenza religiosa l’eredità degli Apostoli e dei Padri può essere mescolata con l’orgoglio confessionale, la grazia della vita secondo lo Spirito con la pesantezza storica ed etnica (che chiede anche i suoi “diritti mistici”), il senso della verità col gusto del potere - almeno sulle anime. E perché in un modo o nell’altro tutti sentono o percepiscono: “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 Cor 15,50).
Le parole del rabbino di Colonia
Netanel Teitelbaum
All’inizio della visita alla sinagoga di Colonia, Benedetto XVI ha ricevuto i saluti di Abraham Lehrer (Consiglio di presidenza della comunità ebraica) e del rabbino Netanel Teitelbaum. Pubblicato in L’Osservatore romano (21.8.2005, 7).
Abbiamo appena letto e ascoltato qui nella sinagoga il salmo 23, che ha un grande significato per la fede di ognuno. Questo salmo dona forza all’uomo in difficoltà. Ha donato a noi, popolo ebraico, dalla cacciata dall’Egitto fino alla Shoah e anche in seguito, la forza di sopravvivere. Questa forza che è la fede del popolo ebraico, la fede in un unico Dio, la fede nell’Eterno...
Il popolo di Israele, quale popolo, quale gruppo e anche ogni suo singolo membro, ha attraversato periodi terribili. Proprio cinque giorni fa abbiamo celebrato il giorno del lutto, un giorno che ci ricorda la sventura della storia ebraica. È il giorno della distruzione del primo e anche del secondo tempio a Gerusalemme e il giorno della repressione della sollevazione nel ghetto di Varsavia. Il popolo ebraico non ha mai smesso di credere, neanche quando è stato lasciato solo. Da questa fede traiamo forza in ogni tempo, anche in tempi nei quali il popolo ebraico è perseguitato.
La sua visita oggi, papa Benedetto, è segno di speranza di pace in tutto il mondo e un passo sulla via di un’edificazione spirituale del terzo tempio di Gerusalemme, che si può costruire soltanto se esiste la pace fra tutti i popoli. La sua visita oggi è un passo avanti verso la pace fra i popoli del mondo. È anche un segno concreto contro il precedente antisemitismo cristiano. La sua visita possiede una grande forza simbolica.
Mi permetta ora di passare dal generale al particolare, alle singole persone. La sua visita ha un grandissimo significato per la madre di Abraham Lehrer che l’ha appena salutata. Oggi ella è qui con noi nella sinagoga. Sul suo braccio possiamo leggere il numero che le fu inciso nel campo di concentramento. Nel 1944, ad Auschwitz, non aveva né la forza né alcuna idea del fatto che un giorno del 2005 suo figlio avrebbe accolto ufficialmente il papa nella sinagoga. Oltre a lei sono presenti anche altre persone che sono sopravvissuti a quel periodo. Da dove traiamo questa forza, la forza di credere, la forza di sopravvivere? La possiamo trovare nei testi che abbiamo letto qui insieme oggi, ossia nel c. I del Primo libro di Mosè: e Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò. L’uomo ha in sé una parte di Dio e questa parte di Dio che l’uomo ha in sé è l’anima. L’anima distingue gli uomini dagli altri esseri viventi. L’anima dà all’uomo la possibilità di pensare prima di agire. È l’uomo a decidere di fare il bene e di non distruggere. L’Eterno ha dato all’uomo un’anima. L’uomo è stato creato per fare il bene e dall’anima l’uomo trae la forza e il dovere di unire gli uomini e non di dividerli, ossia in pratica l’uomo deve avere e creare la pace.
Nell’ebraismo il fondamento della pace è costituito da cinque pilastri. Il primo è la fede in un Dio unico e onnipotente. Il ricordo del passato e l’edificazione del futuro costituiscono il secondo pilastro. Una volta Napoleone chiese per quale motivo gli ebrei piangevano. Risposero: «Piangiamo per la distruzione del tempio di Gerusalemme». Allora egli chiese: «Quando è successo?», e gli risposero: «È accaduto 2000 anni fa». Napoleone disse: «È successo 2000 anni fa e piangete ancora oggi? Se è cosi, quando un popolo piange ancora al ricordo del suo passato, allora è un popolo che ha anche un futuro». (...) Il terzo pilastro è quello delle buone azioni. La preghiera è il quarto pilastro. Oggi, alla fine di questo evento ascolteremo la preghiera che si chiama «Dona la pace». Il suono dello Schofar è il quinto pilastro. Il suo suono indica la pace. Per questo motivo oggi l’abbiamo fatto risuonare, poiché la sua visita è un segno, un simbolo del fatto che nel mondo deve regnare la pace, una pace senza terrore.
Se uniamo questi cinque pilastri, formiamo una mano che, sebbene abbia cinque dita, è sempre una sola, la mano del popolo ebraico e questa mano gliela porgiamo quale simbolo di pace del popolo ebraico per tutti i popoli del mondo.
Pensatore, mistico e papa dal carisma eccezionale, Karol Wojtyla lascia però al suo successore una eredità contrastata. Giovanni Paolo II ha abbattuto molti muri, ma ne ha eretto altri.
Teilhard de Chardin.
Profeta di una coscienza planetaria
di Serge Lafitte
Avevo guardato con simpatia quel lungo volto energico e fine, i cui tratti accentuati da rughe precoci sembravano scolpiti nel legno duro. L'occhio scintillante e vivace aveva qualche cosa di ridente senza essere ironico. Parlava con la vivacità e l'animazione propria di coloro che si appassionano. La sua parola era avvincente, arrivava fino all'anima, con quella potenza persuasiva che è propria degli apostoli. L'autore di questo incisivo ritratto di Pierre Teilhard de Chardin è Henri de Monfreid. Siamo nell'aprile 1926, il Pirata del mar Rosso ha incontrato il gesuita paleontologo sulla nave che porta quest'ultimo in Cina. Personaggio alla Joseph Kessel, trafficante di armi e di hascish, avventuriero e presto scrittore, Monfried ha riconosciuto, al di là di tutto quel che li separa, un uomo della sua tempra. Anche il reciproco è vero. E sigilla un'amicizia che non verrà più meno.
Abbiamo capito: incrociare la strada di Teilhard, come lo chiameranno gli amici, non può suscitare l'indifferenza! Nato il 1° maggio 1881, è il quarto degli undici figli di una famiglia molto cattolica, il cui motto gli si adatta come un guanto: “Dal fuoco è la loro forza, dal cielo è la loro nascita”. Per desiderio del più perfetto ha scelto, a diciassette anni, la Compagnia di Gesù, la cui formazione gli ha dato un gusto profondo per la filosofia e la teologia. Ma è la scienza che attira soprattutto questo appassionato di geologia. Dopo la sua ordinazione al sacerdozio, raggiunge, nel 1912, il laboratorio di paleontologia del Museo di storia naturale di Parigi. Mobilitato come barelliere nel 1914, il giovane sacerdote ritorna dall'inferno delle trincee bardato di decorazioni e definitivamente segnato da quel “battesimo nella realtà” che lo ha fatto avvicinare all'umanità in quel che ha di peggio e di meglio.
Uno spirito libero
Ma il cattolico idealista guarda ormai con occhio critico una Chiesa che giudica troppo lontana dalle realtà umane. Divenuto professore all'Institut catholique di Parigi, ha ottenuto con successo il dottorato in geologia nel 1921 e continua delle ricerche che gli valgono, nel 1923, il premio della Société géologique de France. Valutazione della commissione: “Osservazione penetrante, associazione preziosa quanto rara del gusto della fine analisi con quello dalla potenza di sintesi, grande indipendenza di spirito.” Ma al contrario, nella gerarchia cattolica tali qualità intellettuali susciteranno meno entusiasmo… Come scienziato convinto che l'umanità è il prodotto del lungo processo dell'evoluzione, il religioso ritiene che la teologia cattolica dovrebbe, in conseguenza, rivedere la sua interpretazione della Creazione divina e del peccato originale commesso da Adamo ed Eva.
Nell'epoca in cui la Chiesa romana considera ancora la teoria dell'evoluzione come una delle più pericolose fra le teorie materialiste, la sua intrusione proprio nel seno dell'istituzione fa presto a spaventare i custodi dell'ortodossia. Effettivamente, è un “esiliato” che nel 1926 prende la via della Cina per continuarvi delle ricerche avviate in occasione di una missione scientifica nel 1924. Un soggiorno durante il quale ha scritto uno dei suoi testi più mistici, la Messe sur le Monde. L'esilio è il risultato delle pressioni del Vaticano per allontanare da Parigi un conferenziere le cui idee suscitano già troppa eco nei circoli cattolici soffocati da una teologia che, per l'essenziale della sua concezione del mondo, non ha quasi avuto alcuna evoluzione dal Medioevo e Tommaso d'Aquino. Il cristianesimo, ritiene invece Teilhard de Chardin, “mi appare ora molto meno come un insieme chiuso e costituito che come un asse di progresso e di assimilazione. Fuori di questo asse non vedo al mondo alcuna garanzia, alcuna via di uscita. Ma intorno a quest'asse intravedo una quantità immensa di verità e di atteggiamenti ai quali l'ortodossia non ha ancora fatto posto”.
Disciplinato, lui che si rivendica come un super cattolico, ha obbedito agli ordini dei superiori gesuiti. Teilhard de Chardin passerà così una ventina d'anni in Cina, intervallati da brevi ritorni in Francia e vi acquisterà un riconoscimento scientifico internazionale. Partecipa in particolare alle ricerche che scoprono il sinantropo, uno degli antenati asiatici dell'uomo. Egli che non vuole“lasciar perdere alcuna occasione di sperimentare e di ricercare” fa parte anche della “Crociera gialla”, una spedizione sulla Via della seta organizzata con l'appoggio del costruttore di automobili André Citroën. Tutto questo non gli impedisce di approfondire una riflessione che unisce scienza, teologia e voli mistici centrati sulla figura di Cristo. Così ha riassunto il suo Credo: “Io credo che l'Universo è una Evoluzione. Io credo che l'Evoluzione va verso lo Spirito. Io credo che lo Spirito nell'Uomo si completa nel Personale. Io credo che il Personale è il Cristo-universale”.
Frutti di questa ricerca appassionata, vari dei suoi testi più ambiziosi, come le Milieu divin o le Phénomène Humain sono stati elaborati durante l'esilio cinese. Ma, in
conseguenza dell'interdetto romano, e della sua obbedienza di gesuita
straziato, non saranno pubblicati, come tutti gli altri suoi scritti,
che dopo la sua morte, avvenuta il 10 aprile 1955 a New York, il giorno
di Pasqua… Nel frattempo, dopo il ritorno dalla Cina nel 1946 e un
primo allarme cardiaco, il paleontologo ha potuto effettuare due
soggiorni scientifici nel Sudafrica. Si è meravigliato che “l'Africa non sia stata identificata fin dal primo momento come la sola regione del mondo dove ricercare, con qualche possibilità di successo, le prime tracce della specie umana…” Una ipotesi promessa a un bell'avvenire scientifico.
L'idea di noosfera
Sul versante religioso, il tentativo di sintesi tra scienza e fede cristiana di Teillhard è indubbiamente collegato con il rinnovamento intellettuale che ha consentito al concilio Vaticano II, negli anni '60, di aprire finalmente la Chiesa cattolica alle realtà del mondo moderno. Ma, sovrabbondanti e spesso ardue come sono, le sue riflessioni non sempre hanno potuto raggiungere il loro obbiettivo teologico. Troppo mistico, forse, o troppo sconcertante nelle sue audacie concettuali dagli accenti profetici. Dopo essere caduto in una relativa dimenticanza, Pierre Teilhard de Chardin, paradossalmente, è risorto al di fuori della sfera cattolica alla fine del secolo scorso con la sua idea di noosfera. Questa si origina nella concezione teilhardiana del fenomeno umano che è, secondo lui, il risultato di una evoluzione guidata, un processo orientato dal progetto divino. In questo quadro, Teilhard presente che l'umanità debba ormai sviluppare una sorta di coscienza planetaria. Questo nuovo stadio evolutivo, che chiama “noosfera”, consiste in una mutazione spirituale che consentirà agli umani di raggiungere la tappa ultima della loro evoluzione, il punto Omega, stadio supremo di una fusione con la figura del Cristo, incarnazione di una umanità pienamente realizzata…
Al cuore dell'attuale processo di mondializzazione, alcuni guru della cibernetica hanno voluto vedere nell'esplosione del fenomeno Internet l'irruzione della coscienza planetaria attesa da Teilhard de Chardin. Certamente l'idea non gli sarebbe spiaciuta. Ma la sua visione della noosfera, “involucro pensante della terra” rimane di ben altra dimensione etica e spirituale…
(da Le monde des religions, 11, p. 50-51)La cura tenera della fragilità:
responsabili per l'altro
(I piccoli e l’Abbá di Gesù)
Intervento di Marcelo Barros
1. Una premessa: partire dal Vangelo
Amiche, amici, vorrei cominciare con una premessa. Una premessa che parta dal Vangelo. Per la capacità che esso ha di dire sempre una parola nuova, che ci interpella e ci provoca, corrodendo le nostre sicurezze, stanandoci dai nostri facili rifugi ideologici, dalle nostre ortodossie o ortoprassi, così spesso ostinate e disumanizzanti. Vorrei iniziare, citando, del Vangelo, un passo, tanto conosciuto, quanto incompreso e trascurato. Una parola difficile, ostica alle nostre orecchie. In qualche espressione, perfino minacciosa. Parlo di Matteo, cap. 18, versetti da 1 a 14. La “Magna Carta” dei discepoli di Gesù è proprio il capitolo 18 di Matteo. Ed essa ha la pretesa di valere per le nostre relazioni “dentro” la comunità, non meno che per i nostri rapporti “fuori” di essa. Perché l’identità cristiana – cercheremo di vedere in che cosa consiste questa identità paradossale negatrice dell’Io – non è qualcosa che possiamo vestire e dismettere a seconda dei luoghi in cui operiamo. Anche se proprio in ciò pare consistere il “guadagno”della modernità: le ragioni della fede e la competenza laicale che procedono su piani paralleli senza mai incontrarsi. Collocandoci in ascolto del Vangelo, dovremmo evitare di pensarlo come un manuale che ci fornisce ricette pronte per qualsiasi evenienza, o chiarimenti su ogni argomento. Il Vangelo ci porta, attraverso racconti e parole che esigono il nostro sforzo interpretativo, quella che Gesù ci presenta come Verità del Padre, come proposta del Regno, come senso della vita. Stando così le cose, lo sforzo dovrà consistere in coniugare, ogni giorno, la speranza del regno con gli avvenimenti concreti in cui ci troviamo ad agire. Immagino che il testo lo conoscano tutti. È quello che racconta di come i discepoli chiedono a Gesù: Chi è il più importante nella logica del regno di Dio? E Gesù, come risposta, chiama un bambino, lo pone in mezzo a loro e dice due cose. Primo, se voi non diventerete e non agirete come bambini, non potrete capire nulla del progetto del Padre. Secondo, chi riceve uno di questi piccoli, è me che riceve! Dunque, il piccolo come destinatario, fine, orizzonte della mia azione/attuazione, perché in lui s’identifica la stessa verità di Dio; e il “piccolo”come visione, stile, modalità del mio agire nel mondo. Come maniera d’essere dello stesso Dio. E, a questo punto, noi si potrebbe anche andare a casa. Perché la realtà, come ci è dato conoscerla, è l’esatto contrario di tutto ciò.Ma, voi siete persone coraggiose e ambiziose. Di un certo tipo d’ambizione (come i bambini, appunto che, gonfiando il petto, annunciano con orgoglio: Io da grande, sarò come mio padre] e persone ostinate, cui piace andare controcorrente.
1.1. Il bambino, oggetto della mia cura
Chi è, dunque, il piccolo, il bambino che deve essere oggetto della nostra cura, della nostra cura esclusiva, così com’è oggetto della cura del Padre? Il piccolo, il bambino del tempo di Gesù, non aveva nulla da spartire con l’immagine che conosciamo oggi, simbolo della tenerezza, oggetto vezzeggiato, centro della famiglia, idolatrato dal mercato. Il bambino non valeva nulla, nessun diritto “dei bambini”. Il padre era padrone della vita e della morte. [Questo accade, ancora oggi, ma almeno, sotto lo sguardo severo, e a volte ipocrita, della opinione pubblica]. Dunque, il primo messaggio di Gesù è che il bambino – sintesi e simbolo di ogni insignificanza, di ogni fragilità, di ogni diritto non tutelato, presente nella nostra storia – deve diventare il centro e la priorità della nostra azione. Parlo naturalmente anche dell’azione politica. Non possiamo aver nulla a che vedere con forze e programmi politici – se siamo cristiani, naturalmente, - che non abbiano come obiettivo questo genere di priorità. La tutela dei poteri forti, la propongono e la perseguono molto bene i partiti della destra, che oggi più che mai si presenta come forza del neo-paganesimo imperante. E, in questo, sono senza dubbio ben equipaggiati, ideologicamente e amministrativamente.
1.2. Il bambino, soggetto della cura
Ma, qual è la maniera di agire del bambino che assomiglia alla maniera di agire di Dio. Meglio, del Padre di Gesù. Altro paradosso evangelico: agisce come il Padre, chi agisce come il figlio, come un bambino! Cerchiamo di offrire alcune caratteristiche dell’”essere bambino”. Voi, poi, potrete aggiungere tutte quelle che vorrete. Il bambino sa di non essere auto-sufficiente, più ancora, sa di essere dipendente. L’idea su cui dovremmo lavorare penso che possa essere quella di “interdipendenza”: il bambino che è in me ha bisogno di te, il bambino che è in te ha bisogno di me. Tu, - il “tu” che è la natura, la storia, la comunità – sei la condizione del mio esistere, così come il “tu” di cui io sono parte è condizione del tuo esistere. Il bambino è curioso, desideroso di esplorare il mondo che lo circonda, si relaziona con fiducia. Non ha preconcetti, non conosce esclusioni. Si pone come limite solo la parola del padre, che, nel nostro caso, siamo fortunati, perché sappiamo essere il progetto del Padre che desidera, per tutti e tutte, una vita piena e felice. Il bambino, nei rapporti che instaura, non conosce gerarchie, né sete di potere, ma cerca tenerezza e la dona, l’unica economia che conosce è quella del dono. E penso che, per cominciare, già potrebbe bastare. Confrontandoci con questo brano del Vangelo, potremmo verificare se e quando la nostra attuazione assume seriamente la proposta del regno, nella nostra vita personale, nelle relazioni familiari, comunitarie, sociali, ecclesiali, politiche. La domanda a cui dovremmo rispondere ogni sera, chiudendo la nostra giornata, è: Chi è stato importante oggi per me? Chi è stato al centro delle mie attenzioni? Della mia attuazione familiare, ecclesiale, sociale, economica, politica? L’ “io” (individuale o collettivo poco importa, la mia famiglia, il mio gruppo, Chiesa, partito, i miei fans...) o il “tu”, che mi concerne sempre, il senza-potere, il senza-voce, il senza-opportunità. Sapendo che la regola del cristiano [regola che, per altro, si destina a pochi], consiste nel giungere, quando necessario, a negare se stessi, perché l’altro viva e che, finché esisterà conflitto, l’altro – il bambino, il debole, il povero, l’ultimo, l’extra-comunitario, il perseguitato, ha, per diritto divino, la precedenza. Per dirlo con le parole di una preghiera di Gandhi: “O Signore, se vuoi che io abbia latte, dallo prima a tutte le tue creature!”. Parlavamo all’inizio di parole perfino minacciose. È così.
Questo brano di Vangelo ci dice in che misura Dio si sente coinvolto nella storia dei senza-storia, che sono, come tutti, destinatari della sua promessa di vita. “Se qualcuno farà perdere la fede nella mia promessa di vita ad uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli legassero una grossa pietra al collo e che lo buttassero in fondo al mare”. Attenzione, amici, è questo il messaggio: con il Dio dei piccoli non si scherza!
Non perdiamo l’occasione di scrivere la storia, la nostra storia, come storia di Dio.
2. La realtà e le cifre dell’anti-regno
Alcuni mesi fa, salutando la costituzione del Centro Internazionale Helder Câmara, citavo dom Helder, suggerendo le tappe di un possibile percorso: “Il nostro Padre … ha dato all’uomo il potere e la responsabilità di non rassegnarsi alla sofferenza e al dolore innocente, ma di combatterli. E’ il nostro compito.” Non rassegnarsi alla sofferenza. Il dolore tortura il corpo; la sofferenza, in particolare quella provocata dall’uomo e da strutture di potere inique, per la sua durata e la sua asprezza, corrode le radici della vita. Non basta manifestare indignazione, né imprecare contro la malvagità dell’uomo, ma bisogna rispondere concretamente alle sfide che ci troviamo di fronte e denunciare le responsabilità, chiamandole per nome. Le sfide elencate nel programma del Centro sono molte e rilevanti, documentate da cifre impressionanti: la miseria causata da un’economia ingiusta, l’ignoranza, lo sfruttamento sessuale, i bambini abbandonati, il lavoro minorile, le malattie e l’aids, i bambini soldato, ecc... Per avere un quadro della situazione mondiale, necessario per ragionare con sufficiente realismo, lasciatemi ricordare qui ancora alcuni pochi dati di fonte Unicef.
Di 100 bambini che nascono in media ogni anno
19 non avranno accesso all’acqua potabile
40 vivranno senza adeguate strutture sanitarie
30 soffriranno malnutrizione nei primi 5 anni di vita
26 non saranno vaccinati
40 non saranno registrati alla nascita e quindi non avranno nazionalità e diritti civili
17 non andranno mai a scuola.
“Nel mondo ci sono 125 milioni di bambini che non hanno mai visto una maestra”. E resta comunque difficile studiare con la pancia vuota o con il corpo distrutto dalle malattie. È per questo che (è persino inutile sottolinearlo), lotta all'Aids e programmi per l’alimentazione dell'infanzia diventano obiettivi irrinunciabili. L'Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha rilevato che negli ultimi dieci anni la quota di aiuti ai paesi poveri s'è ridotta di un terzo e oggi vale lo 0,4 per cento del Pil (Prodotto interno lordo). Nel suo ultimo rapporto la Banca mondiale ha calcolato che 180 miliardi di dollari all’anno per 10 anni consentirebbero di garantire l’accesso all’acqua potabile, all’istruzione di base e a un alloggio decente a tutti coloro che ancora ne sono privi, in tutto il mondo. Per avere un’idea delle grandezze economiche in questione, basti pensare che gli Usa e l’Europa danno sussidi ai loro agricoltori per quasi il doppio di quella cifra (347 miliardi di dollari), danneggiando l’esportazione dei prodotti agricoli dei paesi poveri. Nel 2002 sono previste spese militari mondiali di 946miliardi di dollari (con un incremento addebitabile in gran parte agli Stati Uniti) rispetto agli 811 miliardi del 1998. Nonostante la rilevante crescita della ricchezza globale degli ultimi decenni il divario tra i primi e gli ultimi – tra il quinto più ricco e quello più povero – continua ad aumentare . Ora, questi dati stanno a testimoniare che il nostro mondo è la negazione più radicale di quel Regno che ci ostiniamo ad annunciare e celebrare. Più che le cifre, poi, sono i volti da noi conosciuti che ci interrogano quotidianamente. Per quanto riguarda il mio Paese, nel 2001 il Brasile si è trovato ad affrontare situazioni davvero gravi a livello sociale: un aumento generalizzato della disoccupazione, un inarrestabile e progressivo impoverimento della popolazione, la diffusione della violenza e l’azione di un insieme di meccanismi di emarginazione ed esclusione sociale, aggravati da una perversa distribuzione del reddito. Secondo statistiche ufficiali, circa 50 milioni di brasiliani (quasi un terzo della popolazione) vive con meno di 2 dollari al giorno, e sono perciò considerati in situazione di povertà. E tuttavia, dati più circostanziati indicano che 15 milioni di brasiliani sopravvivono con un reddito inferiore o pari a un dollaro per giorno, il che è considerato indice di povertà estrema o di miseria. Ora, è inevitabile che tale situazione si rifletta drammaticamente sulla vita dei 57 milioni di bambini e adolescenti del mio Paese, in termini di vulnerabilità alla mortalità infantile, di abbandono scolare, di sfruttamento del loro lavoro. Questo, solo per citare i fenomeni più appariscenti. Secondo dati del Ministero dell’Istruzione, relativi all’anno 2000, del totale di bambini da 0 a 3 anni, solo il 4,2% ha accesso agli asili nido e di quelli da 4 a 6 anni solo il 37,9% frequentano le scuole materne. Senza considerare la bassa qualità dell’offerta di questi servizi. E, ancora, benché i dati ufficiali ci offrano, per il 1999, una percentuale di iscrizione all’insegnamento primario del 95,6%, è importante rilevare che sono circa 1 milione e 800 mila bambini tra i 7 e 14 anni che stanno fuori dalla scuola. L’Unicef segnala inoltre che circa 8 milioni di adolescenti tra i 12 e i 18 anni, in condizioni di reddito bassissimo e di bassa scolarità sono condannati all’insuccesso scolastico e professionale, privi come sono di una scolarità sufficiente che li abiliti ad accedere ad attività lavorative più complesse e a salari migliori. A tutt’oggi le provvidenze governative in tema di infanzia e adolescenza non si sono dimostrate in grado di affrontare, né tanto meno di risolvere i problemi, a causa del mancato interesse a risalire, denunciare, rimuovere le cause della povertà e della miseria. Tutto questo rappresenta per noi dunque un appello ad agire. Ogni iniziativa per migliorare il mondo deve dare precedenza alle iniziative a favore dei bambini. Una società i cui i più piccoli e indifesi sono denutriti, vengono fatti oggetto di abusi, o non hanno diritto all'istruzione, non può dirsi una società civile. É questa la visione che ispira il nostro incontro: è il benessere dei piccoli la misura della nostra responsabilità verso l’Altro. Oggi è possibile creare un mondo a misura di bambino. Abbiamo le conoscenze, l'esperienza e le risorse necessarie. Quindi non è più una questione di possibilità, ma di volontà politica.
3. Il Regno, ovvero il “Principio della cura”
Il Regno, ne siamo profondamente convinti, non è altra cosa dal principio della cura, annunciato, celebrato, ma, soprattutto, testimoniato. Il discernimento di come viverlo nel quotidiano, nelle nostre relazioni familiari, comunitarie, sociali e di come incarnarlo nelle nostre scelte politiche non è sempre facile. Quello che è certo è che non può adottare mezzi e stili che lo contraddicano. È quanto ci ricorda Gandhi : “La convinzione che non vi sia rapporto tra mezzi e fine è un grande errore. Per via di questo errore, anche persone che sono state considerate religiose hanno commesso crudeli delitti (...). Il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra il mezzo e il fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l’albero. (…) Raccogliamo esattamente quello che seminiamo.” Una cosa almeno ci è chiara fin dall’inizio: il diritto alla vita non può essere lasciato alla mano invisibile del mercato, né ad un’élite tecnologica che concentra su di sé tutto il potere . Può salvarci solo la scelta consapevole di una moltitudine di uomini e donne, che pratichino nel quotidiano, rapporti sociali all’insegna della solidarietà. Che è poi, ciò che chiamiamo la “prassi del regno”.Solidarietà significa chiederci che cosa facciamo noi affinché l’altro possa esistere. E, subito dopo, darsi da fare per creare le condizioni affinché tutti possano “vivere” con dignità : disponendo di cibo, di acqua, di salute, di lavoro, di istruzione. Riccardo Petrella, in un suo intervento, proponeva di fare una alleanza con i bambini di tutto il mondo, oltre i confini degli Stati e di chiamarla O.M.U: Organizzazione Mondiale dell’Umanità. Durante il recente vertice della Terra di Johannesburg, a Soweto, nel ghetto che ha vinto la battaglia contro l’apartheid, abbiamo assistito alla sfida simbolica del Children Earth Summit: cento bambini in delegazione da tutto il mondo hanno dato vita ad una festa della speranza per celebrare la bellezza della Terra. Parlavano della “cura” cui tutti siamo tenuti nei confronti della nostra madre comune e delle misure “semplici” con cui questa cura si manifesta: non sprecare l’acqua, riciclare le bottiglie usate, e così via. Il vertice ufficiale non ha dato spazio a questi bambini, ma saranno loro, in definitiva, a verificare la realizzazione delle promesse fatte a Johannesburg. Dom Helder , che aveva una grande fiducia nei giovani , lanciò proprio qui a Milano nell’ottobre del ’74 il motto “ Giovani di tutto il mondo unitevi !“. Oggi, le maggiori organizzazioni dell’infanzia, con il sostegno di Nelson Mandela, lanciano la parola d’ordine: “Creare un movimento globale per cambiare il mondo, con i bambini.” Questo movimento è già in atto ed è rappresentato dalla rete innumerevole di iniziative e di persone che scelgono di coinvolgersi sui temi della Pace e dell’Ecumenismo, della Lotta alla fame e alla miseria, dei Diritti umani, del Dialogo tra generi, dell’Ecologia, della Terra e dell’Acqua. Tutte sfide che dobbiamo assumere simultaneamente per dare un futuro all’infanzia del mondo intero, coinvolgendo “ogni cittadino, ogni nazione, entità pubbliche e private, nazionali e internazionali, per spingere al cambiamento e alla tutela dei diritti, assicurando il miglioramento duraturo della vita dei bambini” (Movimento globale per l’Infanzia). Invece degli obiettivi esclusivamente economici del neoliberismo vogliamo mettere al primo posto la qualità della vita e il futuro dei nostri figli, con tutto quello che ne consegue in termini di ecologia, equità, democrazia. Certo, per far questo abbiamo bisogno di un recupero di spiritualità che, lungi dal sottrarci alla materialità delle relazioni, della vita e delle responsabilità che ci competono, ci restituisca, con inedita libertà e nuova maturità, al rapporto con la terra Madre, le sue energie e i suoi figli e figlie.
4. Per una spiritualità politica
Helder Camara ha testimoniato che non c’è altra via per il cristiano che il farsi prossimo, non solo a livello personale, ma lavorando per cambiare le strutture che rendono gli uomini schiavi. Ci invitava ad essere artigiani di pace che è il modo migliore per riconoscere l’altro. Costruttori di quella pace che è molto di più che la semplice assenza di guerra: è vita piena, fraterna e solidale, per tutti. Per questo aveva scelto come programma di vita la preghiera di Francesco: "Signore, fa' di me uno strumento della tua pace: Dove è odio fa' che io porti l'amore / Dove è offesa che io porti il perdono / Dove è discordia che io porti l'unione / Dove è dubbio che io porti la fede…".
Spiritualità francescana e solidarietà, contemplazione e azione, dialogo e incontro fra culture e religioni. Questa è la via che ci ha indicato nelle miserie e conflitti che caratterizzano il nostro tempo. Certo, anche la politica ha tutti i limiti, di ogni altro ambito umano, aggravati dalle tentazioni del potere. L’esperienza ci dice che dove si denuncia l’ingiustizia per affermare il bene comune si rafforzano sia il divino che l’umano. Senza spiritualità la politica diventa cinica; senza impegno politico, la spiritualità diventa sentimentalismo. Questo, almeno per noi in Brasile, è sufficientemente chiaro: una spiritualità che si voglia cristiana non può essere apolitica, indifferente alle sofferenze prodotte da un sistema di potere ingiusto. I fatti ci costringono a prendere posizione . Non c'è separazione tra cielo e terra. La liturgia cristiana canta la relazione tra il cielo e la terra, tra Dio e l'uomo, che si realizza in Gesù. Si contempla Dio attraverso la Bibbia e la vita insieme. Carlos Mesters, il nostro amico biblista, ha saputo tradurre in splendidi libri questa esigenza di essere contemplativi nelle attività di liberazione. E’ una spiritualità che sa vivere ecumenicamente la presenza dello Spirito e la sua azione salvifica nel mondo. Quando celebriamo i nostri martiri, ricordiamo anche quelli non cristiani come "martiri del Regno", martiri di un processo più grande che la Chiesa è chiamata a servire. La Chiesa non può essere che un servizio al Regno di Dio. E noi sappiamo che questo crea inevitabilmente tensioni e conflitti. Questo pericolo costante per la vita e la missione della Chiesa sta scritto nella Rivelazione di cui ella stessa è depositaria. Come osserva il vescovo profeta, Pedro Casaldáliga: “Gesù ha vissuto anche la conflittualità con il tempio e con la sinagoga… La Chiesa, come qualunque istituzione umana, sebbene non sia solo un'istituzione umana, corre il rischio di istituzionalizzarsi eccessivamente, di ripiegarsi su se stessa, corre il rischio … di fare a volte affogare il carisma nel potere. Per questo anche il cristiano d'oggi, come a suo tempo Gesù, può sperimentare il conflitto, non solo di fronte ai poteri di questo mondo, ma anche di fronte a ciò che nella Chiesa può esserci di tempio e di sinagoga”. La politica non è tutto, perché Dio non si limita a rispondere ai bisogni dell’uomo, ma è una via inevitabile per la liberazione umana.
5. Agire responsabilmente
Se un giorno dovessi spiegare ad un bambino del mio bairro che cosa ha portato la nostra comunità monastica a insediarsi, ormai da venticinque anni, nella periferia povera di Goiás, vorrei potergli dire che è stata la scelta della compassione, nel suo senso più ampio. La scelta, cioè, della condivisione e solidarietà profonda della vita della nostra gente, con i suoi problemi, le sue sofferenze, ma anche le sue risorse, l’allegria, la capacità di resistenza e tutte le sue ricchezze interiori. Vorrei che a noi si potessero applicare sempre le poche parole che nella Bibbia descrivono l’atteggiamento del samaritano: “Passandogli accanto lo vide, e ne ebbe compassione, lo guardò nel volto e ascoltò il suo cuore”. L’orientamento culturale di gran lunga prevalente oggi è altro. È quello di “star bene con se stessi”: una sorta di fuga dal mondo per migliorare il proprio benessere psicofisico. L’economia, la politica , la sessualità sono senz’anima, non richiedono cioè alcun impegno spirituale. L’alienazione si alimenta di conformismo e di palestre. Il potere incoraggia la burocratizzazione della politica, finanzia il volontariato come strumento di conservatorismo compassionevole per coprire l’ingiustizia del sistema. L’attuale modello di sviluppo mette a repentaglio irresponsabilmente l’intero sistema ecologico della terra e trasferisce la questione sociale a livello planetario in termini assolutamente inediti di tensioni e di aggresività. Anche il Primo Mondo ha costruito un suo muro, non fatto di mattoni, ma invisibile e forse più insidioso. Perché nasconde i lager o gulag di popoli interi e molti desaparecidos. E crea le condizioni di emarginazione e disperazione che alimentano il terrorismo, l’intolleranza e la violenza. Ora che è venuto meno il muro che divideva il primo mondo dal secondo è ora di eliminare il muro che esclude i popoli del terzo mondo. Anche perché l'umanità è una sola e queste classificazioni dei popoli sono prive di senso. Ricordando, per altro, che quella economica non è l’unica forma di ingiustizia. Ce lo ricordava frei Betto, al Forum Sociale di Porto Allegre, menzionando la persecuzione degli immigrati , l’esclusione dei discendenti degli schiavi neri e degli indigeni nelle Americhe, l’oppressione di milioni di individui che appartengono alle caste "intoccabili" in India, e tante altre forme di razzismo o discriminazione per ragioni di colore, religione, cultura o genere, presenti dal Nord al Sud del pianeta. Di questo scandalo siamo tutti, in misura maggiore o minore, responsabili, vuoi per incompetenza, per incoscienza, per alienazione o per mancanza di pietà. Per reagire ad esso, dom Helder chiamava all’azione quelle che lui chiamava le minoranze abramitiche, i piccoli gruppi di persone che, per ogni dove, diventano consapevoli dei peccati sociali e scelgono di lavorare, non per i poveri, ma con i poveri. Anche Etty Hillesum si rivolgeva nel suo Diario non alle nazioni ma solo a quegli uomini “per i quali vale come verità certa che le realtà del nostro mondo civile non cadono dal cielo, ma sono in ultima analisi opera di noi uomini singoli. Se le grandi cose vanno male, è solo perché i singoli vanno male, perché io stesso vado male. Perciò, per essere ragionevole, dovrò cominciare col giudicare me stesso.”
6. L’ecumenismo dell’umanità sofferente
Dalla lontana periferia brasiliana, che è il mio piccolo osservatorio aperto sul mondo, attraverso una vasta rete di amicizie che lungo tutti questi anni si è venuta tessendo, vedo che la solidarietà, come nuovo nome della pace, ci riunisce nell’ ecumenismo dell’umanità sofferente . Il riconoscimento della centralità della solidarietà con gli impoveriti sta alla base del dialogo fra le religioni. Questa è anche la base di una convergenza delle religioni per la comune resistenza contro le cause del patire ingiusto. Dopo le tragiche avventure del colonialismo, con la distruzione delle popolazioni indigene e la riduzione in schiavitù di milioni di figli dell’Africa, dopo Auschwitz, i lager e Hiroshima, lo scempio dell’ambiente, la sofferenza e morte di milioni di bambini non possiamo pensare di cavarcela invocando i buoni sentimenti o i nobili ideali e neppure solo facendo dichiarazioni teologiche di richiesta di perdono. L’abbattimento delle torri di New York segna l’esigenza di un ritorno alla terra, al ground zero, come è stato chiamato il luogo della tragedia, alle fondamenta. Non per rispondere al terrorismo con la follia di una guerra allargata a tutto il mondo. Ma per prendersi cura della Terra, ritrovando l’umiltà (dall’etimologia di humus ). La sofferenza e il dolore innocente possono essere il punto di svolta per affermare la vita, liberando le energie positive, contro il processo autodistruttivo del male. Non sopravvalutiamo la forza apparente degli imperi, che anche quando sembrano egemoni, hanno i piedi di argilla e franano all’improvviso, accecati dal militarismo . L' “argilla” è la fame dei popoli e il loro amore per la Vita. I cristiani sanno che la Vita trionferà sulla Morte. Quello che in fondo propongo ai giovani, l’impegno fondamentale che è intendo sollecitare nel nome di Dom Helder Camara è che le azioni che svolgeranno, nei campi più diversi, ed in base a sensibilità ed esperienze diversissime dalle mie, siano comunque finalizzate ad una missione: testimoniare la solidarietà del Dio della Vita per ogni uomo. La stessa che Cristo ci ha manifestato. L’azione solidale per scongiurare i pericoli che incombono sull’umanità può darci una visione ad un tempo nuova e fedele al Vangelo. Il comportamento dei cristiani deve manifestare coerenza tra l’annuncio e la vita. Luca ripeterebbe: “perché mi chiamate: Signore, Signore, ma non fate ciò che vi dico? “(6,46).
7. Per un nuovo protagonismo del bambino
Ma torniamo a loro, ai bambini, ai piccoli. Per avviarci ad una prima conclusione. Abbiamo cercato di esporre come possiamo fare di loro, nello stesso tempo, l’oggetto e il soggetto del “principio della cura”. Facendo di questo l’anima di una nuova spiritualità (anche politica), di un agire responsabile, di un ecumenismo aperto e solidale con gli ultimi. Sedici anni fa, nel 1986, si celebrava a Brasilia il Primo Incontro Nazionale del Movimento dei Bambini e Bambine di Strada, durante il quale per la prima volta essi poterono denunciare di fronte al Paese la violenza di cui erano vittime. Un anno dopo, questo stesso movimento promosse il 1° Tribunale Nazionale del Minore, che giudicò simbolicamente i crimini praticati contro bambini e adolescenti. Da allora si sono moltiplicate, nel nostro Paese le iniziative che intendevano e intendono dare voce e opportunità a queste espressioni “ultime” della società, le più deboli e marginali. Questo si è tradotto via via in una coscienza e una cultura nuova, capace di restituire all’infanzia il tempo, lo spazio, il valore, il significato che le erano stati sottratti. Basterà ricordare le mobilitazioni sui temi della violenza, sul lavoro infantile, sullo sfruttamento sessuale, sul recupero e sulla protezione dei minori “infrattori”, davanti ad una società per la quale “riconoscere anche nell’aggressore un cittadino sembra essere un esercizio difficile e inappropriato”. Questa mobilitazione di ampi settori della società, nata dall’azione concreta dei “piccoli” riscopertisi soggetti politici, ha significato quanto meno, a livello di opinione pubblica, la scoperta e la messa a tema dei “diritti dei bambini” e, a livello dei poteri pubblici, lo studio, la progettazione e l’emanazione di una legislazione assolutamente esemplare. E tuttavia, resta da fare molto, quasi tutto. Si tratta, cioè, in primo luogo, di applicare le leggi, lo Statuto del Bambino e dell’Adolescente, in primis. Fino ad oggi, e speriamo che sia davvero solo fino ad oggi (grandi sono infatti le speranze che accompagnano questa seconda tornata elettorale che si svolgerà domani), è mancata la volontà politica di applicare il precetto costituzionale della “priorità assoluta”. Lo Stato nelle sue strutture centrali e periferiche ha preferito assumere o mantenere una dimensione di carattere assistenzialista, che tratta cioè l’assistenza sociale come un dovere morale e non come un diritto. Anche perché questa si è rivelata un’attitudine sufficientemente redditizia, almeno in termini elettoralistici.
È necessario che il nuovo governo che si insedierà al Palazzo del Planalto investa nel bambino, nella sua famiglia (aumentandone il reddito familiare, le condizioni abitazionali, la qualificazione dell’adulto per il lavoro) e in un’educazione di qualità. Un’educazione che ponga tra i suoi obiettivi anche quello di riscattare e valorizzare le culture, fino ad oggi sacrificate, osteggiate se non negate, delle popolazioni negre ed indigene. Sarà l’occasione per mostrare una “nuova” volontà politica di agire nella prospettiva dei piccoli e degli ultimi, l’unica in grado di non caratterizzarsi come “escludente”. Capace, invece, di esprimere relazioni che riconducano tutta la ricchezza dei diversi segmenti della società nella generale categoria della “cittadinanza”.
A mo’ di conclusione: un nuovo inizio
Come concludere un tema come questo: il prendersi cura che si riflette sull’infanzia e orienta il futuro?
La diagnosi è chiara: i paesi ricchi vivono materialmente oltre i limiti dello sviluppo sostenibile e pensano e agiscono al di sotto delle proprie esigenze spirituali. E’ possibile un nuovo inizio e come ?
E’ vitale continuare a considerare possibile una società migliore, che consenta a tutti gli esseri umani di immaginare e costruire altri mondi possibili, senza guerra e miseria .
Francesco d’Assisi così si rivolgeva ai politici nella sua Lettera ai reggitori dei popoli:
“… ricordate e pensate che il giorno della morte si avvicina. Vi supplico allora, con rispetto per quanto posso, di non dimenticare il Signore, presi come siete dalle cure e dalle preoccupazioni del mondo”. Non dimentichiamo che il Signore si è fatto uomo come povero (cf. 2 Corinti 8,9), che ai poveri ha affidato il giudizio finale (cf. Matteo 25). Non è solo una scelta etica sulle cose da fare . L’opzione per i poveri è un cammino che ci è stato rivelato e che dà senso al nostro legame con i figli . Infatti alla domanda “Dove incontriamo Dio?” la risposta ci è stata data chiara:
“ogni cosa che avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatta a me”
In questo senso siamo orientati a contribuire al “Decennio internazionale per la cultura della pace e la non violenza per i bambini del mondo” proclamato dalle Nazioni Unite per il 2001-2010 col seguente manifesto: PER I BAMBINI DEL MONDO
“Oggi, in ogni paese del mondo, ci sono molti bambini che in silenzio soffrono gli effetti e le conseguenze della violenza. Essa assume forme differenti: tra i bambini nelle strade, a scuola in famiglia e nella comunità. Ci sono violenze fisiche, violenze psicologiche, violenze economico-sociali, violenze ambientali e violenze politiche. Molti bambini - troppi bambini - vivono in una “cultura della violenza”. Noi vogliamo contribuire a ridurre le loro sofferenze. Noi crediamo che ogni bambino possa scoprire da sé che la violenza non è inevitabile. Noi possiamo dare speranza, non solo ai bambini del mondo, ma a tutta l’umanità, cominciando a creare e costruire una nuova Cultura della Non violenza. Per questa ragione noi facciamo questo appello a tutti i capi di stato, a tutti i membri dei paesi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, affinché l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dichiari:
Che il primo decennio del nuovo millennio, gli anni 2001-2010 siano dichiarati il “Decennio per una cultura della non violenza”;
Che all’inizio del decennio l’anno 2000 sia dichiarato “l’anno dell’educazione alla non violenza”;
Che in questo decennio la non violenza sia insegnata ad ogni livello della nostra società, per rendere i bambini consapevoli del significato e dei benefici della non violenza nella loro vita quotidiana, al fine di ridurre la violenza e la conseguente sofferenza, perpetrata contro loro e l’umanità in generale.
Noi possiamo costruire insieme una nuova cultura della non violenza che darà speranza a tutta l’umanità e in particolare a tutti i bambini del mondo. “
Non rassegniamoci dunque, ma assumiamo le nostre responsabilità a testa alta e a mani tese, con questo impegno comune, perché è tempo di agire !
IMPEGNO COMUNE PER LA PACE
Riuniti nell’incontro promosso dal Centro Internazionale Helder Camara, da questa Università Cattolica facciamo appello a tutte le università del mondo per la diffusione fra i giovani di una cultura di pace. Riconosciamo che la Pace é il bene supremo ed un diritto di tutta l’umanità che ci è dato dall’amore divino. Riaffermiamo la pace come universale cammino spirituale che richiede una continua vigilanza.
Per questo, in nome dello Spirito Divino, energia di amore universale, nel quale crediamo con diversi nomi e in differenti forme, condanniamo ogni tipo di guerra, violenza e terrorismo, sia di gruppi, sia di Stati che si pongono al di sopra delle leggi internazionali , contro l’umanità ed il pianeta Terra .
Per approfondire in noi e nel mondo una cultura di pace assumiamo questi impegni:
1. Noi ci impegnamo a consacrare parte del nostro tempo, come studenti, insegnanti, uomini di buona volontà a elaborare un sapere universale condiviso che contribuisca a costruire una mondializzazione pacifica.
2. Noi ci impegnamo a dialogare tra noi e con gli altri con sincerità e pazienza, non considerando le differenze come un muro insormontabile, ma, riconoscendo che il confronto con l’altrui diversità può rappresentare l’opportunità per approfondire la nostra comprensione reciproca e favorire una educazione alla mondialità .
3. Noi ci impegniamo a difendere il diritto di ogni persona a vivere dignitosamente, secondo la sua propria identità culturale e religiosa, e il diritto di ognuno di associarsi ad altri per formare la propria famiglia culturale o religiosa.
4. Noi ci impegniamo a testimoniare che, qualunque sia la nostra religione e tradizione, riceviamo in noi lo Spirito Divino, se ci apriamo alla compassione-solidarietà coi nostri simili e alla salvaguardia del Creato .
5. Noi ci impegniamo a schierarci sempre dalla parte delle persone che soffrono, cercando di fare tutto il possibile per dare la precedenza alla cura dei bambini .
6. Noi ci impegniamo a promuovere incontri nello spirito di Assisi affinché cresca la comprensione e la fiducia reciproca tra le persone e i popoli, come base di una pace autentica.
7.Ci impegniamo a collaborare con tutte le iniziative a favore dell’infanzia che saranno promosse da questo convegno. Facciano nostro l’obiettivo Unicef di dare acqua pulita e servizi sanitari in ogni scuola del mondo.
We care : insieme dalla parte dei minori perché “un altro mondo è possibile”.
“GIOVANI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI ”
Giovani di tutto il mondo: unitevi!
Unitevi contro l’egoismo!
Unitevi contro le manovre del potere economico, manifestazione suprema dell’egoismo contemporaneo!
Unitevi per una lotta pacifica! Se usassimo le armi dei fabbricanti di armi e dei fabbricanti di guerra, essi ci schiaccerebbero.
Dobbiamo usare armi che essi non possono usare:
pressioni morali liberatrici, basate sulla verità, sulla giustizia, sull’amore;
pressioni morali liberatrici, condotte contemporaneamente nei paesi ricchi e nei paesi poveri;
pressioni morali che, destinate a liberare gli oppressi, libereranno il Cristo che si fece uno con i poveri, con gli emarginati, gli esclusi, i senza voce!
Dom Helder Camara, Milano 19 ottobre 1974
L'assenza della creatività come fenomeno sociale allargato è un dato allarmante, che denuncia il farsi strada di una società nella quale si è perso il gusto per la bellezza della conoscenza in sé e dove tutto sembra dover essere valutato secondo un criterio utilitaristico, alla fine perdente.