Religioso Marista
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L’uomo davanti al volto della Sindone
di Vladimir Zelinskij
IL VOLTO E IL VERBO
Oltre ad essere un oggetto della ricerca scientifica, la Sindone è anche un avvenimento spirituale che ci tocca come persone, ci coinvolge come avvenimento spirituale in un modo o in un altro. Non sono uno studioso della Sindone, perciò il tema della mia riflessione sarà proprio questo incontro con il Volto espostoci davanti, ma, in un certo senso, rivelatoci anche dentro di noi. Da quest’incontro usciamo sempre diversi, cambiati, segnati dal contatto col mistero che ci attira e ci supera. Il Volto della Sindone già nel momento del primo contatto rappresenta un appello che ci chiama alla contemplazione ed anche alla riscoperta di ciò che si trova nel fondamento di noi stessi. Noi ci riscopriamo come cristiani, ma anche come esseri umani, quando entriamo nella contemplazione di quel mistero con il Volto umano. Proviamo a fermarci davanti a questo Volto e ad accoglierlo come un appello, un messaggio personale.
La prima cosa che ci colpisce nel Volto della Sindone è il suo linguaggio espressivo e comunicativo. Sembra che il Volto entri in contatto con la parte nascosta e più profonda del nostro essere. Cosa ci dice? Cerchiamo di leggere questo messaggio, anche se in modo incompleto, parziale, troppo libero e poco scientifico. Cominciamo con una breve riflessione di san Gregorio di Nissa (dal suo trattato “La creazione dell’uomo”) che può servire come chiave della nostra lettura.
«Dice san Paolo : ‘Chi mai ha conosciuto lo Spirito del Signore?’ (Rm 11, 34). Io aggiungo: e chi mai ha conosciuto il proprio spirito? Quelli che si ritengono capaci di comprendere Dio, farebbero bene a guardare dentro se stessi: hanno forse compreso lo spirito che è in loro?
A mio parere, bisogna tenere presente la parola di Dio: “facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”.
La natura divina ha come caratteristica l'incomprensibilità: la sua immagine deve somigliare anche in questo…
Di fatto, noi non arriviamo a comprendere la natura del nostro spirito. Perché esso è ad immagine del suo Creatore ed ha uguaglianza col suo Signore, reca l'impronta della natura incomprensibile, custodisce il mistero».
Il nucleo del messaggio: che lo spirito umano custodisce in sé il mistero dell’immagine. Ma quel mistero è illuminato dall’impronta del Verbo. L’immagine riflette in sé la rivelazione del Verbo, perché il Verbo che si fa carne diventa icona. E l’icona porta il messaggio del mistero dell’immagine. La prima cosa che vediamo con uno sguardo non fuggente sulla Sindone è che il suo Volto rappresenta un prototipo delle icone, con la sua espressività specifica della tradizione orientale. L’icona, però, prima di nascere come opera d’arte, è concepita nella contemplazione, nell’esperienza spirituale. Dio creò l’uomo a sua immagine, cioè secondo un modello preesistito - e questo modello fu il Verbo che era presso di Lui. L’immagine uscita dal Verbo diventa una realtà fisica, visibile e questa realtà si mantiene, dura, rimane con noi. Il compito dell’icona è di rendere visibile il perenne mistero del Verbo, il miracolo dell’Incarnazione. Proviamo, però, a rischiare nel porre una domanda: è davvero possibile trovare qualche legame comune fra il Volto ed il Verbo, fra l’immagine di Dio e la raffigurazione della Sindone? Sotto un’altra forma, la stessa domanda se la ponevano anche i Padri della Chiesa. Alcuni di loro rispondevano in modo affermativo: sì, l’uomo fu creato su “modello” del Cristo, nella previsione dell’Incarnazione. L’atto di fede nel Verbo che si è fatto carne suggerisce anche che il Verbo si sia fatto Volto. E non un qualsiasi volto umano, ma in un certo senso il Volto modello, il Volto archetipo.
Cosa vuol dire archetipo in questo contesto? Per i cristiani l’incontro con il Volto come Verbo prima di tutto è un avvenimento di riconoscenza. La riconoscenza è uno degli atti costitutivi della nostra fede. Crediamo in ciò che riconosciamo. Riconosciamo ciò che troviamo adatto alla nostra visione, simile al nostro pensiero. Non conosciamo e non conosceremo mai l’essenza di Dio, ma possiamo conoscere la Sua manifestazione nella Vita e nel Volto dell’Uomo. E quell’Uomo esprime l’incomprensibile essenza del Padre. Ma anche il Volto - questo è la nostra ipotesi o, piuttosto, intuizione - parla dell’essenza del Padre, perché anche il Volto del Figlio esprime ciò che il Padre ci dice.
Ricordiamo quel brano famoso del Vangelo di San Giovanni: “Se conoscete Me, conoscete anche il Padre; fin da ora Lo conoscete e Lo avete veduto. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”: Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto Me ha visto il Padre” (Gv. 14,9).
Cosa dice il Padre con il Volto del Figlio ucciso? Il Padre parla con il silenzio, con il tormento del Figlio Unico, con le tracce della morte sulla croce, con la morte che promette la vita. Il Volto non è sfigurato, anzi, è ancora bello, stupendo. Il Volto che tace è anche il Verbo che continua a parlare con noi, anche con la lingua del suo silenzio e della sua bellezza. La bellezza del Volto porta anche un suo messaggio, quello della bontà della santità umana. Così il Padre parla di noi stessi.
Se facessimo un bilancio dell’antropologia ortodossa in una riga, essa consisterebbe nel ritorno a questa bellezza iniziale, persa dopo la caduta. La bellezza vuol dire la santità dell’uomo appena creato con il Verbo di Dio e per il Verbo. La santità è il ritorno all’autentica natura umana creata per Cristo, in Cristo e con Cristo. Questo punto è importante; per l’Ortodossia, non è l’uomo com’è nella sua condizione empirica, macchiata dal peccato, un vero uomo, ma solo colui che è stato concepito e plasmato nell’amore di Dio. In altre parole, la vera natura umana è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio, che va ricercata, restituita e manifestata. Perciò l’antropologia cristiana porta in sé anche la soteriologia.
Prima di tutto l’uomo riconosce nel Volto il suo modello perduto, il nucleo del suo proprio “io”, come lui riconosce il Verbo nella sua fede. Il Verbo con il Volto di Dio martirizzato si trova alla radice della nostra vera personalità. Il Verbo si è fatto Volto di Colui che si è sacrificato per noi e questo Volto rimane l’espressione della rivelazione del Padre, la rivelazione che continua e che si manifesta anche come opera d’arte. Anche l’arte - nel senso primordiale - è il ritorno al mondo buono (in senso biblico), vale a dire, bello e santo, creato e voluto da Dio. L’arte ecclesiale è quella che non soltanto porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”, ma anche ha la coscienza chiara della sua nostalgia.
Perciò il messaggio della contemplazione del Volto è quello della nostalgia e della similitudine. Similia similibus cognoscuntur. Tutta la famiglia umana partecipa all’Incarnazione perché ogni uomo ha una particella del Verbo, il raggio del Logos, nella sua umanità. Troviamo questa intuizione, dopo il suo sviluppo nella teologia patristica, soprattutto nella “liturgia cosmica” di San Massimo il Confessore che parla dei logoi delle cose nel loro insieme che celebrano il Logos di Dio che si è fatto Uomo.
Concludiamo questa prima parte con il kondakion della domenica dell’Ortodossia:
“L’indescrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da Te, Madre di Dio, è stato circoscritto e riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Noi dunque, proclamando la salvezza a fatti e a parole vogliamo descriverla”.
IL VOLTO COME ICONA
1. Tre principi dell’arte ecclesiale
Cominciamo dall’inizio.
(Gn 1,31) – così finisce ogni giorno nella storia della creazione del cielo e della terra, della luce e delle acque, degli alberi e degli animali. La patria dell’uomo e della donna, creati nell’ultimo giorno, fu il giardino dell’Eden, con tutta la sua bontà iniziale - di cui la famiglia umana non perse completamente la memoria, anche quando le porte del giardino vennero chiuse dietro di loro. Il primo principio dell’arte ecclesiale è il ritorno al mondo appena creato, perché essa porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”. dentro di sé. Ma anche un riflesso del Volto. Troviamo quest’intuizione nella teologia patristica che parla dei logoi delle cose che celebrano tutte insieme il Logos divino, il quale tramite l’uomo ha dato il volto a tutta la creazione. Così si può definire il secondo principio dell’arte ecclesiale: la celebrazione del mondo in Cristo o piuttosto la riscoperta del Volto di Cristo nel mondo creato da Lui.Questa celebrazione, però, ha un suo scopo, una sua indicazione, non solo verso il passato (quasi che esso non fosse degno di una memoria sempre viva), ma anche verso l’incontro imminente con Dio nel “mondo che verrà”. “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, dice Gesù (Mt 4,17) e questo annuncio può risuonare al nostro udito come terzo principio dell’arte ecclesiale: la testimonianza della conversione, vale a dire, del profondo cambiamento del nostro essere sulla soglia del Regno, per vedere Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13,12).
Con questi tre princìpi (esposti qui in modo per forza schematico): la memoria sacra e personalizzata della creazione, la ricapitolazione del creato nel Verbo e la trasfigurazione del creato nella luce del suo Volto che porta la promessa del mondo che verrà, abbiamo un primo approccio all'arte dell’icona. Ma questi tre princìpi possono essere ridotti ad uno solo: alla visione e alla raffigurazione artistica della santità nascosta del mondo e della sua creazione prediletta: l’uomo.
Scoprire e far vedere nell’uomo la propria icona è compito dell’arte della pittura, come anche dell’arte della santità.
2. L’arte come comunione
La vera natura umana, come abbiamo detto, è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio che va ricercata, restituita, manifestata.
Alle soglie del Regno ci conducono tre accompagnatori o testimoni principali di Dio: la Santa Scrittura, l’immagine e il sacramento - che hanno una profonda e reciproca affinità. Credo che nella propria essenza ognuna di queste realtà sia convertibile all’altra, poiché la Scrittura veramente accolta e vissuta diventa un sacramento della comprensione che si compie nella mente e nel cuore dell’uomo, e dal sacramento nasce la contemplazione delle immagini come opere di Dio. L’icona è il frutto della contemplazione, ma la contemplazione cresce e si sviluppa nell’esperienza spirituale che è la manifestazione della presenza reale di Dio in senso eucaristico, sacramentale. Lo scopo dell’icona è quello di esprimere il mistero della presenza di Dio che ci guarda in faccia mediante il segreto del Suo Volto - ch’è infatti il sacramento della luce nascosta.
“Tutto quello che si manifesta è luce”, - afferma san Paolo (Ef 5,13) e la vocazione dell’uomo è di scoprirla e di manifestarla nella propria vita, nella propria fede, come anche nella propria creatività artistica. L'icona è il mezzo della comunione con la luce nascosta, e rivelata nel nostro mondo creato nella materia. La materia, la creta della creazione, contiene in sé ciò che va manifestato nello spirito. Sotto l’influenza della filosofia neoplatonica anche nel cristianesimo dei primi secoli è emerso un certo disprezzo per il mondo materiale, aspetto che era all’origine dell’eresia degli iconoclasti (VII-VIII sec.). La fede cristiana, però, che confessa la sua speranza nella risurrezione dei morti e nella trasfigurazione del mondo attuale (che non sarà sostituito completamente con il “mondo che verrà”, ma svelerà la sua bellezza nascosta) si ricorda sempre della sacralità della materia che è servita nell’atto della creazione del mondo, ma anche dell’incarnazione del Figlio di Dio.
3. L’icona come teofania
La materia è venerata non per se stessa, ma come portatrice delle immagini, dei messaggi della salvezza. Nel miracolo dell’incarnazione il Signore ha nuovamente consacrato tutto ciò che Egli aveva creato. La Sua parola, la Sua morte e resurrezione hanno lasciato le immagini della Sua presenza e la Chiesa manifesta questa presenza attraverso l’immagine, il volto trasfigurato dell’uomo. L’arte in Chiesa è il nostro saper organizzare a modo nostro la materia “personalizzata” che ci circonda o trasferirla nelle immagini, che scopriamo in noi stessi. Nell’arte che chiamiamo laica siamo padroni della nostra ricchezza interiore e possiamo giocare con le immagini come vogliamo.
L’arte ecclesiale è diversa. Il suo messaggio è già conosciuto dall’inizio, i segni che essa utilizza sono contenuti nella nostra fede. L’uomo non deve scegliere fra le immagini accumulate e mescolate nel proprio “io”, ma deve manifestare ciò che esiste già, nella profondità o nel “principio” del suo essere. L’arte ecclesiale esprime ciò che è dato fin da principio, messo in noi, manifestato a noi: il Volto del Verbo. Di questo dono, della profondità umana che si svela solo nell’esperienza del santo, ne parla San Giovanni nella sua prima lettera:
“Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…” (1 Gv 1,1-2).
L’icona, se la guardiamo alla luce di queste parole, è la testimonianza di ciò che noi, uomini, abbiamo veduto, anche se “in maniera confusa”, toccato, anche se solo nello spirito, contemplato, anche se in momenti rarissimi, di ciò che portiamo dentro noi stessi, anche se non lo sappiamo - e di ciò che dobbiamo far vedere agli altri, il Verbo della vita, ed anche il Volto della vita, la vita avvolta nella morte. Ma l’icona è la testimonianza della vita che continua a vivere nel popolo di Dio e nel Suo corpo che è Chiesa. Osiamo dire che la Chiesa stessa è anche l’icona della testimonianza, del vedere ciò che è invisibile, del comprendere ciò che è incomprensibile, del vivere ciò che appartiene a Dio. L’icona del Volto del Figlio morto porta in sé la caparra della Risurrezione e la vittoria della vita in Dio e con Dio.
4. L’icona e lo spazio liturgico
Secondo la fede ortodossa, le immagini, quelle vere, presentano i propri prototipi. L’icona ha vita propria solo all’interno dell’attività spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nell’album, nel museo, nella collezione privata essa perde il suo senso sacramentale. Ciò che il Vangelo dice con la parola, il Volto lo dice con il suo messaggio.
Le icone, in un certo senso, “raccontano” il loro prototipo, portano una buona notizia della loro presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclastia del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e l’incomprensibile non potessero essere raffigurati, che il mistero divino non si lasciasse svelare. Ma in verità l’icona non vuole riportarci “l’immagine dell’inesprimibile”, come afferma san Gregorio Palamas, ma soltanto il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile.
“è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura”, afferma San Paolo (Col. 1,15) e ciò vuole dire che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. “Io sono la luce del mondo”, afferma Cristo (Gv 8,12) e la Chiesa canta: “La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi”. L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità - così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempie il Santo Volto e che santifica anche noi.IL MESSAGGIO DELLA SINDONE
Ma la Sindone non è un’icona fatta dall’uomo. Questo è vero, e vero è anche ciò che il Volto della Sindone porta in sé nell’arte, ma con la pienezza e la profondità che deriva dall’originale del Volto umano. Questo Volto ci riporta all’immagine, al Modello inciso nello spirito umano, all’arte come immagine dello spirito. La sindone è come un’icona del Verbo, che ci parla e si trova in comunione con lo spirito che ci fu dato.
Sì, possiamo parlare del Volto della Sindone come dell’avvenimento della comunione spirituale al Corpo di Cristo, poiché il Volto diventa Verbo che si offre nei santi misteri celebrati dalla Chiesa.
L’atto della comunione a questa icona include un messaggio l i t u r g i c o, come glorificazione del Verbo che si è fatto Volto.
Questo avvenimento contiene anche un messaggio p e n i t e n z i a l e, cioè la purificazione del cuore davanti al Dio crocefisso.
La Sindone ci parla anche della "k e n o s i s", nella quale ricordiamo che Cristo ha rinunciato alla natura divina (vd. Fil 2,6). La kénosis fa l’uomo partecipe della natura di Cristo, nel suo sacrificio fino al rifiuto della vita stessa nel martirio.
Un altro messaggio della Sindone è il ricordo e u c a r i s t i c o, perché la contemplazione del Volto contiene in sé l'unione del nostro spirito con Cristo. Da qui si chiarisce il senso della santità perfetta come sacramento dell'unione, che trasfigura il nostro corpo, riempito dal fuoco nascosto dell'Eucaristia.
Leggiamo qui anche un messaggio a p o f a t i c o, perché il Volto parla del mistero che non potremo mai decifrare.
Nonché un messaggio e s c a t o l o g i c o: il Volto morto promette la vita in abbondanza.
Un altro messaggio del Volto è quello della t e s t i m o n i a n z a; tutto ciò che è santo è testimone di un altro Regno davanti agli uomini.
Ma la Sindone porta anche un messaggio e t i c o: nella luce del Volto possiamo vedere anche il volto di un altro uomo.
"Tu hai visto il volto del tuo prossimo, disse un santo antico, tu hai visto il volto del tuo Dio". E questo amore si esprime sempre come servizio, come libero sacrificio per lui. La libertà senza amore porta alla schiavitù, all'ideologia che impone il suo giogo. La libertà penetrata dall'amore è sempre personale, essa è destinata a scoprire il mistero e l’unicità di un'altra persona, a scoprire l'amore di Dio riversato su di lei. Attraverso questo amore da persona a persona noi scopriamo anche la "personalità" della creazione del mondo in Dio.
Ma ogni personalità è dotata di un volto.
IL VOLTO COME LUCE
“Alla Tua luce vediamo la Luce”, esclama Davide (Ps. 35, 10) e la gioia e la nostalgia di questo grido fa la grandezza e il dramma del Primo Testamento. Dio entra nel mondo da Lui creato e nello stesso tempo rifiuta la sua rivelazione, “perché il Signore ha deciso di abitare sulla nube” (1 Re, 8, 12). Manifestandosi nel roveto ardente, negli Angeli, nella legge, e sotto tante altre immagini, Egli rimane tuttavia al di là di questi e del mondo umano.
Nel momento in cui il Signore ha deciso di rivelare il Suo volto nel volto umano, l’aurora è spuntata e “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce” (Mt. 4, 12). Questa luce che Cristo ha portato ha la stessa “sostanza” della luce che illumina le genti ed ogni uomo. Dio entra nel nostro mondo oscuro, rivela il Suo nome, non nasconde più il Suo volto. La storia di questa rivelazione, raccontata nel Vangelo come con una linea tratteggiata, raggiunge la piena chiarezza in quel brano profetico che parla della trasfigurazione. Qui traspare una delle tracce che mostrano la strada al mistero della similitudine del volto divino ed umano. Proviamo a rileggere quest’episodio e a meditarlo nello spirito della fedeltà alla tradizione cristiana orientale.
“...Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” – dice san Matteo (17, 1-2). Il tropario bizantino cantato durante la celebrazione liturgica nel giorno della festa della Trasfigurazione dà la sua interpretazione di questo racconto: “Ti trasfigurasti sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la tua gloria, per come potevano. Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna, per l'intercessione della Deìpara, o datore di luce: gloria a te!”. Il contenuto è lo stesso, ma la storia della Trasfigurazione si trasforma nella preghiera e nella speranza. “Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna”, perché questa luce ci porterà alla vera conoscenza di Dio nella sua manifestazione accessibile agli uomini o nella Sua “energia”, come dice Gregorio Palamas.
Cristo mostra la Sua gloria, ma non avviene in lui alcun cambiamento perché - dice - è: “quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv. 17, 5); ciò che cambia è la percezione umana. La Trasfigurazione, secondo l’interpretazione ortodossa, prima di tutto apre le occhi agli apostoli, trasforma la loro anima e la loro vista, rivelando anche l’autentica natura umana.
Ma il messaggio di Giovanni, come quello di Pietro, di Paolo e degli altri apostoli è non soltanto già un frutto della vera visione, della perfetta conoscenza di Dio “come Egli è” (1 Gv. 3,2), ma anche la testimonianza discreta degli uomini come essi sono. Vedere Dio “come è” significa raggiungere la somiglianza con Dio e vedere nello spirito ciò che non può essere visto, toccare nel pensiero ciò che non può essere toccato. L’Invisibile apre il suo volto, perché, come dice Sant’Ireneo di Lione, “Cristo è il visibile di Dio”, ma lo stesso Cristo - Verbo, Vita e Volto - è anche l’invisibile dell’uomo. E lo Spirito Santo quando l’uomo Lo cerca, fa nascere, apparire, manifestare l’invisibile nel cuore umano.
Tutta la Scrittura ci porta alla rivelazione della luce nella quale si chiarisce anche tutto ciò “che c’è in ogni uomo” (Gv. 2,25). Perché in Cristo ogni uomo, anche se immerso nelle tenebre, si avvolge della luce che non perde il suo carattere ineffabile. Dal momento della sua creazione ad immagine di Dio, dal suo concepimento per l’amore del Signore, ogni uomo è cristico, penetrato dallo splendore del Verbo. Ma il mistero dello splendore, nell’uomo “naturale”, è quasi introvabile, brucia appena e ha bisogno di essere acceso dalla fede, dalla scelta umana, da quella scintilla che illumina il Volto con la luce di cui ogni uomo è dotato. L’uomo lo riceve come dono e lo rivela in sé con lo sforzo, e così la vita della sua fede può diventare un avvenimento permanente della teofania interiore.
All’inizio di questa teofania si trova un’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale in senso ontologico: nell’”anima mia” (Ps. 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è “nei cieli” - ma sono “cieli” aperti nel cuore umano. La rivelazione porta in sè la presenza reale e vivificante del Volto del Figlio di Dio, “ricordato” e manifestato dallo Spirito Santo, e il Figlio di Dio e lo Spirito Santo rivelano il Padre come unica fonte del mistero trinitario. Così il mistero si rivolge a noi, si apre a noi e si rivela dentro di noi e noi assistiamo alla sua teofania, in cui Dio mostra nell’anima dell’uomo la gloria del Suo volto trasfigurato. Il luogo della teofania è la fede stessa, la conoscenza di Dio, la celebrazione, l’icona, la santità, il martirio, la bellezza, tutta la creazione.
“Dio è Luce, - dice San Simeone il Teologo, - e coloro che Egli rende degni lo vedono come Luce; quelli che lo hanno ricevuto lo hanno ricevuto come luce. La luce della sua gloria anticipa infatti il suo volto ed è impossibile che Egli appaia altrimenti che nella luce.”
Da questa luce nasce anche la santità umana che è, in un certo senso, la “processione” dal Regno promesso (che si trova dentro di noi) a quello che si apre fuori di noi, dalla luce invisibile al visibile. L’irradiazione del Regno, che si può vedere a volte negli occhi del cittadino del Regno, in modo impercettibile penetra e avvolge tutto ciò che lo circonda: il suo deserto o il suo bosco, la sua famiglia o la sua comunità, le sue parole o il suo silenzio, la sua missione o il suo eremitaggio, anche il suo corpo mortale o la memoria che lui lascia dopo la morte. La memoria di lui si cristallizza nella sua immagine dipinta che esprime l’idea o il mistero del volto umano che è sempre quello di Cristo, incarnato, crocefisso, risorto...
Perché “è Dio che disse, - scrive san Paolo, - Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,6).
Se vogliamo creare la base per una globalizzazione umana di convivenza fra culture e religioni diverse, dobbiamo tutti impegnarci seriamente in un ingente - e costante - lavoro di coraggiosa autocritica e di rispettosa critica.
La speranza che non delude
card. Godfried Danneels
Come combattere la depressione? Come vivere la speranza, giorno per giorno, in tempi difficili? Da cosa si può riconoscere che noi siamo degli “esseri di speranza”? Perché la speranza non è un pio pensiero, un'ipotesi gratuita ma deve manifestarsi nel comportamento quotidiano. In altri termini, c'è “una spiritualità della speranza”? Tentiamo di discernerne i componenti.
Tutta la vita cristiana è costruita su tre pilastri: fede, speranza e carità. Essi si tengono in reciproco equilibrio. Se si rompe l'equilibrio, il cristiano perde, per così dire, la bussola. Vacilla.
FEDE E SPERANZA
Senza la fede la speranza non può vivere: si trasforma nel sognare. Secondo la lettera agli Ebrei, “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” ( Eb 11, 1) . Senza la fede negli eventi salvifici - Antico e Nuovo Testamento - la nostra speranza è solo immaginazione, una chimera.
Al contrario, senza la speranza, la fede è morta: una fossa comune dei fatti del passato che serve solo a popolare la memoria; non c'è più niente da aspettarsi, non c'è più niente di nuovo da vivere. Certamente, un tempo è successo qualcosa, ma la “rivoluzione” a fatto il suo tempo e il vulcano si è spento.
Questo gioco sottile della fede e della speranza è uno degli ingredienti di una spiritualità equilibrata: ne determina il grado di salute. Perché, nella fede, c'è già una parte di speranza: noi crediamo nella Risurrezione del Cristo a titolo di garanzia della nostra propria risurrezione che verrà. Ma nella speranza c'è anche una parte di fede: la speranza trova uno stimolo che gli offre la fede. Poiché la promessa si è già realizzata, essa si può nuovamente realizzare.
In questo ambito il cristiano è sottoposto a due tentazioni: quello della temeraria fiducia nella novità e quella della mancanza d'immaginazione.
Colui che vive solo proteso all'avvenire, che si preoccupa solo delle sue realizzazioni, affrancato da tutta la saggezza trasmessa dal passato, costui è privato della memoria. Non si rende conto del fatto che certe “vie nuove” sono state sperimentate già da molto tempo e si sono rivelate impraticabili. Privato della memoria, egli sperimenta a tutto andare. Questa è la fonte di dolorose delusioni, e più tardi anche di demotivazione. Sono i rivoluzionari senza memoria che si ricongiungono per primi al campo dei conservatori.
Ma, al contrario, c'è anche la mancanza d'immaginazione, l'illusione d'una vita senza rischi. Ci si dimentica che c'è sempre “un di più” che non è ancora stato inventato o sperimentato. C'è qui una speranza insufficiente. Perché il momento presente contiene ancora tante cose meravigliose rimaste inutilizzate.
Chi ha fiducia in Dio e spera in Lui, deve come Lui donarsi interamente agli uomini. La speranza si riversa nella carità. Ciò suppone un delicato equilibrio tra i due atteggiamenti: attendere nella fiducia e rimboccarsi le maniche per l'azione. Il cristiano è sempre come seduto sul bordo estremo della sua sedia. Seduto su quello che dispone d'un appoggio sicuro: la speranza. All'estremo bordo della sedia, perché è pronto ad alzarsi e a pagare di persona. La poltrona del fannullone non fa parte dei suoi mobili.
Non si accorda una piena fiducia a Dio se non Lo si ama. E non si può amare Dio se non si ama il proprio prossimo. Così la fede conduce alla speranza e la speranza conduce all'amore. In sovrappiù non si spera mai solo per se stessi. La speranza non ha raggiunto il suo termine finché essa non si estende a tutti gli uomini, all'intero universo. Come posso raggiungere il cielo nella gioia, se so che sarò tutto solo?
Fede, speranza e carità, le tre grandi che non possono fare a meno l'una dell'altra. La fede vede cosa è già, la speranza dice ciò che verrà, la carità ama ciò che è; la speranza si occupa già di ciò che sarà. Per il nostro tempo la speranza sarebbe ugualmente la più grande? Comunque sia le tre si tengono reciprocamente in equilibrio e tutte e tre ci sono necessarie.
Infatti non c'è che un solo esercizio di speranza: vegliare nella preghiera. L'atteggiamento silenzioso di attesa davanti a Dio è la scuola della speranza. Imparare ad attendere e porsi come una vedetta.
Tutta la Bibbia descrive la preghiera come vigilanza e attenzione: tenersi pronti per il ritorno del Signore presso di Lui e provvedere alle lucerne nella Sua attesa. I salmi sono i libri delle lamentazioni per eccellenza, dell'attesa della giustizia, dell'attesa che il giusto sia protetto e il perdono accordato al peccatore, della perseveranza nelle prove. “Mio Dio, mio Dio, quanto tempo ancora... ?”.
Pregare è anche mantenersi con pazienza tra il passato e l'avvenire. È prendere nelle mani la Bibbia e ricordarsi “le meraviglie che fece il Signore”. È il nutrire la propria memoria e permetterle di lavorare. Ma è anche lo sperare con il cuore ardente ai giorni del compimento, al tempo della ‘liberazione d'Israele' e del ritorno del Signore. “Maranatha”.
Pregare è render grazie per tutto quello che ci ha preceduti ed entrare già nelle promesse di quanto deve ancora venire. È esultare di gioia cantando il Magnificat ed esercitarsi al paziente abbandono del Nunc dimittis . È il sedersi tra Maria e Simeone, tra l'azione delle grazie e la speranza corrisposta.
A dire il vero, esiste per una cultura (e per una Chiesa!) una terapia della depressione diversa dalla preghiera? “È perché voi non pregate, che siete senza coraggio” , potrebbe dire Giovanni alle Chiese in una nuova versione della sua Apocalisse.
La speranza non giungerà mai se io non m'impegno in niente, se non mi decido a fare qualcosa, se non scelgo. La nostra cultura deve reimparare a legarsi, a scegliere, a risolversi a qualcosa. Si è sviluppata una sorta d'irresolutezza generalizzata: di fronte al matrimonio, di fronte ad ogni impegno definitivo, di fronte a ogni decisione di rendersi disponibili in maniera impegnativa. Può darsi che ci siano delle spiegazioni di questo atteggiamento, delle motivazioni più o meno ammissibili. Ma ci sono anche delle ragioni soggiacenti molto poco eleganti. Una specie di narcisismo che non permette di rinunciare alle proprie comodità, il bisogno di garanzie assolute - questa mentalità che spinge a sottoscrivere un'assicurazione a fronte di qualsiasi cosa - e a volte manifestamente la pigrizia e il “ciascuno per sé”.
Ma bisogna anche rilevare nella nostra cultura il disagio della percezione del tempo. Non solo l'impossibilità di aspettare, la legge del “tutto, tutto subito”, ma anche la diffidenza fondamentale per il credito da accordare al tempo. Dobbiamo imparare di nuovo a fare del tempo un amico... aspettando di ridivenire sensibili a una realtà chiamata classicamente “Provvidenza divina”. Quando vorremo capire che Dio si prende cura di noi molto meglio di quanto lo possiamo fare noi stessi?
Nella sfera del “provvisorio” nella quale noi evolviamo, sopravviene anche la crisi della lealtà. E questo in tanti ambiti: matrimoni, amicizie, affari, ambienti di lavoro. La fedeltà non la si guarda più con ammirazione, ma tutt'al più con sorpresa, se non con compassione.
Così si degrada il tessuto sociale: è logorato. Da che tempo è tempo, la fedeltà ha avuto un ruolo legato fino a un certo punto con il tragico della condizione umana. La fedeltà di Lefte al suo voto lo portò ad immolare sua figlia. La fedeltà di Antigone alle leggi non scritte dell'amore fraterno la condusse alla morte. Questo tragico era profondamente umano, anche se pagano. Proclamava chiaro e forte che non si può mancare alla parola data. La nostra epoca non conosce più i tormenti di questo aspro dramma pagano. Ne conosce altri. Lo strappo di tanti partner abbandonati e di tanti bambini privati dei genitori, la fatica di dover continuamente riprovare con qualcun altro, i cinici preavvisi significati a delle persone che invecchiando rischiano di costar troppo caro, la rottura dei contratti, quella specie di amnesia che riguarda i propri impegni passati...
L'infedeltà rende una società profondamente deprimente. In più, l'infedeltà ha la tendenza di propagarsi con la velocità dei funghi in una foresta. Un girotondo di streghe. Ogni infedeltà fa venir voglia alla parte lesa di fare altrettanto.
Se vogliamo sfuggire a questo funesto ingranaggio, bisognerà ritrovare la virtù naturale della fedeltà. Ricordandoci che è d'altronde il tratto più caratteristico di Dio: è un Dio fedele.
L'esclusione, comunque si manifesti, provoca molta disperazione nella nostra società. Esclusione dal lavoro e dall'avvenire, esclusione da se stesso, dalla patria e dalla cultura, esclusione dalle cure e dall'alloggio. Troppa gente oltrepassa il limite. Questo assomiglia a una spirale che si stringe sempre di più, un laccio attorno al collo. Tutti gli assistenti sociali, gli uomini politici, i sacerdoti e gli animatori pastorali la conoscono bene. È la preoccupazione costante dei servizi sociali, e la Fondazione Re Baldovino l'ha studiata a fondo dal punto di vista scientifico.
Cosa dovremo fare se vogliamo dare delle possibilità alla speranza? Certamente dei provvedimenti di giustizia s'impongono alla collettività. Molti responsabili politici ci lavorano d'altronde con prudenza. Ma si è creata anche una rete di punti d'ascolto e soccorso, troppo numerosi per enumerarli, che funzionano spesso grazie al numero di benefattori, e ricevendo migliaia di persone, giovani e vecchie, con tutti i loro possibili problemi. Poiché i servizi pubblici non bastano, né per il numero, né per l'efficacia, né soprattutto per questa prossimità affettuosa necessaria a chi soffre. Pensiamo al corpo umano: quando un'arteria s'incrosta e si ostruisce, sono dei piccoli vasi sanguigni che ne sostituiscono la funzione. Quindi, a fianco degli organismi pubblici, agiscono delle migliaia di piccoli centri di speranza. La speranza si prende dunque cura degli altri. Questo è sufficiente?
LA SPERANZA ANTICIPA
La speranza non può accontentarsi di limitare o riparare i danni quando il danno è fatto. La speranza è anche previdente. Vuole agire preventivamente. Se noi non agiamo preventivamente, in effetti trascuriamo le vittime ed esponiamo il contribuente a degli oneri sempre più pesanti. Poiché la vittima è già ferita e riparare costa molto più che prevenire. Oltre tutto la società avrà la tendenza a scindersi in assistenti e assistiti. La frattura sociale diventerà sempre più profonda.
Dove si colloca la prevenzione? Nelle scuole e nelle famiglie. Non bisogna investire di più in questa azione? Non solo dal punto di vista finanziario, ma anche psicologicamente? La mancanza di speranza nella nostra società è spesso imputabile al fatto che genitori ed educatori abdicano. Da ciò la necessità di lanciare questo appello profetico: “Aiutate i genitori e i maestri” . Tutto quello che non si fa a casa e a scuola, si iscriverà automaticamente un giorno al debito della società.
A volte accade che la convinzione di conoscere bene i linguaggi e i contesti propri alla dimensione della fede cristiana finisce per forzare le interpretazioni e per attribuire a personalità ecclesiali orientamenti solo auspicati o temuti.
I piccoli
di Giovanni Vannucci
La commovente pagina di Mt 11, 25-30 è preceduta da una serie di parole di condanna che Gesù rivolge al suo popolo, indifferente ai richiami austeri di Giovanni Battista, e a quelli più umani da lui rivoltigli: «È venuto Giovanni, non mangiava e non beveva ed è stato considerato come indemoniato; sono venuto io che mangio e bevo e mi dite che sono un mangione e un ebbro, l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora prese a maledire le città dove aveva compiuto prodigi e non si erano convertite».
Le città incredule, che suscitarono lo sdegno di Cristo, fanno da sfondo oscuro a una nuova società che avanza e che si raccoglie intorno a Lui: i piccoli, gli affaticati, gli oppressi, ai quali rivela le cose nascoste ai saggi e agli intellettuali. Chi sono i piccoli, i fanciulli alla cui statura i discepoli sono chiamati ad adeguarsi?
Il piccolo è l’umile, l’uomo pronto ad amare e a credere, l’uomo che ha il cuore aperto allo stupore di ogni fiaba, di ogni vera rivelazione, che, nelle manifestazioni della vita, scorge la presenza del sogno e della poesia, dell’armonia e della meraviglia, che di fronte all’erba verde non pensa alla clorofilla, ma alla mano invisibile che l’ha resa bella di quel colore. Il piccolo è il meraviglioso costruttore del Regno dei cieli. Ai piccoli Gesù dice: «Venite a me».
Per avere la vita è sufficiente andare a Cristo, ma per andare bisogna voler andare! La volontà umana, la capacità di rispondere a un appello, è l’arbitra del cammino verso Cristo. Per credere a Cristo bisogna voler credere, per andare a Cristo bisogna volerci andare. Cristo non ci vuole per forza, non ci lusinga con facili ricompense, non ci violenta, non ci salva nostro malgrado. Ognuno deve avere il suo piccolo e indiscutibile merito; ognuno deve, rispondendo alla chiamata, dimostrare di avere un nome e di non essere un bruto incosciente che attende un maestro qualsiasi pronto a iniziarlo.
«Venite a me che sono mite e umile di cuore». Cristo sintetizza la sua persona in queste due qualità: dolcezza e umiltà.
Non confondiamo la dolcezza con l’untuosità e la smanceria ritenute, ordinariamente, le note che qualificano la persona devota! Quando un frutto è dolce? Quando è maturo, quando tutto in lui ha raggiunto il grado della perfezione. L’umiltà non è la sottomissione ai potenti, ai dotti, ai superuomini, ma l’estrema libertà del cuore che si è scrollato da tutte le prigioni costruite da mano umana e che può dire, in piena verità, «non conosco uomo», sono solo davanti al mistero divino.
La dolcezza di Cristo è bontà aggressiva, combattiva, è la bontà del Buon Pastore che va a cercare la pecorella smarrita, ma è anche il pastore che spacca la testa al lupo, e nella lotta al principe di questo mondo è senza debolezza, lo aggredisce ovunque lo trovi. È umile, la sua indipendenza dai potenti è assoluta fino alla morte di croce per obbedire al suo mandato.
A ben considerare, la dolcissima pagina del vangelo di Matteo si appoggia su una realtà di tensione profonda tra la violenza dei potenti e la mitezza dei piccoli, tra la forza brutale degli integrati nel regno di questo mondo e gli oppressi che conservano intatto nel cuore il sogno di un Regno diverso e sono sensibili alla poesia delle cose. Noi siamo perpetuamente nel mezzo di questa tensione, siamo dei poveri cuori minacciati dalla sclerosi, ci è necessaria una continua vigilanza sugli egoismi sempre risorgenti, per superarli conservando lo stupore, l’attesa del miracolo, dell’incontro con Cristo. Attesa che accende in noi una luce certa e pura che di niente si inquieta, che è in se stessa slancio, offerta, dono.
Abituandoci a muoverci in questa luce, l’universo lentamente cambierà di senso e di aspetto, avremo la sapienza dei semplici, non quella dei dotti e degli intelligenti! Incontreremo la dolcezza, maturità piena, di Cristo, l’umiltà , donazione al più assoluto ideale, del Maestro. Orienteremo in maniera corretta le nostre energie vitali per raggiungere la maturazione del nostro personale io, la più totale offerta di noi stessi alle energie divine. Evitando di far decadere, come fanno i dotti e gli intelligenti, la pienezza di vita, che ci viene comunicata, in oggetto di speculazioni, di ideologie, di parole, di precetti. Schivando quella degradazione della fede ai pregiudizi, agli interessi sodali volgari, alla manipolazione della psiche.
Le parole violente di Cristo contro i Farisei, che avevano miniaturizzato il mistero divino, contro i dottori della legge che avevano «fatto sparire le chiavi della conoscenza» (Lc 11, 52), contro le città che, chiuse nel loro benessere, avevano perduto l’attesa della rivelazione, conservano anche oggi il loro peso. L’umile non dice mai di no allo Spirito che lo muove e lo conduce al giogo dolce e leggero di Cristo, è il no che alimenta le fiamme dell’Inferno.
Ritrovare la pochezza dei piccoli, mi sembra l’urgente consegna del nostro tempo. Vi è fame e sete di conoscenza spirituale nel nostro mondo, ma ancora una volta i dottori della legge, gli intelligenti, avendo la chiave non la vogliono usare, e loro non entrano né lasciano entrare altri nel Regno, simili al cane che dorme nella mangiatoia, non mangia il fieno e impedisce ai buoi di mangiarlo! Eppure il seme divino germoglia e le messi biondeggiano, ma non sono gli operai del padrone quelli che mietono, e non è nei granai del regno di Dio che il grano viene raccolto!
Una divina sete d’amore è seduta sul parapetto del pozzo umano e supplichevole chiede: «Dammi da bere, dammi l’acqua deperibile della tua natura umana, in cambio ti darò quella viva della mia natura divina!».
«Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli!».
Nella Chiesa corinzia era proprio l'ostentazione a incentivare la frequente contrapposizione tra i membri della comunità. Nella seconda lettera Paolo si sofferma ancora su questo atteggiamento umano che non corrisponde alla prospettiva del vangelo.
Una spiritualità che rinnovi la pastorale
di Luigi Guccini
Anche la pastorale, come la vita religiosa, deve affrontare un profondo ripensamento, pena l’insignificanza o la sterilità. Di fronte alla diminuita pratica di molti fedeli è inevitabile la domanda “che fare?” la tentazione è, oltre allo scoraggiamento, l’omologazione alla cultura corrente. Eppure non manca una spiritualità che suggerisce atteggiamenti e percorsi. Come farli diventare “mentalità” pastorale?
Quando si riflette sulla situazione della chiesa e della pastorale nell'odierna società, non si può non rimanere colpiti da una serie di fatti. Solo qualche anno fa, al tempo del dialogo (apologetico!) tra chiesa e mondo, si poteva pensare che la chiesa non riuscisse a farsi ascoltare perché troppo aliena dalla nuova cultura, dunque ignara della lingua parlata, e cioè superata, irreparabilmente out. Ma non sono passati molti anni e si è dovuto parlare piuttosto di post-cristianesimo. Come se la chiesa avesse già dato tutto quello che aveva da dare e avesse esaurito il suo compito.
I dati di fatto a conferma di questa diffusa sensazione sono davanti a noi. Succede per esempio - e non meraviglia nemmeno più - che un fedelissimo lasci la chiesa dall'oggi al domani, senza drammi, e oltre tutto...senza cambiare vita. La pratica religiosa gli era superflua. Oppure rimane sì nella chiesa, ma - per dirla in modo un po' brutale - come si fa con il vecchio club: magari attivi nel volontariato e gradevolmente saldi nelle amicizie, ma senza riferimenti ulteriori che vadano nel profondo, a ciò che veramente decide della qualità della vita, come sesso, denaro, potere...
Succede anche l'opposto: c'è l'incredulo inquieto e insoddisfatto della sua vita, che magari s'accosta alla parrocchia, ma ne ritorna con la sensazione di non aver trovato altro che "le cose di sempre", sostanzialmente incapaci di rispondere a ciò che porta dentro e di cui ha bisogno. Così finisce che uno s'inventa la religione a modo suo. C'è molto fascino per lo straordinario e per il leader carismatico di turno, magari attorno al fenomeno dilagante di sette, magia e satanismo; oppure il grido improvviso nel momento del dolore con qualche ritorno alla fede di un tempo, ma non ci sono le condizioni - e l'aiuto necessario - perché la povera piantina ! possa crescere.
Non può non far riflettere anche quest'altro fatto: sempre meno la secolarizzazione trova credito tra gli stessi laici più laici. Si potrebbe pensare che la chiesa non ha credito perché troppo lontana dal mondo, e invece è vero il contrario: quello che manca molto spesso è piuttosto una chiesa che sappia dire qualcosa di diverso dal mondo, qualcosa che porti a sperare di più, e su basi più solide.
Ci eravamo tanto scaldati per impedire al secolarismo di svuotare l'annuncio cristiano e ci stiamo accorgendo che un cristianesimo omologato al pensiero corrente e alla "qualità di vita" che ne consegue è ancor meno cercato del cristianesimo clericale-parrocchialista di un tempo.
Il caso "vita consacrata"
Davvero non serve a niente essere a tutti i costi ragionevoli, smussare i contrasti con la cultura odierna, fare apologetica soft e affermare, in conclusione, che dentro la chiesa possono starci benissimo tutti quanti, senza particolari prezzi da pagare...Quello che si cerca va molto più in là e non sta neanche in ciò .che l'uomo d'oggi dice di cercare: sta in ciò che porta nel cuore e non lo sa, fino a quando non trova risposta. È la vicenda di molti grandi convertiti, che incontrano Cristo ma non riescono a riconoscersi nella prassi di chiesa che viene loro offerta. Pensiamo a Simone Weil, ad Adrienne von Speyr, a quella misteriosa Camilla di cui il Caffarel ha scritto un profilo così penetrante. Il punto che ritorna è sempre lì: c'è questa divaricazione tra ciò che il cuore umano cerca nel profondo e il tipo di mediazione che - nonostante la forza del vangelo che pure è nelle nostre mani -sappiamo offrire come chiesa.
È in fondo ciò che capita alla vita consacrata. Forse val la pena richiamare questo fatto, decisamente emblematico proprio per ciò che riguarda i problemi con cui si trova a fare i conti la pastorale e il suo rinnovamento.
È dal concilio che la vita religiosa sta lavorando con il massimo di intensità al suo rinnovamento. Ha tentato tutte le strade, dall'impegno per l'aggiornamento, con la riscrittura delle regole, fino alla rifondazione. Ma i risultati non ci sono stati, o almeno non nella misura desiderata. Le case di formazione sono vuote. Il modello di vita religiosa che le ha generate non attira più, non è più proposta, nonostante il cammino che pure si è fatto nel rinnovamento.
Si continua a lavorare, evidentemente, ma la convinzione che si va facendo strada è che sia l'impostazione d'insieme che ha bisogno di essere rivista. Fa riflettere, per esempio - e preoccupa - la sproporzione che c'è tra la mole di risorse impiegate - in persone, tempo e denaro - attorno ai problemi istituzionali e i risultati che si raccolgono. Si moltiplicano le assemblee e le commissioni di studio, continua abbondante la produzione di documenti, ma rimangono lettera morta. Anche l'opera dispendiosissima per la ristrutturazione delle opere e la riqualificazione del personale non ha dato i risultati sperati. Sempre di più i superiori maggiori hanno come l'impressione di girare a vuoto, come se ciò su cui bisognerebbe "mordere" fosse sempre altrove...
Alla fine si è fatta strada la convinzione che il problema sta più a monte e precisamente nel fatto che il modello di vita religiosa a cui si sta lavorando è giunto a esaurimento e che, perciò, è fatica sprecata lavorarci attorno per rivitalizzarlo. Bisogna risalire più in alto e più in profondità, con un percorso più lungo, che parta da più lontano. Come hanno creduto di dover fare molte delle nuove forme di vita consacrata, che rinunciano a strutturarsi secondo il modello tradizionale e chiedono di essere riconosciute semplicemente come associazioni private di fedeli. È che, di fronte al crollo di tutto un sistema di vita e di operatività apostolica, ci si rende conto che la strada da prendere non è in aggiustamenti semplicemente strutturali, ma nel ritorno all'essenziale, l'essenziale della fede e della vita cristiana, per riconsiderare e ridefinire a partire da lì (quindi, dopo un adeguato percorso di purificazione ), anche il resto.
Per intanto - ed è l'affermazione esplicita di molte di queste forme - quello che interessa è di essere semplicemente cristiani, sicuri che dà qui viene anche il resto.
Su che cosa puntare?
Abbiamo indugiato, perché non credo che sia molto diversa la situazione a livello pastorale. Anche la pastorale conosce la sua crisi e quanto profonda. Anche le chiese locali hanno intensamente lavorato per il rinnovamento, ma siamo al punto in cui siamo: ritorna sempre di nuovo il discorso sulla crisi della parrocchia, viene riconfermata come struttura portante della pastorale, ma la situazione è quella che è: troppe cose non tornano.
Che fare in questa situazione: puntare sulla pratica religiosa, ovviamente rinnovata, come la vita consacrata avrebbe potuto puntare sull'osservanza religiosa? Ma proprio questa strada si è dimostrata senza frutto. La crisi della vita religiosa, anzi, è intervenuta in un momento in cui come non mai l' osservanza era in auge. Segno che il problema è altrove. Ed è così anche per la pastorale della chiesa: la pratica religiosa è importante, ma non riuscirà mai da sola a produrre ciò che occorre, né tanto meno a rispondere oggi a ciò che il cuore dell'uomo cerca nel profondo e il Vangelo è in grado di dare.
Bisogna andare più in profondità ed è ciò che aveva intuito Bonhoeffer di fronte alla situazione che si andava profilando: il punto decisivo, diceva, è uno solo ed è «la ricerca di colui che solo ha importanza: la ricerca di Gesù Cristo... Per noi ciò che veramente conta oggi è sapere che cosa vuole da noi Gesù...» (Sequela, 13). Oppure san Francesco il quale, in un momento per tanti aspetti molto simile al nostro, non accettò mai di farne una questione di osservanze o di pratica religiosa, ma capì che unica risposta poteva essere solo il Vangelo e il Vangelo sine glossa. Era troppo grande l'impresa che la chiesa aveva davanti perché si potesse puntare su qualche altra risorsa o semplici aggiustamenti di carattere strutturale.
Siamo a questo punto pure oggi, e perfino di più. Siamo riportati all'origine e, per dirla in termini di annuncio, all'apostolica vivendi forma delle origini, quando il vangelo veniva trasmesso da persona a persona da parte di comunità che semplicemente lo vivevano e se ne sentivano responsabili.
Giocarsi sul vangelo
Non ci si illude con questo che sia semplice o che siano tutti d'accordo. Secondo la lettera agli amici della Comunità di Bose in occasione dell'ultimo Natale «la tentazione più seria» oggi è rappresentata «dall'irresistibile fascino della religione civile». Sempre di più «la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso ed è pronta al riconoscimento dell'utilità sociale della religione». Ma quel che è peggio è che «l'invito rivolto in questo modo alla chiesa da intellettuali non cristiani trova purtroppo accoglienza favorevole anche
da parte di autorevoli ecclesiastici che desiderano apprestare una chiesa forte, massicciamente visibile e presente negli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie». Non conta niente se poi l'80% degli italiani si dichiara cattolico, ma solo il 40% dice di credere alla risurrezione di Cristo; quello che si coglie tra le righe è il sogno di una chiesa «applaudita, riconosciuta, a volte perfino ricompensata da Cesare per il bene che fa..., mentre la comunità dei discepoli di Gesù resta incapace di vera profezia...». E "la chiesa di canale 5", come dice umoristicamente, ma non troppo, qualcun altro: una chiesa che «si identifica sempre più con l'occidente ricco e potente».
È evidente la divaricazione che c'è tra questa idea di chiesa e una concezione e prassi -sopra si citava san Francesco - che faccia perno unicamente sul Vangelo e sulla forza disarmata della Parola, come dice ancora la nostra lettera. Ed è su questo sfondo, che richiede però un radicale cambiamento di mentalità, che si intravede la portata e la via di quel rinnovamento della pastorale a cui si mira e che potrebbe trovare proprio nel!a spiritualità la sua sintesi.
È un discorso complesso che ha bisogno di molto approfondimento. Intanto ci sarebbe da notare che la chiesa deve riflettere innanzitutto in se stessa l'immagine di Dio che vuol presentare al mondo. Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio? Quale volto di Dio si può intravedere dietro una chiesa che crede di dovercela fare da sola, che cerca di affermare se stessa e che non sa vivere in modo evangelico il momento di povertà e debolezza che sta attraversando? Sono interrogativi decisivi. Come fa l’uomo - peccatore e limitato per definizione - a scoprirsi amato e perciò salvato, se l'annuncio che portiamo è ancora segnato dal bisogno e dall'ansia di affermare noi stessi, sia pure come chiesa e "a fin di bene"?
Significa che la prima via da imboccare per una pastorale rinnovata in senso spirituale è la via dell'umiltà. L'impressione che si ricava molto spesso è che nella pastorale ecclesiastica ci sia ancora troppo bisogno di riuscire, di fare il pieno, di assembrare gente, di mettere al muro gli avversari e vincere. Ma il Dio che annunciamo non ha bisogno di vincere e non ha mai promesso ai suoi un successo mondano. Si è tanto parlato di chiesa povera e dei poveri, riducendo il discorso al tema economico, pur fondamentale e lacerante. Oggi fa infinitamente più questione (almeno qui in occidente) il vedere una chiesa che non sa fare evangelicamente i conti con la sua propria povertà: una chiesa che...pensa di essere alla dissoluzione, perché non le riescono più le cose di sempre e le istituzioni di cui dispone fanno acqua.
Bisognerebbe ricordare di più che la teologia dell'umiltà fa un tutt'uno con la teologia della croce. E poi ricordare che l'umiltà riguarda non solo i singoli ma anche (e forse soprattutto) i soggetti collettivi. Le beatitudini sono proclamate da Gesù come programma per il Regno, e se la chiesa è sacramento del Regno, non si riuscirebbe a capire perché. ..se ne possa dispensare.
Se non andiamo errati, parte da qui, oggi, la vera riforma pastorale, purificata da ogni volontà di riconquista. E la pastorale - non lo si dimentichi - è responsabile dello stile di presentazione che la chiesa fa di sé al mondo.
In prospettiva personalista
Forse abbiamo indugiato anche troppo. Ma è evidente quanto sia decisiva, nell'opera pastorale e di evangelizzazione, la visione di chiesa da cui si muove e il tipo di obiettivi a cui si mira. È anzi qui, in definitiva, che si decide la partita.
Le cose da dire in questa linea sarebbero molte, e innanzitutto c'è l'attenzione da prestare alle persone. È nella persona in definitiva che si risolve l'annuncio, ed è quando uno incontra il Signore e aderisce a lui nella fede che l'opera si può dire compiuta. Ed è ugualmente in questa prospettiva che le risorse provenienti dalla spiritualità cristiana dimostrano tutto il loro valore e la loro forza anche in campo pastorale. Finché l'opera della chiesa non riesce ad aprire i cuori alla fede in un effettivo incontro con Cristo; finché le coscienze non vengono rigenerate in senso veramente cristiano; finché la persona stessa non arriva a fare di Cristo e della sua parola il criterio che guida tutte le sue scelte..., l’opera della chiesa non ha ancora raggiunto il suo scopo.
È in questa linea del restò che si è sempre mosso il cammino di fede della nostra gente. Non è senza significato che L' arte di amar Gesù Cristo di sant' Alfonso abbia avuto in Europa non meno di ventimila edizioni , e che l’Unesco abbia elencato gli Esercizi spirituali di s. Ignazio fra i cento libri che hanno maggiormente influito sulla cultura mondiale. ..Le "devozioni" a cui è stata abituata la nostra gente avranno avuto i loro limiti e così una certa educazione alla "pietà", ma non si possono ignorare i frutti che hanno prodotto nella coscienza credente.
Così come non si può ignorare quel tessuto interiore e insieme pratico di virtù che ha caratterizzato nel profondo la coscienza collettiva del nostro popolo. Ed è ancora l'insegnamento dei nostri santi, soprattutto quelli più presenti alla vita della gente, che sta all'origine di quei valori di speranza, sopportazione del dolore, rispetto dell'altro, solidarietà verso i deboli, convinzione di essere amati e importanti davanti a Dio, bisogno di interiorità..., che hanno caratterizzato ma in modo così profondo l'animo del popolo cristiano.
Davvero non è più il tempo di una pastorale di militanza collettiva. Occorre saper aiutare a incontrare Dio di persona. Con l'educazione alla preghiera, senza dubbio, ma anche con quella testimonianza che viene dalla fiducia, dalla non direttività, dalla giusta pazienza con cui dare all'altro il tempo tecnico di capacitarsi e di crescere, dalla non fiducia nel valore salvifico delle opere, e dunque da un certo modo di guardare anche il peccato e il limite. Senza rinunciare all’esigenze di una seria vita spirituale. Serietà anche in fatto di sesso, di soldi e potere; al di là di ogni equivoco. Ma dentro un rapporto educativo che miri al complesso della persona, presa nel suo divenire mai improvvisato, nell'interazione sapiente di tutti i valori.
Nel tessuto della storiaQuando si parla di spiritualità e vita spirituale c'è certamente anche il rischio di portare il discorso su percorsi e a conclusioni che non sono quelli giusti. Il primo rischio è quello dell'intimismo, il ridurre cioè la spiritualità in un ambito esclusivamente. privato, che induce a chiudersi, anziché esporsi con libertà e coraggio a tutto ciò che interpella il cristiano "da fuori”. Una prassi che poi porta., in ambito pastorale, a fermare il discorso sul piccolo gruppo, molto affiatato e impegnato, ma senza quel respiro apostolico che costituisce comunque il vero compito della chiesa nel mondo.
È a questa apertura, mai sufficientemente vasta e profonda, che rimandano le testimonianze. dei grandi credenti del nostro tempo. Se, da un una parte, essi chiedono più religione, più mistero, più apertura al trascendente e quindi più spiritualità, non per questo si presentano come uomini e donne estranei alloro tempo, che intendono la profezia come un rompere con il mondo. Non glielo consentirebbe il Dio che hanno incontrato, il quale è un Dio che "si perde" per il mondo, come dimostra Gesù. La loro "attesa di Dio" (Simone Weil) è dall'interno di questa condizione umana, che essi hanno sposato e di cui condividono fino in fondo la sorte. A. von Speyr sosteneva la fede in un "Dio diverso", proprio perché infinitamente più grande di tutte le misure in cui lo vorremmo rinchiudere quando lo consideriamo Salvatore. E non avevano paura del mondo Edith Stein, La Pira, madre Teresa, Ch. de Foucauld o p.s. Magdeleine, questa donna che ha fatto dell'immersione nel mondo - nella vita di tutti, come insegna il "modello divino Gesù " - la sostanza del suo progetto di vita.
Se c'è qualcosa che resiste, dopo l'interminabile stagione del dialogo con il mondo, è proprio la solidarietà dei grandi mistici recenti con la sorte umana, con la condizione di tutti. Nessuno come loro ha saputo ascoltare il mondo e l'uomo che lo abita ed è a questo che essi rimandano la nostra pastorale. I nostri contemporanei pongono interrogativi nuovi e hanno diritto di essere ascoltati. Non possiamo ridurli a pensare e a sperare secondo formule ormai stereotipe. La loro "attesa di Dio" e di un "Dio diverso" va molto al di là e interpella la chiesa nel modo più forte. Le risposte di ieri - incentrate sulla compattezza sociale, sull'appartenenza, dunque sull'obbedienza e su una rinuncia a se stessi intesa come impegno a non ragionare. e non rischiare in proprio - non bastano più. Oggi è il valore della persona e della sua responsabilità a fare da fondamento alla ricerca della fede, e questo dobbiamo saper ascoltare.
L'aver capito che Dio ama l'uomo e perciò lo salva ci mette in grado di far percepire a chi ci incontra la stima che abbiamo di lui, e questo per una ragione che risale al mistero stesso di Dio. L'anima della pastorale è in fondo qui: saper credere all'opera di Dio nei nostri interlocutori, senza giudicarli, senza condannarli mai, neanche quando sbagliano. È questo che li può far trasalire dal profondo del cuore, fino a rivelare loro una realtà di vita e di salvezza mai prima sospettate.
Temi da approfondire
Sono solo alcuni accenni a un tema di grande attualità, che viene sempre più in evidenza nella chiesa d’oggi. Solo “accenni” perché, in effetti, il problema non è semplicemente qui, nel sottolineare ancora una volta l’importanza e l’attualità del tema. Sta piuttosto nel fatto che la spiritualità cristiana – presa in se stessa e nei suoi riferimenti all’opera dell’evangelizzazione – ha bisogno di essere ripensata e ritrovata nei suoi veri contenuti, nel suo vero significato. Si è già fatto molto in questi anni; il problema è come far sì che quanto è stato acquisito a livello specialistico diventi mentalità. Appunto, come arrivarci? È un problema insieme di studio e di rinnovamento interiore. Un problema di formazione. Bisogna rimboccarsi le maniche e rimettersi a scuola, la scuola dello Spirito.
(da Settimana, 11, 2005)Testo in italiano della Divina Liturgia (celebrazione eucaristica) di rito bizantino.
Nato in Dalmazia nel 1866, visse sino al 1942, quasi sempre a Padova. Ultimo di dodici figli, pareva uno "scarto umano": piccolissimo, claudicante, pronunzia difettosa, sempre malaticcio; cosa mai avrebbe potuto realizzare? Ma lo sguardo di Dio era su di lui per farne un capolavoro di bellezza e di forza spirituale. La nobiltà d'animo suppliva all'aspetto fisico.
L’esilio a Babilonia
Crogiolo del monoteismo
di Thomas Römer *
Gli autori biblici che ci hanno trasmesso la testimonianza della loro fede in Yahwè, solo Dio d'Israele e dell'universo, non hanno fatto ricorso a concetti astratti. Il fatto di professare un solo Dio era divenuto per loro questione di vita o di morte…
Nel 597, l'esercito babilonese investì Gerusalemme. L'intellighenzia e l’establishment della città sono deportati a Babilonia (secondo Ger 52,28, sarebbero state deportato 3023 persone, tra le quali il re Ioiachin e il personale della sua corte). Dieci anni più tardi, la città è distrutta, le mura rase al suolo e il tempio incendiato. In questa occasione ebbe luogo una seconda deportazione (Ger 52,29 indica 832 abitanti di Gerusalemme). Alcuni testi biblici (per esempio 2 Re 25,21) danno l'impressione che il regno di Giuda fosse in quel tempo completamente svuotato della sua popolazione. Ma in realtà solo un 10/15 per cento della popolazione fu esiliato. La popolazione rurale rimase in gran parte nel paese e beneficiò della politica di ridistribuzione delle terre praticata dai Babilonesi (2 Re 25,12; Ger 39,10). Il fatto che i testi biblici si interessino maggiormente degli esiliati che di quelli rimasti nel paese si spiega facilmente. Sono i deportati o i loro discendenti che sono alla base della maggior parte dei testi dell'Antico Testamento, specialmente di quelli che danno una risposta monoteistica agli avvenimenti del 597/587.
Non possiamo sottovalutare lo shock provocato dalla distruzione di Gerusalemme. La distruzione del tempio, la deportazione della famiglia reale e l'occupazione del paese da parte di una potenza straniera significavano la radicale messa in discussione della religione ufficiale di Giuda. Essa era caratterizzata dalla venerazione di Yahwè come Dio nazionale (senza escludere i culti di altre divinità) attorno ai tre pilastri fondamentali: tempio, re e territorio. Ora, una tale religione nazionale diventava da quel momento impossibile. Nelle sue categorie mentali, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione della sua classe dirigente non poteva essere interpretata che come l'abbandono di Giuda da parte di Yahwè (Ez 8,12), o come la debolezza di Yahwè, incapace di difendere il suo popolo contro i Babilonesi e i loro dèi (Is 50,2). È in questo contesto che va delineandosi la confessione di Yahwè come unico vero Dio.
Le risposte monoteiste alla crisi dell'esilio
I Giudei esiliati elaboreranno tre risposte monoteiste alta crisi dell’esilio. Un primo gruppo di scribi, che vengono chiamati deuteronomisti (si ispirano allo stile e alla teologia del libro del Deuteronomio), pubblicano una storia di Israele e di Giuda, che si estende dall'epoca di Mosè (Deureronomio) sino alla caduta del regno di Giuda (2 Re 24-25). Questa storiografia spiega la catastrofe dell'esilio con l'incapacità del popolo e dei suoi capi a conformarsi alle leggi di Yahwè. Nel Deuteronomio, Israele è messo costantemente in guardia contro il pericolo della venerazione di altre divinità. Come in tutto il corso della sua storia, il popolo e i suoi re hanno venerato altri dèi (2 Re 17,l6-20); la collera di Yahwè li ha alla fine consegnati ai Babilonesi. I testi deuteronomisti che predicano la venerazione esclusiva di Yahwè non riflettono ancora un «monoteismo teorico», poiché gli altri dèi non sono negati nella loro esistenza. Essi, al contrario, rappresentano un enorme pericolo per Israele. Solo nei testi deuteronomisti più tardivi (probabilmente dell'inizio dell'epoca persiana) si trovano enunciati che celebrano Yahwè come unico Dio: «Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro» (Dt 4,39). Il monoteismo deuteronomista si afferma in un discorso di esclusione. Riconoscere Yahwè come il solo e vero Dio comporta un atteggiamento di intolleranza e di rifiuto verso gli altri popoli (cf specialmente Dt 7).
In compenso, l'elaborazione del credo monoteista nei testi sacerdotali del Pentateuco avviene in modo più universalistico. Il Dio di Israele è dapprima il Dio che si prende cura dell'umanità intera (Gn 1; 9,1-17: l'alleanza concerne i discendenti di Noè, cioè tutta l'umanità). Gli autori sacerdotali non esitano, per designare Yahwè, a ricorrere al nome divino arcaico «El Šaddai» (Gn 17). Questa divinità fu venerata in Mesopotamia e, nell'epoca persiana, ira qualche tribù proto-araba. Il monoteismo sacerdotale comporta allora una certa dose di sincretismo, e Yahwè è diventato il Dio dell'universo attraverso l'assimilazione di diversi epiteti divini e attraverso l'integrazione della religiosità popolare. La riflessione monoteista più spinta si trova nel Deutero-Isaia (Is 40-55). Essa si sviluppa in una raccolta di oracoli anonimi che celebrano l'ingresso del re persiano Ciro a Babilonia nel 539 a.C. Al contrario dei testi deuteronomisti e sacerdotali, la riflessione del Deutero-Isaia propone una «dimostrazione teorica» del monoteismo, e ne costituisce in seguito l'estensione in seno al canone veterotestamentario. Tutti i popoli sono chiamati a riconoscere che non c'è altro Dio che Yahwè (Is 45,6). Tutte le altre divinità non sono che chimere, «legna da bruciare» (Is 44,15). Si ironizza sul commercio di statue di divinità la cui sola utilità è di arricchire gli artigiani: «I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?» (Is 44,9-10). Questa affermazione dell'unicità di Yahwè - spesso identificato dal Deutero-Isaia con El (cf 43,12) - è presentata conte una sorta di rivoluzione teologica. La rivelazione di Yahwè come Dio unico di tutti i popoli e dell'universo equivale ad una nuova rivelazione: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). L'elaborazione di una fede monoteista si comprende allora come una risposta degli intellettuali ebrei agli sconvolgimenti degli anni 597/587. Ma sarebbe errato interpretare questa fede in Yahwè esclusivamente come uno sviluppo interno al giudaismo.
Condizioni propizie alla fede monoteista
Nel VI secolo a.C. il monoteismo era per così dire «nell'aria». In Grecia, i filosofi presocratici (come Senofane) criticano il pantheon popolare e difendono l'unicità della divinità. L'ultimo re babilonese Nabonide (550-539) restaura i templi del dio lunare Sin a Ur e a Harran e sembrava voler fare di Sin il dio unico dell'impero babilonese. Il clero di Marduk, ferocemente contrario a questo tentativo, si alleò al re persiano Ciro e gli consegnò nel 539 a.C. la città di Babilonia. Ciro si presenta, in un testo propagandistico, come l'eletto di Marduk mandato per pacificare l'universo. Il testo del «cilindro di Ciro» somiglia alla celebrazione di Ciro come messia di Yahwè in Isaia 40 e seguenti.
L'universalismo monoteista del Deutero-Isaia gli permette di presentare Ciro come Messia di Yahwè ispirandosi alla propaganda del re persiano. L'influenza persiana sull'elaborazione del monoteismo giudaico si accrescerà sotto Dario e i suoi successori che introdurranno il culto di Ahura Mazda come religione ufficiale dell'impero achemenide.
Le origini della venerazione di Ahura Mazda e del suo profeta Zoroastro sono ancora poco conosciute. Sappiamo in compenso che i sovrani achemenidi hanno adottato le dottrine di Zoroastro e che hanno legittimato il loro impero facendo riferimento al «grande Dio». Il riferimento ad Ahura Mazda è onnipresente nelle iscrizioni reali: «Ahura Mazda è il grande re che ha creato questa terra. che ha creato quel cielo, che ha creato l'uomo, che ha creato il bene per l'uomo, che ha fatto Dario re, unico re su molti». Si può qualificare la religione ufficiale dell'Impero persiano come «monoteismo inclusivo», perché gli Achiemenidi erano in genere tolleranti verso le credenze delle popolazioni sottomesse. Bisognava semplicemente che gli dèi di queste fossero «compatibili» con Ahura Mazda. È degno di nota che la pubblicazione della Torâ (il Pentateuco), che diventa il fondamento del giudaismo monoteista dell’epoca persiana, sia fatta da Esdra, un emissario della corte achemenide. In 7,12, Esdra è chiamato «scriba della legge del Dio del cielo». Questo titolo si applica tanto ad Ahura Mazda quanto a Yahwè. In Esd 7,26, la legge del Dio di Esdra equivale alla legge del re persiano. Ne consegue che l'elaborazione del monoteismo ebraico trovò condizioni favorevoli nel contesto dell'impero achiemenide. D'altra parte nessun testo dell'Antico Testamento lascia trasparire qualche ostilità nei confronti dei Persiani. La fede in Yahwè, l'unico Dio, non è tuttavia una semplice interpretatio judaica del culto di Ahura Mazda. Perché, al contrario della religione di Zoroastro che è caratterizzata da una fortissima opposizione tra il Dio del bene e le forze del male, la fede biblica ha resistito al dualismo. Certo, Satana fa qualche breve apparizione in alcuni racconti della Bibbia ebraica (Gb 1; 1Cr 21,1), ma in modo marginale e rimanendo inferiore a Yahwè. Un testo del Deutero-Isaia si legge inoltre proprio come un rifiuto dei dualismo della religione persiana: «Io sono il Signore [Yahwè] e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene [in ebraico šalom] e provoco la sciagura; io, il Signore [Yahwè], compio tutto questo» (Is 45,6-7).
Le conseguenze della rivoluzione monoteista sul giudaismo
La presa di coscienza dell'universalità di Yahwè pose ai teologi dell'epoca esilica e postesilica il seguente problema: come conciliare l'affermazione che Yahwè è da un lato il Dio del cielo e della terra, e dall'altra che egli intrattiene una relazione privilegiata con un solo popolo? La risposta si trovava nella forte affermazione dell'elezione di Israele-Giuda da parte di Yahwè. I testi del Deuteronomio che risalgono ai secoli VI-V a.C. insistono sul legame tra creazione ed elezione (Dt 4,32-40; 10,14-15). All'epoca della monarchia, il solo re era l'unto, l'eletto di Yahwè, ma in epoca più tarda, è l'intero popolo che si è sostituito al re. L'idea dell'elezione permise così al giudaismo di inscrivere il particolare nell'universale.
La scoperta che la fede in Yahwè non aveva bisogno né di uno spazio preciso (il tempio o la terra), né di una istituzione politica (la monarchia) permetterà al giudaismo di vivere dappertutto nel mondo, nella diaspora. La Legge, la Torâ, che contiene tutto ciò che è necessario per vivere la propria fede in Yahwè, Dio dell'universo e Dio d'Israele, divenne una «patria portatile». Come già diceva l'esegeta Julius Wellhausen: «Il Diluvio dell'esilio che minacciava di sommergere gli Israeliti si è trasformato per loro nel bagno di una nuova nascita».
* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna
(da Il mondo della Bibbia, 47)