Religioso Marista
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La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(prima parte)
di Carlo Molari
Fino a qualche decennio fa i teologi cattolici non parlavano della fede di Gesù e, se qualcuno affrontava il problema, lo faceva per negare che Gesù nel suo pellegrinaggio terreno avesse esercitato la fede teologale. Si pensava infatti che Gesù godesse di una conoscenza immediata di Dio e in Dio di tutta la realtà creata, così da non poter esercitare la fede: la Visione glielo impediva. Alcuni giungevano a negarGli anche l’esercizio della speranza teologale. Gesù, che già possedeva la pienezza della grazia, non poteva attendere altro da Dio. (2) S. Tommaso in un primo momento sosteneva l’opinione secondo cui Gesù non avrebbe neppure avuto vere conoscenze sperimentali perché anch’esse erano infuse, poi cambiò idea, (3) ma a proposito della fede continuò a negarla con questa motivazione: “Oggetto della fede, come si è detto nella seconda parte (II-II q. 4 a. 1) è la realtà divina non vista (res divina non visa). Ora l’abito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dall’oggetto. Se dunque si toglie l’inevidenza dalla realtà divina, viene meno la fede. Ma il Cristo nel primo istante del suo concepimento ebbe piena visione dell’essenza di Dio... Dunque non ci può essere stata fede in lui” (4).
Tutti i manuali scolastici, fino oltre la metà del secolo scorso hanno ripreso fedelmente questa dottrina. Anzi alcuni teologi giunsero a conclusioni, a dir poco, strane. La scuola carmelitana di Salamanca, ad esempio, attribuì a Gesù la conoscenza di tutte le verità naturali al punto da pensare che egli “non sia stato soltanto il migliore dialettico, filosofo, matematico, medico, moralista o politico, ma anche musicista, letterato, oratore, artigiano, agricoltore, pittore, navigatore, soldato e così via” (5). Senza giungere a questi eccessi altri hanno sostenuto che Gesù fin dall’inizio della sua esistenza terrena, conosceva almeno tutte le cose che riguardavano la sua missione o tutto ciò che in qualche modo aveva relazione con la storia della salvezza.
In questa relazione vorrei mostrare come progressivamente i teologi sono giunti a parlare della fede di Gesù e indicare, in modo sommario, quali profonde conseguenze questo cambiamento ha nell’attuale riflessione sul cammino storico di Gesù, sulla fedeltà all’annuncio del Regno e sullo sviluppo della fede nei suoi discepoli.
Lo faccio in cinque punti: 1. Un po’ di storia recente. 2. Gli argomenti di coloro che difendono la dottrina tradizionale. 3. I riferimenti biblici e la coerenza dogmatica di coloro che parlano della fede di Gesù. 4. Alcune riflessioni sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche. 5. Alcuni riflessi nell’interpretazione dell’esperienza di Gesù e nella vita spirituale dei suoi discepoli.
1. Un po’ di storia recente.
Fino agli anni ’60 la teologia e il Magistero della chiesa cattolica attribuivano a Gesù un triplice modo di conoscere la realtà: la scienza beatifica, propria dei santi che godono della visione di Dio e in Lui conoscono tutte le cose, la scienza infusa, propria di alcune persone che, in vista di una particolare missione nella storia, in certe circostanze ricevono doni straordinari dello Spirito, e la scienza sperimentale, ottenuta con l'uso dei sensi e con la riflessione sulle esperienze quotidiane.
Forti resistenze a queste opinioni tradizionali apparvero alla fine del secolo XIX e agli inizi del sec. XX negli scritti dei ‘modernisti’. Nel Decreto Lamentabili (3 luglio 1907) il S. Uffizio condannava la loro dottrina riassunta in questa formula: “non è possibile conciliare il senso naturale dei testi dei vangeli con ciò che i nostri teologi insegnano riguardo alla coscienza e alla scienza infallibile di Gesù Cristo” (6). Condannata era pure l’opinione secondo cui: “il critico non può assegnare a Cristo una scienza illimitata, se non nell'ipotesi, che non è possibile concepire storicamente e che ripugna al senso morale, in cui Cristo abbia potuto avere come uomo la scienza di Dio e ciononostante non abbia voluto comunicare la cognizione di tante cose ai discepoli e alla posterità” (7). Un altro decreto dello stesso dicastero, il 5 giugno 1918, mostrava meno rigore sostenendo solo che si può insegnare con tranquillità (tuto doceri potest) l’opinione che “nell’anima del Cristo vivente fra gli uomini vi sia stata la scienza che possiedono i beati” (8). Ancora nell’Enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943) Pio XII affermava che Gesù, in virtù di “quella visione beatifica di cui godeva fin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina”, aveva un’esplicita conoscenza degli uomini che sarebbero appartenuti al suo corpo mistico in ogni tempo e in ogni luogo. (9) Nel 1965, quando già, come vedremo, era iniziato un cammino teologico in altra direzione, un teologo italiano scriveva con molta decisione: “la dottrina che insegna che l'anima del Cristo dal primo istante della sua creazione godeva della visione beatifica, è dottrina comune nell’ordinario e universale insegnamento della chiesa docente e nel pacifico possesso della fede della chiesa discente. Deve dunque ritenersi come dottrina cattolica, e perciò di fede divina, mentre l’opinione contraria è da ritenersi almeno «haeresim sapiens», se non addirittura come eretica” (10).
In questi ultimi decenni, però, si è accentuata sempre di più il divario fra coloro che continuano a difendere la posizione tradizionale, più o meno adattata alle nuove acquisizioni bibliche, e coloro che, invece, riconoscono in Gesù un’autentica vita di fede.
Già all'inizio degli anni '960 Karl Rahner, riportando la dottrina scolastica sulla coscienza umana di Cristo, osservava: “Agli orecchi di noi moderni, questa affermazioni suonano a tutta prima con un timbro quasi mitologico. Sembrano contraddire all'autentica umanità e storicità del Signore; paiono essere in contrasto a prima vista insanabile con il dato scritturale che notifica una coscienza in fase di graduale sviluppo in Gesù (Lc 2,52), che ci mostra un Signore in atto di dichiarare di non sapere nulla proprio su cose decisive in materia soteriologica (Mt 24,36; Mc 13,32), che ci addita un Gesù influenzato sin nell'intimo dalla spiritualità e dalla religiosità del suo tempo” (11). K. Rahner da parte sua ha attribuito a Gesù una certa conoscenza immediata di Dio, ma di tipo non concettuale e quindi una conoscenza irriflessa, che non si traduceva, cioè, in concetti ed era perciò compatibile “con una genuina esperienza umana”, con l’ignoranza e “con un’autentica evoluzione spirituale e religiosa” (12). Rahner ha così offerto gli elementi per superare la frequente tenenza ad attribuire caratteristiche divine alla natura umana di Gesù, che egli stesso considerava un residuo dell’eresia monofisita (13), e per compiere passi ulteriori. Egli stesso aveva partecipato alla pubblicazione di un volume, in cui un suo discepolo difendeva con argomenti articolati la fede di Gesù. (14) In uno scritto successivo riconosceva che la teologia tradizionale non dava risalto, come invece è necessario fare, al “fatto che Gesù fosse uno che credeva, sperava, cercava ed era tentato, uno che si arrendeva inevitabilmente di fronte alla incomprensibilità di Dio” (15). L. Malevez, richiamandosi al metodo e ai principi di K. Rhaner ne svilupperà le implicazioni, applicandoli al cammino di fede di Gesù. (16)
Negli stessi anni (1961) anche Hans Urs von Balthasar ha affrontato in modo diretto il problema della fede di Gesù. (17) Richiamandosi a M. Buber, (18) egli ha valorizzato la distinzione tra fede come atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, di cui Abramo era tipico rappresentante (partì senza sapere dove andava Eb. 11,8) e la fede dei cristiani, che si configurò ben presto come annuncio/accoglienza di un evento/verità da credere. Egli sostiene che il rapporto di Gesù storico con Dio non ha carattere beatifico, ma si esprime con un vero atteggiamento di fede che ha però un carattere singolare ed è accompagnato da una particolare conoscenza della sua condizione filiale e della sua missione. Egli riconosce che “questo atteggiamento prototipico è stato nel suo foro interiore così perfetto e quindi così inesprimibile che il designarlo con lo stesso termine in uso per l’imitazione che ne facciamo noi, rischia di sopprimere la distanza fra l’uno e l’altro” (19). In un tempo successivo, ammette la rilevanza della tradizione circa la visione beatifica, ma conclude che anche l’eventuale particolare conoscenza che Gesù aveva di Dio, in ordine alla sua missione, non gli impediva, anzi implicava l’esercizio della fede in Lui. (20)
I biblisti d’altra parte continuavano a mettere in luce che l’esistenza di Gesù come appare dai vangeli, è molto diversa da quella che i teologi descrivevano nelle loro manuali e nelle loro riflessioni. Egli, infatti, “cresceva in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52), ha cambiato opinione e non di rado ha assunto, come si è espresso Raymond. Brown “le idee inadeguate, anche erronee del suo tempo” (21).
2. Argomenti attuali in difesa della dottrina tradizionale
Nonostante le sollecitazioni dei biblisti e di molti teologi, la dottrina tradizionale ha conservato i suoi difensori. I teologi che oggi difendono la dottrina tradizionale hanno adattato gli argomenti alle acquisizioni bibliche. Nel 1982 la Pontificia Accademia di S. Tommaso dedicò una sessione al tema della fede di Gesù. Tutti, un biblista, un patrologo e un teologo sistematico, vi difesero la dottrina tradizionale. Gli atti sono stati pubblicati in un numero speciale della Rivista Doctor Comunis. (22)
Qualche anno fa Angelo Amato, allora professore di Cristologia all’Università salesiana di Roma, e ora Segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, ha pubblicato un’ampia recensione di un volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Trento sulla fede di Gesù. (23) Egli, contro l’opinione dei relatori, non solo esamina e confuta le ragioni di chi crede di poter attribuire a Gesù una vera fede, ma argomenta dettagliatamente a favore della visione beatifica di Gesù. Secondo la sua convinzione, “si possono ridurre a tre le ragioni che fondano questa visione misteriosamente beatifica nel Gesù terreno, prepasquale: essa è un’esigenza intrinseca dell’unione ipostatica; (24) è il fondamento della sua missione rivelatrice e redentrice; non appare, infine, lesiva della sua autentica umanità, né rende meno dolorosa la passione, che il Verbo ha pienamente vissuto «in sacramento humanitatis»”. (25)
Commentando l’episodio della trasfigurazione scrive: “La luce che è Gesù non è quella profetica, ma quella stessa di Dio, che si manifesta anche nella sua umanità. La categoria teologica della visione beatifica del Cristo prepasquale non sembra quindi del tutto inadeguata per la comprensione della coscienza che Gesù ha di essere nel Padre”. (26) Concludendo poi l’analisi dei testi biblici scrive: “Il regime di esistenza terrena di Gesù, così come viene presentato nel NT, non sembra quindi escludere l’ipotesi di una visione beatifica. Né tale conclusione pregiudicherebbe la realtà e l’impegno di sofferenza del Figlio nella sua passione e morte”. (27) Egli pertanto considera “aprioristico il rifiuto” da parte di molti teologi attuali, della “visione immediata e beata del Padre nel Cristo prepasquale”. (28)
Quanto alla natura della visione egli osserva: “questa conoscenza immediata di Dio è certamente atematica, ma non per difetto, bensì per eccesso. Essa, infatti, è intrinsecamente ineffabile, perché «extracategoriale» e «metaconcettuale». Supera cioè per la ricchezza e l’inesauribilità del suo contenuto tutte le categorie concettuali del linguaggio umano. Più che indeterminazione atematica è quindi superdeterminazione e superconcentrazione tematica. Per cui paradossalmente la tematizzazione di questa visione mediata in categorie e linguaggio umano non rappresenta un progresso e un arricchimento, bensì una vera e propria kénosi e una involuzione, perché si va dal «di più» della conoscenza al «meno» della espressione e della formulazione. Di conseguenza l’indispensabile concettualizzazione, che questa visione sopracategoriale ha dovuto subire mediante la cosiddetta «scienza infusa», costituisce un misterioso processo kenotico. Il Cristo terreno vive in sé il passaggio dalla ricchezza della visione al continuo e intrinseco depauperamento della sua traduzione concettuale”. (29)
Amato conclude la sua analisi critica con l’affermazione: “La risposta allora alla domanda se in Gesù ci sia stata fede è negativa, sia da un punto di vista biblico, che da quello teologico. Nel NT Gesù non è mai presentato come il primo credente o come il modello della fede (Abramo per l'AT e Maria per il NT lo sono), bensì come colui che è la fonte e il fine della fede dei discepoli. Propriamente parlando, Gesù non ha la fede, ma suscita la fede. Se la nostra fede cristiana è fede in Gesù Cristo, Gesù non ha potuto avere la fede”. (30)
Torneremo più avanti sulla consistenza di queste argomentazioni. (31)
3. La fede di Gesù: argomenti biblici e coerenza dogmatica
In questi ultimi decenni è diventato sempre più folto il gruppo dei teologi che rifiutano l’opinione tradizionale e parlano della fede di Gesù. Il cambiamento non è stato improvviso ma è avvenuto a piccoli passi. Alcuni teologi hanno ammesso l’esercizio della fede anche nello stato di gloria; (32) altri hanno attribuito a Gesù una particolare intuizione di Dio compatibile con la fede, (33) altri hanno accentuato la dimensione filiale di Gesù e il corrispondente atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, accompagnato da una particolare intuizione di Dio. (34) Infine altri sia biblisti che teologi senza difficoltà parlano di un autentico cammino di fede di Gesù, senza tentativi di conciliazione con la tradizione teologica. (35) Essi negano a Gesù conoscenze speciali non derivate dalla sua esperienza umana sperimentale o spirituale e gli attribuiscono un’autentica vita di fede, che è norma per il nostro cammino. In questo senso, secondo le formule della lettera agli Ebrei, Gesù è “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1), “iniziatore e consumatore della nostra fede” (Eb.12, 2). Per costoro tutte le argomentazioni addotte dai teologi dei secoli scorsi, sia quelle di ispirazione biblica che quelle dogmatiche, erano valide solo se riferite alla condizione gloriosa di Cristo, ma non alla sua esistenza terrena.
Non mi fermo ad esaminare le varie posizioni. (36) Vorrei piuttosto presentare gli argomenti addotti sia quelli biblici (3.1) che quelli dogmatici (3.2). In un quarto paragrafo vorrei poi proporre una breve riflessione sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche.
3.1. Argomenti biblici.
Abitualmente tutti affermano che nella Scrittura Gesù non è mai soggetto del verbo pisteuo, non si dice cioè che Gesù ha esercitato la fede o che ha creduto come si dice di Abramo o di Maria. Ma questo argomento negativo non è sufficiente a dimostrare l’assunto tradizionale. Vi sono infatti nel Nuovo Testamento numerose indicazioni relative all’esercizio della fede di Gesù.
Wilhelm Thüsing in un volume scritto insieme a K. Rahner scrive: “Della fede di Gesù stesso si parla nel NT almeno in due scritti, il Vangelo di Marco e nella lettera agli Ebrei; inoltre io credo di poter dimostrare l’esistenza di questo tòpos anche in Paolo”. (37) Del Vangelo di Marco egli cita l’episodio del ragazzo epilettico del cap. 9 (vv.14-29). Il Padre del ragazzo dice a Gesù: “se tu puoi fa qualcosa”. Gesù riprende la formula e, quasi riflettendo tra sé e sé esclama: “se tu puoi. Tutto è possibile per chi crede” (Mc. 9,23). Thüsing commenta: “In questo collegamento logico, soltanto Gesù può essere inteso come colui che crede, al quale, appunto attraverso la fede, la guarigione è possibile. Una conferma di ciò la troviamo alla fine della pericope, nel versetto 29, dove Gesù designa la preghiera come condizione dalla quale dipende la possibilità o l’impossibilità della guarigione”. (38) Anche Jon Sobrino che accetta questa argomentazione scrive: “In questo passo «chi crede» non è altri che Gesù stesso, il quale compie infatti il miracolo in base alla propria fede. Lo conferma il v. 29: «Questa specie di demoni non si può scacciare se non con la preghiera»: gli esegeti equiparano questa preghiera alla fede. Ciò che qui si afferma direttamente è dunque il fatto che Gesù possedette la forza proveniente dalla fede, mentre egli stesso viene indirettamente dichiarato come colui che ha fede.. Gesù - così almeno ha interpretato Marco- fa riferimento alla propria fede e viene dichiarato uomo di fede”. (39) L’argomentazione di Wilhelm Thüsing viene citata anche da Walter Kasper: “Qui la fede viene.. considerata come partecipazione all’onnipotenza di Dio e quindi come una capacità di ridonare la salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano, dovremmo convenire che soltanto Gesù qui è «colui che crede» e che solo lui, proprio in forza della sua «fede», è capace di sanare… Nella sua radicale obbedienza Gesù è quindi la radicale originarietà da Dio e il radicale riferimento a Lui. Egli non è nulla da sé ma tutto da Dio e per Dio. È quindi la forma vuota, lo spazio aperto all’amore di Dio che si comunica.. La successiva cristologia della figliolanza non è altro che l’interpretazione e traduzione di ciò che si trova nascosto nell’obbedienza e donazione filiali di Gesù”. (40)
Non ci sono eccessive difficoltà a riconoscere la convinzione che secondo la Lettera agli Ebrei, Gesù abbia esercitato la fede. Egli viene riconosciuto “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1) e “iniziatore e consumatore della fede” (Eb 12,2). L’autore riconosce che Gesù aveva introdotto una modalità nuova nell’esercizio della fede in Dio, aveva aperto una via particolare. I discepoli di Gesù erano appunto designati “quelli della via di Cristo” (cfr Atti 9,3). D’altra parte la stessa Lettera osserva che Gesù aveva imparato “l’obbedienza (= la fede, l’ascolto) dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (= che hanno fede in Lui)” (Eb., 5,8s.). Gesù ha reso così possibile un nuovo tipo di esperienza di Dio. “Si tratta dell’esperienza che la πίστις, in quanto fiducioso abbandonarsi al Dio della promessa, in quanto orientamento e in quanto resistenza nella situazione di tentazione, è possibile se si leva lo sguardo a colui che, in quanto credente (Eb 12,2) non solo incomincia l’esperienza di fede (come iniziatore oppure condottiero [α̉ρχηγός] della fede, ma anche la perfeziona”. (41) “Questo tuttavia non va inteso in maniera puramente esemplare, bensì prototipa e originaria: come colui che ha vissuto questa ‘fede’ in modo singolare e la cui fede adesso è pervenuta allo stato di ‘perennità’, egli da ai suoi la forza per questa fede – cioè (secondo il contesto di Eb. 12) per «la corsa senza posa» verso la meta della promessa”. (42)
Quanto a Paolo è interessante notare il valore di una sua formula singolare: πίστις Χριστoυ̃: fede di Cristo. Essa è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. (43)
Non è questo il luogo per una esegesi particolareggiata dei testi citati. (44) Presento solo velocemente il ventaglio delle interpretazioni e chiarisco la ragione di coloro che argomentano a favore della fede personale di Gesù.
Possiamo raggruppare le interpretazioni del sintagma genetivale πίστις Χριστoυ̃ in quattro gruppi:
a. senso oggettivo: la fede in Cristo. È questa l’interpretazione più tradizionale comune ai Padri greci, agli occidentali come S. Agostino e S. Tommaso. Anche Lutero interpreta Paolo in senso oggettivo. I commentari e le traduzioni più diffuse (la traduzione CEI sia nella prima redazione che nella recente revisione) interpretano la formula come la fede in Gesù Cristo.
b. Senso soggettivo: la fede esercitata da Gesù nei confronti del Padre; lo stile della sua fiducia in Dio, che ha influito sui discepoli e ha suscitato la loro fede. Diversi esegeti e teologi attuali come vedremo, interpretano a formula in questo senso.
c. Senso genetico o di autore: la fede suscitata da Cristo, sia nei confronti di Dio (perché da lui esercitata) sia nei suoi confronti: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv. 14,1).
d. Senso complesso: che racchiude diversi significati intrecciati in virtù dell’unione profonda che il discepolo ha con Cristo perché guidato dal suo Spirito. R. Vignolo la chiama fede di relazione e la descrive con queste parole: “fede attuata, istituita da Cristo, meglio ancora fede portata da Cristo; intendendo l’attuazione vuoi a Cristo come singolare soggetto di fede, vuoi a Cristo come istituente una fede correlata a lui, affidabilmente fondata su di lui”. (45) Egli osservando che “il sintagma così inteso svolge un ruolo di raccordo privilegiato nel contesto del pensiero paolino” ricorda in modo sommario altre interpretazioni complesse. (46)
Roberto Vignolo nel suo articolo molto attento ed accurato, osserva che “percentualmente nel corpo paolino largamente inteso (con eccezione di Eb. e prescindendo dai casi direttamente in questione) πίστις è seguita 29 volte da genitivo soggettivo e solo 3 volte da genitivo oggettivo. Evidentemente i genitivi di Rom 3,3; 4, 12.16 sono tutti soggettivi”. (47)
In conclusione credo che non si possa escludere il riferimento soggettivo nelle formule paoline citate. Altrimenti Paolo avrebbe scelto l’espressione πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃.
3.2. Coerenza dogmatica.
Tutte le argomentazioni, sia di carattere biblico che razionale, addotte dai teologi che difendono la dottrina tradizionale, valgono per lo stato glorioso di Cristo e non per la sua esistenza terrena. Argomentare ad es. che Cristo, come principio della beatitudine dei santi, deve possedere in sé, ciò che dona ai beati, ha una certa legittimità solo se riferita a Cristo costituito Messia e Signore (At. 2, 36), ma non vale per l'esistenza terrena di Gesù. Lo stesso può dirsi dell'argomentazione secondo cui Gesù deve possedere la pienezza della grazia (cfr. Gv.1,14) che comunica, o che in Lui “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col. 2,3).
Molte sono le ragioni che hanno determinato l’attribuzione a Gesù della visione beatifica e alla conseguente negazione della fede. Ne ricordo alcune per rendere conto della deformazione subita dalla cristologia e dalla spiritualità.
In primo luogo si concepiva l’incarnazione come un evento istantaneo, perfetto fin dall’inizio; mentre è un processo che si compie nella risurrezione, quanto Gesù è stato costituito figlio di Dio con potenza per opera dello Spirito ( cfr. Rom 1,4).
Si pensava inoltre che la conoscenza umana potesse essere acquisita per infusione di specie intelligibili indipendentemente dall’esperienza. Mentre, nella prospettiva antropologica unitaria, propria dell’attuale cultura, anche quando è dono divino ogni conoscenza viene sempre filtrata dall’esperienza che soggiace.
Infine non si teneva conto sufficientemente della definizione del Concilio di Calcedonia, non molto nota in Occidente. Affermare infatti che l’unione ipostatica debba indurre una conoscenza peculiare in Gesù, significa non riconoscere il carattere peculiare dell’Unione ipostatica, che, secondo il Concilio avviene “senza mutazione e senza confusione” (asynxùtos, atréptos). La natura umana perciò conserva le caratteristiche e le dinamiche proprie come la natura divina del Verbo conserva le proprie.
L’opinione che attribuisce a Gesù storico la visione beatifica si è potuta sviluppare quindi solo in ambito neocalcedonese o, come altri dicono, in “una prospettiva cristologica alessandrina”. (48)
Alcuni cambiamenti avvenuti nella teologia ci consentono oggi di prospettare diversamente il cammino di Gesù. P. A. Sequeri ne privilegia due: “L’elaborazione più approfondita del carattere integralmente storico della incarnazione e il ricupero della più sostanziale nozione di fede come principio di una relazione di totale adesione sostanziale a Dio, consentono oggi di apprezzare l’importanza di quella indicazione, senza pregiudizio (anzi) per la comprensione dogmatica della singolarità e unicità della identificazione di Gesù con il Figlio”. (49)
La cosa che sorprende è il tipo di vita umana che, secondo l’opinione tradizionale, Gesù avrebbe condotto nell’ipotesi che Egli fin dall’inizio, vedesse tutto in Dio. La sua attività si sarebbe svolta come la recita di un copione già scritto, pur coinvolgendo in profondità tutte le sue facoltà umane. Come un attore che entra nella sua parte in modo integrale e fedele, Gesù si sarebbe confrontato continuamente con la volontà del Padre e avrebbe fedelmente seguito la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di significato molti racconti evangelici e caricava alcuni altri di messaggi aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano completamente trascurate dai biblisti e dai teologi. Maritain parlava di una “parodia di umanità”. (50)
Jon Sobrino osserva poi che nella scolastica si era giunti in modo sorprendente a considerare la fede come non costitutiva della condizione umana. Se non si attribuisce la fede a Gesù, egli scrive: “Lo si potrà chiamare uno di noi, ma nel profondo della realtà umana non è come noi. Si potrà far risaltare l’umanità di Gesù a vari livelli, personale-esistenziale, anche sociale e persino politico, ma se non si accetta la sua fede, Gesù resta infinitamente distante da noi e – paradossalmente per la teologia – significherebbe dire che la fede non è essenziale per definire la realtà umana”. (51)
La fede è la prima incidenza dell’azione divina nella vita degli uomini. Sarebbe insensato pensare che l’azione di Dio in Gesù non abbia suscitato l’atteggiamento di accoglienza e di ascolto che è appunto la fede. Anche la conoscenza di Dio in Gesù è stata progressiva: Egli ha imparato a pregare, a leggere le Scritture, a conoscere la tradizione del suo popolo. Attraverso questo percorso Egli è diventato “la figura riuscita del perfetto credente”. (52) La fede in Dio ha raggiunto in Gesù una ricchezza tale da consentire l’acquisizione definitiva del “Nome”. “In questa prospettiva la fede di Gesù diventa il principio stesso della modalità rivelativa e storica dell’incarnazione; e al tempo stesso il fondamento di quella relazione che attua il regno nella sua persona”. (53)
Infine nel considerare la fede e le sue dinamiche non ha senso opporre l’atteggiamento vitale di abbandono fiducioso e la conoscenza. Questa infatti si sviluppa solo all’interno dell’esperienza di fede che fiorisce nell’amore. Anche per Gesù vale il principio ricordato da Giovanni: “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1 Gv. 4,7). Anche Gesù è cresciuto nella conoscenza di Dio attraverso la vita teologale, l’esercizio cioè della fiducia in Dio che in lui fioriva come amore.
(continua)
Note
1) Dedico con gratitudine questa breve relazione alla memoria dell’amico scomparso il 13 corrente mese [luglio 2005], P. Dalmazio Mongillo O. P., profondo indagatore del mistero di Dio, e sempre attento con l’intelligenza del cuore ai problemi dell’uomo. Maestro efficace di dottrina e testimone fedele per la sapienza da contemplativo che lo abitava.
2) Pietro Lombardo ad esempio nega l’esercizio delle virtù della fede e della speranza “quia non aenigmaticam et specularem, sed clarissimam de ea (= della risurrezione futura) habuit cognitionem. Quia non perfectius cognovit praeteritam, qual intellegit futuram… nec tam fidem vel spem-virtutem habuit, quia per speciem videbat ea quae credebat” Liber Sentent. III, dist. 26. cap. 4.
3) Commentando le Sentenze di Pietro Lombardo S. Tommaso giovane sosteneva che la scienza acquisita non proveniva dall’esperienza bensì era “infusa per accidens” (In 3 Sent. D. 14, a.3, ac. 5 ad 3; d. 18 a. 3 ad 5um.). Nella Summa Theologiae si corregge (quamvis alibi aliter scripserim) e parla di una vera scienza acquisita attribuendo a Gesù “alcune specie intelligibili prodotte dall’intelletto agente e accolte dal suo intelletto possibile” (S. Th III q. 9, a. 4)
4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 7, a. 3.
5) Galot J., Chi sei tu o Cristo? L. E. F., Firenze 1977 pp. 317-318 cita il Cursus theologicus, Tratt. 221 De incarnatione, disp. 22, dub 2, 4 n. 29 (ed Paris-Bruxelles-Génève 1880) t. XV, p. 320. Egli conclude : « La visione beatifica del Gesù terreno manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura né dalla tradizione patristica” p. 324.
6) Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 32 DHü 3432 .
7) Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 34 DHü 3434. Cfr. C. Porro, La controversia cristologia nel periodo modernista, Vengono 1971.
8) Decreto 5 giugno 1918 DHü 3645.
9) “Egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del corpo mistico e le abbraccia con il suo salvifico amore” Pio XII Lettera Enciclica Mystici Corporis, AAS 36 (1943) p. 230 DHü 3812. Anche l’Enciclica di Pio XII sul Sacro Cuore, Haurietis acquas(1956) accenna a questi tipo di conoscenza di Gesù, DHü 3924. Oggi i teologi considerano questi riferimenti senza importanza dottrinale essendo incidentali, espressione delle opinioni comuni della teologia del tempo. “I cenni alla visione beatifica del Gesù terreno, contenuti nella Mystici corporis e nell’Haurietis acquas sono incidentali e non intendono definire un punto dottrinale” Forte B., Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della storia, S. Paolo, 1981 p. 201 n. 16. Cfr anche Galot J., Chi sei tu o Cristo?, Fiorentina, Firenze 1977 p. 327 n. 33.
10) Pesce Santi, É possibile la visione beatifica in un'anima viatrice, Catania 1965 p. 197. Le sue riflessioni vorrebbero illustrare l’esperienza mistica di Lucia Mangano (Trecastagni (Ct) 1896 - S. Giovanni La Punta (Ct) 1946), della Compagnia di S. Orsola. Le vengono attribuite esperienze mistiche interpretate come “visione beatifica in statu viae”.
11) Rahner K., Considerazioni dogmatiche sulla scienza e coscienza di Cristo, in Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 201 (La conferenza è del 1961).
12) Rahner K., Considerazioni...., in o. c., p. 238. Rahner precisa che queste conoscenze acquisite sono “come tematizzazione oggettivante di questo originario e perenne contatto immediato on Dio, che si estrinseca nell’incontro con il proprio ambiente spirituale e religioso, nonché nella graduale conoscenza sperimentale della propria esistenza” ib.
13) Karl Rahner rilevava “qualche ideuccia docetistica e monofisitica... quando i cristiani parlano dell'incarnazione di Dio” (Teologia dell'incarnazione, in Saggi di cristologia e mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 117); analogamente parlava di “una maniera monofisitica e criptoeretica” di intendere “la predicazione logica degli idiomi” (Problemi di cristologia d'oggi, ib. p. 58); sul rapporto con l’esegesi concludeva: “Se il monofisismo e il monotelismo...saranno veramente eliminati dalla nostra cristologia concreta e vissuta, non solo nelle formulazioni estreme della loro tesi ma anche nella nostra comprensione originaria e senza riserve religiose, riusciremo più facilmente ad instaurare un rapporto libero e piano sui risultati cui l’odierna esegesi è giunta a proposito del Gesù storico” La cristologia fra l'esegesi e la dogmatica, in Nuovi Saggi 4, Paoline, Roma 1973 p. 271. Il monofisismo, difeso da Eutiche, un archimandrita di Costantinopoli, attribuiva qualità divine alla natura umana di Cristo. Fu condannato nel quarto Concilio ecumenico a Calcedonia (451).
14) Rahner K.- Thüsing W., Cristologia. Prospettiva sistematica ed esegetica, Questiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1974
15) Rahner K., Cristologia oggi ? in Id., Teologia dell’esperienza dello Spirito, in Nuovi Saggi VI, Roma 1978 p. 439.
16) Malevez L., Le Christ et la foi, in Pour une théologie de la foi, Cerf Paris 1969 pp.159-216.
17) Balthasar H. Urs v., Fides Cristi, in Sponsa Verbi. Saggi Teologici 2, Morcelliana, Brescia 1972 (l’originale è del 1961) pp. 41-74.
18) M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1995.
19) Balthasar H. Urs v., Fides Cristi, in Sponsa Verbi o. c., p. 48.
20) Nella Teodrammatica scrive di Gesù: “Dal momento che egli non conosce o non vuole conoscere le strade su cui Dio va con lui in adempimento della missione, ma ha la certezza che il Padre adempirà la missione sino al termine, la definizione di fede della lettera agli ebrei può venire applicata a lui” Teodrammatica, 3: Le persone del dramma, l’uomo in Cristo, Jaca Book, Milano 1983 pp. 161 s. Poco dopo ammette e accoglie il fatto che: “una lunga e seria tradizione teologica considera cosa conforme alla dignità del salvatore del mondo la necessità di attribuirgli fin dal primo istante della sua incarnazione, non solo un sapere a riguardo della sua missione, ma di ogni cosa umanamente conoscibile, quantomeno legata a un valore salvifico. Riedlinger ha mostrato in maniera convincente che questo teologhema circolante per la patristica e la scolastica non è semplicemente ascrivibile a una miope teologia di convenienza che voleva adornare Cristo di tutte le sue condegne prerogative, ma che si rifà senz’altro a una tendenza biblica sempre più intensa a partire da Paolo e da Marco e attraverso Matteo e Luca fino a Giovanni, dove Gesù appare «onnisciente» (Gv. 16,30; cfr.16,19)” (p. 164). In nota a conferma di questa opinione egli cita H Riedlinger, Geschichtlichkeit und Vollendung des Wissens Christi(QD32, Herder 1966) p. 65 e il contesto pp. 58-71; aggiunge poi: “Ma con ragione vi si dice: «Se il Padre che l’ama gli mostra tutto ciò che lui stesso fa, ciò non vuol dire senz’altro che il Gesù terreno ha ininterrottamente davanti agli occhi tutta la realtà»” p. 69.
Una dettagliata esposizione del pensiero di Hans Urs von Balthasar su questo tema si trova in F. G. Brambilla, Gesù autore e perfezionatore della fede, in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, Dehoniane, Bologna 2000 pp. 79-99 (pp. 69-124).
21) Brown R., Scienza e coscienza di Cristo, in Id., Gesù Dio e uomo, Cittadella Assisi 1970 pp. 53-121 qui p. 75. Sulla questione generale egli sostiene: “La Scrittura da sola non dimostra, ma non è contraria a una teoria che ammetta uno sviluppo psicologico della conoscenza che Gesù poteva avere di ciò che stava per accadergli” ib. p. 84.
22) AA. VV., La visione beatifica di Cristo viatore, in Doctor communis, numero speciale, Vaticano 36 (1983). Tra gli altri vi scrivono il biblista Feuillet, La science de vision de Jésus etles Evangiles,pp. 159-169; il patrologo Salgano J.-M., La science du Fils de Dieu fait homme. Prises de position des Pères et de la Pré-scbolastique (II- XII siècle) pp. 180-286 ; il sistematico Ols D., La visione beatifica di Cristo viatore, pp. 323-411
23) Amato A., Fede di Gesù? A proposito di una recente pubblicazione, Salesianum 64(2002) pp. 67-112. Recensisce AA. VV., (a cura di G. Cannobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2001.
24) Scrive: “La visione beatifica dell'anima umana del Cristo è anzitutto l'espressione dell'armonia esistente in lui tra l'ordine dell'essere e quello del conoscere. Dall'unione, infatti, della natura umana nella persona del Verbo, segue anche la sua unione nella visione. Questa visione è, quindi, la traduzione coscienziale dell'unione ipostatica. Si coglie qui la relazione profonda esistente tra il Verbo e la sua umanità assunta.” Amato A., Fede di Gesù? a. c., p. 109
25) Amato A., a. c., p. 109 (e n. 91) cita e riassume C. Nigro, Il mistero della conoscenza umana di Cristo nella teologia contemporanea,IPAGRovigo 1971, p. 45.
26) Amato A., a. c., p. 116.
27) Amato A., a. c., p. 109.
28) Amato A., a. c., p. 103.
29) Amato A., a., c. p. 110. Rimanda a Nigro C. o. c., p. 32 ss.
30) Amato A., a. c., p. 111 (sottolineatura mia).
31) Come si vede tutti gli argomenti si muovono in orizzonte neocelcedonese e spesso passano dalla semplice ammissione di possibilità della visione beatifica alla affermazione della sua effettiva realtà. Il termine ‘neocalcedonese’ è stato introdotto negli anni ’60 per indicare gli sviluppi e gli adattamenti che la dottrina di Calcedonia ha subito nei secoli successivi nel tentativo di raggiungere un compromesso con i monofisiti.
32) J. Guillet, La fede di Gesù Cristo, Jaca Book Milano 1982 “Se la fede rimane nella visione gloriosa, se la visione sola è capace di darle la sua pienezza e la sua perfezione, si capisce che Gesù, poiché è il figlio, lo splendore della gloria del mondo (Eb 1,1-3), sia anche .. colui che nella sua fede si trova al punto di partenza e al compimento della fede… La fede che ci salva non è la nostra, è la fede di Gesù Cristo” pp. 178-179.
33) “La visione beatifica del Gesù terrestre manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura, né dalla tradizione patristica” J. Galot, Chi sei tu o Cristo? L. E. F., Firenze 1977 p. 324. Tuttavia egli attribuisce a Gesù storico una particolare intuizione del suo io divino: “Questa presa di coscienza [del proprio io divino] pur comportando i limiti e l'oscurità inerenti a una qualsiasi psicologia umana, è fatta di una evidenza intima che non può essere ricondotta alla forma di un atto di fede” Chi sei tu o Cristo?, Fiorentina, Firenze 19843 p. 349 (pp. 348-351). Egli aggiunge però: “Ci sono nelle disposizioni di Cristo elementi essenziali della fede, e nella sua esperienza intima vi sono prove che somigliano a quelle della fede. Da questo punto di vista, Gesù deve essere considerato come il modello della nostra fede" ib. p. 350. Cfr. anche Id La coscienza di Cristo, Cittadella, Assisi; Id., Gesù ha avuto la fede? in Civ. Catt. 133(1982) 3 pp. 460-472. Nella stessa linea sembra essere G. Iammarrone: “In questo senso egli fece proprio in una certa misura l'atteggiamento dei «credenti» di cui ci narra la Scrittura. Anche se non si vuole, e forse non è il caso di denominare l'atteggiamento di Gesù «fede», dati gli equivoci che tale termine può sempre suscitare, ci sembra che esso vada rilevato e ben sottolineato in una valorizzazione di lui quale archetipo e modello dell'«uomo nuovo»”, L'uomo immagine di Dio. Antropologia e cristologia, Borla, Roma 1989 p. 70.
34) L. Malevez continuando la riflessione di K. Rahner affronta il tema della fede di Gesù sottolineando l’aspetto della libertà e della fiducia in Dio: “l’abbandono per il quale la natura umana singolare di Gesù passa nell’appartenenza a Dio non può essere concepito sotto tutti i rapporti come un’alienazione. La stessa assunzione per la quale il Verbo attira a sé la sua umanità, è l’atto stesso con il quale la dona e la restituisce più perfettamente a se stessa, perché la fa essere ciò a cui essa stessa aspirava” Le Christ et la foi, in Id, Pour une théologie de la foi, Paria 1969 (pp. 159-216) p. 195. Anche B. Forte sviluppa le intuizioni di K. Rahner sulla conoscenza atematica e irriflessa e le conseguenti interpretazioni delle formule bibliche concludendo che tale modo “mentre salvaguarda la condizione unica della coscienza umana di Figlio in Gesù, da conto suggestivamente della sua fede e della sua speranza” Gesù di Nazaret, storia di Dio,Dio della storia, Paoline, Roma 19844 p. 209
35) Cfr. ampia bibliografia in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, Dehoniane, Bologna 2000 pp. 43 s. (per aspetto biblico) p. 99. n. 56 (aspetto dogmatico); Dupuis J., Introduzione alla cristologia, Piemme, Casale Monferrato 1998.
36) Cfr. Brambilla F. G., Le principali tendenze sulla fede di Gesù, in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, o. c., pp.77- 122; Presenta le diverse opinioni secondo tre paradigmi: 1. Paradigma scolastico per cui cita il domenicano Ols. 2. Paradigma della singolarità: H. U. von Balthasar; 3. Paradigma antropologico: K. Rahner- L. Malevez. Presenta poi da parte sua alcune Ipotesi conclusive ( pp. 122-124). Cfr. anche Molari C., Gesù rivelatore del Padre in Auer J., Gesù il Salvatore. Cristologia, Cittadella, Assisi (pp. 5-35) pp. 14-21; Id., La fede nel Dio di Gesù, Camaldoli 1991, dove elenco cinque opinioni diverse.
37) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in Rahner K.- Thüsing W., Cristologia.Prospettiva sistematica ed esegetica, Questiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1974 pp. 97-361 qui p. 251. L’originale è del 1972.
38) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 253. Tra i teologi già Gerhard Ebeling in un articolo del 1958 scriveva “Naturalmente il ‘tutto è possibile per chi crede’ (Mc 9,23), visto nel contesto in cui è posto, va applicato prima di tutto a Gesù, e lo stesso dicasi dell’affermazione di Mc 11,23 e par. a proposito del fico seccato… Considerato il modo con cui parla della fede, difficilmente lo si può escludere da questa stessa fede” (tr it. Gesù e fede in Parola e fede, Bompiani, Milano 1974 (pp. 77-126) qui p.114).
39) Sobrino J., Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1995 pp. 271 s. Egli richiama anche Mc 11,22 ss.: la fede che sposta le montagne in rapporto all’episodio del fico (Mc 11,20).
40) Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 150.
41) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 188.
42) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 252.
43) A queste alcuni aggiungono anche Gal 3,26 secondo la variante di P46 e di altri manoscritti; la maggioranza ha la lezione più facile: πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃. Cfr. Vignolo R., nello studio citato nella nota seguente definisce “interessante variante” (p. 45 ) quella delle poche testimonianze che egli elenca dettagliatamente.
44) Vignolo R., La fede portata da Cristo. Πίστις Χριστoυ̃ in Paolo, in AA. VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 pp. 43-67. Alle pp. 45-46 traduce la formula nei nove riferimenti paolini (compreso Gal 3,26) con l’espressione “la fede portata da Cristo” o “la fede portata dal Figlio di Dio” o “la fede portata da Gesù”).
45) Vignolo R., La fede portata da Cristo in o. c., p. 67; la definisce anche: “fede istituita da Gesù, portata da Gesù, da lui stesso direttamente inaugurata in singolare, inconfondibile, pienezza, e in forza dell’universale inclusività garantita dal soggetto e dall’atto di quell’evento, instaurata pro nobis come universalmente partecipabile” p. 66 .
46) “L’interpretazione qui proposta rende pure ragione allo spessore fiutato da molti illustri esegeti paolini, che in proposito, con formule magari non felicissime, hanno parlato di «genitivo mistico» (Deissmann), o di principio metafisico («la fede che è il Cristo»: Lohmeyer)” Vignolo R., ib., p. 67. Precedentemente aveva ricordato anche le interpretazioni di Hatch (genitivo di appartenenza) e di Schweizer (genitivo di comunione) ib. p. 46.
47) Vignolo R., ib., p. 48. In nota (in polemica con Romano Penna) egli aggiunge che questo dato “relativizza l’osservazione per cui Paolo .. si atterrebbe al più comune uso greco di sintagmi genitivali con πίστις + genitivo prevalentemente in senso oggettivo” Id. ib. p. 48 n. 12. Si riferisce a R. Penna, Il tema della giustificazione in Paolo. Status quaestionis, in ATI ( a cura di G. Ancona), La giustificazione, Messaggero, Padova 1997, pp. 19-64 qui p. 47. Romano Penna interpreta il sintagma sempre in senso oggettivo. Egli tra l’altro a pagina 41 “offre una limpida messa a punto circa il genitivo complesso delle «opere della legge» (in precedenza attribuito anche al sintagma «giustizia di Dio»”. Si chiede quindi Vignolo: “perché allora non far valere anche in questo caso la qualità di un genitivo complesso, uscendo così da un troppo schematico aut-aut tra genitivo ogg. E sogg.?” Vignolo R., La fede portata da Cristo in o. c., p. 56 n. 27.
48) Brambilla F. G., Gesù autore e perfezionatore della fede, in AA. VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 p. 123 (pp. 69-124).
49) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, in AA.VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 pp. 13-41 qui p. 16
50) Maritain J., Della Grazia e della umanità di Gesù, Morcelliana Brescia 1971 p. 18.
51) Sobrino J., Gesù liberatore, o. c. p. 270.
52) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a. c., p. 17.
53) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a. c., p. 16.
Siamo ancora in Galilea, lontano dalla città santa. Il Maestro non è solo con i discepoli. Una grande folla lo seguiva. Questa simpatica sequela non è indice di fede autentica.
Midrash
Il termine midrash è un sostantivo derivante da darash che, nel testo biblico (ma anche a Qumrân), significa soprattutto ricercare, scrutare, esaminare, studiare.
Nella tradizione rabbinica, midrash designa anzitutto un’attività e un metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso letterale (chiamato peshat, semplice, ovvio), scruta il testo in profondità (secondo regole e tecniche proprie) e sotto tutti gli aspetti, per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle problematiche delle comunità, trarne applicazioni pratiche e significati nuovi che sono lontani dall'apparire a prima vista.
Indica inoltre il risultato di questa ricerca.
Se applicata alle parti legislative per derivarne conseguenze giuridiche, questa elaborazione dà il midrash halakhah (da h lak, camminare; da cui interpretazione normativa, regola di condotta).
Se applicata alle sezioni narrative, dà il midrash haggadah (da higgîd, annunciare, raccontare) che comprende racconti storici o leggendari, sviluppi d'ordine morale, ecc.
Il midrash parte sempre, in modo più o meno esplicito, dal testo biblico e può essere immesso in forme diverse secondo i generi letterari che lo trasmettono.
Come tipo di attività esegetica e prodotto di questa attività, il midrash è già presente nella Bibbia, nella letteratura intertestamentaria (Apocrifi e Qumrân), così come nel Nuovo Testamento. I risultati di secoli di “ricerca” nelle scuole (beth ha-midrash) e nelle sinagoghe, dopo un lunghissimo periodo di trasmissione orale, furono progressivamente messi per scritto, andando a formare raccolte multiple chiamate midrashim.
Queste si presentano sia come un commento continuo della Scrittura (midrashim esegetici), sia come un'antologia di sermoni sulle letture fatte in occasione del Sabato e delle feste (midrashim omiletici). I più importanti sono: i midrashim tannaitici, (riferiscono tradizioni del I-II sec.), soprattutto halakhici (Mekhilta sull'Esodo, Sifra sul Levitico, Sitré su Numeri/Deuteronomio), il Midrash Rabbah (commento del Pentateuco e dei cinque «rotoli» letti nelle feste: Cantico, Ester, Rut, Lamentazioni e Qohelet), il Midrash Tanhuma, la Pesiqta di Rab Kahana, la Pesiqta Rabbati.
Si ritiene che alcune compilazioni tardive (come i Pirqé di R. Eliezer, il Midrash ha-Gadol, il Midrash Tehillim, ecc.) possano avere conservato tradizioni molto antiche.
La porta e la voce
di Giovanni Vannucci
Due espressioni, nella pagina del vangelo di Giovanni (10,1-10), colpiscono la nostra attenzione. La prima è la porta: «Io sono la porta»; la seconda è la voce: «Le pecore ascoltano la sua voce». La porta è l’apertura che segna il passaggio tra due spazi distinti; varcare una porta, anche della più umile casa, costituisce qualcosa di grave e di solenne per uno spirito sensibile: attraversando una soglia, abbandona il suo consueto ambiente ed entra in un altro differente.
Questa è la più elementare esperienza che sta alla base delle parole di Cristo, e di tutto il simbolismo della «porta». La porta separa e unisce due ambienti, due spazi, due gradualità dell’essere, due matrici, due mondi distinti da strutture fisiche, psicologiche, mentali. Il varcare la soglia costituisce il passaggio da un modo d’essere a un altro; nell’esperienza religiosa le varie iniziazioni, che accompagnano le tappe della crescita fisica e psicologica dei credenti, sono vissute come il varco da un modo d’essere a un altro; la soglia presenta quel carattere di angoscia, di timore sacro che segna la linea di demarcazione tra un mondo conosciuto e quello sconosciuto che si apre al di là del limite. Giacobbe, dopo l’esperienza della sacralità del luogo ove aveva avuto il sogno iniziatico, esclama: «Questo luogo è tremendo, qui c’è la dimora di Dio e la porta del cielo» (Gen 28,17). L’aspetto angoscioso della porta, come ingresso in uno spazio differente, viene manifestato nel grande portale che introduce negli edifici sacri attorniato da «guardiani della soglia», draghi, leoni, sfingi, personaggi divini o semi-divini.
Questi pochi accenni al simbolo della porta ci aiutano a comprendere il significato della parola di Gesù che leggiamo nel Vangelo: «Io sono la porta, il pastore vero passa per la porta, il prezzolato e il ladro entrano nell’ovile attraverso altre aperture».
«Io sono la porta», il punto di passaggio da uno stato di coscienza vecchio e conosciuto, a un altro nuovo e sperimentabile. Cerchiamo, avanti di aggiungere altro, di comprendere il contenuto dell’affermazione di Cristo: le porte dei templi, i riti di passaggio costruiti e ordinati dall’uomo sono dei simboli, palpabili e misurabili, di un altro itinerario che la coscienza compie dentro il gesto, l’immagine esteriore; itinerario che sfocia in una mutazione qualitativa dell’anima, dell’interiorità. Le porte e i riti sono dei segni di qualcosa che si compie nell’intimo della personalità che varca la soglia dello spazio nuovo. Le strutture architettoniche, le azioni rituali perdono ogni valore quando si viene a vivere il contenuto qualitativo del nuovo spazio.
La frase: «Io sono la porta» può venire interpretata: Io sono la soglia che separa la vecchia coscienza dalla nuova, il significato di tutte le iniziazioni che altro non sono se non riti, cerimonie, costruzioni, dita puntate verso la novità, segni di un significato da scoprire. Io invece sono il significante e il significato, la forma e il contenuto, la materia e lo spirito. Le antiche porte sono tarlate, «quelli che sono venuti prima di me ormai sono ladri e briganti, la loro voce non risveglia le coscienze mature per la novità». Cristo è la porta e l’ovile; l’iniziazione e la nuova vita che essa trasmette; è il pane che dona la vita, non il cesto che lo contiene; è il pane ed è la vita; è la via che conduce alla verità ed è insieme la verità consegnata agli iniziati; è la luce del Santo dei Santi, che ha dilacerato ogni velame. Luce offerta senza interruzione, Luce che accoglie chiunque ne senta il richiamo e deliberatamente lo segua.
Questo rapporto diretto tra la singola coscienza e il Pastore è necessario venga vissuto con intensa generosità da ogni credente, se vogliamo che tutta la Chiesa ritrovi la vita, la Chiesa interiore e quella esteriore, se vogliamo che le porte iniziatiche, le parole di passo, i riti che introducono nella novità perdano la loro pesantezza e siano trasfigurati nella luce del vero e unico iniziatore.
Il passaggio dalla porta che è l’«Io sono» di Cristo fa fiorire Cristo nell’anima e fa ascendere l’anima, la personalità di ognuno, nel suo Io vero, che è Cristo, «non io vivo, ma Cristo vive», Cristo che è il vero Io di ognuno di noi, è il vero Io di tutti gli Io. Con l’«Io sono la porta» le antiche porte cadono, la verità liberatrice dilegua le corposità dei moralismi dogmatici, la ricerca personale della luce mette in seconda linea ogni preoccupazione pastorale e sociale; l’offerta di se stessi a Cristo perché ci unisca a sé ci rende fermi, senza timore di orgoglio, in questo pellegrinaggio verso la nostra deificazione, che ci renderà certi della nostra nascita nella nuova coscienza di Cristo e nella quale sperimenteremo che Cristo è Dio per noi e noi per Dio.
Fino alla novità sbocciata con l’Incarnazione, morte e risurrezione della Parola eterna, i templi erano i depositari dei segreti e delle verità nascoste sotto i simboli, il velo copriva il Santo dei Santi, solo agli iniziati veniva, dopo opportuna ascesi, dischiuso. Con la venuta di Cristo la verità diventa il pane e il vino di tutta l’umanità, è data a tutti perché tutti ne traggano il necessario alimento alla loro ascesa personale. Il velo è squarciato. Dio entra nel cuore degli uomini, lo Spirito discende nella carne degli uomini. E ciascun uomo è capace di prender coscienza di essere stato pensato ed espresso da una parola irripetibile e singolare, parola pronunciata dal Verbo nell’eternità, parola che il Verbo incarnato ripete nel tempo entro il cuore di ogni pecorella: «Le pecore riconoscono la sua voce». Parola che rende la persona umana più grande delle stelle del cielo, più gloriosa di tutte le leggi unificatrici e ordinatrici del cosmo.
Prendere coscienza del nostro Io divino, dell’Io divino di ogni nostro fratello, significa varcare la porta iniziatica che è Cristo, essere assunti dalla sua grazia trasfiguratrice, rispondere personalmente al nome col quale da tutta l’eternità ci chiama, nascere la seconda volta. Il motivo della nostra tragedia, della nostra disarmonia, è il non volerci riconoscere in Lui, il seguire la voce della nostra personalità separata, invece di quella del Buon Pastore che passa per la «porta» che è Cristo.
Forma specifica della "crisi" che investe l'uomo nella sua esistenza è quella connessa all'età di mezzo e chiamata midlife-crisis, più comunemente "crisi dei quarant'anni".
Tutte o quasi le possibilità sono in mano di interessi privati di enormi dimensioni, a cui, per loro stessa natura, la famiglia umana non interessa affatto se non come terreno di profitto. Contro questa tragica realtà la Chiesa è chiamata a schierarsi, senza timore di inimicarsi i poteri terreni.
Due ecclesiologie a confronto
di Mauro Pizzighini
Oggi tutti i teologi ortodossi, insieme a quelli cattolici, affermano che la chiesa è il corpo di Cristo, intendendo con quest’ espressione «la realizzazione del disegno di Dio di “ricapitolare in Cristo tutte le cose”». Ad esempio, il teologo ortodosso Florovskij afferma che «la teologia della chiesa non è altro che un capitolo, e un capitolo di importanza capitale, della cristologia. E senza questo capitolo la stessa cristologia non sarebbe completa».
Questa è una delle affermazioni principali contenute nel volume che il teologo cappuccino, attuale arcivescovo di Corfù-Zante-Cefalonia e vicario apostolico di Tessalonica, Y. Spiteris ha pubblicato recentemente, mettendo a confronto sia alcune concezioni teologiche di fondo sia alcuni temi specifici, come il primato petrino e l'ecclesiologia ortodossa con quella cattolica. Nel 1992 lo stesso autore aveva scritto La teologia ortodossa neo-greca (EDB, Bologna) insistendo sul contesto storico che aveva condizionato da secoli la vitalità dell’ortodossia greca.
A detta di Spiteris, «il legame con il monachesimo del monte Athos e la peculiare vicinanza strutturale con il patriarca di Costantinopoli hanno qualificato da secoli la chiesa ortodossa greca quanto al ruolo di rappresentanza legittima e privilegiata dell’ortodossia».
Nel volume, l’arcivescovo di Corfù ci fa conoscere le linee sulle quali si muove oggi la riflessione dei teologi greci, quanto all’ecclesiologia. Il tema risulta assai “nuovo” per i teologi ortodossi, da sempre abituati a trattare di Dio, della vita trinitaria, dell’ azione dello Spirito Santo, della divinizzazione e trasfigurazione del cosmo e dell’uomo: Spiteris “scopre” e “disvela” la teologia “sulla chiesa" nella riflessione dei teologi greci di oggi, in un contesto di narrazione storica. Di fatto sono pochi i teologi greci che offrono contributi al rinnovamento dell’ecclesiologia: vengono citati in particolare Nissiotis, Matsoukas e soprattutto Zizioulas, qualificato come un “teologo ortodosso dialogante".
I criteri di ecclesialità
In questo saggio teologico, la novità di particolare interesse è la seconda parte, quella relativa all’esame dei criteri di ecclesialità, così come vengono enunciati e argomentati nelle due tradizioni. Una breve introduzione richiama i tre principi che sottostanno al tema sulla chiesa, sia nella prospettiva russo-slava (Spiteris guarda a questa teologia – afferma il teologo Sartori nell’introduzione al volume – «solo come a uno specchio che aiuta a misurare la "novità” concessa alla grande tradizione ortodossa del pensiero greco»), sia in quella greca: la dimensione trinitaria, quella cristologica e quella pneumatologica.
La seconda parte è la più decisiva s e indica le due principali linee di tendenza specifiche dell’ecclesiologia greca moderna: quella che si radica maggiormente nella Tradizione e contempla la forma "protologica” di chiesa (la “chiesa preesistente") secondo tappe di esistenza "storica" (dalla chiesa degli angeli, a quella dell’ Eden, a quella del Verbo incarnato); la seconda, la più nuova e promettente, che fissa invece l'icona della chiesa nella dimensione “escatologica", proponendo una chiesa che deve ‘svolgersi" nella storia e perciò deve affrontare i problemi della sua organizzazione, in particolare la sua “struttura sinodale" e i suoi ministeri.
Spiteris sottolinea che oggi si dà per scontato che tutte le chiese siano convinte dell’esistenza di una certa "unità fondamentale", derivante dal possedere almeno lo stesso battesimo, che introduce il cristiano nel corpo ecclesiale. Sembrerebbe acquisito nella chiesa occidentale che tale unità esista specialmente con le “chiese sorelle” dell'oriente, mentre invece uno dei motivi della crisi dell’ecumenismo, secondo Spiteris, sta proprio nel fatto che ancora non sia chiarito questo punto fondamentale. Il primo e indispensabile presupposto affinché si possa parlare di dialogo tra la chiesa cattolica e quella ortodossa sta proprio nel grado di ecclesialità che una confessione riconosce all’altra. Si tratta a questo proposito di rispondere ad alcune domande: che cosa rappresenta per la chiesa cattolica la chiesa ortodossa, e viceversa? I fedeli dell'altra chiesa sono in realtà e a pieno titolo cristiani? I sacramenti amministrati nell' altra chiesa sono validi? Quali sono i criteri di appartenenza alla chiesa nelle due tradizioni?
In Oriente l'appartenenza alla vera chiesa ha sempre avuto un aspetto giuridico e un aspetto teologico. In genere il primo scaturiva dal secondo, sebbene nella prassi i due aspetti non siano andati sempre d'accordo. Si deve notare che la maggior parte dei teologi ortodossi attuali di lingua greca sostiene che solo i sacramenti della chiesa ortodossa siano validi. Essi – scrive Spiteris – fanno coincidere in modo “rigidamente” esclusivo i confini della chiesa ‘una” e “santa” con quelli della chiesa visibile e canonica ortodossa. Il criterio di ecclesialità, per i teologi greci, rimane sempre quello della “piena conformità alla fede”: il canone della fede sono i primi sette concili ecumenici, mentre qualsiasi aggiunta o diminuzione a quanto da essi definito è considerata “eresia”, e quindi la chiesa che professa tale “eresia" non possiede sacramenti validi. Tuttavia, sebbene i sacramenti degli eretici e degli scismatici siano di per sé invalidi, secondo le situazioni, le singole chiese possono, "per economia (= disegno di salvezza)”, non ripetere il battesimo in caso di conversione.
Di fronte a questo fatto si constata una diversità di comportamenti nelle varie chiese e anche nella stessa chiesa ortodossa, tant’ è vero che l’applicazione e l'interpretazione dell’ economia hanno spesso occupato teologi, canonisti e storici greci. Si sa che le chiese ortodosse non possiedono un organo di magistero ordinario che le rappresenti tutte e, di conseguenza, esse si rifanno ai primi sette concili ecumenici, alla tradizione, ai padri, ai sinodi locali e ai cosiddetti “libri simbolici”, quelli cioè che contengono le varie dichiarazioni di fede di diverse provenienze.
Cosa dice il Vaticano II?
In Occidente, il criterio di ecclesialità che scaturisce dal Vaticano II si può così descrivere in sintesi: la chiesa di Cristo è una e unica, ad essa sono pienamente incorporati i fedeli cattolici perché possiedono tutti quegli elementi che costituiscono la chiesa come è stata voluta da Cristo. I non cattolici sono più o meno in comunione con la chiesa una e unica a seconda degli elementi ecclesiali da essi posseduti. Questi elementi danno oggettività storica alla chiesa una e santa, sono la ricchezza concreta della chiesa. Indispensabili e centrali sono la fede in Gesù Cristo e il battesimo. Quando poi esiste la successione apostolica e l’eucaristia – com'è il caso degli ortodossi – allora l'ecclesialità, a livello locale, diventa più visibile e vera. L'eucaristia, infatti, costituisce la chiesa come sacramento. Tuttavia queste chiese sono tali non indipendentemente, ma solo in quanto sono in "comunione”, anche se parziale, con l'una sancta nella quale sussiste la chiesa cattolica.
Dov’è la chiesa di Cristo?
Quindi i criteri di ecclesialità suscitano ancora interrogativi, in quanto ogni chiesa, specialmente la chiesa cattolica e quella ortodossa, è convinta di incarnare nella sua totalità l’una e unica chiesa. Il problema ecumenico non risolto è dunque sempre il medesimo, dice Spiteris: come è possibile che esista contemporaneamente la chiesa universale “una” e “unica” nella chiesa cattolica romana e nelle altre comunità «non in pie-na comunione con essa»? Secondo il card. Ratzinger, la differenza tra est e subsistit sta nel fatto che est riguarda solo la coscienza della chiesa cattolica romana di essere la "vera” chiesa di Cristo, mentre il subsistit ha valore ecumenico aprendosi anche verso le altre confessioni cristiane nelle quali riconosce l’esistenza di elementi di ecclesialità appartenenti alla vera chiesa di Cristo.
Dunque il problema oggi è il rapporto tra la chiesa universale e le chiese particolari, soprattutto quelle non cattoliche. Qui non si tratta della salvezza escatologica (“Dio nella sua liberalità e nella sua misericordia può trovare i mezzi per salvare tutti gli uomini”), ma si tratta della salvezza intesa come ‘comunione con Dio’ espressa esistenzialmente col fare parte di una comunità com'è stata voluta da Gesù Cristo. Le varie confessioni cristiane non sono sempre d’accordo nel determinare cosa fa sì che «si aggiungano alla comunità quelli che sono salvati», dal momento che intanto ciascuno crede che la sua comunità sia quella che salva.
Sarebbe auspicabile – afferma Spiteris – che, in questa non reciprocità tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, gli ortodossi potessero almeno ripetere le parole del loro teologo P. Evdokimov (1901-1970): «I non ortodossi, per la loro stessa denominazione, non sono più nella chiesa ortodossa, ma è la chiesa, al di sopra del loro distacco, che continua a essere presente e ad agire in presenza della fede e della retta intenzione della salvezza. Noi sappiamo dov’è la chiesa, ma non è dato di portare il giudizio e di dire dove la chiesa non è».
L'interesse della quarta parte del volume sta nella ripresa storica degli “scontri” decisivi dei secoli che hanno sancito la divisione tra le due chiese, scontri anche teologici ma sempre più di tipo "politico”, perché toccano il ruolo del papato. L’autore del volume in questa parte non chiama più in causa teologi attuali, ma ritorna indietro nel tempo ai momenti in cui si sono formati e sono cresciuti i contrasti che oggi pregiudicano, in negativo, l’eventuale dibattito sul papato. Emerge una precomprensione della chiesa ortodossa contro il papato molto rigida: verrebbe da pensare che sia più facile dialogare con i protestanti che non con i fratelli ortodossi. Comunque si deve tener conto che qui si tratta dell’ortodossia greca, che di fatto è più legata al passato e più conservatrice delle altre.
Spiteris conclude quest’ultima parte affermando che si tratta del confronto tra due “universalismi”. Nella prospettiva ecumenica occorre essere consapevoli che «l’ideologia non può essere teologia e molto meno annuncio di salvezza». Noi cattolici siamo chiamati a distinguere il “servizio di Pietro” dal “papato” caricato da ideologie medioevali utili per quell’epoca, mentre ai fratelli ortodossi si potrebbe chiedere: non è forse giunto il momento di rivedere la loro posizione sul papato, liberandola dall’ideologia politico-imperiale che aveva spinto i loro antenati a rinnegarlo? Direbbe Congar: «Dov’è oggi il potere del “basileus”?».
(da Settimana, 1, 2004, p. 12)
Carismi e ministeri (1Cor 12-14)
di Giacomo Lorusso
Dio chiama l'intera umanità alla salvezza mediante la Chiesa. E per renderla capace di adempiere la propria missione, l' arricchisce con dei doni: i carismi. La comunità di Corinto aveva bisogno di una parola di chiarimento da parte dell' Apostolo circa la cooperazione dei diversi charìsmata, poiché motivo di contrapposizione e di sterili confronti. Nei cc. 12-14 della sua prima lettera Paolo riflette sulla loro natura e articolazione, alla luce del confronto tra glossolalia e profezia. Il suo intento è di far risaltare la specificità di ognuno nel contesto della multiforme azione carismatica dello Spirito, che caratterizza il dinamismo di crescita e sviluppo della Chiesa.
La sezione si articola in tre parti: 1Cor 12,1-30; 12,31-13,13; 14,1-40. In 12,1-30 Paolo sottolinea l'origine pneumatica dei carismi, al servizio dell'unità della Chiesa, mentre in 12,31-13,13 presenta la condizione per un'autentica esperienza carismatica: la carità. La carità, infatti, è l' anima dei carismi, feconda la loro azione ed è sin d'ora partecipazione alla comunione divina. La fede e la speranza sostanziano la carità con la conoscenza parziale - già nel tempo - del Dio amore, stabilendo la ragionevolezza della carità. In 14,1-40 Paolo sviluppa il rapporto tra glossolalia e profezia: la reciprocità dei due carismi, la singolarità e la specificità di ognuno, la loro cooperazione per l' attuarsi della missione della Chiesa.
I carismi e i doni dello Spirito
Il c. 12 ha un codice semantico che lo struttura: il rapporto tra «uno» e «molti». Rispettivamente «uno» qualifica lo Spirito, Cristo, il corpo umano, il corpo di Cristo; «molti» i carismi, le membra del corpo umano e quelle del corpo di Cristo.
Nell'introduzione (vv. 1-3) Paolo dichiara che il suo scopo è quello di colmare l'ignoranza di chi nel passato «seguiva» gli idoli «afoni». A differenza di questi, infatti, il Signore «parla» attraverso i suoi, donando la possibilità di pronunziare il proprio nome e dirlo al mondo, grazie alI' azione dello Spirito Santo. L'accento è sul parlare, sulle condizioni di possibilità del pregare e proclamare il nome di Gesù Cristo.
Alla luce di tale affermazione si capisce come i diversi carismi siano elargiti in vista dell'evangelizzazione, per l'opera dell'unico Pneuma. Nei vv. 4-11 Paolo descrive la meravigliosa sinfonia che si sprigiona dai diversi carismi, voce dell'unico Spirito. In apertura abbiamo tre periodi paralleli, ciascuno dei quali associa la persona divina alla molteplicità degli effetti che ne manifestano I' azione:
- lo stesso Spirito | - distribuzione di carismi |
- lo stesso Signore | - distribuzione dei ministeri |
- lo stesso Dio che opera | - distribuzione di ciò che è messo in opera ogni cosa in tutti |
L'accento va sulla ripartizione dei doni all'interno della Chiesa, più che sulla diversità. L’apostolo adopera charìsmata e non pneumatikà, sottolineando la dimensione gratuita del dono (chàrisma è dono concreto di «grazia» ), più che la semplice manifestazione spirituale. Nessuno ha I' esclusiva dei carismi né in termini di quantità né di qualità. Né possono esistere carismi che abbiano un' origine diversa da quella indicata, giacchè gli idoli sono muti e inanimati. L' azione divina (v. 6: due volte energéõ) è sottolineata dall'affermazione «a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito in vista di ciò che giova» (v. 7), e dalla ripresa del verbo energéõ, «operare», al v. 11. Il dono è messo in opera in vista dell'utilità salvifica (symphéron) per il singolo e per la comunità, ed è ripartito secondo i criteri della liberalità divina ( «ripartisce a ciascuno in particolare come vuole» ). Il tema della ripartizione equa e generosa dei doni è enfatizzata dalla struttura dei vv. 8-10:
-ad uno parola di sapienza per mezzo dello Spirito
-ma ad un altro parola di conoscenza secondo lo stesso Spirito
-ad un altro fede nello stesso Spirito
-ma ad un altro carismi di guarigioni nell'unico Spirito
-ma ad un altro operazioni di cose prodigiose
-ma ad un altro profezie
-ad un altro discernimento di spiriti
-ad un altro generi dei modi parlare in lingua
-ma ad un altro interpretazione dei modi di parlare in lingua
Sei su nove sono inerenti al tema del parlare, tre alla dimensione operativa ( «fede» taumaturgica, «guarigioni», «cose prodigiose» ). E tutti sono al servizio dell'unica rivelazione: l'efficacia e la ricchezza dello Spirito che anima la Chiesa.
Descritta la ripartizione dei doni, nei vv. 12-27 Paolo esamina il rapporto di appartenenza vitale che sussiste tra le membra/carismi nel corpo ecclesiale. L'interrogativo di fondo è se vi sia una priorità d'importanza tra i carismi e in che senso si possa parlare di reciprocità.
La metafora del corpo
Ciò sottintende che la Chiesa sia il corpo di Cristo («Così anche è Cristo») e che Cristo stesso abbia un corpo formato da molte membra. Infatti dall’ espressione «così anche Cristo» si passa a «infatti in un solo Spirito noi tutti m vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Non bisogna tuttavia dimenticare che si è nel corpo di Cristo solo se si è «in Cristo» (Rm 12,5). Il binomio unità-pluralità è dichiarato nelle due direzioni: l'unico corpo è costituito da molte membra - le molte membra costituiscono l'unico corpo.Cristo è la realtà totale della Chiesa, nata dallo Spirito nel battesimo (12,13): «...e in un solo Spirito noi tutti in vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Per l'azione dello Spirito, nel battesimo, è generato il corpo che appartiene a Cristo. La complessità della Chiesa è esemplificata attraverso le categorie giudei-greci, schiavi-Iiberi, differenti per cultura e stato sociale, relazioni che presuppongono diversità ma che trovano nel dono dello Spirito una unità perfetta. In 1Cor 6,11 leggiamo: «...ma foste lavati, ma foste santificati, ma foste giustificati mediante il nome del Signore Gesù Cristo e per mezzo dello Spirito del nostro Dio». Il motivo del dissetare il popolo da parte di Dio (cf. Es 15,22) è ripreso in 1Cor 10,4: «Tutti bevvero la stessa bevanda spirituale; bevevano infatti da una roccia spirituale che seguiva; ora la roccia era il Cristo». Il corpo della Chiesa è frutto dell'agire creativo dello Spirito, della sua linfa spirituale di cui ci si disseta.
I vv. 14-20 rilevano il tema della pluralità del corpo che non solo ha molte membra ma è molte membra. Le membra sono il corpo, non solo appartengono al corpo; l'essere del corpo implica l'essere corpo. Il brano si contraddistingue per lo schema «non è I ma è» (negativa + affermativa), che sottolinea l'aspetto della pluralità, grado d'importanza e specificità di ruolo di ciascuno. La distinzione e la relazionalità delle membra tra loro manifestano la realtà del corpo: «Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l'odorato?» (v. 17). Non un membro da solo, ma l’insieme delle membra nella loro articolazione e reciprocità del corpo. L'unità, infatti, contrasterebbe con la dimensione corporale. Al v. 18 si fa risalire tale meravigliosa armonia alla benevolenza divina che ha collocato e strutturato il corpo nella varietà e comunione di tutte le membra «come ha voluto». Senza tale disegno il corpo non potrebbe sussistere. La preferenza data a un solo membro entra in contraddizione con il principio stesso dell'entità «corpo».
I vv. 21-26 pongono l'accento sugli essenziali rapporti che intercorrono tra le membra: «aver bisogno» e «andare incontro al bisogno altrui». Le categorie impiegate sono: proteggere quelle che hanno bisogno di attenzione e rispetto, necessità dell' aiuto reciproco (merimnân = cura/preoccupazione), compartecipazione e solidarietà nelle varie vicende sia positive sia negative che li riguardano. La menzione dell' opera divina richiama la matrice provvidenziale di tale cooperazione (Dio «ha mischiato / unito» ) che esclude ogni velleità di cammini solitari e autonomi (schisma = strappo / divisione).
Paolo ha inserito nel discorso sulle membra due termini altrove adoperati per i comportamenti personali: merimnân e schisma. un accenno ai rischi che il perseguire una logica diversa da quella presente tra le membra del corpo umano determinerebbe nel corpo ecclesiale (cf. 1,10ss e 11,18). Il «debole» che ha bisogno di aiuto è I' asthênes che nei cc. 8-10 qualifica la coscienza del credente, scandalizzato dalla superficialità e controtestimonianza dei «forti», che si nutrono delle carni immolate agli idoli. Ma anche il «più forte» ha bisogno dell'aiuto del «più debole» (vv. 23-24). Il maggiore onore riservato ai «deboli» onora e nobilita anche i «forti»; perciò i carismi e ministeri umanamente meno appariscenti («vili», «indecenti») sono più necessari per il vivere ecclesiale. Tale discorso è ribadito dall' accostamento di merimnân al pronome reciproco allêlôn («l'un l'altro») e dalla successiva esemplificazione della condivisione del dolore o della gioia da parte di tutte le membra (v. 26).
AI v. 27 Paolo fa un'affermazione di identità che riassume le conclusioni del discorso sin qui svolto: i corinzi sono corpo di Cristo e sue «membra», perciò quanto illustrato dalla metafora delle «membra» del corpo umano vale a maggior ragione per i battezzati..
Definiti i rapporti che devono intercorrere all'interno del corpo di Cristo che è la Chiesa, nei vv. 28-30 Paolo pone l'accento sull'operato divino che, come già affermato circa il corpo fisico (vv. 18.25), ha costituito (étheto, v. 18) la Chiesa come tale, articolata in varie «membra», diversi ministeri e carismi. Non vi è appiattimento e uniformità ma organica complessità, poiché non tutti sono apostoli o profeti o maestri, ecc., per la «sovrana fantasia» dello Spirito.
AI v. 28 abbiamo tre portatori di carismi e non la fiera indicazione dei carismi, seguiti da «miracoli» e da altri quattro charìsmata. I primi tre ricordano I' elenco di Ef 4,11 : «Egli ha dato gli apostoli, i profeti, gli annunciatori del Vangelo, i pastori e maestri». Il nostro brano è l'unico a includere I' apostolicità (cf. le espressioni paoline «la grazia a me data» dell'apostolato di 1Cor 3,10; GaI 2,9). Con didàskalos s'intende colui che fornisce un insegnamento pratico e parenetico con riferimento all'interpretazione delle Scritture (cf. 1Cor 4,17; Rm 12,7; 15,4): si passa da colui che pone le fondamenta della vita di fede, al profeta delle parole dello Spirito, all'interprete e catecheta della Parola. Dei carismi alcuni sono una novità rispetto ai vv. 8-10: «Prestazioni di soccorso» come attività più tecnico-organizzativa (antilêmpseis) e «capacità di guidare» la comunità (kybernêseis). Abbiamo anche in questo caso, coerentemente con il resto della sezione, la sottolineatura del tema del «parlare»: i ministeri di «apostoli, profeti, maestri» e il «dono delle lingue», linea ripresa subito dopo nelle domande retoriche, dove cinque su sette riguardano il campo del linguaggio (apostoli, profeti, maestri, parlare in lingue, discernimento).
Se al v. 28 si distingueva tra ministeri e carismi, nei vv. 29-30 si elencano soggetti qualificati da carismi. S' inserisce la dimensione personale e quindi implicitamente la categoria dell' arbitrio umano nel servire i carismi e I' edificazione della Chiesa.
Il primato della profezia sulla glossolalia
Anziché rispondere alla domanda su quale dei ministeri sia il «migliore», «più ragguardevole», Paolo indica la via per diventare «ragguardevoli» nella Chiesa: la carità (12,31b-13,13).
Dopo aver celebrato la «via» della carità per diventare «grandi» nel presente e nell'eternità, confutata la «via» della presunzione e del vanto, alla luce del principio della complementarietà e varietà dei doni elargiti dallo Spirito nel «giardino» di Dio che è la Chiesa, nel c.14 l' Apostolo può affrontare la questione delle finalità e del corretto esercizio dei carismi della profezia e glossolalia, per l' edificazione dell' unico corpo di Cristo.
I due carismi sono esaminati nei mutui rapporti, nella loro individualità e alla luce della più generale vita della Chiesa. Il confronto di valore si articola nel modo seguente:
a) la glossolalia inferiore alla profezia (utilità interna): 14,2-5;
b ) insufficienza della glossolalia: 14,6-19;
a') la glossolalia inferiore alla profezia (utilità esterna): 14,20-25.
Sul piano personale la glossolalia è un dono perchè lode al Dio inesprimibile, ma a livello comunitario necessita di chi la interpreti, a differenza del carisma della profezia, che non ne ha bisogno.
Dopo un versetto di transizione ( 14,26), Paolo definisce le regole che devono essere osservate sia dai glossolali sia dai profeti (14,27-33.36-40), unitamente a un' esortazione a evitare nella concreta comunità di Corinto ogni tipo di confusione durante le celebrazioni comunitarie; di qui l'invito alle donne a non chiedere spiegazioni durante gli incontri, ma in casa ai propri mariti (14,33b- 35), poiché tutto deve essere fatto con ordine (katà tàxin) e convenientemente (euschêmònôs).
Conclusioni
I carismi sono eccellenti doni dello Spirito per la crescita della fede personale e comunitaria, e richiedono discernimento e docilità. Tra di essi non è possibile stabilire una gerarchia di onore, poiché sono finalizzati alla reciproca edificazione nel corpo di Cristo. Questo quadro rende vano ogni tipo di rivendicazione tra glossolalia e profezia, giacché il Dio professato è un Dio che parla e rende capaci di parlare efficacemente, a condizione che si viva nella logica dell’amore.
(da Parole di vita, 3, 2002)
Sarebbe una perdita dimenticare quelle devozioni che la pietà popolare ha reso tradizionali. In esse, se celebrate con giusto spirito, si trova la ricchezza della preghiera.
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
Trentacinquesima parte
2. L'interiorità
Gustare Dio (è risonanza del Sal. 33, 9) produce un cambiamento determinante per il resto della vita. Il P. Colin ritiene anche che questa esperienza all’inizio del cammino religioso sia un punto di riferimento per tutto il resto della vita:
“Più tardi nello scorrere della vita, quando uno ha gustato Dio, se ne ricorda e vi ritorna con piacere” (Ibid., Doc. 63, n. 3, p.190; Doc. 64, n. 1: “Una volta che essi (i novizi) sono uniti a Dio essi si arricchiranno più in un giorno che attraverso quello che voi potrete fare. Sì, se essi hanno gustato Dio una volta, voi non avrete più che una sola preoccupazione, sarà quella di moderarli”.)
Lo spirito d’interiorità introduce nella vita “in Cristo”, riveste il religioso di lui; è come essere il “corpo del suo corpo e l’anima della sua anima”. Al P. Eymard consigliava:
“Dato che la nostra vita è una vita di azione, rivestendovi di Nostro Signore, voi sarete sempre in pace e la vostra stessa anima sarà sempre occupata come in una dolce preghiera”. (Ibid., Doc. 45, nn. 1-2)
l’interiorità consiste nello stabilire l’anima in un atteggiamento di preghiera. L’ideale non la quantità, bensì l’immergere l’anima in uno stato di preghiera, avvolgerla con lo “spirito di adorazione”, alimentarla con il “gusto per la preghiera”: essa infatti è la linfa che nutre l’albero e l’olio che alimenta la lampada:
“Colui che non ama la preghiera assomiglia ad un albero morto o almeno languente… E’ un albero che produce foglie, forse anche qualche fiore, ma non dei frutti… E’ una lampada che fa del fumo o che è sul punto di spegnersi”. (Ibid., Doc. 132, nn. 8-9)
Il traguardo che il P. Fondatore propone ai Maristi, da una parte, prevede che sia raggiunto con le pratiche di pietà le più normali e senza stravaganze e individualismi (Constit., art. VII, nn. 37 ss., pp. 12ss; Ibid., cap. II, art. II, n. 95, p. 35) e, dall’altra che si percorra il cammino della vita interiore fino all’unione mistica con Dio. Per questo maestro “in rebus divinis viisque spiritualibus peritissimo”, ci si applichi a fondo allo studio della teologia mistica (“Parole di un fondatore”, cap. III, art. V, n. 153, p. 53), già iniziato negli anni dello scolasticato e ritenuto da P. Colin un supplemento indispensabile alla teologia scolastica, senza il quale non si potrebbe conoscere, né dirigersi e neppure dirigere gli altri (“Parole di un fondatore”, op. cit., Doc. 79, n. 7, p. 226).
Tra le pratiche che al P. Colin sembrano le più atte a mantenere e favorire lo spirito dell’Istituto, la meditazione (Constit., cap. II, n. 86, p. 31,; Ibid., art III, n. 107, p. 38) occupa un posto di particolare rilievo: essa è “fon set origo omnium bonorum spiritualium” (Ibid., cap. V, art. I, n. 182, p. 62), a cui si attinge la sapienza della vita.