Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentaseiesima parte

La povertà

Nello stile marista la povertà è strettamente connessa con il carisma dell’Istituto, perché riguarda il distacco dai beni temporali e, insieme, da altre forme di ricchezza, quali la stima, la risonanza, il successo, le amicizie dei potenti, le soddisfazioni e il plauso degli uomini. La povertà permette di restare “ignoti et quasi occulti”.

Il tenore di vita esteriore del Marista dev’essere semplice e comune; il cibo, gli indumenti, gli oggetti d’uso si contraddistinguono per un solo aggettivo che il P. Colin attribuisce loro: “vulgaris”. (Constit., cap. VI, p. 12: “Alimentis vulgaribus…, pallio ex panno vulgari…, laneo vulgarique panno…, vestem ex vulgari item panno”.)

La povertà è “pons firmus ad beatam aeternitatem, et antemurale contra salutis hostes et vanas huius speculi sollicitudines”. (Ibid., cap. II, art. I, n. 84, p. 31).

Nella trattazione sistematica dei voti il P. Fondatore non si contenta di richiamare le norme giuridiche vogenti in materia di voto di povertà; ad essa aggiunge un altro articolo: De quibusdam aliis ad paupertatem spectantibus, ove traccia un cammino di più intima assimilazione a Cristo e a Maria. ( Ibid., cap. II, art. Iv, n. 137, p. 48; n. 148, p. 51.)

Richiamandosi forse alla pratica della povertà in altri istituti (francescani, trappisti), il P. Colin dà delle norme o, almeno, delle indicazioni che avrebbero contraddistinto il Marista da certi religiosi e dal clero secolare: nessuno, neppure il Superiore Generale, dovrebbe avere a proprio uso esclusivo una cavalcatura (Ibid., cap. II, n. 141,. Pp. 49-50); la biancheria stessa da bucato dovrebbe essere, possibilmente, comune: le offerte per i ministeri non sollecitate (Ibid., cap. II, n. 150, p. 52); gli stipendi di mese e le elemosine, qualora la Società avesse altre fonti sufficienti di reddito, “non recipere optimum est” (Ibid., cap. II, n. 142, p. 50).

Tuttavia le norme che riguardano la povertà esterna vanno lette alla luce dell’articolo “De Societatis spiritu”. Lì la povertà non è descritta solo come spogliarsi delle cose terrene, bensì lo abbiamo visto diffusamente nelle pagine precedenti, come distacco dalla propria considerazione, abnegazione completa di se stessi, considerandosi come servi inutili e feccia degli uomini. La povertà è svestirsi di ogni manifestazione dello spirito mondano negli edifici, nel tenore di vita, nei rapporti con il prossimo, “amantes nesciri et omnibus subesse” (Ibid., art. X, n. 50, p. 19).

Perfino le opere di zelo, da praticare necessariamente nel mondo, devono essere accompagnate dall’”amore per la solitudine e il silenzio e dalla pratica delle virtù nascoste”. In un periodo in cui generalmente i religiosi erano economicamente bene installati e la Chiesa di Francia cercava sistematicamente di recuperare i beni che i diversi regimi le sottraevano, la Società di Maria viene chiamata a dare testimonianza di autentico spirito di povertà evangelica e di gratuità.

Nel capitolo finale delle Costituzioni, pensato dal P. Colin come la sintesi di tutte le norme, la povertà è computata come uno dei “quattro angoli inespugnabili”, sui quali è edificata la Società. Essa è “omnium virtutum conservatrix, et ideo Societatis vere praesidium et tutela” ( Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161). Ritrovando un intimo collegamento con altri aspetti dello spirito marista il P. Fondatore afferma che la povertà, liberando il cuore dalle cose terrene e superflue (Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161)…

Venerdì, 02 Giugno 2006 21:09

La missione dell’uomo (Giovanni Vannucci)

La missione dell’uomo
di Giovanni Vannucci


Il mistero che oggi celebriamo, la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, è il fondamento eterno della nostra esperienza religiosa cristiana, della nostra esperienza della Chiesa. E vorrei in parole semplici potervi dire quello che penso sulla discesa dello Spirito Santo, sulla trasformazione operata in quegli uomini dallo Spirito Santo. Una delle prime cose che voglio dirvi è questa: nel Cenacolo dove erano i discepoli, secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, lo Spirito Santo discende sopra di loro a forma di fiammelle e discende su ciascuno dei presenti. Questo è un fatto, è un’immagine della prima trasmissione del mistero cristiano. E l’eterna trasmissione del mistero cristiano è sempre fatta attraverso immagini davanti alle quali noi dobbiamo sostare in silenzio per poterne comprendere l’insegnamento che ci viene dato dalla figura, dal simbolo, che costituisce l’immagine.

Così in questo primo pensiero sul mistero della Pentecoste, lo Spirito Santo discende non come globo di fuoco su tutti i discepoli e neppure discende come una fiammella sul primo discepolo, fondamento della Chiesa, Pietro, ma su tutti. E discende in fiammelle distinte l’una dall’altra. Questa è una verità che dobbiamo cercare di vivere, perché lo Spirito Santo nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti. Nella diversità poi delle sue fiammelle, di quei quantum di luce e di calore che lo costituiscono, viene dato a ciascuno dei dodici. Non ce l’ha più il prete e meno i laici, non ce l’ha più il Papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici.

Ma come e a chi è concesso lo Spirito Santo? In una forma personale, in una forma distinta, in una forma differente da quella che viene concessa ad altri. E questo costituisce l’aspetto profondo: anche se non siamo riusciti a realizzare sempre, per un continuo affermarsi di potenza dell’uomo, questa realtà della Chiesa, tuttavia rimane l’essenza della Chiesa, l’aspetto divino della Chiesa, l’aspetto profondo della Chiesa, lo Spirito che viene consegnato da Gesù. A ciascuno è concesso lo Spirito e la pienezza dello Spirito noi la raggiungiamo mettendo insieme le piccole fiammelle, e allora riusciremo a comprendere quell’intensità di luce, di calore, di illuminazione, di verità, che viene concessa a tutta la Chiesa quando è in questo stato di perfetta umiltà e di perfetta attenzione agli altri. E questa è una realtà che dobbiamo pazientemente e faticosamente recuperare se vogliamo che la nostra Chiesa sia “una Chiesa”, cioè una comunione di soggetti, non una realtà sociale con un capo e dei sudditi. Quindi abbiamo la responsabilità di quella fiammella, di quel dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Però vorrei portare la vostra attenzione su altri elementi della festa della Pentecoste. Ricorre il numero sette. Se voi aprite un qualunque manuale di storia delle religioni e andate all’indice, dove si parla dei numeri sacri, e prendete il numero sette, voi troverete che il numero sette ricorre in tutte le esperienze religiose dell’uomo: anche in quelle che noi chiamiamo esperienze religiose dei primitivi, per esempio gli sciamani della Siberia - è un fenomeno che viene studiato molto attentamente, perché contiene delle grandi verità... -. Lo sciamano, quando sale sul suo albero - l’albero ha sette tacche, sette segni incisi -, quando giunge al settimo segno riceve la rivelazione della divinità, riceve le risposte che si attende da questa sua ascesa verso l’alto. Poi abbiamo i sette doni dello Spirito Santo. Il numero sette è il numero della completezza, che non viene raggiunta astrattamente per una combinazione di concetti, ma attraverso l’esperienza dell’uomo la nostra coscienza scopre che la realtà è costituita dal sette. E’ il numero della pienezza divina e umana.

L’invisibile non manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità; il divino manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità che si manifesta. Tre più tre fa sei, più uno... E chi è quest’uno? E’ l’uomo, che nel mondo del visibile è il punto in cui tutta la realtà invisibile si compendia e si esprime. Ed è l’uomo che deve - attraverso la sua attività di coscienza, di pensiero, di meditazione, attraverso il suo impegno religioso - scoprire e il visibile e l’invisibile. Questa è la missione dell’uomo.

L’aspetto non manifesto della divinità lo possiamo esprimere molto vagamente con dei vocaboli umani. L’aspetto manifesto è costituito dal tre, cioè dalla potenza: quando diciamo e chiamiamo Iddio onnipotente. Poi è costituito dall’amore, poi è costituito da una volontà che è libertà. Stamattina noi leggevamo qui un bellissimo testo di Gioacchino da Fiore : il succedersi di varie ere. L’era del Padre, che è il Vecchio Testamento, l’era del Figlio, che è l’era dell’amore. Nel Nuovo Testamento l’umanità - secondo questo grande uomo, Gioacchino da Fiore - si sta dischiudendo verso un’altra rivelazione, un’altra manifestazione del divino che è la volontà per la libertà. Quindi, il Padre è il Padre onnipotente, il legislatore, il sovrano, il re; il Figlio è il portatore dell’amore, della misericordia, della compassione; e lo Spirito Santo è colui che completa l’opera del Padre e del Figlio nell’apertura della nostra coscienza a una libertà, la libertà dei figli di Dio, dove l’amore trova la sua completezza e supera tutti i suoi limiti, dove la potenza paterna trova la sua piena manifestazione nel rispetto verso tutte le infinite creature che appaiono all’esistenza. E noi uomini, la nostra coscienza, siamo quell’uno che riceve questa rivelazione, la vive e la manifesta. E allora si ha la completezza della manifestazione religiosa e divina e spirituale nella storia degli uomini.

Ma parliamo dei sette doni. Noi, in Occidente, abbiamo perduto molte conoscenze. Per gli antichi l’uomo era composto di sette corpi; noi abbiamo molto semplificato. Cos’è l’uomo? E’ un animale che cammina eretto. E Cartesio ha detto: l’uomo è una macchina abitata dall’anima. Abbiamo la macchina, che è il nostro fisico, e il motore interno, che è l’anima. L’uomo è composto di anima e di corpo e noi abbiamo talmente generalizzato questo termine “anima” che non sappiamo più che cosa sia. Poi lo Spirito è cantato dal nostro linguaggio ... Quindi l’uomo è composto di due realtà, anima e corpo. Per gli antichi era composto di sette corpi ; era come una specie di corteo dove ci sono sette personaggi. C’è un personaggio, il vagabondo, che passa da un’osteria all’altra; se non è tenuto d’occhio, con facilità cade nel fosso, si smarrisce, oppure compie dei gesti irresponsabili. Poi c’è un’altra presenza in noi che si potrebbe chiamare il lavoratore, quello che fa, quello che compie delle azioni con grande passione; poi c’è un altro personaggio, che è lo studente, che si interessa, va a scuola, cerca di imparare, cerca di capire le cose della vita; poi c’è la madre, che accompagna questo corteo; poi c’è il magistrato, un giurista, un guerriero; poi c’è l’artista, un intellettuale, uno scultore, un poeta, un musicista; e infine c’è il prete.

Ecco, questi sono i sette corpi della nostra realtà umana: in noi c’è un corpo che è un po’ il briaco della compagnia, il vagabondo. Quante volte ci prende la mano il corpo! Si vorrebbe fare, intraprendere, poi viene la stanchezza; oppure se devo passare una bella giornata alle Stinche, questo signore, il corpo, reagisce al polline e comincia a starnutire, è la febbre del fieno: non si può mai disporre pienamente del nostro corpo. Poi c’è la nostra intelligenza che ci fa conoscere le cose, vogliamo sapere il perché dell’esistenza dell’uomo, il perché di una cosa, come è costruita una casa, come si fa un’operazione matematica, come si chiamano le stelle del cielo. Tutte queste cose le vogliamo sapere: è la parte della nostra ragione che non crede, della ragione che vuol sapere le cose, capire le cose. Poi c’è anche una parte di noi che nel corteo, ho detto, è la madre, la misericordia, l’amore, la protezione della vita, la parte del nostro essere che ci porta a guardare con grande affetto e simpatia tutte le manifestazioni della vita, a difendere la vita, a proteggere la vita, a sostenere la vita. E, infine, ci sono altri tre personaggi: uno, vi ho detto, può essere il magistrato, l’uomo di legge, oppure un militare, un guerriero, ed è la parte del nostro essere che ci porta a organizzare, a dare una gerarchia alle nostre attività, un ordine alle attività del corpo, alle attività della mente, alle nostre attività emotive. E poi c’è un’altra parte del nostro essere che, vi ho detto, è l’artista: è la parte del nostro essere che capisce, per un movimento incomprensibile e inspiegabile, il senso delle cose, oppure che, improvvisamente, sente la bellezza di un tramonto, di un’alba, di un fiore, e le esprime in forme di arte perfetta; cioè in noi c’è l’artista, è la parte più mutevole del nostro essere perché può essere perduta, repressa. E infine in noi c’è il prete, il sacerdote, che è la parte del nostro essere che capisce il significato profondo dell’esistenza. Al termine dei sette doni c’è la sapienza, alla base c’è Dio. Tutto questo ci deve rendere stupefatti e deve dare alla nostra vita un senso di responsabilità di fronte a tutta l’esistenza, alla nostra esistenza personale e all’esistenza di tutti gli altri esseri. Ascendendo questa scala di sette gradini si riesce a comprendere il senso dell’esistenza, perché il significato del nostro esistere è il significato dell’esistere di tutti gli altri esseri.

Io mi sono domandato molte volte: che cos’è avvenuto di tutte queste cose? Nelle cerimonie del battesimo, per esempio (ieri abbiamo battezzato un bambino), vengono toccati dei punti del corpo: tre punti, la nuca, la fronte, il cuore che, secondo tutta la tradizione e orientale e occidentale, sono i tre centri sottili che, quando si risvegliano, mettono l’uomo a contatto con delle forme di conoscenza differenti. Il cristianesimo si è sempre interessato soltanto di questi tre centri superiori. Non si è mai interessato dei centri inferiori. Per esempio, tutto l’induismo, nella sua pratica dello yoga, comincia dal centro più basso, poi mano a mano sale e giunge ai tre centri superiori. Il cristianesimo si è sempre interessato di sviluppare questi tre centri superiori; e si è pensato che sia questa una delle differenze per l’impostazione della meditazione cristiana in confronto alle altre meditazioni, perché quando si sviluppano i tre centri superiori gli altri seguono inevitabilmente l’ordine di armonia.

Ma io mi sono domandato: cosa è avvenuto nel Cenacolo in quegli uomini? Vi do una spiegazione che è mia, quindi non siete per niente obbligati a seguirla. Ma, cerco di indovinare perché, ordinariamente, davanti a questi misteri religiosi, a queste immagini meravigliose, ci abbandoniamo, così, a una contemplazione esteriore, oppure ci accontentiamo di spiegazioni tradizionali che non ci permettono di penetrare il mistero; non è che io voglia spiegare il mistero, ma voglio darvi delle indicazioni che, per me, sono abbastanza ragionevoli per poter capire quello che è avvenuto nella coscienza di quegli uomini nel Cenacolo. Ché prima della Pentecoste Pietro era un pavido, gli altri erano, anche loro, molto legati alla loro umanità. Improvvisamente da quegli uomini scaturisce l’annuncio della Parola e scende nel cuore degli uomini e trasforma tutto l’Occidente. Deve essere avvenuto qualcosa.

Io penso sia avvenuto questo: lo Spirito, discendendo dall’alto, ha preso possesso di quegli uomini nei tre centri. Cioè, del senso del sacro, e hanno raggiunto la sapienza, hanno capito il perché dell’esistenza e quindi hanno compreso con intensità di vita e di partecipazione - non di spiegazione, ma di partecipazione - quella realtà portata da Cristo sulla terra e che loro avevano vissuto, alla quale avevano partecipato, ma che non avevano ancora compreso. Hanno capito che Cristo iniziava una nuova era per la coscienza umana, l’era dell’amore. Poi di loro è stato preso possesso anche dell’altro centro, dell’intuizione, non più abbandonata a improvvisazioni di momenti di particolare emozione, ma diretta verso la comprensione di quel mistero che era stato rivelato e che essi avevano compreso con la loro esperienza. Poi quel personaggio che vi ho descritto come il portatore dell’organizzazione, della gerarchia, e nel lavoro nostro personale e nel lavoro di società (il magistrato, n.d.r.), anche questo è stato preso e trasformato con violenza dallo Spirito Santo, perché doveva nascere una nuova società, perché l’uomo non è mai riuscito a creare una società e anche dentro la Chiesa non siamo mai riusciti a creare quella nuova società che era annunciata da Cristo.

Era necessario un lavoro in serie, affidando a ciascun operaio la produzione di una determinata parte dell’opera e organizzandola entro tempi sufficientemente brevi. Questa è una capacità organizzativa che abbiamo noi uomini, che parte da noi uomini e che è un prolungamento della nostra ragione, della nostra intelligenza nella vita. Così, quando organizziamo la nostra vita, noi cerchiamo di prevedere tutto ciò che ci può capitare durante la giornata e incanaliamo in un certo ordine la nostra giornata. Quando poi viviamo in società, il responsabile della società ha una particolare immagine dell’uomo e vuole che gli uomini corrispondano ad essa nella vita sociale, imitino questo modello che lui ha dell’intelligenza dell’uomo: un militare, davanti a un esercito, ha una particolare visione del soldato e vuole che il soldato imiti questa idea che lui ha del soldato.

Nel cristianesimo le cose non sono così: non è l’uomo che crea la società, ma è lo Spirito Santo che crea la società. E la Chiesa non è creata dagli uomini, ma è creata, alimentata e fecondata dallo Spirito Santo. Quando Cristo dice a Pietro: “Tu sei pietra e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” - vi ho detto altre volte che chi edifica la Chiesa non è Pietro, né il Papa, ma il Cristo -, dicendo: tu sei pietra, Cristo prende un simbolo religioso che è antichissimo quanto è antica l’umanità; è forse il primo simbolo dell’umanità religiosa: la pietra . E la pietra cos’è? Cosa rappresenta? Rappresenta la Grande Madre. Quando i primi cristiani chiamarono la Chiesa “Madre”, si riferivano a questa esperienza profonda. Cioè la Chiesa è quella struttura duttile e malleabile come l’utero della donna quando porta avanti un germe, un germe che ha accolto. Questo organo femminile aumenta mano a mano che il germe si sviluppa. Quando poi il germe ha raggiunto, nei nove mesi, la sua piena maturazione, lo lascia. Questa è la struttura della Chiesa.

Mi direte, non è così. Non è così perché noi uomini faticosamente arriviamo a liberarci da noi stessi. Perché se Dio nella sua manifestazione visibile è il potere, è un potere differente dal potere di noi uomini. Confrontate l’onnipotenza di Dio con il concetto che noi abbiamo di onnipotenza. Non corrisponde. E’ un’impotenza. Ve lo accennavo per Natale, quando noi veneriamo nel Fanciullo la manifestazione suprema della divinità. In questa immagine, in questa realtà noi non facciamo altro che dire che l’onnipotenza di Dio di fronte alle nostre onnipotenze e potenze umane è una impotenza, una non potenza. Ma questo lo abbiamo dimenticato proprio nella nostra prassi religiosa, perché ci siamo abbandonati senza distinguere chiaramente quella che deve essere la realtà cristiana da quella che è la realtà umana.

Gli uomini sono portati a creare delle strutture mentre la Chiesa, essendo opera dello Spirito Santo, è come il seno di Maria santissima, che accoglie la parola di Dio e cresce mano a mano che questa Parola cresce nel suo grembo. E allora le strutture dure, nella Chiesa, sono assolutamente un’opera diabolica, un’opera antispirituale, un’opera che la cristianità viveva in un dato momento, che non è più aperta alla fecondazione dello Spirito, ma si abbandona a quelle forze che vengono dal basso; cioè l’uomo cattolico, l’uomo di un’altra Chiesa, non è più l’uomo cristiano, ma un uomo puramente umano e allora si hanno delle durezze, si hanno quelle strutture potenti e pesanti che abbiamo portato ad esempio e che ora sogniamo e aspiriamo a superare, se riusciamo ad accettare la realtà che in ognuno di noi c’è lo Spirito Santo in una forma particolare e differenziata da tutte le altre forme.

Questo volevo dirvi. E cos’è avvenuto negli apostoli? Dio ha preso possesso di queste capacità di uomo e ha dato loro una saggezza divina, agli apostoli ha dato un’intuizione divina e una capacità di organizzazione divina. Per noi la situazione è differente: noi dobbiamo raggiungere lo Spirito Santo attraverso un faticoso cammino, lungo la vita terrena; cammino di riordinamento di tutte quelle parti che compongono il nostro essere e, una volta raggiunto questo riordinamento, possiamo sperare che avvenga in noi quella folgorazione che, imprevista e inattesa, si è compiuta negli apostoli. E allora anche il numero sette, anche i nostri sette corpi saranno unificati da questa fiamma che discende sul nostro capo e che tutto unifica, tutto illumina, tutto trasforma. E saremo in mezzo agli uomini delle creature che portano il mistero totale, non solo il mistero divino ma anche il mistero dell’uomo, rivelandone la compostezza, la pace, la luce, la creatività, l’armonia, l’equilibrio, l’amore, la pietà, la saggezza, che non nascono dall’uomo ma da Dio. In noi nascono, vi dicevo, come conquista, conquista lenta, accanita, tenace, ardente, che ci accompagna per tutta la vita.

Anche noi siamo in cammino verso la nostra Pentecoste, verso la presa di possesso di quella fiammella che è discesa su di noi e che discende continuamente su di noi, che è lo Spirito Santo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Allora - vedi Carolina - riusciamo a ordinare il corteo di quei sette personaggi... sanno dove vanno e, quando scopriranno dove sono diretti, capiranno che sono diretti verso la luce, cioè alla visione completa e illuminante di tutto il mistero e della loro vita e delle vite degli altri, e dell’esistenza attuale e dell’esistenza futura. Saremo delle persone che capiscono, che comprendono, e in conseguenza di questa comprensione e di questa saggezza raggiunta, ci comporteremo come creature illuminate e santificate dallo Spirito Santo.



1) Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, domenica 6 giugno 1976 (Domenica di Pentecoste), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 157-166.undefined
Venerdì, 02 Giugno 2006 20:35

La solidarietà di Dio (Alex Zanotelli)

"Passai vicino" - a te dice il Signore parlando ad Israele schiavo in Egitto - "ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue…". (Ez 16) E’ il Signore che si accorge del grido degli schiavi forzati a costruire i palazzi imperiali del faraone.

Dialogo nella tradizione cistercense
Per vivere in comunione
di Zelia Pani



Il valore pedagogico del dialogo nella formazione iniziale e in quella permanente come strumento di relazione tra le persone e di costruzione di una visione comune in funzione comunionale.

“Perché Possa vivere e crescere nell’unità, ciascuna comunità necessita di una visione comune della vita monastica”; in caso contrario, le persone che vivono in monastero potrebbero avere, del proprio esserci, ognuno un’idea diversa e quindi crearsi un cammino “separato”, vivere una propria vita e non contribuire efficacemente a creare un contesto comunitario generatore di vita. Lo scrive da Roma l’abbadessa madre Rosaria,ocso (ordine cistercense della stretta osservanza) in un articolo pubblicato sul Bulletin de l’A.I.M. (Alliance Inter Monastères), 84/2005, 43-50: un numero monografico su L’art de gouverner, nel quale il ministero dell’autorità al servizio della comunità è considerato secondo svariati aspetti.

Il tema sviluppato da madre Rosaria, Comunità in dialogo, la visione comune: un’autenticità vissuta insieme, propone una riflessione certamente estensibile, con le eventuali varianti carismatiche, anche a qualsiasi comunità religiosa che voglia realizzarsi come espressione della Chiesa-comunione.

A tutte, infatti, si attaglia l’osservazione del fatto che – scrive l’abbadessa – difficilmente la frammentazione dei progetti e dei comportamenti risulta attraente presso i giovani e le giovani chiamati/e alla vita consacrata in monastero, provenienti per lo più da un mondo rattristato dalla solitudine e chiuso in modo più o meno egoistico nell’individualismo; né può essere fonte di gioia e di vita nuova per le stesse comunità in atto.

In particolare, tuttavia, l’accento è posto nella riflessione di m. Rosaria sulla realtà da lei stessa vissuta nel suo autorevole ruolo: “Una riscoperta della vita cenobitica benedettina-cistercense, secondo la quale l’itinerario verso Dio si compie nella comunità e attraverso la comunità, sacramento di Cristo salvatore, avrà un impatto positivo sulla gioventù d’oggi.

COSTRUIRE CON SAPIENZA

Lo stile formativo cistercense – che conferma nell’ocso la sintonia dei suoi padri «con ciò che il concilio ha chiamato una “ecclesiologia di comunione”» - punta per ciascuna comunità sul dovere di costruire la propria visione comune su tre punti specifici: “l’insegnamento dell’Abate, fondato sulla tradizione, nel senso vero e bello del termine, costituito da tutto ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto, ossia il Vangelo, la regola, la dottrina dei Padri, che l’insegnamento attuale dei capitoli generali, il magistero della Chiesa, la storia e l’identità particolare della comunità di appartenenza; la riflessione e il dialogo, mediante i quali tale insegnamento viene assimilato e integrato in un criterio che determina le decisioni concrete della nostra vita qui e ora, in modo tale che la tradizione sia una risorsa e non un ostacolo; un ascolto colmo di saggezza di ciò che forma la realtà storica nella quale siamo inseriti. Che cosa ci viene chiesto qui e ora? Come ne integriamo il contenuto nella nostra tradizione viva? Il nostro carisma quale risposta dà alle sfide concrete che oggi ci vengono lanciate?”

A questo punto l’abbadessa ritiene di dover segnalare un possibile equivoco e propone di distinguere tra visione comune e ideologismo: “Nell’ideologismo si prende un’idea, dunque un particolare della realtà e lo si assolutizza fino a farne la chiave interpretativa dell’intera realtà”: si tratta – e qui richiama anche il pensiero dell’Abate generale dom Bernardo Olivera – di una forma di violenza sulla realtà, di un’esagerazione che si regge soltanto a prezzo di innumerevoli censure della realtà, come dimostra la storia delle ideologie dell’ultimo secolo.

Ma la verità - prosegue – “non è un’idea spuntata nella nostra mente. Non v’è che una sola verità assoluta e universale, a partire dalla quale anche il minimo frammento di realtà può essere accolto e compreso: Dio. Non un dio-idea, ma il Dio vivente, la santa Trinità fattasi palpabile nell’umanità di Cristo. Attorno a lui, per la forza dello Spirito siamo uno, siamo la Chiesa. Ed è convertendoci al suo modo di pensare e di vedere le cose che giungeremo a una visione comune”.

UNO STRUMENTO NECESSARIO

Il pensiero che m. Rosaria esprime trova riscontro – ella stessa scrive – sul documento Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica/2002, del quale anzi riporta l’intera parte centrale del n. 18. in tale sezione infatti la CIVCSVA pone al centro dell’itinerario di rinnovamento, cui tutte le comunità religiose sono tenute, il dialogo: il dialogo in funzione formativa, perché si possano conoscere e valorizzare le persone nelle loro doti umane, sociali e spirituali, e discernere “in esse i limiti umani che chiedono il superamento nonché le provocazioni dello Spirito che possono rinnovare la vita del singolo e dell’istituto” (RC 18); e il dialogo comunitario che porti in funzione comunionale ad “accogliere ed integrare i diversi modi i vedere e sentire “ (ivi) .

Il dialogo appare così - prosegue l’articolo - supremamente necessario a causa della grande differenza nell’educazione, nella cultura e nella corrente di pensiero ispirativa dei giovani nel mondo d’oggi, globalizzato e livellato in superficie ma privo di una cultura fondamentale omogenea; dove il Vangelo non è più un punto di riferimento e le medesime parole non hanno identico significato, mentre in monastero è indispensabile che le parole Dio, virtù, umiltà, fede, carità, silenzio, obbedienza… - e il contenuto che noi attribuiamo loro abbiano il medesimo senso.

La necessità odierna di un confronto continuo è perciò evidente: “Parlare, esprimersi per identificare il valore delle parole, discernere ciò che è buono e vero da ciò che non lo è, risalire dalle parole ai principi, dai principi al pensiero che li determina, e ancora più lontano ai sistemi di pensiero e alle esperienze dalle quali le parole sono sgorgate”.

Il dialogo che lo stesso RC qualifica formativo si riferisce - precisa m. Rosaria - al tempo della formazione iniziale quando la sua funzione pedagogica è più importante e durante la quale il dialogo avviene in primo luogo col formatore. “In monastero la Parola incarnata, Gesù, si incontra anzitutto nel rapporto privilegiato con colui che esercita per noi la paternità spirituale, e col quale viviamo l’apertura del cuore”.

È pur vero che ultimamente l’espressione tradizionale di paternità spirituale è stata a mano a mano abbandonata per far posto a quella di accompagnamento spirituale: un cambiamento di vocabolario che è spia di una profonda modificazione dell’intima sensibilità comune, passata “da qualcuno che si trovava davanti a me a qualcuno che si trova di fianco a me”.

Tuttavia nella tradizione monastica, benché il termine accompagnamento sembri più adatto alla mentalità contemporanea, il linguaggio filiale rimane quello che traduce in modo più completo e incisivo la realtà della relazione tra formatore e formando/a . Infatti “c’è qui in gioco un impegno responsabile e libero che ha caratteristiche molto diverse da quelle di una relazione semplicemente fraterna. Per il novizio, prendere liberamente la decisione di rinunciare alla propria sufficienza e autonomia è riconoscere che soltanto attraverso la mediazione di un altro potrà emergere la grazia dello Spirito Santo. San Benedetto considera l’apertura del cuore come l’apertura al Signore stesso. I testi della Scrittura che egli cita a tal proposito dicono esplicitamente che il fondamento di tale relazione è la fede. L’atteggiamento filiale consiste realmente in questo: aprire progressivamente il proprio cuore per ricevere una parola, credendo che tale atto esprime l’apertura alla stessa verità che è Cristo”.

In secondo luogo – precisa m. Rosaria – “il dialogo si vive in gruppo, tutti i fratelli o le sorelle con il formatore (nel noviziato e nel monasticato, da noi, l’incontro è settimanale). All’inizio, lo scambio nel dialogo tra i giovani verte su ciò che si legge e si interiorizza riguardo alla vita monastica, le sue osservanze, i suoi valori e anche l’esperienza che ognuno ha fatto sia dei valori che del modo nuovo di vivere”. E si nota ben presto – prosegue esemplificando – che quando si scambiano idee il dialogo si ferma al livello teorico, si vede che rimane una distanza tra ciò che si è capito e ciò che è stato vissuto. Così con l’aiuto del maestro o della maestra delle novizie i giovani prendono coscienza delle contraddizioni esistenti in se stessi; ognuno scoprirà le proprie incoerenze e sperimenterà alla luce della parola del Signore la dinamica di conversione che il dialogo può provocare portando alla ricerca della verità: sul piano del pensiero, su quello dell’autenticità di vita e di quell’impegno comune che conduce a scoprire “una verità più grande di quella che ciascuno può trovare cercando autonomamente”.

IL DIALOGO COMUNITARIO

Non c’è dubbio che anche il dialogo comunitario sia formativo, quantunque abbia luogo in un campo di indagine più ampio come la partecipazione nel consiglio dei fratelli al governo dell’abate, o più spesso perseguendo altre finalità, ad esempio per giungere a una decisione in merito a questioni concrete mediante una semplice riflessione interpersonale.

Ma ciò non è ancora il vero e proprio dialogo monastico, finalizzato non alla messa in comune di qualcosa o alla conoscenza reciproca o a uno scambio qualsiasi di idee, ma a qualcosa di più profondo che riflette il senso del dialogo ecclesiale.

“Nella Chiesa il dialogo non è un dibattito democratico e tanto meno uno scambio in vista di una migliore conoscenza psicologica. Né per crescere nel dialogo è sufficiente essere generosi. La generosità non coincide con la capacità di comunicare, di ascoltare, di collaborare. Il dialogo ecclesiale, strumento di ricerca della verità è molto diverso, sia nella teoria che nella pratica, dal dialogo democratico dove tutte le idee vengono non solo rispettate ma ritenute ugualmente valide: tutto può essere buono, tutto possibile. Nel dialogo ecclesiale accoglienza e rispetto sono dovute a ogni persona e a ogni cammino personale sincero e autentico. Ma non tutte le idee sono uguali: occorre valutarle attentamente una per una, col rispetto dovuto alla verità che si conosce e che si cerca. Riflessione, dominio di sé, umile consapevolezza nei valori nei quali si crede, apertura all’altro che è diverso, capacità di ascoltare con pazienza, simpatia e intelligenza…”.

INCONTRARSI ATTORNO A GESÙ

L’elenco di quanto sia necessario per un dialogo comunitario fruttuoso sarebbe ancora lungo, ammette m. Rosaria; ma ciò che ella afferma essere indispensabile è “mantenere la presenza dello stesso atteggiamento di fede di cui si è detto per il dialogo nella formazione iniziale: è la stessa relazione sacramentale che si estende fino all’ultimo dei fratelli e delle sorelle, come giustamente esige s. Benedetto: “Che i fratelli si obbediscano scambievolmente”. Se manca tale indispensabile condizione, la fede, neppure le più belle idee porteranno frutti di conversione.

Un clima che avvolge totalmente la vita comune orientata con costanza all’autenticità della comunione, quasi di un reale modus vivendi sempre in atto: è ciò che si intuisce dietro le parole dell’abbadessa cistercense, la quale sottolinea il fatto che il dialogo in comunità “è un momento di incontro dove Gesù è veramente presente. Noi ci raduniamo nel suo nome, siamo la sua Chiesa e cerchiamo il suo pensiero e la sua volontà su di noi. Apprendiamo ad ascoltare e a comunicare a costruire la visione comune e l’unità, non di rado anche attraverso un cammino di riconciliazione.

Impariamo a discernere le situazioni e le difficoltà, sapendo tutti che dobbiamo compiere ogni sforzo per amarci gli uni gli altri; il più difficile infatti è riconoscere che se io faccio personalmente tale sforzo anche l’altro sta facendo il medesimo sforzo. E la fede nello Spirito che anima me anima che lui, poiché credere nell’amore dell’altro si fonda sul fatto di essere la Chiesa, il corpo del Signore”.

Infine, il dialogo comunitario rimane sempre un mezzo di ricerca della verità a più livelli: “Verità di se stessi: correzione fraterna, revisione di vita, confessione di mancanze personali, richiesta di perdono; verità del cammino concreto della comunità mediante scambio di idee, consiglio dell’abate in verità e umiltà nello spirito della regola e quando è necessario come decisione mediante voto; ricerca dello sguardo di Dio, del pensiero di Cristo e della sua Chiesa, della sua volontà per la nostra comunità, e il nostro ordine in questo momento storico della Chiesa e del mondo”.

Ecco perché - conclude m. Rosaria - occorre un cuore semplice e disponibile, che si lasci formare dal Signore mediante il suo Spirito, e perché unica nostra premura deve essere quella di divenire discepoli, persone mature e pacificate, capaci di ascoltare, di apprendere, di meravigliarsi.

Nella vita ci sono tanti motivi per scoraggiarsi, difficili da comunicare agli altri, ma che con il passare del tempo diventano dei veri e propri fardelli che si insediano nella psiche dell’individuo. Una persona così bloccata ha bisogno del sostegno di un contesto relazionale comprensivo. Grande importanza ha in questo la comunità.

Vi sono delle partenze che appartengono alla categoria della fuga, altre che conducono a una nuova nascita: si lascia “l'uomo vecchio per trovare un uomo nuovo”. la cura analitica fa parte di queste partenze costruttive. ma il viaggio è disseminato di trabocchetti, e quel che si scopre non è necessariamente quel che si cercava…

Mercoledì, 24 Maggio 2006 02:28

Ecumenismo spirituale (Gianfranco Brunelli)

Ecumenismo spirituale
di Gianfranco Brunelli


Il movimento ecumenico vive oggi una condizione di rapida trasformazione. Luci e ombre si bilanciano. Accanto ai dialoghi teologici e a una ricezione maggiormente condivisa, il movimento ecumenico ha bisogno di una nuova motivazione fondata sullo Spirito, cioè di una rinnovata spiritualità dell'ecumenismo.

È questo il giudizio che il card. w. Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, ha espresso aprendo l'Assemblea plenaria (Roma, 2-5.11.2003; Regno-doc. 21,2003,653). L'assemblea biennale del Pontificio consiglio è l'occasione di verifiche e di nuovi progetti (cf. Regno-att. 4,2001,127; 4,2002, 132). Allo svolgimento dei lavori concentrati sul tema della spiritualità di comunione, il card. Kasper ha affiancato anche un suo importante intervento dottrinale sul «carattere teologicamente vincolante» del decreto conciliare sull' ecumenismo Unitatis redintegratio (cf. Regno-doc. 21,2003,649 ss), conferendo sempre più al suo dicastero quel ruolo anche dottrinale che il concilio Vaticano II intese dargli.

Nel suo messaggio (3 novembre 2004), Giovanni Paolo II ha riconosciuto, nel quadro degli importanti risultati conseguiti, le presenti difficoltà e ha ribadito l'irreversibilità della scelta ecumenica: «Certamente, la via ecumenica non è una via facile. A mano a mano che progrediamo, gli ostacoli sono più facilmente individuati e la loro difficoltà è più lucidamente avvertita. Lo stesso traguardo dichiarato dei vari dialoghi teologici, in cui la Chiesa cattolica è impegnata con le altre Chiese e comunità ecclesiali, sembra in certi casi farsi persino più problematico. La prospettiva della piena comunione visibile può a volte ingenerare fenomeni e reazioni dolorose in chi vuole accelerare a tutti i costi il processo, o in chi si scoraggia per il lungo cammino ancora da percorrere. Noi tuttavia, alla scuola dell'ecumenismo, stiamo imparando a vivere con umile fiducia questo periodo intermedio, nella consapevolezza che esso resta comunque un periodo di non ritorno. Vogliamo superare insieme contrasti e difficoltà, vogliamo insieme riconoscere inadempienze e ritardi nei confronti dell'unità, vogliamo ristabilire il desiderio della riconciliazione là dove esso sembra minacciato da diffidenze e sospetti. Tutto questo può essere fatto, all'interno della stessa Chiesa cattolica e nella sua azione ecumenica, soltanto partendo dalla convinzione che non vi è altra scelta, poiché "il movimento a favore dell'unità dei cristiani non è soltanto una qualche 'appendice', che si aggiunge all'attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione" (Ut unum sint, n. 20; EV 14/2703)».

Aporie e nuove questioni

La crescita di consapevolezza ecumenica, tradotta nelle diverse Chiese - come hanno dimostrato i rapporti presentati per l'occasione sulla pratica spirituale comune tra le conferenze episcopali e i singoli organismi di dialogo e la diffusione nelle Chiese locali della settimana di preghiera per l'unità - indica un progressivo approfondimento e un'ampia condivisione a livello di popolo di Dio. La voce comune dei cristiani ha anche conosciuto nel corso del 2003 un'inattesa espressione in occasione della crisi irachena sui temi della pace e del diritto internazionale, con una inedita adesione al magistero del papa su questo punto.

Accanto alla crescita del movimento ecumenico si sono sviluppate anche tendenze di segno opposto, tali da suscitare nuove divisioni in seno alle Chiese: «Se da una parte si perviene a vincere gli antichi contrasti... dall'altra insorgono nuove divergenze, per la maggior parte dei casi in materia etica come I' aborto, il divorzio, l'eutanasia, l'omosessualità. Analogamente i problemi etnici, sociali e politici hanno spesso l'effetto di causare divisioni». Le tensioni tra le Chiese ortodosse autocefale, le nuove divisioni all'interno della Comunione anglicana, il proliferare di sette provenienti dalle comunità di tradizione riformata, le resistenze esistenti nella Chiesa cattolica nuocciono al dialogo.

Accanto a queste difficoltà di lunga durata, Kasper annota anche tre nuovi rischi: una pratica sempre più diffusa di «ecumenismo selvaggio»,frutto di superficialità, indifferenza, impazienza; la tentazione a un'impraticabile ripiegamento di tipo confessionale; infine, il proliferare delle sette con il loro «esclusivismo fanatico della salvezza». In questa situazione il rapporto tra teologia ecumenica e missionologia ha bisogno di essere ripensato. Sul piano delle relazioni con le chiese ortodosse, Kasper annota il cambiamento di clima nei rapporti con la Chiesa ortodossa in Grecia, Bulgaria e Serbia, mentre rimangono «intense e cordiali» le relazioni con il Patriarcato ecumenico. Con la Chiesa ortodossa russa i rapporti non sono peggiorati rispetto al 2001. Le questioni polemiche aperte sono le stesse esplose dopo il 1989: uniatismo, proselitismo, identificazione tra fede, cultura e nazione, libertà religiosa; mentre i problemi teologici circa la comprensione della Chiesa (autocefalia, territorio canonico, comprensione del termine Chiese sorelle) hanno mostrato nuovi approfondimenti e nuove difficoltà. Kasper auspica che tra Roma e Mosca si stabilisca una sorta di «codice di comportamento» e una collaborazione più stretta sui temi internazionali (Europa, Medio Oriente, pace).

Nell'insieme delle comunità ecclesiali occidentali le relazioni segnano passi significativi nel processo di ricezione della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999), mentre nuove difficoltà sono sorte dopo la pubblicazione da parte cattolica della dichiarazione Dominus Iesus (2000) e dell'enciclica Ecclesia de eucharistia(2003). Le polemiche sul Kirchentag di Berlino (giugno 2003) hanno confermato le difficoltà.

I rapporti con la Comunione anglicana segnano un passaggio di grande difficoltà: emergenza di nuovi problemi in ambito etico e frammentazione interna alla stessa Comunione anglicana.

Il problema fondamentale con le comunità ecclesiali di tradizione riformata è quello di una diversa ecclesiologia che «conduce a diverse concezioni dello scopo ecumenico al quale si tende».Fino a quando non si saranno risolte le questioni ecclesiologiche è difficile immaginare passi ecumenici significativi. «Lo scopo ecumenico, dal punto di vista cattolico - ricorda Kasper - è la comunione piena e visibile nella fede, nei sacramenti e nel ministero gerarchico. Questa comunione, come mostra tra l'altro l'esempio delle Chiese orientali, considera una ricchezza la pluralità delle forme d'espressione delle diverse Chiese locali, a condizione che esse non comportino divergenze sostanziali. Da ciò si discosta il modello d'unità proposto dalla Concordia di Leuenberg (1973)».

Secondo tale modello, le Chiese confessionali adottano una forma di comunione ecclesiale che presuppone un consenso di principio circa la comprensione del Vangelo, pur lasciando sussistere professioni di fede diverse, Separate dal punto di vista confessionale e istituzionale, le Chiese sono in comunione per il pulpito e la santa cena, e riconoscono i rispettivi ministeri. In una diversa comprensione della comunione ecclesiale si motiva il no della Chiesa cattolica all'intercomunione.

Per Kasper è questa aporia che oggi condiziona il dialogo e che deve essere superata.

Spiritualità e modello trinitario

Da questa diversità è partita anche la riflessione di mons. Kurt Koch, vescovo di Basilea, a cui è stata affidata la relazione principale, intitolata: «Riscoperta dell' anima di ogni ecumenismo (Unitatis redintegratio, n. 8). Necessità e prospettive di un ecumenismo spirituale» (Regno-doc. 21,2003, 658).

Per Koch «chiarire la comprensione della Chiesa e dell'unità è oggi il principale punto alI'ordine del giorno ecumenico»; in secondo luogo «la ricerca di una comprensione della natura della Chiesa difendibile dal punto di vista ecumenico deve essere perseguita come un processo spirituale». A ciò corrisponde in primo luogo «il compito spirituale permanente, suscettibile di distinguere tra ciò che è divino nella Chiesa e ciò a cui essa può rinunciare... Come per la spiritualità cristiana nella quale la distinzione degli spiriti è centrale, così deve essere per la spiritualità dell' ecumenismo».

Accanto alla preghiera come sorgente e al dono dello Spirito, Koch ha indicato il modello trinitario dell'unità: «L'unità ecclesiale ed ecumenica è (...) fondata sulla comunione trinitaria (...). La Chiesa può essere un' icona della Trinità soltanto se essa concepisce la sua unità, anche in una prospettiva ecumenica, non come uniformità e certamente neppure come pluralismo disarticolato, ma - al di là del modalismo e del triteismo - come un'unità nella diversità e come diversità nell'unità. L'obiettivo del movimento ecumenico è e resta I'unità visibile, ma non come Chiesa unitaria».

La spiritualità ecumenica della comunione è a doppio senso di marcia. Nessuna Chiesa è così povera da non poter dare un suo contributo peculiare e nessuna Chiesa è così ricca da non avere bisogno di essere arricchita dai carismi di altre Chiese.

L'ecumenismo riposa ancora oggi sul reciproco riconoscimento del battesimo. Esso invita a una pedagogia della santità, ha ricordato Koch richiamando Martin Lutero, che ha qualificato il battesimo del cristiano come «il suo abito di tutti i giorni che egli deve sempre indossare». «Per questo motivo, se vivi in pienezza, entri nel battesimo, che non significa soltanto vita nuova, ma che agisce, inizia, incita».

Non si tratta dunque della conversione degli altri, ma della propria conversione, la quale presuppone la disposizione interiore a riconoscere in modo autocritico le proprie debolezze e mancanze. Entro tale atteggiamento di principio, suggerisce Koch, è bene misurare i passi che ciascuno può e potendo deve fare.

È sulla scorta di quest'ultima affermazione che va inteso anche il testo che il card. Kasper ha consegnato a L'Osservatore romano il 9 novembre, anticipando e aprendo la celebrazione del 40° del decreto conciliare Unitatis redintegratio (Regno-doc. 21,2003,649).

Nel testo di Kasper è chiara la volontà di segnare una ripresa forte da parte cattolica dello spirito conciliare, definito spirito ecumenico. Riproponendo la troppo trascurata tesi che il decreto sull' ecumenismo vada interpretato assieme alla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium e questa con quello, Kasper addita il compito di un approfondimento della ecclesiologia di comunione nella Chiesa cattolica. «Nella mutata situazione ecumenica - dice Kasper - noi abbiamo ogni motivo per far sì che Unitatis redintegratio sviluppi la sua vitalità tanto nella teologia quanto nella prassi».

(da Il Regno, 22, 2004)


Mercoledì, 24 Maggio 2006 02:17

Tracce femminili nell'Islam (Adel Jabbar)

Nel riflettere sulla condizione della donna nei paesi musulmani, tema oggi molto discusso, è importante saper esplorare i vissuti reali, dentro i quali le donne cercano di interpretare ed elaborare realtà e situazioni, consapevoli dei limiti che vengono loro posti, delle convenzioni e dei retaggi culturali che spesso le ostacolano, lì come del resto anche altrove.

A vent'anni dal concilio si celebrò un sinodo straordinario dei vescovi (1985). Il passo che riguarda il bilancio liturgico constata che il rinnovamento «è stato accolto con gioia e con frutto dai fedeli», ma sottolinea che ora bisogna puntare alla «partecipazione interiore e spirituale».

La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(seconda parte)
di Carlo Molari


4. La fede di Gesù: oggetto e dinamiche

Se ora ci chiediamo quale fosse l’oggetto della fede di Gesù, dobbiamo rispondere che Egli ha esercitato e suscitato la fede nella venuta del Regno di Dio e lo ha vissuto con fedeltà “sino alla fine”. Gesù ha creduto alla vicinanza di Dio e alla venuta del suo Regno.

Quando Gesù ha iniziato la sua attività pubblica lo ha fatto con la convinzione di poter avere successo e di ottenere un cambiamento nella vita religiosa del suo tempo. Poi progressivamente ha suscitato reazione negative e resistenze profonde. Allora ha riflettuto sul da farsi, si è confrontato con la Scrittura, ha pregato a lungo e ha coinvolto i suoi nella preghiera (prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare Lc. 9, 28). Infine ha deciso di continuare il cammino e di salire a Gerusalemme (cfr Lc 9, 51). Si convinse che per mostrare la verità del Vangelo annunziato, non gli restava altra possibilità che viverlo fino in fondo e attendere da Dio il segno della sua fedeltà. Fu quindi una necessità di carattere storico a convincerlo di “amare sino alla fine” (cfr Gv 13,1). Se non avesse consentito a Dio di mostrare la verità del Vangelo che egli aveva annunziato, tutto sarebbe finito con la sua condanna. Quale fosse poi il segno della conferma divina Gesù l’aveva dedotto dalla tradizione sapienziale (cfr Sap 2) e dagli scritti profetici in particolare dai carmi del Servo, dove si parlava della luce che il Servo avrebbe visto, delle moltitudini che l’avrebbero riconosciuto. Jon Sobrino nei primi anni ’90 osservava: “per strano che possa sembrare adesso, la scoperta del regno di Dio come ciò che è al centro della vita e dell’interesse di Gesù è relativamente recente, di poco meno di un secolo fa. Personalmente ritengo che tale scoperta sia stata la più importante negli ultimi secoli per la Chiesa e per la teologia, e le sue conseguenze si sono fatte notare in tutti i settori teologici fondamentali”. Applicando la riflessione alla chiesa attuale il teologo gesuita che opera in S. Salvador continua: “proviamo a farci, in via puramente ipotetica, la seguente domanda: sarebbe identica a quella che è ora la missione della Chiesa.., se Gesù pur essendo stato risuscitato dal Padre e pur essendo stato proclamato dogmaticamente vero Dio e vero uomo, non avesse annunciato il regno di Dio? La risposta è chiaramente no, ed è quanto dimostra la storia recente della chiesa”. (54)

Percorrere il cammino di fede di Gesù ci consente di entrare dentro alla sua spiritualità e proseguirla nel tempo. Ci consente soprattutto di continuare la sua missione. Non è indifferente per la missione della chiesa il fatto che Gesù abbia creduto nella venuta del Regno e l’abbia annunziata. La chiesa attualmente nella fede non annuncia semplicemente che Gesù è morto e risorto, ma che è morto per la fedeltà al Regno in cui credeva ed è risuscitato per la carica d’amore che la sua fede in Dio gli ha consentito di esercitare sulla croce. Per questo la chiesa continua ad annunciare il Regno di Dio che viene nella storia.

Walter Kasper per chiarire come in Gesù Cristo ci viene definitivamente mostrato non solo “ciò che Dio è per l’uomo, ma anche ciò che l’uomo è per Dio”, (55) tra le altre indicazioni offre anche quella relativa alla fede di Gesù. (56) Già precedentemente, aveva sostenuto che “la preghiera di Gesù ci esprime la sua fede e il suo amore… Nella sua obbedienza Gesù si svuota interamente per farsi riempire soltanto da Dio; nella sua fede e gli è il modo d’essere dell’amore di Dio. Gesù crede totalmente e quindi è totalmente pervaso dalla potenza di Dio e partecipa all’onnipotenza divina, un’onnipotenza d’amore”. (57) Jacques Guillet conclude il suo volume sulla Fede di Gesù con una formula molto efficace: “La fede che ci salva non è la nostra, è la fede di Gesù Cristo”. (58) Anche Sequeri ritiene che “è sul fondamento di quella fede, e nel suo esito nella risuscitazione di Gesù dai morti, che la nostra fede in lui realizza, per suo tramite, la comunione con Dio che ci libera dal male e ci introduce nella vita eterna di Dio”. (59)

Wilhelm Thüsing, concludendo lo studio sulla fede di Gesù, già citato, indica i molti possibili riflessi della figura di Gesù come credente, sulla teologia: “possiamo concepire l’attribuzione a Gesù della qualità di ‘colui che crede’ come cifra significativa indicante una realtà di fatto centrale della cristologia: il fatto cioè, che l’orientamento soteriologicamente così determinante del Gesù risuscitato verso Dio… viene fondato nella vita terrena di Gesù. Da questa enunciazione centrale della teologia cristologica va scorta sia la relazione della cristologia alla soteriologia,.. sia alla ecclesiologia, alla escatologia e alla storia della promessa dell’Antico Testamento”. (60)

Non possiamo qui articolare tutti i passaggi, ma credo non sia difficile valutare l’incidenza che una simile prospettiva può esercitare su altri ambiti della teologia. (61)

5. Conclusione: una nuova tappa della spiritualità cristiana.

Per molti secoli la comprensione della spiritualità di Gesù è stata impedita da pregiudizi teologici. Può sembrare sorprendente il fatto che per molti secoli la riflessione su Cristo e la pietà cristiana siano state deformate da limiti così incidenti. La stessa interpretazione della morte di Gesù e della sua fedeltà all’amore “sino alla fine” è stata falsata dal presupposto che egli già conoscesse il suo destino.

Questo non ha certo impedito lo sviluppo di forme autentiche di spiritualità cristiana. Occorre ricordare infatti che la potenza della grazia è tale che anche attraverso modelli inadeguati riesce ad esprimere la luce e la grazia sufficienti a far crescere figli di Dio. Ciò che importa non sono i modelli attraverso i quali si interpretano le esperienze, bensì le offerte vitali accolte e le dinamiche messe in moto. È innegabile tuttavia che i modelli possono impedire alcuni sviluppi e in certe situazioni divenire ostacoli gravi.

Credo che la pietà cristiana oggi possa e debba subire una svolta notevole man mano che “tenendo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb. 3,1; 12,2) la comunità ecclesiale impara a percorrere il suo cammino di fede e ad assimilare i suoi criteri di scelta. Una fase nuova può aprirsi nella storia della teologia, della pietà e della spiritualità cristiana. Percorrendo il cammino di fede che Egli ha percorso non solo siamo in grado di “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (cfr Fil 2,5), di “avere cioè il suo pensiero” (cfr 1 Cor 2,16) ma anche di sviluppare e far fiorire nel nostro tempo virtualità del suo Vangelo non ancora espresse

Oggi siamo in grado di fare un notevole passo avanti verso la scoperta dell’autentica spiritualità di Gesù, di penetrare il segreto della sua preghiera, di cogliere in modo più profondo la portata della sua fedeltà al Regno di Dio e di capire meglio l’annuncio del suo Vangelo.

A questa possibilità corrisponde il compito di testimoniare l’esito salvifico della via tracciata da Gesù, l’efficacia del suo Vangelo, di mostrare, cioè, a quale ricchezza può condurre lo Spirito che il risorto continua a effondere su coloro che, anche oggi, vivono la sua Parola. Non possiamo tradire la responsabilità che grava sulla nostra generazione. È in gioco la sopravvivenza dell’umanità.


Note

54) Sobrino J., Gesù Cristo liberatore, Cittadella ed., Assisi 1995 pp. 185 s.

55) Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 297.

56) “La fede è sinonimo di salvezza dell’uomo.. La realtà della salvezza, così come ci è giunta in Gesù Cristo, non consiste in altro se non nel fatto che, in lui, Dio è penetrato nella situazione di non salvezza del genere umano e così ha segnato un nuovo inizio, ha creato un’alternativa. E non si tratta di un processo giocato al di sopra delle nostre teste, ma nella e attraverso l’obbedienza umana di Gesù, il quale si aprì interamente alla venuta del Regno di Dio, si svuotò completamente per lasciarsi riempire dell’esistenza di Dio. Così l’obbedienza di Gesù, la sua disponibilità a Dio e agli altri, è il modo d’essere che la salvezza assume concretamente nella storia… In ultima analisi questa non è altro che una riformulazione del termine «fede» biblicamente intesa… La fede è l’essere nella recezione e nella obbedienza” Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 299 (corsivo mio).

57) Id. ib., pp. 150 s.

58) Guillet J., La fede di Gesù Cristo, Jaka Book, Milano 1981 p. 179.

59) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a.c. p. 16.

60) Thüsing W., o. c., p. 265.

61) Per scelta mi sono limitato all’ambito cattolico. Ma non posso terminare questa breve esposizione senza ricordare Gerhard Ebeling. Il professore evangelico di Tubinga nello studio Gesù e fede (ZThK 55(1958) pp. 64 110; tr. italiana in Parola e fede, Bompiani Milano 1974 pp. 77-126) riconosce “che Gesù non può essere distanziato dalla fede da lui predicata. Egli si identificò talmente con essa, che non ne parlò espressamente, ma si impegnò a suscitarla negli altri” (ib p. 114). Wolfanrg Panemberg lo riassume in modo efficace: “Gesù è il credente per eccellenza, che si abbandona immediatamente all’avvenire divino. Gesù è «la quintessenza della fede», e la fede è «la quintessenza dell’opera di Gesù». In tal modo Gesù è per Ebeling il «testimone della fede». Ponendosi come nuova autocomprensione dell’uomo riallanciandosi a Gesù stesso, alla relazione cioè che corre tra Gesù e il Padre, la fede è difesa dal sospetto di essere «priva di oggetto».” Pannemberg ritiene che “Permane.. legittimo lo sforzo di Ebeling, tutto teso a mettere in rapporto la struttura della fede cristiana non solo con il messaggio di Gesù sulla prossimità di dio e del suo Regno, ma anche con il comportamento proprio, personale di Cristo” Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana Brescia 1974 (l’originale è del 1964) p. 257.

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