Religioso Marista
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La guerra o la pace sono per voi
di Raoul Follereau
Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi.
Scrivevo, venticinque anni fa:
“O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l’uomo vivrà per l’uomo, o gli uomini moriranno.
Tutti e tutti insieme.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire.
Bisogna scegliere. Subito. E per sempre.
Ieri, l’allarme.
Domani, l’inferno.
I Grandi – questi giganti che hanno cessato di essere uomini – possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all’idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un’intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore.
L’Apocalisse è all’angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire “NO” al suicidio dell’umanità.
“Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere”. Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele…
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il Tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me.
Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare.
Questa è l’ultima ambizione della mia vita, e l’oggetto di questo “testamento”.
Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C’è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l’umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: “la pace, la pace”, perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.
I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano.
Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.
Allontanatevi dai mascalzoni dell’intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste “tecniche divinizzate” che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi “progressi” e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell’anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell’uomo.
Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione!
La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l’Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell’umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d’amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.
Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un “progresso” folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido “ho fame!” che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: ESSERE VERAMENTE FRATELLI.
Allora… domani?
Domani, siete voi.
La fede cambia il credente nella sua vita privata, nella sua vita interiore, ma lo rende sempre anche protagonista di una novità relazionale che riguarda il suo popolo, la sua comunità di vita, la sua discendenza diffusa nello spazio e nel tempo.
Il deserto è una dimensione della spiritualità cristiana: è il luogo in cui il signore ci conduce per “rinnovarci nello spirito della nostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef4,24); è lo spazio in cui moriamo a noi stessi e cominciamo a vivere come figli di Dio, animati dallo Spirito di Cristo morto e risorto.
L'esperienza di liberazione dei figli di Giacobbe o Israele dall'Egitto sta al centro del «credo» biblico riportato nel libro del Deuteronomio nella preghiera del padre di famiglia nel giorno del ringraziamento.
di Marino Qualizza
5. Ecclesiologia di comunione CCC 1325; Ef 4/4-6; At 4/32; 2/44-45
Rapporto tra darwinismo e teologia
Adamo contro Dio?
di Carlo Molari
Per questo sorprende la reazione della stampa come se l'ammissione del papa fosse straordinaria o potesse avere conseguenze sconvolgenti per la dottrina cristiana.
Binomio acquisitoScrive ad esempio A. Oliverio sul Corriere della Sera (27/10/96, p. 38): «la teoria dell'evoluzione formulata da Darwin circa un secolo e mezzo fa conteneva in sé vari elementi di contrasto con la fede cristiana: non soltanto poneva in discussione il racconto biblico e i tempi e i modi della creazione della vita sulla terra, ma soprattutto implicava un'origine animale dell'uomo, apparentandolo con gli altri organismi viventi». Ora, se questo era vero al tempo di Darwin non lo era più qualche decennio dopo, quando sia i biblisti che i teologi cominciarono a interpretare la Scrittura in modo più rispondente alla sua natura religiosa e simbolica, e tanto più non lo è oggi, quando l'esegesi biblica e la teologia hanno acquisito metodi più raffinati di analisi dei testi antichi e dell'esperienza di fede.
Anche per Pio XII, già nel 1950, era chiaro che la Bibbia doveva essere interpretata diversamente da come avevano fatto al tempo di Galileo. Per questo l'affermazione di Giovanni Paolo II non «rappresenta un fatto nuovo», né «introduce un elemento di laicità nel campo della metafisica», come invece sostiene Oliverio.
Ancora più sorprendenti appaiono le affermazioni di E. Scalfari, secondo il quale l'ammissione del papa «sarebbe ben più che aggiornamento: sarebbe una rivoluzione con conseguenze incalcolabili sulla teologia e addirittura sulla fede» (Repubblica, 27/10/96, p. 1). Cercando poi di precisare quali conseguenze «avrebbe avuto una accettazione pura e semplice e completa dell'evoluzionismo da parte della chiesa», Scalfari scrive: «Adamo non sarebbe stato creato da Dio, tutta la simbologia dell'Eden, dell'albero della conoscenza, della tentazione del serpente, della cacciata dal paradiso, sarebbe caduta infranta (...) Non ci sarebbe stato il peccato originale, la colpa da riscattare e la necessità che il Figlio si facesse uomo per redimerci ed aprirci la via della salvezza».
«A stretto rigor di logica, questo azzeramento della Genesi e della dottrina neotestamentaria che a essa si ricollega avrebbe reso assai discutibile, perché non necessaria, la seconda Persona, e quindi l'intera struttura teologica che si compendi nel mistero della trinità». Il papa non sarebbe giunto a queste drammatiche conseguenze - continua Scalfari - solo perché postulerebbe «l'ancoraggio all'intervento divino sul cosmo e sull'uomo, creato "a immagine e somiglianza di Dio" perché possa onorarlo, amarlo e infine godere in eterno delle celesti beatitudini se il giudizio finale lo avrà ammesso al cospetto del suo creatore». Secondo Scalfari, quindi, il baratro è stato evitato solo perché, secondo il papa, il processo «ha richiesto un intervento diretto del creatore, è lui che ha inserito l'anima immortale nel corpo di quello strano bipede eretto e implume, che senza l'anima, non sarebbe stato l'uomo che è».
Qui Scalfari traduce bene il pensiero espresso dal papa, ma non ne coglie bene la portata. Non è infatti la convinzione di un intervento diretto di Dio a salvare la dottrina della fede cristiana. Si possono infatti accettare completamente le teorie evoluzioniste senza che cambi nulla nella fede come oggi viene vissuta e nella dottrina come oggi viene professata.
Il concetto di creazione
Da decenni la teologia cristiana utilizza un Concetto di creazione che non implica "interventi" di Dio, e inoltre può fare anche a meno di utilizzare il concetto di anima spirituale e immortale, come principio di differenza tra gli animali e l'uomo.
Per chiarire questi concetti del pensiero teologico occorre partire dal Concilio vaticano II. Nella costituzione pastorale Gaudium et spes il Concilio ha presentato la prospettiva evolutiva come una caratteristica della cultura attuale. Scriveva infatti: «il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine, a una concezione più dinamica cd evolutiva» (GS. 5). Conseguentemente il Concilio sollecitava i credenti a tener conto di questo mutamento. da cui sarebbe derivato «un formidabile complesso di nuovi problemi», che avrebbe richiesto «analisi e sintesi nuove».
Sollecitati da questo autorevole invito i teologi hanno raccolto diversi elementi già presenti nella tradizione cristiana e hanno messo a punto un concetto di creazione molto più ricco e fecondo di quello comune negli ultimi secoli. È stata infatti recuperata la nozione di creazione come dipendenza totale dell'essere da Dio. Scriveva S. Tommaso d'Aquino: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (Contra Gentes, 2.18). Secondo questo modello l'azione creatrice di Dio investe con tutta la sua potenza il nulla o il caos originario, che però non è in grado di accogliere pienamente fin dall'inizio la perfezione offerta, ma solo nella successione e a frammenti. La creatura perciò è tempo, perché è successione. Intendendo la creazione in modo dinamico ed evolutivo, occorre dire che la forza creatrice alimenta in ogni istante il processo dell'evoluzione. Non vi è dunque alcuna necessità di "interventi" divini.
La realtà stessa, evolvendo, è in grado di accogliere in modo molto più ricco e profondo l'offerta vitale contenuta nell'energia creatrice, che alimenta tutto i processo. Il peccato è la resistenza che l'uomo pone alla forza di vita quando giunta a livello consapevole, sollecita decisioni consapevoli e libere.
Anche il catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, pubblicato da vescovi italiani nel 1995, si pone in questa prospettiva: «Nella bibbia la creazione è presentata anche come la sua attività continua, il fondamento perenne di ogni cosa. L'universo dipende sempre da Dio, sia per iniziare, sia per continuare a esistere e per svilupparsi verso nuove e più alte forme di vita. Il soffio dello Spirito avvolge, penetra le creature, le sostiene e le fa germogliare come vento di primavera... La creazione non è il gesto compiuto da Dio in un tempo remoto, ma il dono di ogni giorno» (CdA, n. 360)
La stessa sensibilità appare quando il catechismo parla dell'origine d ogni uomo. Vi si dice che «partecipando a un processo evolutivo globale l'uomo nasce, si trasforma e muore come gli altri esseri della natura. Può ricevere la vita solo a frammenti» (n 372), «non viene alla luce come una realtà ben definita e compiuta, ma come un progetto da portare a compimento, con la sua stessa libera cooperazione», diventa se stesso attraverso i rapporti, «riceve e trasmette la vita in un tessuto di relazioni» (n. 366). Di conseguenza il male non viene attribuito solo al peccato perchè «molti mali derivano senz'altro dai limiti naturali, dall'inserimento nel mondo... La precarietà della condizione naturale viene poi aggravata da innumerevoli colpe personali, che procurano più o meno direttamente una infinità di guai, a sé e agli altri» (n. 372). Della solidarietà nel peccato si dice che «impedisce di integrare nella vita, in maniera significativa, i dolori che provengono dagli altri uomini e dai limiti inerenti alla natura» (n. 373).
La creazione e l’anima dell’uomo
Nel discorso del papa all'Accademia della scienze è riportata pure un'affermazione di Pio XII sulla creazione immediata dell'anima di ogni uomo da parte di Dio. L'accenno di Giovanni Paolo II è veloce e non approfondito, ma cita esplicitamente il testo della lettera enciclica Humani generis di Pio XII, che per la prima volta nei tempi moderni aveva parlato della creazione immediata dell'anima di ogni uomo («la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio», (DH. 3896). Ma oggi, accogliendo la prospettiva evolutiva e il concetto classico di creazione, il modello anima-corpo non è molto significativo e non appare necessario: inoltre parlare di creazione immediata dell'anima diventa incongruo.
Già il catechismo degli adulti della CEI ha in merito utilizzato un linguaggio più duttile e simbolico e ha evitato di parlare di creazione dell’anima: «secondo la concezione biblica l'uomo è"spirito, anima e corpo" (1 Ts 5.23) cioè un soggetto partecipe della vita divina, vivo e pieno di desideri, inserito nel mondo e sottomesso alla caducità» (CdA, n. 1017). Pur riconoscendo che «la nostra tradizione culturale preferisce parlare di anima e di corpo», conclude: «quel che conta è affermare l'unità dell'uomo, unico soggetto che vive a vari livelli, posto tra cielo e terra, uditore di Dio e interprete delle cose materiali».
Più decisa ancora è la scelta quando in riferimento alla continuità della vita il CdA scrive: «dopo la morte sopravvive l'io personale, dotato di coscienza e volontà. Se si vuole chiamarlo "anima" bisogna intendere questa parola in maniera biblica» (CdA n. 1195). Per questo il catechismo della CEI, commentando il secondo capitolo della Genesi, scrive: «L'uomo riceve direttamente da Dio il soffio della vita spirituale. L'evoluzione da sola non basta a dare origine al genere umano; la causalità biologica dei genitori non spiega da sola la nascita di un bambino, persona cosciente e libera, del tutto singolare. Occorre in entrambi i casi uno speciale concorso di Dio creatore» (n. 367).
Un cambio di prospettivaIn prospettiva evolutiva si continua ad affermare la continuità causale di Dio, che però non si esprime in interventi o cambiamenti di rotta. Essa offre possibilità molteplici alle creature che seguendo le proprie dinamiche si sviluppano per vie spesso casuali e nell'intreccio di molteplici relazioni. Ogni passo avanti dell'evoluzione consente una nuova espressione della causalità creatrice resa possibile da nuove capacità di accoglienza delle creature. Il nuovo emergente non deve essere inteso come un'inedita azione di Dio o un suo "intervento" nel processo evolutivo, ma come un nuovo modo di esprimersi, dal di dentro della creazione della stessa forza creatrice che fonda tutta la realtà. Come una luce che si espande quando si creano nuovi spazi alla sua presenza.
In ogni caso anche accettando pienamente la teoria evoluzionista, la dottrina cristiana resta intatta. Certamente molte nozioni tradizionali debbono essere sostituite da altre più coerenti. Questo è appunto il lavoro che il concilio chiedeva ai teologi in modo da adattare per quanto conviene «il vangelo sia alle capacità di tutti, sia alle esigenze dei sapienti» (GS, 44). In questi decenni molto lavoro è stato compiuto dai teologi e acquisizioni definitive sono state realizzate, sotto lo stimolo delle scienze, ma secondo dinamiche proprie della fede. Per questo esse resteranno anche quando le teorie evoluzioniste saranno sostituite da altre. Scrivevano già nel 1979 due noti teologi dell'Università gregoriana di Roma: «Se un giorno le scienze abbandonassero l'evoluzionismo, ciò in teologia non cambierebbe nulla. Resterebbe sempre un arricchimento dell'intelligenza della fede, provocata dall'incontro con l'evoluzionismo» (Alszeghy A. - Flick M., I primordi della salvezza, Marietti, 1979, p. 79).
Le discussioni di questi giorni potranno servire a rendere pubbliche queste acquisizioni teologiche, rimaste forse ancora patrimonio di pochi specialisti.
(da Testimoni, 15 dicembre 1996)
Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (prima parte)
di Alberto Valentini
Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)
1. Nota introduttiva
1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.
2. La preghiera in At 1,14
2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.
3. La prima comunità
3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;
4. Conclusione breve
1. Nota introduttiva
1.1. Ambientazione del testo
La densa e concisa annotazione di At 1,14 non può essere compresa, anche dal punto di vista sintattico, senza i vv. 12-13 che la introducono ed inquadrano. Il lettore è invitato pertanto a considerare la breve pericope di At 1,12-14. Posta al centro del capitolo primo degli Atti, essa presenta molteplici motivi di interesse e funge da raccordo tra quanto si è detto nei vv. 4-8 e l'evento di Pentecoste che sarà narrato nel capitolo secondo.
Se ogni testo dev'essere letto alla luce del contesto immediato e remoto, questa esigenza vale in particolare per At 1,12-14, che presenta un'ampia rete di relazioni e contatti.
Il v. 12: "Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli ulivi..." collega il testo non solo con la scena dell'ascensione (9-11) appena descritta, ma anche con il v. 4, nel quale il Risorto comanda agli apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme. (1)
La formula perifrastica hoù ésan kataménontes del v. 13 richiama il verbo della medesima radice (periménein)del v. 4, che rivela anche il senso di quell'attesa, finalizzata alla "epangelía" del Padre, esplicitata nel v. 5 come "battesimo per mezzo dello Spirito". (2)
I legami non si limitano a quanto precede, ma si estendono anche ai brani seguenti: la necessaria ricostituzione del gruppo dei Dodici (vv. 15-26), (3) dopo l'elenco degli Undici fatto nel v. 13, e soprattutto la venuta dello Spirito nel capitolo secondo. Il v. 2,1: "Al compiersi del giorno di Pentecoste erano tutti insieme nello stesso luogo" richiama certamente l'annuncio "fra non molti giorni" del v. 1,5, ma suppone il ritorno degli Undici a Gerusalemme, la salita alla stanza superiore e la preghiera unanime e assidua della comunità (vv. 12-14). I legami della nostra pericope con i vv. 2,1-4 appaiono piuttosto evidenti. Esiste anzitutto il rapporto di fondo: attesa-compimento, ma anche una chiara continuità tra le due scene che presentano gli stessi personaggi, nello stesso luogo, con il medesimo atteggiamento. (4)
I vv. 1,12-14 costituiscono in qualche modo un crocevia nell'articolazione del capitolo primo degli Atti e in rapporto all'evento di Pentecoste. Essi si giustificano a partire da un comando e da una promessa: comando di restare a Gerusalemme (v. 4) e promessa dello Spirito (v. 8), in vista della testimonianza da rendere al Signore Gesù. La nostra pericope è inscindibilmente legata a quanto precede e direttamente finalizzata al dono dello Spirito santo.
I collegamenti, tuttavia, vanno oltre il contesto immediato, proiettandosi in un ambito ben più vasto. Com'è noto, il capitolo primo degli Atti si presenta quale introduzione, che opera il raccordo tra il "tempo di Gesù" e il "tempo della Chiesa". Esso garantisce la continuità tra il primo e il secondo libro di Luca - come lo stesso autore afferma (vv. 1-2) (5) - ma al tempo stesso anticipa il programma di tutto il racconto degli Atti (v. 8). (6)
Se in chiave prospettica, il capitolo primo introduce il contenuto ed anticipa lo sviluppo degli Atti, retrospettivamente ripropone la conclusione del primo libro di Luca. (7) La parte finale del vangelo e quella iniziale degli Atti si presentano come pannelli di un dittico: si spiegano e si illuminano a vicenda. (8) Si confrontino Lc 24,44-53 e At 1,3-14: in tutt'e due le sezioni si possono distinguere tre elementi paralleli:
- una "catechesi" del Risorto (9) agli apostoli (10) (Lc 24,44.46-47; (11) At 1,3-8), seguita da un incarico di testimonianza (Lc 24,48; At 1,8) e dall'annuncio dell'invio della "promessa del Padre"- la "forza dall'alto" (Lc 24,49; At 4,4.5.8), in attesa della quale devono restare in città (Lc 24,49; At 1,4);
- il racconto dell'ascensione (Lc 24,50-52a; At 1,9-11).
- il ritorno a Gerusalemme e la vita della comunità (Lc 24,52b-53; At 1,12-14). (12)
La seconda parte del capitolo primo degli Atti (vv. 15-26), anche se legata alla prima, appare molto diversa: (13) mentre At 1,3-14 ripete, con delle variazioni, quanto è stato detto alla fine del vangelo, la seconda parte (vv. 15-26) ha come oggetto la definizione del ministero apostolico (1,21-22), che giunge al termine del discorso di Pietro ai fratelli, e prepara l'aggregazione di Mattia al collegio degli apostoli.
Nei vv. 12-14 troviamo un gruppo ristretto di persone insieme con gli Undici, nella scena successiva, invece, si parla di circa 120 persone, una comunità ben più vasta, interpellata per la scelta del dodicesimo apostolo. Ciò fa pensare che il gruppo descritto in 12-14 sia il nucleo originario e fondamentale della primitiva comunità, al quale si sono aggiunti poi altri discepoli. Esso si trova in una posizione particolare nella chiesa delle origini. Di questo primo nucleo ecclesiale si occupa la breve, ma preziosa annotazione del v. 14, oggetto della nostra riflessione.
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16
In base allo stile e alla terminologia impiegata, At 1,14 appare un brano redazionale. Nonostante la sua marcata brevità, esso va annoverato tra quei testi ricorrenti negli Atti - specie nella prima parte - chiamati convenzionalmente "sommari". (14) Collocato al centro della pagina iniziale degli Atti, può essere considerato come il primo breve sommario: "un bilancio teologico e spirituale", dopo la presentazione degli avvenimenti successivi alla risurrezione di Gesù e in attesa del dono dello Spirito; (15) "un sommario sulla vita di preghiera della comunità e sulla sua costituzione". (16)
Secondo P. Benoit, i sommari sono "quadri d'insieme che dipingono in maniera generale dei tratti o atteggiamenti della comunità, di cui i racconti adiacenti forniscono illustrazioni particolari...sono veri quadri ricapitolativi circa la vita della prima comunità". (17) Essi costituiscono un campo privilegiato di ricerca delle intenzioni e della teologia dell'autore. E' necessario pertanto metterne in rilievo ogni dettaglio, alla luce del contesto e nel confronto con i sommari paralleli. Nell'ambito del presente studio, ci limiteremo ad accennare ad alcuni rapporti che intercorrono tra il nostro testo e i sommari successivi, caratterizzanti la vita della comunità gerosolimitana delle origini. E' nota la parentela esistente tra questi brani, che presentano fenomeni letterari e teologici quasi identici, espressi con formule simili e complementari. (18)
All'interno di questa consonanza di fondo, i singoli testi contengono delle peculiarità, che è importante mettere in luce per poterli adeguatamente qualificare. (19)
Il testo di At 1,14 presenta con ogni evidenza due caratteristiche che lo segnalano nettamente: anzitutto la preghiera (20) unanime e perseverante, e poi l'indicazione dei membri che compongono la comunità primitiva. (21)
La prima nota, la preghiera, si trova - in forma più articolata e insieme con altri fondamentali elementi - nel sommario seguente (2, 42-47), (22) mentre non viene esplicitata ugualmente nei sommari successivi, i quali mettono in evidenza altri aspetti della comunità. Possiamo affermare che, partendo dal primo sommario e procedendo verso gli altri - nei primi cinque capitoli degli Atti - si assiste a un movimento che va dalla vita interna della comunità primitiva alle manifestazioni più esterne e visibili di essa. (23) “L’interesse del primo sommario è interamente rivolto alla vita religiosa ed interna dei primi credenti nella comunità ecclesiale”. (24) At 2,42-47, pur sottolineando la dimensione religiosa, (25) inserisce altre note, quali l’attività taumaturgica degli apostoli, la comunione dei credenti, la condivisione dei beni, la stima da parte del popolo e l’adesione quotidiana di nuovi membri alla fede.
Il brano di 4,32-35 segnala elementi simili: la comunione dei cuori e dei beni, la forte testimonianza resa dagli apostoli al Risorto, la stima di cui tutti sono circondati.
L’ultimo dei sommari presi in considerazione (5,12-16) si colloca sulla stessa linea, mettendo in luce i prodigi operati dagli apostoli, lo stare insieme, l'approvazione del popolo, l'aumento costante dei credenti, le numerose guarigioni.
In tutti questi brani è evidente una nota caratteristica - la comunione degli animi - anche se espressa in modi diversi: con l’avverbio homothymadón (1,14; 2,46; 5,12); con la formula un cuore ed un’anima sola (4,32); con l’espressione epì tò autó, che solitamente significa “insieme”, “ma che sembra avere un senso molto forte in 2,44 e 2,47”. (26) E, fatto degno di nota, tale unità di spirito è connessa, anche se non sempre esplicitamente, con la preghiera. Per quanto concerne l’avverbio homothymadón il legame è diretto, non solo nei tre testi citati, ma anche in 4,24, nell’introduzione alla preghiera degli apostoli: “Essi unanimemente alzarono la voce a Dio e dissero...”.
La preghiera sta alla base della comunione: questa infatti è frutto dello Spirito, il dono che il Padre celeste concede a quelli che lo pregano (cf Lc 11,13).
La seconda nota - la presentazione dei membri della comunità apostolica - è una peculiarità del nostro testo, che, per quanto breve, appare singolarmente articolato. Gli altri sommari parlano in maniera generale della moltitudine dei credenti, della vita interna della comunità e dei rapporti con l'esterno; si soffermano in particolare sugli apostoli, i quali hanno la presidenza della comunità, esercitano il ministero della parola (2,42), operano guarigioni e prodigi (2,43; 5,12), rendono testimonianza al Signore Gesù (4,33)...; ma quei brani non informano circa le diverse categorie di persone che compongono la comunità delle origini. At 1,14, invece, accanto agli apostoli, pone delle donne, Maria la madre di Gesù e i suoi "fratelli". Questi personaggi, non saranno più menzionati nel corso degli Atti, ma ormai sappiamo che fanno parte della comunità apostolica. Essi sono stati inseriti nel primo sommario con un duplice intento: mostrare la continuità degli Atti con la narrazione evangelica, e ricordare al lettore che essi hanno un ruolo non secondario nella comunità dei discepoli del Signore.
Dopo il breve confronto con i sommari, s'impone una riflessione sulla preghiera in Luca e in At 1,14; e, in un secondo momento, sulla comunità apostolica e i personaggi che la compongono.
1.3. La preghiera in Luca
all'ora dell'incenso" (Lc 1,10), (28) e si conclude con le scene della presentazione e del ritrovamento, inquadrate nel contesto di riti e celebrazioni liturgiche.Insieme col culto ufficiale, viene sottolineata la pietà dei diversi personaggi, per alcuni tratti simile a quella che troviamo nelle prime pagine degli Atti. A Zaccaria viene rivelato che la sua preghiera è stata esaudita (1,13); Simeone è presentato come "giusto e pio...e lo Spirito santo era su di lui" (2,25); Anna "non si allontanava dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (2,37); Maria, la madre di Gesù, per due volte (2,19.51b) viene presentata in atteggiamento sapienziale: intenta a conservare e confrontare nel suo cuore (29) tutte le parole e gli eventi concernenti il Figlio.
La preghiera nei racconti dell'infanzia si esprime in maniera privilegiata nel canto, fatto di lode, ringraziamento, benedizione, esaltazione di Dio e della salvezza manifestata in Cristo. Ricordiamo il cantico di Maria (1,46-55), di Zaccaria (1,68-79), degli angeli (2,14) e di Simeone (2,29-32); le lodi dei pastori (2,20), di Elisabetta (1,42-45) e di Anna (2,38). In Lc 1-2 si respira effettivamente un clima che richiama quello delle comunità degli Atti, imbevuto di profonda spiritualità e di lode divina. (30)
Il vangelo lucano, che si apre nel tempio con i racconti dell'infanzia, si conclude nel medesimo luogo, in contesto liturgico, con la lode di Dio (cf Lc 24,53). La preghiera, posta all'inizio e alla fine, forma come una grande inclusione e sottende tutto l'arco del terzo vangelo. All'interno di esso, Luca ama evidenziare la preghiera di Gesù: (31) lo fa con maggior insistenza e con sottolineature proprie nei confronti degli altri sinottici. A differenza di Marco e Matteo, che rispettivamente presentano tre volte Gesù in orazione, (32) Luca segnala il fatto ben otto volte e in contesti particolari, nei quali l'atteggiamento del Maestro emerge con maggiore rilievo. Cinque menzioni di Luca non hanno dunque paralleli in ambito sinottico: (33) Gesù è in preghiera nel battesimo (3,21); in occasione dell’elezione dei Dodici, passa tutta la notte in orazione (6,12); nella trasfigurazione, sale sulla montagna per pregare (9,28.29); dopo averlo visto pregare, uno dei discepoli gli chiede di insegnare loro a fare altrettanto (11, 1); (34) nell’ultima cena, solo Luca riferisce le parole di Gesù rivolte a Pietro che stava per rinnegarlo: “Ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (22,32).
In questi casi è evidente l'apporto redazionale di Luca; ma anche nei passi in cui segue la tradizione sinottica, egli presenta sfumature e rilievi, che emergono dal semplice confronto con i testi paralleli.
Gli Atti degli Apostoli non si limitano a mettere la preghiera in primo piano nelle sintesi stilizzate ed edificanti dei sommari, ma la mostrano nell’esperienza quotidiana delle comunità e dei singoli. Si prega in occasione dell’elezione di Mattia (1,24); quando gli apostoli, dopo l’interrogatorio da parte del Sinedrio, vengono rimessi in libertà (4,24-30); prima dell’imposizione delle mani ai sette (6,6); mentre Pietro è in prigione (12,5); e in diversi altri momenti. Utilizzando una formula di Gl 2,5, i cristiani si qualificano come “coloro che invocano il nome del Signore” (cf At 9,14.21), con riferimento al Cristo glorioso.
Da tutto ciò si può comprendere come l’invito di Gesù a pregare sempre, in ogni tempo, sia stato attuato fedelmente nella comunità primitiva. Edotta dallo Spirito e radunata intorno al Signore risorto, la Chiesa si presenta anzitutto come comunità di preghiera.
La preghiera, negli Atti - come del resto nelle lettere paoline - è caratterizzata da due note fondamentali: la perseveranza, elemento già sottolineato dal terzo vangelo, e la comunione, (35) aspetto che Luca - a differenza di Matteo (cf 5,23s; 18,19s) - non evidenzia nel vangelo. Su queste due note ci soffermeremo in seguito.
(continua)
Note
(1) Il cammino di un sabato (v. 12), che è di circa 2000 cubiti (880 metri), non costituisce un cambiamento di luogo: non è un allontanarsi da Gerusalemme.
(2) Questo è anche il senso della parallela locuzione perifrastica del v. 14: ésan proskarteroúntes...
(3) Si noti il deì oùn...del v. 21: è una scelta che si impone perché già operata dal Signore ( cf v. 24).
(4) Colpiscono le espressioni parallele:
1,14: "tutti costoro erano perseveranti homothymadòn.../ 2,1: "erano tutti homoú nello stesso luogo";
1,13: la stanza superiore hoù ésan kataménontes / 2,2: la casa hoù ésan kathémenoi.
At 2,1 sembra dunque in rapporto con 1,13-14 piuttosto che con 1,15. In At 2,1.2b Luca ripete, variando parzialmente i termini, la notizia di 1,13-14, che pare sia stata redatta per servire d'introduzione alla storia della Pentecoste. "In realtà, la lista di 1,13-14 costituiva la normale introduzione al racconto della Pentecoste; Luca l'ha separata, volendo riferire le circostanze dell'elezione del dodicesimo apostolo; ma questo episodio rappresenta soltanto una parentesi e, in esso, la notazione delle 120 persone è, a sua volta, un'ulteriore parentesi" (J. Dupont, La prima Pentecoste cristiana (Atti 2,1-11), in Id., Studi sugli Atti degli apostoli, Roma 1973, 828).
(5) At 1,1-2 richiama in maniera estremamente concisa ed efficace tutto il contenuto del vangelo, dall'inizio dell'attività di Gesù fino alla sua ascensione.
(6) Il capitolo primo, con il suo prologo, rappresenta l'introduzione a una storia, quella degli Atti, che inizia con l'evento della Pentecoste e con il grande discorso inaugurale di Pietro.
(7) At 1,3-11 ricorda quel che Gesù fece e disse dalla risurrezione all'ascensione, riproponendo il contenuto delle ultime pericopi di Lc 24.
(8) "Dividendo la sua opera in due libri, Luca sa che deve accuratamente evitare di fare di questa divisione un'interruzione del racconto. Il procedimento raccomandato in questo caso è quello del cosiddetto 'intreccio delle estremità': la finale del primo libro anticipa gli eventi del secondo, e l'inizio del secondo ritorna su ciò che era già stato riferito nel primo" (J. Dupont, La missione di Paolo secondo Atti 26,16-23 e la missione degli apostoli secondo Luca 24,44-49 e Atti 1,8, in Id., Nuovi studi sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo 1985, 406).
(9) La catechesi riguarda il passato e il futuro. In Lc 24,44 Gesù riprende, attualizzandole, le parole rivolte loro prima del suo "esodo", secondo le quali è necessario (deí) che si compiano tutte le cose scritte di Lui nella legge, nei profeti e nei salmi. Apre quindi la loro mente alla comprensione delle Scritture: si noti il parallelismo con l'episodio dei discepoli di Emmaus (vv. 25-27) ai quali apre non la mente, ma le Scritture (v. 32). Nel v. 46 viene riproposto in maniera esplicita il messaggio degli annunci della passione (Lc 9,22; 18,31-33), che adesso è divenuto Kerygma pasquale (cf 1Cor 15,3-4), ma con un'aggiunta significativa nel v. 47: che nel suo nome sia proclamata a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati (cf Mc 13,10; At 26,23). Questi tre elementi: la passione, la risurrezione e la missione di proclamare la salvezza alle genti fanno parte degli annunci profetici concernenti il Messia (cf Is 49,6 ripreso in Lc 2,31s; At 13,47; 26,23; 28,28).
(10) Secondo il vangelo, l'istruzione si svolge alla presenza degli "Undici e quelli che erano con loro" (Lc 24,33; cf 24,9). In At 1,2 si parla in maniera chiara degli "apostoli che egli si era scelti per mezzo dello Spirito santo".
(11) In realtà, Lc 24,44-49 - come osserva giustamente Dupont - "non si presenta come un unico discorso, ma come due discorsi", introdotti rispettivamente dalla formula "E disse loro", e separati dalla notizia narrativa del v. 45 (cf J. Dupont, a.c., 406).
(12) Il ritorno a Gerusalemme è presentato con la medesima formula: hypéstrepsan eis Ierousalém. Lc 24,52 sottolinea la nota di gioia: metà charàs megàles, che forma inclusione con la grande gioia diLc 2,10, annunciata alla nascita di Gesù. Atti 1,12 non mette in rilievo la gioia; essa però si trova, in At 2,46s, ove abbiamo anche una sintesi della vita liturgica della comunità primitiva.
(13) Cf G. Schneider, Gli Atti degli Apostoli, I, Brescia 1985, 272, nota 2. I vv. 1,15-26 costituiscono un "intermezzo": l'evento di Pentecoste si aggancia ai vv. 1,12-14.
(14) I principali e più noti sono At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16, con i quali il nostro testo presenta evidenti contatti.
C. Ghidelli distingue tra sommari (quelli appena indicati), "notizie redazionali", in cui colloca il nostro brano, e "ritornelli", comprendenti brevi testi che intercalano la narrazione e "lasciano intravedere una strutturale unità di tutto il libro degli Atti" (C. Ghidelli, I tratti riassuntivi degli Atti degli Apostoli, in Il Messaggio della salvezza, V, Torino-Leumann 1968, 140).
(15) Cf R. Fabris, La presenza della Vergine al Cenacolo (At 1,14), in Marianum 50 (1988), 404s.
(16) G. Schneider, o.c., 273. Altrove Schneider annovera At 1,14 tra "le notizie minori in forma di sommario", come At 6,7; 9,31; 12,24; 16,5; 19,20; 28,30s (cf ivi, 147, nota 10).
(17) P. Benoit, Remarques sur les "Sommaires" des Actes II, IV et V, in Exégèse et Théologie, II, Paris 1961, 181.
(18) Non entriamo qui nella problematica circa la formazione e la redazione definitiva di questi brani, che rivelano molteplici contatti, secondo alcuni rimaneggiamenti e concordismi anche maldestri. Per tali questioni rimandiamo in particolare a P. Benoit, a.c, 181-192; H. Zimmermann, Die Sammelberichte der Apostelgeschichte, BZ 5 (1961), 71-82; H.J. Degenhardt, Lukas, Evangelist der Armen, Stuttgart 1965;
E. Haenchen, Die Apostelgeschichte, Göttingen 71977, 194-197; 228-231; 238-241; E. Rasco, Actus Apostolorum. Introductio et exempla exegetica, PUG, Romae 1968, 271-330.
Alle ricostruzioni parzialmente discutibili di Benoit, Zimmermann, Degenhardt e di altri studiosi, fa da contrasto la posizione di Haenchen, il quale attribuisce tutto all'attività redazionale di Luca. Su questa linea si colloca anche Schneider (o.c., 147s. 396. 527). Più prudente e possibilista appare Rasco, il quale rinuncia alla identificazione precisa dei materiali tradizionali e redazionali.
(19) Queste composizioni costituiscono "un prezioso e ricco polittico - di cui ogni singolo sommario rappresenta un pannello di particolare interesse - con il quale Luca ha delineato i vari aspetti della vita e della religiosità della chiesa primitiva” (B. Prete, Il sommario di Atti 1,13-14 e suo apporto per la conoscenza della Chiesa delle origini, SacDoct 18[1973]90).
(20) “La prière est la première action de l’Eglise au lendemain de l’Ascension (Actes 1,14). Elle précède tout autre souci” (Ph.-H. Menoud, La vie de l’Eglise naissante, Neuchâtel 21969, 88).
(21) L'elenco dei membri della comunità radunata intorno agli Undici si trova solo nel nostro sommario: negli altri tre si parla di: "tutti i credenti" (2,44), "moltitudine dei credenti" (4,32), "tutti" (5,12).
(22) E' da sottolineare l'importanza del v. 42, sia in se stesso sia in rapporto ad At 1,14. Collocato in posizione privilegiata - subito dopo il grande discorso di Pietro e l'adesione alla fede di quasi tremila persone - il v. 42 presenta una sintesi fondamentale della vita della comunità primitiva; sintesi che viene commentata nei vv. seguenti (43-47), e che costituisce un punto di riferimento decisivo per la Chiesa di ogni tempo.
Il v. 42 si trova, per così dire, in parallelismo con 1,14: questo è inserito prima dell'evento di Pentecoste, quello in conclusione; tutti e due iniziano con la formula perifrastica ésan proskarteroúntes; ambedue si concentrano sulla vita interna della comunità. Mentre però At 1,14 si limita a sottolineare la preghiera in preparazione al dono dello Spirito, At 2,42 presenta un quadro più completo della comunità radunata in conseguenza della della Pentecoste. Secondo At 2,42 la comunità - posta sotto il segno della "perseveranza" (cf anche l' "ogni giorno" del v. 46) - è caratterizzata da quattro note fondamentali, raggruppate a due a due: l'insegnamento degli apostoli e la koinonia, la frazione del pane e le preghiere. In base a questi tratti, i primi credenti si rivelano, in maniera privilegiata, quale comunità di preghiera, anzi comunità liturgica, e non solo per le ultime due note. La liturgia non si limita infatti alle preghiere e neppure alla celebrazione propriamente detta, ma inizia con la proclamazione della Parola (la didachè degli apostoli) e - in conseguenza della celebrazione del "mistero" - si conclude con l'impegno di vita dei credenti animato dalla carità (la koinonia).
(23) Fermo restando quanto si è detto - nella nota 22 - circa At 2,42.
(24) Cf B. Prete, a.c., 91.
(25) Anzi, vi ritorna ripetutamente (2,42.46.47), distinguendo le varie esperienze di preghiera e di liturgia sia in casa che al tempio.
(26) J. Dupont, L’unione tra i primi cristiani, in Id., Nuovi studi..., 284; cf 287ss.
(27) Qui e nella comunità di Gerusalemme, più che altrove, "l'esprit de la prière chrétienne est d'abord celui de la prière des pieux israélites qui maintiennent vivante en leur coeur la grande tradition biblique" (J. Dupont, Le discours de Milet, Paris 1962, 349).
(28) Si noti il caratteristico linguaggio, che ritroviamo nei sommari degli Atti: la locuzione ridondante "tutta la moltitudine del popolo" (cf At 2,44.47; 4,32; 5,12.14), e la forma perifrastica en... proseuchómenon (cf At 1,13.14; 2,42.46).
(29) Un atteggiamento simile si può ravvisare in Lc 1,66, riferito a tutti coloro che udivano le cose straordinarie legate alla nascita di Giovanni.
(30) E' significativo in tal senso, per es., il verbo ainéo che ricorre in Lc 2,13.20, a proposito della schiera celeste e dei pastori, e in At 2,47, con riferimento alla comunità che celebra le lodi di Dio.
(31) Negli Atti, l'autore insisterà sulla preghiera degli apostoli e dei credenti, i quali continuano quanto ha fatto e insegnato il Maestro.
(32) In Marco: dopo la giornata di Cafarnao (1,35); dopo la prima moltiplicazione dei pani (6,46); nel giardino degli ulivi (14,32-39). In Matteo: dopo la prima moltiplicazione dei pani (14,23); prima dell' arresto (26,36-44); in un testo peculiare del primo evangelista, secondo il quale i fanciulli vengono presentati a Gesù, non perché egli li tocchi ( Mc 10,13; Lc 18,15), ma perché imponga loro le mani e preghi per essi" (Mt 19,13).
(33) Nel quarto vangelo non si danno testi paralleli.
(34) Si noti il contesto totalmente diverso nel quale Matteo inserisce il Padre nostro (Mt 6,9-13).
(35) "Il s'agit alors de souligner l'application à la prière des Apôtres (6,4), des chrétiens (2,42-46), ainsi que l'unité réalisée par cette communauté en prière: qu'elle soit réunie dans le Temple, dans la "chambre haute", ou dans quelque maison privée" (L. Monloubou, La prière selon saint Luc [Lectio Divina 89], Paris 1976, 38).
Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio (…). Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”. (Marco 2, 1.12).
Il Paese delle croci di pietra
di Aldo Ferrari
La grande cupola bianca dell’Ararat riempie il cielo turchese d’Armenia. Fonte e perno dell’universo armeno, fondale fisso di un paesaggio aspro e immutato, colma gli occhi e la mente con la persistenza propria del simbolo: di una terra e di una storia. La montagna infatti si trova oggi in territorio turco, al confine con la Repubblica armena. Quasi un miraggio, dunque, e insieme un orizzonte inciso in ogni sguardo, memento di tutto ciò che è stato e di tutto ciò che è.
L’Armenia è la più piccola delle quindici entità statali divenute indipendenti in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, e la sua popolazione, a causa della consistente emigrazione degli ultimi anni, è oggi ben inferiore agli oltre tre milioni e mezzo dell’epoca sovietica. Viaggiare in questo Paese significa entrare in contatto con una realtà che porta su di sè l’eredità di un passato tanto lungo e glorioso quanto tormentato. A partire dalle sue stesse dimensioni, che sono circa un decimo di quelle dall’antica Armenia, e che non le consentono oggi di avere un ruolo corrispondente a quello di molti periodi della sua storia. Ma almeno altrettanto importante, in chiave sia storica sia psicologica, è il fatto che tale ridimensionamento sia dovuto essenzialmente alla tragedia epocale del genocidio, che ha non solo sancito la perdita definitiva dei territori armeni occidentali, ma anche l’annientamento o l’espulsione della popolazione che vi abitava ininterrottamente da quasi tre millenni. Un evento cruciale per comprendere sia la diaspora che da esso è in larga misura scaturita, sia le sorti della Repubblica indipendente, che ancora ne subisce le ripercussioni. In primo luogo per i contrasti con la vicina Turchia, che non ha mai riconosciuto il genocidio, e quindi con l’altra Repubblica turca del Caucaso meridionale, l’Azerbaigian, con la quale l’Armenia ha in sospeso il contenzioso sul destino del territorio del Karabagh, abitato in larga maggioranza da armeni ma attribuito a Baku in epoca sovietica. Ciò significa che l’attuale Stato armeno deve fronteggiare non solo gli enormi problemi politici, economici e sociali di ogni Repubblica post-sovietica, ma anche una situazione geo-politica di estrema complessità. In questo compito è peraltro favorito dalla notevole compattezza etnica, mentre la forte coscienza nazionale che anima una diaspora più numerosa della popolazione che vive in patria consente a quest’ultima di non restare isolata e di trovare sostegno in numerosi Paesi del mondo (soprattutto nell’area del Vicino Medio Oriente, in Russia, in Francia e negli Stati Uniti).
Così come l’Ararat, anche la maggior parte dei monumenti del passato sono oggi in Turchia, dove versano in condizioni disastrose. Anche la Repubblica armena è ricchissima di testimonianze storiche e artistiche. Un itinerario attraverso questo territorio non può che iniziare dalla capitale, Erevan. Pur costruita prevalentemente in epoca sovietica, questa città ha nel complesso un aspetto gradevole, grazie ad un’urbanistica equilibrata e al pregio estetico del tufo, la pietra dalle numerose sfumature cromatiche che caratterizza l’architettura armena. Tra i monumenti più celebri è il Matenadaram (Biblioteca nazionale), che custodisce circa 17 mila manoscritti, molti dei quali impreziositi da bellissime miniature. Il fascino principale di Erevan nasce tuttavia dal profilo onnipresente delle sue vette perennemente innevate dell’Ararat, la montagna sulla quale, secondo la tradizione biblica, si arrestò l’arca di Noè. Nelle immediate vicinanze della città sorge il monumento alle vittime del genocidio. Una struttura all’aperto e un museo preservano la memoria della catastrofe che segnò in maniera indelebile la nazione armena.
È comunque lontano dal contesto urbano di Erevan che il genio specifico della cultura armena si manifesta con più intensità. In particolare, l’architettura è caratterizzata da uno stretto legame con l’ambiente; tende infatti ad inserirsi armoniosamente nel territorio, come se sorgesse dalla terra di cui riprende l’ocra e la porpora. Un esempio particolarmente significativo di questa aderenza al paesaggio è costituito da Geghard, un complesso monastico di straordinaria suggestione, costruito nel XIII secolo in un sito di antichi insediamenti eremitici. Rannicchiato nel fondo di una gola, il monastero si sviluppa in parte scavato nel vivo della montagna. Non lontano da Gerghard si trova il tempio pagano di Garni (I secolo d.C.), l’unico giunto sino ai nostri giorni in un’Armenia che per secoli si è intimamente identificata con la fede cristiana. Questa identificazione è stata duramente pagata dagli armeni, prima durante il lungo domino musulmano, poi sotto il «nero velluto della notte sovietica», per dirla con Mandel’stam, autore di “Viaggio in Armenia”. In questa terra ogni monumento cristiano assume pertanto un significato particolarmente intenso, testimoniando in maniera non scontata la fede di un popolo perennemente minacciato. Così a Noravank, un monastero isolato e deserto, costruito tra il XIII e il XIV secolo in una stretta valle con il medesimo tufo rossastro delle rupi circostanti, si ha l’impressione che al tramonto le mura assumano il colore del sangue. Naturalmente è solo una suggestione, indotta dalla conoscenza della dolorosa storia del popolo armeno.
Qui si trova la chiesa di Astvatsatsin (Madre di Dio), del XIV secolo, capolavoro dello scultore e miniatore Momik. Stretti gradini si inerpicano sulla facciata ovest fino all’ingresso, coronato da un timpano con l’immagine della Vergine con il Bambino attorniata dai santi Pietro e Paolo.
Quasi al confine con la Turchia, il profilo del monastero di Khor Virap (XVII secolo) si staglia contro il monte Ararat. Il nome in armeno significa “fossa profonda”. Al suo interno infatti è possibile discendere nella grotta in cui sarebbe stato imprigionato per tredici anni san Gregorio l’Illuminatore, colui che convertì l’Armenia la cristianesimo nei primi anni del IV secolo.
Non lontano sorge la cittadina di Etchmiatzin, il cui nome significa “l’Unigenito è disceso”, poichè Cristo vi apparve a san Gregorio. Qui risiede la suprema autorità della Chiesa armena, il “katholikos di tutti gli armeni”. Oltre alla cattedrale fondata da san Gregorio agli inizi del IV secolo, ricostruita nel V e nel XVII, vi si trovano alcune tra le più antiche e splendide chiese armene: ,Shoghakat (VI secolo, ricostruita nel XVII), che significa “effusione di luce”, e quelle intitolate alle sante vergini Gayanè e Hripsimè, edificate entrambe nel VI secolo. Nelle vicinanze di Etchmiatzin si incontrano anche le rovine dell’imponente chiesa di Zvartnots, del VII secolo, la cui ambiziosa e originale struttura non ha retto ai violenti terremoti che di frequente colpiscono questa regione. La corona di colonne superstiti lascia trapelare la leggendaria magnificenza di tempi passati.
Infatti, un altro itinerario di grande bellezza conduce al lago di Sevan, sulle cui rive azzurre si trovano due piccole chiese del IX secolo (Astvatsatsin e San Karapet) che un tempo sorgevano su un’isola e che oggi l’abbassamento delle acque, usate per l’irrigazione, ha ricondotto sulla terraferma. Nelle vicinanze si trova il cimitero di Noraduz, dove si possono ammirare numerosi khatchkar, le splendide “croci di pietra” che costituiscono forse le creazioni più caratteristiche dell’arte sacra armena. La croce (surb nshan, ovvero “santo segno”) ha del resto un ruolo centrale nella spiritualità del popolo armeno.
«Regno di pietre urlanti - / Armenia, Armenia!». Questi versi del poeta Mandel’stam sono un buon viatico per il cammino. Gettano una luce rivelatrice su una terra che, posta tra l’Anatolia e il Caucaso, conserva ancora oggi un sapore primigenio. Viaggiare per l’Armenia significa dunque percorrere sentieri che risalgono alle radici primordiali del mondo, penetrare nel cuore di chiese tetragone che hanno il colore del fuoco e nei silenzi secolari di monasteri simili a misteriosi congegni rotanti attorno ai rocchi delle alte cupole. E impastarsi lo sguardo nell’ocra di una terra all’ombra perenne dell’Ararat, «tenda di nomadi».
Il termine ‘bipolarismo’ ha oggi un significato etico e politico che va oltre l’uso che se ne fa in questi tempi in Italia. In un mondo ormai globalizzato, sul piano economico come su quello dei media, si delinea ovunque uno scontro netto fra due visioni della vita associata.