Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I cristiani dopo l'incendio del tempio
di Jean-Pierre Lémonon

L’incendio del Tempio conduce il giudaismo ad una nuova avventura. Deve ormai vivere senza Tempio. La comunità cristiana si trova allora di fronte a un ebraismo che ridefinisce la sua essenza e le sue caratteristiche. Per comprendere le ripercussioni degli avvenimenti del 70 e del 135 su questa comunità, è necessario ripercorrere la storia di una corrente cristiana che, a causa del suo profondo attaccamento alle pratiche ebraiche, scomparve a poco a poco. Questa sensibilità conobbe forme diverse poiché i Padri della Chiesa ricordano a questo proposito due gruppi: i nazirei e gli ebioniti.

Per essere in grado di precisare l' eco avvenimenti del 70 e del 135 comunità cristiana, che si tratti di nazirei-ebioniti o di altre denominazioni cristiane, dobbiamo ricordare in primo luogo le testimonianze di alcuni Padri a proposito di queste due comunità di fede. Poi, al fine di identificare le radici di questi gruppi, dovremo risalire ai primordi del cristianesimo.

Ricostituire la storia del pensiero dei nazirei e degli ebioniti è difficile, poiché non disponiamo di documentazione diretta su questa componente del cristianesimo primitivo. La nostra conoscenza proviene dai Padri della Chiesa che, combattendola vigorosamente, hanno conservato qualche frammento della loro produzione letteraria, come ad esempio il Vangelo secondo gli Ebrei. I Padri sono loro ostili, poiché questi credenti rappresentavano una forma di cristianesimo diversa da quella a cui essi aderivano.

Agli inizi del V secolo, Girolamo è uno degli ultimi testimoni dell' esistenza dei nazirei. Pur riconoscendo la rettitudine della loro confessione di fede, l' eremita di Betlemme rimprovera loro di voler «essere sia ebrei, sia cristiani, [quindi] non sono ne uno, ne l'altro». L'attaccamento alle pratiche ebraiche provoca la virulenta ostilità di alcuni Padri nei confronti degli ebioniti e dei nazirei. Verso il 375, l'infaticabile cacciatore di eresie Epifanio di Salamina scrive su di loro: «La loro origine [degli ebioniti] risale ai tempi che seguirono la presa di Gerusalemme. In effetti, come tutti quelli che avevano creduto in Cristo si erano insediati in quel tempo in Perea, per la maggior parte in una città chiamata Pella, [...] una volta che furono emigrati là e che vi soggiornarono, Ebione colse l'occasione [per insegnare la sua dottrina]. Cominciò con l'abitare Kokabe [...] nella Basanitide [...l. Fu là che cominciò il suo vizioso insegnamento; di lì, a quanto sembra, vennero pure i nazirei, di cui ho parlato sopra». Eusebio di Cesarea, nella Storia ecclesiastica, uno straordinario scrigno della memoria cristiana, conobbe diversi tipi di ebioniti; ma quali fossero le loro convinzioni religiose, le loro pratiche erano da biasimare, perchè sia gli uni che gli altri mettono «tutto il loro zelo a compiere con cura le prescrizioni carnali della Legge» (HE III, 27,3). Eusebio ironizza sul loro nome: «Essi hanno ricevuto il nome di ebioniti, il che mette in rilievo la povertà della loro intelligenza: perchè quello è il termine con cui gli Ebrei indicano i poveri» (HE III, 27,6). La storia della Chiesa antica ricorda il loro attaccamento al Vangelo secondo gli Ebrei e il loro rifiuto delle lettere di Paolo, il nemico per eccellenza di questi gruppi.

Secondo Epifanio ed Eusebio nessuno di questi gruppi si merita il nome di cristiano, perchè, nel migliore dei casi, pur riconoscendo la nascita del Cristo da una vergine, non ammettevano la sua preesistenza. Il loro giudizio era dunque diverso da quello di Girolamo. Di fatto la fedeltà di questi gruppi alle pratiche del giudaismo suscita il corruccio dei Padri. Quindi, se continuiamo a risalire verso i primi secoli cristiani, percepiamo che il rimprovero indirizzato a questi uomini e donne concerne le loro prati - che giudaiche; in compenso, la loro confessione di fede è conforme alla fede comune secondo Origene

(185 - dopo il 251) o Giustino (100 - 165). Effettivamente i Padri si scagliano contro gruppi che praticano i costumi ebraici, pur essendo, al meno in origine, profondamente attaccati a Gesù di Nazaret il Cristo di Dio, colui che nacque da una vergine, che giudicherà il mondo e che ha ricevuto la regalità eterna (secondo i termini di Giustino).

La comunità dei discepoli di Gesù

Come abbiamo letto prima, Epifanio collega la nascita degli ebioniti e dei nazirei alla caduta di Gerusalemme e alI'insediamento di gruppi di discepoli di Gesù a Pella, città della Decapoli. Egli si appoggia ad un' informazione di Eusebio; in effetti, secondo la storia della Chiesa, dagli inizi della guerra giudaica, grazie ad un ordine ricevuto attraverso «una profezia trasmessa per rivelazione ai notabili della zona», la comunità dei discepoli di Gerusalemme o, almeno una parte di questa, sarebbe fuggita da Gerusalemme verso questa città: «I fedeli di Cristo si spostarono a Pella, dopo essere usciti da Gerusalemme in modo che gli uomini santi abbandonassero completamente la metropoli reale degli Ebrei e tutta la regione della Giudea» (HE III, 5,3). L'abbandono fu meno radicale di quello preteso da Eusebio, almeno un ritorno a Gerusalemme avvenne negli anni che seguirono.

Alcune indicazioni del Nuovo Testamento confermano i legami intessuti tra i gruppi denunciati dai Padri e la comunità di Gerusalemme, o almeno la sua frazione più importante. Malgrado lo sforzo unitario che ha condotto a qualche semplificazione, il libro degli Atti non elimina completamente le tensioni che si manifestano dall'origine all'interno della comunità di Gerusalemme, dove si affrontano Ebrei ed Ellenisti (At 6,1). A Gerusalemme le autorità giudaiche perseguitano gli Ellenisti: questo porta alla loro dispersione e alla proclamazione del Vangelo alle nazioni (At 8, 5.26 – 40 ; 11,20). In compenso, a causa del loro attaccamento ai costumi giudaici, gli Ebrei poterono dimorare a Gerusalemme almeno fino alla guerra giudaica. Essi costituirono la matrice della Chiesa di Gerusalemme. Tra loro si trovavano gli avversari più accaniti delle concezioni paoline (At 15,1-2.5). Quindi, Paolo non esita a trattare da «falsi fratelli» (GaI 2,3) quelli che avrebbero voluto circoncidere i pagani e così chiudere la «porta della fede» alle nazioni.

Due racconti riecheggiano l' assemblea che, nel 51, seguì il ritorno di Paolo a Gerusalemme, in seguito alla sua missione in Macedonia e in Acaia. L'Apostolo ebbe la fortuna di vedervi riconosciuta la grazia che gli era stata fatta di annunciare il Vangelo presso le nazioni (GaI 2, 3 - 4). La versione degli Atti degli Apostoli (At 15, 5 - 21) differisce su numerosi punti da quella della lettera ai Galati, comunque i due racconti sono in pieno accordo sul risultato decisivo per l'avvenire della comunità cristiana: non vi era l' obbligo di imporre la circoncisione ai discepoli che venivano dalle nazioni.

Malgrado la vittoria di Paolo, i discepoli attaccati alle usanze ebraiche non disparvero per questo. Alcuni che, a torto, si misero sotto il patronato di Giacomo, il fratello del Signore, non si consideravano ancora battuti; saranno ancora fonte di numerose preoccupazioni per Paolo, come indica specialmente l' incidente di Antiochia (GaI 2, 11 - 14) e la situazione in Galazia. I Galati avevano accolto con gioia il Vangelo, ma alcune persone, che si richiamavano ovviamente a Giacomo, cercarono in seguito di imporre la circoncisione ai discepoli. Gli avversari di Paolo attribuivano un valore salvifico alle pratiche ebraiche. Questi discepoli di Gerusalemme condussero missioni nella Diaspora, in particolare in Mesopotamia e in Egitto. Pur confessando Gesù come Messia di Israele e Signore, essi predicavano la circoncisione e il complesso delle pratiche ebraiche. Per questa corrente l'incendio del Tempio ebbe conseguenze notevoli, perchè la distruzione contribuì a ridurre la sua influenza in seno al cristianesimo primitivo. Ormai questi discepoli di Gesù si trovavano in una situazione difficile. In effetti, non soltanto erano destabilizzati dalla fine di un ebraismo eterogeneo, ma si trovavano anche presi in mezzo tra un giudaismo che si stava unificando ed un cristianesimo che, pur abbeverandosi alle Scritture di Israele, fioriva rifiutando le pratiche tradizionali ebraiche.

È quindi sorprendente constatare che il canone neotestamentario taccia sull' evangelizzazione delle regioni della Diaspora, le cui località sono al massimo ricordate nella tavola delle nazioni, citata nel racconto della Pentecoste (At 2, 9 - 10).

Scegliere tra la sinagoga e la comunità cristiana

Nel 62, dopo il martirio di Giacomo, fratello del Signore, il nuovo responsabile della comunità è Simeone, figlio di Clopas, un parente del Signore (HE III, 11). La caduta di Gerusalemme non segna la fine di ogni insediamento dei discepoli di Gesù nella città. In effetti, secondo Eusebio, fino al 130, si scelse come vescovo di Gerusalemme un Ebreo di antico ceppo; la scelta non è per nulla sorprendente poiché «l' intera Chiesa di Gerusalemme era allora composta da Ebrei fedeli: fu così dagli apostoli fino all'assedio che subirono quelli che vivevano in quel tempo, durante il quale i Giudei si separarono di nuovo dai Romani e furono distrutti in guerre terribili» (HE IV, 5,2).

Verso la fine del I secolo, i «maestri della Sinagoga» proposero di applicare ai discepoli di Gesù la dodicesima benedizione che, dagli anni 150 a.C. era, con qualche variante, utilizzata per impedire agli eretici e a tutti quelli che si allontanavano dalla tradizione di Israele di partecipare alle riunioni comunitarie. Così le autorità della sinagoga rendevano impossibile la partecipazione dei discepoli di Gesù alle attività della comunità giudaica. Da parte sua, la tradizione giovannea è una buona testimonianza della polemica diretta contro i discepoli attaccati ai costumi ebraici.

Questi ultimi sono simboleggiati dai fratelli di Gesù che non credono in lui (Gv 7,5) e dagli Ebrei che avevano creduto, ma che comunque non ispiravano fiducia a Gesù (Gv 2,23-25; 8,31-59). In più il racconto giovanneo della guarigione del cieco nato intima a questi discepoli di scegliere il loro campo: essi sono rappresentati dai parenti del cieco che conoscono la verità, ma temono di essere esclusi dalla sinagoga (Gv 9,22).

In seguito alla rivolta di Bar Kokhba nel 135, l'imperatore vieta agli Ebrei «di avvicinarsi anche ai dintorni di Gerusalemme [...]. Così la città [di Gerusalemme] fu ridotta ad essere completamente abbandonata dal popolo giudaico e a perdere quelli che l' avevano un tempo abitata» (HE IV, 6,4). La decisione dell'imperatore ebbe conseguenze nefaste per i discepoli di Gerusalemme e i loro seguaci rimasti attaccati alla città e alle pratiche del giudaismo. Privati del legame con la terra di Israele, questi discepoli videro accentuarsi la loro marginalizzazione. Si indebolirono talmente che furono considerati come stranieri da quelli che, ormai, venivano chiamati «cristiani». Restare attaccati alla sinagoga e confessare Gesù come «Cristo e Signore, il Figlio», non era ormai più possibile, ne dal punto di vista dei cristiani, ne da quello degli Ebrei. Come gli Ebrei, non avevano più uno statuto

E quelli chiamati «cristiani»?

Per i cristiani che avevano accettato la rottura con le pratiche ebraiche la presa di Gerusalemme non fu di capitale importanza. Si rimane spesso sorpresi che la caduta di Gerusalemme non abbia avuto risonanza nei Vangeli. Nondimeno le tracce della presa della città si possono leggere in qualche racconto di Matteo e di Luca (M t 22,7; Lc 19,43; 21,21-24). La distruzione del Tempio è così acquisita quando Matteo redige la comparsa di Gesù davanti alle autorità deI suo popolo (M t 26,61; 27,40), così come quando Luca riporta, nel libro degli Atti, le accuse portate contro Stefano dai suoi avversari (At 6,14).

Lo scarso numero di menzioni non deve sorprendere; il Tempio non era più da molto tempo al centro deI pensiero cristiano. Ormai per le comunità di tradizione giovannea, il vero santuario è lo stesso Signore Gesù Cristo (Gv 2,21). Le comunità paoline, poi, si considerano come il santuario (I Cor 3,16-17; 2 Cor 6,16).

I primi secoli cristiani, da parte loro, interpretarono la caduta di Gerusalemme come conforme alle predizioni di Cristo e vi riconobbero la sanzione deI comportamento dei suoi abitanti: «Tale fu il castigo degli Ebrei a causa della loro iniquità e della loro empietà nei confronti deI Cristo di Dio» (HE III,7,1).

Questa interpretazione, come ognuno sa, contribuì, ahimé, ad una disistima deI giudaismo da parte dei cristiani.

(da Il mondo della bibbia)

Sabato, 01 Aprile 2006 22:03

Apocalisse (Claudio Doglio)

Apocalisse
di Claudio Doglio

La parola «Apocalisse» è la trascrizione italiana del sostantivo greco apokálypsis, che compare all'inizio dell'ultimo libro neotestamentario e ne è divenuto il titolo tradizionale. Questo sostantivo deriva dal verbo greco che significa «azione del togliere ciò che copre o nasconde», cioè «scoprire, svelare». La traduzione corrente con «rivelazione» esprime bene l'azione di chi rimuove il velo per mostrare ciò che era nascosto.

Nella lingua greca classica il sostantivo non compare; si usa il verbo corrispondente, ma sempre con valore esclusivamente umano. Nella versione dei LXX, dato l'uso linguistico greco, il vocabolo apokálypsis è rarissimo (4x).

Nel NT la parola «apocalisse», tradotta abitualmente con «rivelazione», ritorna 17 volte in contesti differenti e con sfumature di significato, che possiamo raccogliere in tre ambiti. Un primo gruppo di citazioni riflette un ambiente liturgico ed eucologico: apocalisse indica la manifestazione di una verità, la comunicazione di un messaggio illuminante che permette di conoscere il progetto eterno di Dio (Lc 2,32; Rom 16,25; 1Cor 14,6.26; Ef 1, 17). Nelle lettere di Paolo, però, lo stesso termine ritorna con una accezione diversa e viene ad indicare una esperienza straordinaria e mistica (Gal 1,12; 2,2; Ef 3,3; 2Cor 12,1.7). Infine, un terzo significato è quello che si è imposto nel tempo, assumendo il valore di manifestazione escatologica, sinonimo di parusia o di compimento finale del piano divino (Rom 2,5; 8,19; 1Cor 1,7; 2Ts 1,7; 1Pt 1,7.13; 4,13).

Nell'uso moderno «Apocalisse» è divenuto un termine tecnico, insieme all'aggettivo derivato «apocalittico», per indicare un particolare genere letterario, una mentalità religiosa e un vasto insieme di testi canonici e apocrifi. Ma nel linguaggio corrente, giornalistico o cinematografico, la parola apocalisse, con significato distorto ed erroneo, ha finito per indicare cataclisma, enorme disastro e fine del mondo.

(da Parole di vita, 1, 2000)

Antichità cristiana…
fino al medioevo
di Franco Gioannetti

Nel Nuovo Testamento Gesù ha un atteggiamento di intimità con il Padre. È con lui in atteggiamento di dialogo sia da solo che nel tempio, che nella sinagoga. Non lo teme, è con lui al Tabor, all’orto degli ulivi, al Calvario.

Per noi costituisce l’esempio di intimità con il Padre.

Egli è “immagine del Dio invisibile” (Col 1 /15), è “splendore della gloria” del Padre (Ebrei 1 /3), egli è l’unica via di accesso al Padre (Gv 14 / 2).

In lui si contempla il volto divino (2Cor 4 / 6) Gesù, la sua umanità, l sua morte e resurrezione sono il fondamento della mistica cristiana.

Giovanni 6/56 e 15/4-16 invita a tendere all’unione con Cristo; Paolo dirà in Galati 2/20:

“Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me”.

La Patristica svilupperà la dottrina della divinizzazione, tenendo presente l’intuizione neoplatonica del Dio assoluto che può essere conosciuto nella contemplazione dove trovano un fondamento naturale per la mistica.

Saranno i Padri del deserto a rafforzare l’idea che la mistica sia il normale compimento di una vita di grazia.

S. Basilio Magno afferma che l’amore di Dio sorge spontaneo nel cuore dell’uomo.

L’amore di Dio, dice, è come un germe della natura stessa.

La mistica cristiana ha come fondamento Cristo morto e risorto e quindi la sua vita nell’uomo.

Dionigi Aeropagita tenta di descrivere lo sviluppo della coscienza mistica e la natura dell’unione dell’amore con Dio.

Nel Credo professiamo che la Chiesa è santa, mentre Gesù a colui che lo chiamò "Maestro buono " rispose: "Nessuno è buono se non uno solo, Dio ".

Martedì, 28 Marzo 2006 02:23

Il sogno di Dio (Alex Zanotelli)

Il sogno di Dio
(cfr Ap, 12-13)
di Alex Zanotelli *

Dio sogna un mondo diverso da quello che abbiamo tra le mani. E chiama tutti a realizzarlo qui e ora, smascherando l'impero del denaro, cambiando la politica, rinnovando la Chiesa, facendo comunità e vivendo sobriamente. Può Dio accettare situazioni assurde come quella di Korogocho, dove migliaia di persone vivono accatastate, prive di tutto, minacciate dall'aids, mentre a meno di tre km ci sono ville da nababbi? Uno dei migliori biblisti americani, Walter Brueggemann, nel suo libro The Prophetic imagination, riassume in tre proposizioni il senso del sogno di Dio sull’umanità:

- Dio sogna per il suo popolo un'economia di eguaglianza: significa che i beni di questo mondo devono servire a buona parte delle persone e non a una minoranza. L'economia è al primo posto (e qui bisogna dar atto a Marx di aver visto giusto), perché il primato dell'economia [purtroppo] è chiarissimo.

- Per ottenere questo, però, c’è bisogno di una politica di giustizia, cioè di un tipo di politica che batta la tendenza delle società umane a strutturarsi nella disuguaglianza. E qui Marx si è sbagliato: l'uomo non è cattivo perché la società lo fa cattivo: la cattiveria è dentro l'uomo, fa parte dell'uomo.

- Ma per avere una politica di giustizia c'è bisogno di un popolo che faccia un’esperienza religiosa dove Dio è libero … Un Dio che essendo libero (Jhwh è il rifiuto di darsi un nome) non è il Dio del sistema, ma il Dio delle vittime di ogni sistema, il Dio degli oppressi, delle vedove, degli orfani, di chi non conta.

Ecco il cuore del sogno di Dio. Questo sogno viene affidato a Mosè, che è chiamato a tornare in Egitto ad affrontare l’Impero che, come ogni impero - faraonico, babilonese, romano, come l'odierno impero del danaro -, è l'opposto del sogno di Dio. Ogni impero è basato su un'economia di opulenza, dove poche persone hanno tutto.

«Che cos'è il regno di Dio? » ho domandato un giorno, durante la celebrazione, a una vecchietta che vive sulla discarica di Korogocho. «Caro Alex », mi ha risposto, «Il Regno di Dio è saziarsi». Ed è vero. La prima cosa che Dio vuole è che ognuno di noi abbia di che vivere con dignità. In Egitto c'era il 10% della popolazione che viveva nell’abbondanza a spese di molti morti di fame. A Roma la stessa proporzione: questa la realtà imperiale. Un'economia di opulenza richiede una politica di oppressione. Ecco perché le armi sono parte integrante di ogni Impero. Ogni anno si spendono 900 miliardi di dollari in armamenti. Ogni Impero esige, poi, una religione in cui Dio è prigioniero del Sistema. […] È questa l’analisi che ci aiuta a fare la letteratura apocalittica (la nuova forma che la profezia assume in contesto imperiale) da Daniele all'Apocalisse.

L'Apocalisse ha aiutato le piccole comunità cristiane dell’Asia minore a leggere l’Impero di Roma, la grande Bestia che sale dal mare, espressione suprema di tutti gli imperi della storia. La Bestia cavalca nella storia i vari imperi. Nell'Apocalisse la Bestia cavalca la grande prostituta che è Roma. È importante notare che mentre la prostituta è uccisa, la Bestia fugge per cavalcare «altro» nella storia. Il profeta vuole dire che questa Bestia che cavalca Roma non può essere identificata con l'Impero. Roma è la grande prostituta, ma la Bestia una realtà più grande dell'Imperium. L'Apocalisse ha tolto la facciata di virtù della Roma imperiale, rivelandola per quello che era: violenta, oppressiva ...

Questo ci può aiutare a rileggere oggi l'Impero del Denaro […] Ma non esiste una posizione neutra per leggere la realtà. Il contesto è altrettanto importante del testo. È chiaro che il profeta dell'Apocalisse non ha analizzato Roma da Roma. Questo profeta legge l'Impero dalla parte degli oppressi, dei crocifissi del potere imperiale. Il profeta dell'Apocalisse parte da qui: in primo luogo dal Crocifisso, da quel Gesù crocifisso fuori le mura, fatto fuori dal potere politico romano insieme con l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, vittima dell'Impero. È poi da tutti gli altri crocifissi. E noi cristiani non abbiamo altra scelta, se non quella di leggere la realtà a partire dal Crocifisso, dai crocifissi, dalle vittime, dagli ultimi. Ecco perché siamo sempre «dall’altra parte» . Se noi, come il profeta dell'Apocalisse, riusciamo a leggere la realtà dalla parte di chi paga per questo Sistema, dalla parte del Crocifisso e delle vittime dell'Impero, è chiaro che l'Impero economico è oggi la grande Bestia. E quella Bestia che aveva cavalcato Roma, la grande prostituta, ora cavalca l'Impero del Denaro. È ancora lei che cavalca nella storia.

Questo potere economico oggi ha stravinto, come è detto in questo testo: «Aveva potere su ogni tribù, popoli, nazioni e tutti l’adoravano». Oggi sembra che tutti si inchinino davanti a questo strapotere, davanti ai grandi dell'economia. E così noi diventiamo parte integrante del Sistema. Nelle lettere che il profeta scrive. a nome del Signore, alle sette comunità, alle sette chiese (e quindi a tutta la Chiesa) egli manifesta il suo timore che le comunità cristiane stiano lentamente adattandosi alla cultura dominante. È lì il vero, grande pericolo. Non ha paura della persecuzione, che invece rafforza la comunità. Il nostro grande pericolo è che anche noi diventiamo parte integrante dell’idolatria dominante, dell’economia imperante, per cui finiamo col non dire più nulla a nessuno.

Ma la resistenza si paga sempre. Essa implica il martirio, che non è soltanto il martirio fisico ma anche e soprattutto quello psicologico. È eroico oggi, nel cuore dell'Impero, fare resistenza, vivere in maniera alternativa. Questo richiede una conversione personale ma anche strutturale (la dimensione economico- politica della conversione).

Dobbiamo imporre all’economia di attenersi a decisioni prese democraticamente. Altrimenti la democrazia è una vuota parola. Dobbiamo ridimensionare il nostro stile di vita, dobbiamo imparare a vivere più semplicemente... È chiaro che compiti tanto gravosi non possono essere affrontati individualmente. Ci si deve aggregare in comunità di resistenza. È attraverso le nuove tecnologie informatiche è possibile rimanere in connessione con le lotte del Sud del mondo, fare un'informazione fuori dal coro, che denunci le ingiustizie e organizzi la speranza. Inoltre, dobbiamo aiutare la Chiesa a cambiare... la Chiesa deve trovare il coraggio di dire la verità sul Sistema: deve coniugare fede ed economia; deve mettere in evidenza la nonviolenza attiva, che è stata inventata non da Gandhi ma da Gesù.

È importante che dietro a ogni piccola iniziativa ci sia una comunità dove ritrovarsi, per aiutarsi nell'analisi sociale (per i credenti è importante la Parola!). Non potete resistere a tutto, impegnarvi su tutti i fronti, sul nucleare come sugli immigrati, sulla pace come sul commercio o sull’informazione..., è impossibile! Ogni comunità dovrebbe assumersi un impegno preciso, per poi connettersi con le altre comunità. Perché è dal basso che nascere qualche cosa di nuovo e tocca a noi farlo nascere. È la grande lotta contro il Drago dell'Apocalisse, non per ucciderlo ma per cambiarlo. L’Agnello può trasformare il Drago, finché Babilonia diventi la città di Dio, la sposa dell'Agnello. Non ci sono Imperi da abbattere, non ci sono nemici da uccidere, ma solo da trasformare. È l'immenso compito di cambiare un mondo che ci sta inesorabilmente portando alla monte […].


* Prefazione,
in G. MARTIRANI, Il drago e l’agnello, Ed. Paoline, Milano, 2001, 15-17

Come la povertà sfida l’annuncio della fede

di Gustavo Gutiérrez

 

Vorrei presentarvi alcune riflessioni sulla sfida che rappresenta la povertà nel mondo di oggi per l'annuncio del Vangelo, cioè per la missione centrale della Chiesa. Potremmo dire che la povertà è un segno dei tempi: a volte tendiamo a dare ai segni dei tempi solo una connotazione positiva, ma ve ne è anche una negativa, ed è per questo che si tratta di discernere tali segni, individuando quanto è in linea con quello che la Rivelazione ci dice dell'amore di Dio e quanto gli si oppone. Vorrei ispirarmi a una frase di un grande missionario, Bartolomé de Las Casas, che diceva, pensando agli indios, cioè ai più insignificanti: del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto viva e fresca.
Presenterò le mie considerazioni in tre punti:

1) la sfida che rappresenta la povertà oggi per l'annuncio della fede cristiana e il tentativo di risposta della Chiesa negli ultimi anni, a partire da un contesto latinoamericano, attraverso l'opzione preferenziale per i poveri;
2) le diverse dimensioni di questa opzione;
3) l'evangelizzazione nel mondo di oggi.

1) La sfida della povertà all'annuncio della fede

La povertà si presenta come un fatto di massa, qualcuno ha detto come un fenomeno di civiltà. Per molto tempo i poveri erano considerati come casi individuali, ed erano inoltre fisicamente vicini. Oggi - attraverso la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione, l'economia neoliberista, la crescita della popolazione nel mondo, la nuova presenza di vecchie religioni dell'umanità - possiamo dire che la povertà si presenta come un fatto universale enorme e profondo. E sorge allora una domanda: come dire al povero, oggi, che Dio lo ama? La vita quotidiana del povero sembra essere precisamente la negazione dell'amore. Come dire ai poveri non solo che Dio li ama, ma che, partendo dalla rivelazione biblica, Dio li ama in maniera preferenziale, prioritaria? A questa domanda cerca di rispondere quella che abbiamo formulato come opzione preferenziale per il povero (pur nella consapevolezza che tale domanda è molto più ampia della nostra capacità di risposta). L'espressione deriva da una prima riflessione condotta in America Latina negli anni '60 e nasce come tale tra Medellín e Puebla. Esaminiamola parola per parola.

Povero, povertà. Parlando dell'opzione per il povero è chiaro che ci riferiamo al povero reale, perché il povero spirituale è un'altra cosa. Povertà spirituale è sinonimo di infanzia spirituale, che è l'affidarsi di un credente a Dio, il porre la propria vita nelle sue mani. È l'ideale di un cristiano: i poveri spirituali sono i santi. Quando parliamo di opzione per il povero parliamo invece del povero reale. Sarebbe facile optare per i santi, sono così pochi! Stiamo parlando invece di milioni di persone. Ma bisogna essere un povero spirituale per fare un'opzione per il povero reale.

La povertà è cambiata nell'ultimo decennio, in alcuni casi già nell'ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti. Ricorderò solo due cambiamenti importanti nella nostra percezione della povertà. Il primo è che la povertà è un fatto complesso. La parola povero evoca immediatamente l'aspetto economico, che infatti è un aspetto della povertà. Ma il povero nella Bibbia non è solo quello che non dispone di risorse economiche. Nella Bibbia, ed anche in questa riflessione teologica, povero è colui che è insignificante. E si può essere insignificanti, non persone, per ragioni economiche, certamente, ma anche per ragioni culturali, razziali, per il colore della pelle, per ragioni di genere (la condizione femminile è di sicuro una condizione di insignificanza). Molte volte, poi, tutti questi aspetti o alcuni di essi si riuniscono in una sola persona. Tutte queste persone sono quelle che chiamiamo "insignificanti" (naturalmente tra virgolette, perché non c'è essere umano che per Dio sia insignificante).

C'è poi un secondo cambiamento. Per molto tempo, e in alcuni casi anche ora, la povertà è stata vista come un fatto naturale, quasi come una fatalità. Alcuni nascevano poveri, altri ricchi. E da lì ad affermare che questa era la volontà di Dio il passo era breve, e infatti è stato fatto, molte volte. Per questo si parlava di due tipi di dovere: per i ricchi generosità, per i poveri umiltà e gratitudine. È chiaro che non si può giudicare il passato con le categorie attuali: a quell'epoca non esisteva l'idea, presente invece oggi nell'umanità, che la povertà ha delle cause, e che queste cause sono le strutture sociali ed economiche e anche le categorie mentali (l'idea per esempio che un tipo di cultura è superiore a tutte le altre e che queste un giorno dovranno incorporarsi ad essa). Parlare di cause è riconoscere che la povertà è il risultato delle nostre azioni e, di conseguenza, che non è la volontà di Dio, bensì una costruzione dell'essere umano. E se siamo noi ad aver creato la povertà, vuol dire che possiamo anche disfarla, eliminarla. La povertà non è un destino, ma una condizione; non è una disgrazia, ma un'ingiustizia. Questa coscienza si è andata diffondendo nell'umanità, portando di conseguenza a comprendere che oggi non è sufficiente l'aiuto immediato al povero, ma che bisogna anche andare contro le cause della povertà. Questa coscienza è avanzata con molta lentezza in ambienti cristiani, e tuttora per molte persone l'impegno con i poveri è solo l'aiuto immediato e diretto al povero. Un aiuto pur sempre necessario: se incontro un povero con una grande necessità non posso dirgli "non preoccuparti, io sto lottando contro l'ingiustizia, ma poi ritorno". Perché quando ritorno sarà già morto! L'aiuto immediato è importantissimo ma non è più sufficiente. Perché è cambiata la nostra percezione di quello che è la povertà.

I poveri stessi conservano spesso la vecchia mentalità: "che posso farci? È la cattiva sorte, sono nato povero". Nella mia parrocchia ho lottato per venti anni, e con un successo relativo, contro l'idea che hanno spesso le donne: "noi donne siamo nate per soffrire". Per questo sopportano tutto, con grande contentezza degli uomini: sono nate per soffrire? Che soffrano! Nell'insegnamento della Chiesa questa prospettiva è entrata con una certa lentezza: prima Giovanni XXIII con la Pacem in terris, poi Paolo VI con la Populorum progressio e infine Giovanni Paolo II, che è il papa che più parla delle cause della povertà.

Preferenza. Ho letto ed ascoltato interpretazioni piuttosto curiose di questa parola, per esempio che nell'espressione "opzione preferenziale per i poveri" la parola preferenziale si deve alla volontà di ammorbidire l'opzione. Storicamente non è vero. Una delle sue fonti è l'espressione pronunciata da Giovanni XXIII l'11 settembre del '62, un mese esatto prima dell'inizio del Concilio: che la Chiesa è e vuole essere la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri. La parola "preferenza" non possiamo comprenderla se non la mettiamo in relazione con l'universalità dell'amore di Dio. Dio ama tutte le persone, nessuno escluso: povero, ricco, bianco, nero, tutti sono amati da Dio. Ma, allo stesso tempo, Dio preferisce gli ultimi, i più poveri. C'è tensione, non contraddizione. Una madre con più figli di diversa età proteggerà specialmente il più piccolo. E la domanda eterna dei più grandi è: tu ami più mio fratello. E la risposta eterna è: no, io amo tutti ugualmente. L'amore di Dio è un amore per tutti e una protezione speciale per chi più ne ha bisogno. Dire "per me solamente i poveri sono importanti" non è da cristiani. Dire "io amo tutti allo stesso modo", neppure. Se parlo di preferenza, sto dicendo che non escludo nessuno. E se dico "primo", vuol dire che penso a un secondo, perché se non c'è un secondo non direi "primo". Preferenza significa che qualcosa è prioritaria, ma che non è l'unica. C'è una tensione, è vero, ma le tensioni sono feconde, come quella che esiste tra contemplazione e azione, entrambe necessarie. Così è anche per l'universalità e la preferenza. Il teologo Karl Barth diceva negli anni '40: Dio prende sempre la parte del più povero, dell'oppresso, del più debole. Negli anni '40 non c'era bisogno di richiamarsi alla Teologia della Liberazione per rendersi conto di questo, bastava leggere la Bibbia.

Il tema della preferenza porta con sé una domanda: perché i poveri devono essere prioritari? Si possono dare molte ragioni. Per esempio, sulla base di un'analisi sociale, economica, culturale del mondo di oggi, di fronte alla presenza di moltissimi poveri, di una così grande sofferenza nell'umanità, posso pensare che è opportuno optare per i poveri. È una ragione legittima, ma non quella decisiva. Posso essere spinto dalla compassione umana, ma neppure questo è decisivo. E non lo è neanche il fatto di avere un'esperienza diretta del mondo povero. Molte volte, fuori dall'America Latina, sento persone che dicono di capire perché parlo dei poveri: perché sono latinoamericano. Io dico sempre: per favore, non comprendetemi così presto! Perché la prima ragione per cui parlo dei poveri è perché tento di essere fedele al Dio di Gesù. Un'altra ragione che si dà a volte è che i poveri sono tanto buoni e tanto generosi. Quando sento questo, penso sempre che la persona che lo dice lavora con i poveri da sei mesi: se lavorasse con loro da sei mesi e mezzo già non lo direbbe più. I poveri sono esseri umani e tra loro vi sono quindi i buoni e i generosi e quelli che rappresentano un pericolo pubblico. La ragione per occuparsi dei poveri non è perché il povero è buono, ma perché Dio è buono. Questa è la ragione decisiva per un credente. È un'opzione teocentrica. La ragione è la bontà di Dio, la bontà gratuita, che non dipende cioè dai meriti di una persona. Così un padre ama i suoi figli. E Dio ci ama gratuitamente perché siamo i suoi figli e le sue figlie. Non è la qualità morale o religiosa del povero che deve motivare l'opzione, ma l'amore gratuito di Dio.

Opzione. L'origine di questa parola si può trovare a Medellín: la povertà come impegno è solidarietà con il povero e protesta contro la povertà. Gesù ha preso su di sé i peccati di questo mondo: per amore del peccato? No, per amore del peccatore e per rifiuto del peccato. Si ama chi soffre la povertà, ma la povertà, in quanto condizione inumana, non è amata da Dio. L'opzione per i poveri comprende questa doppia dimensione. A volte si pensa che è il non povero a dover fare l'opzione per il povero. Non è così. L'opzione per il povero è compito di ogni cristiano, povero e no. A volte il non povero soffre di un certo complesso, ritenendo che l'essere poveri sia di per sé una cosa buona. Ma l'insignificanza non è un ideale: non bisogna cercare di essere insignificanti, bisogna cercare di essere impegnati al loro fianco. Penso a mons. Romero: Romero non era un insignificante. Come poteva esserlo un arcivescovo? Ma era impegnato, fino al punto da dare la sua vita. L'ideale cristiano è l'impegno, ma accompagnato dalla coscienza che questa situazione di povertà, di insignificanza sociale non è in accordo con la volontà di Dio.


 

2) Dimensioni della prospettiva dell'opzione preferenziale per i poveri.

Per prima cosa
, l'opzione per il povero si ripercuote sul lavoro di evangelizzazione. Dopo Medellín, molti gruppi cristiani, comunità religiose, gruppi di laici, si spostarono nelle aree povere delle proprie città e Paesi. Ma non c'è solo una ridistribuzione di forze pastorali a vantaggio di questi settori. C'è qualcosa di più, e cioè l'assumere la prospettiva del povero nell'annuncio del Vangelo in qualunque settore sociale. Anche per le persone che vivono in Paesi dove i poveri sono una minoranza si tratta di lavorare a partire dal povero. Non sempre si tratta di andare fisicamente nelle aree povere, c'è anche la possibilità di andare mentalmente, di vedere cioè la storia umana, e il presente, e le sfide del terzo millennio a partire dai poveri. È, in maniera molto semplice, chiedersi, come fa il libro dell'Esodo, dove vanno a dormire i poveri nel mondo che viene. Che ne è di loro nel mondo che si sta costruendo?

Oggi esiste un interesse molto grande per la teologia della geografia dei vangeli, soprattutto di Marco. La Galilea è una provincia disprezzata, dove la gente parla anche con un accento diverso (per questo Pietro viene scoperto). E se Gesù va a morire in Giudea, dove c'è Gerusalemme, è tuttavia in Galilea, in questa terra disprezzata, che annuncia il Regno. È da qui che parte l'evangelizzazione. Oggi noi dobbiamo scegliere la nostra Galilea. Il mondo del povero deve essere il punto di partenza della nostra evangelizzazione. Non ci sarà magari aiuto fisico, diretto, nelle zone povere, però sì ci dovrà essere questa prospettiva.

Le persone di Chiesa, gli operatori pastorali, qualunque sia la loro origine sociale, sono persone che hanno la loro residenza in un mondo che non è del povero. Il mondo del povero si presenta come un campo di lavoro, non di residenza. Il mondo del povero è conflittuale, complicato, anche pericoloso. Dobbiamo convertirci e portare il nostro mondo nel mondo del povero, avere lì la nostra casa e da lì uscire ogni mattina ad annunciare il Vangelo ad ogni persona.

C'è poi una dimensione teologica. Nel dialogo con alcuni settori di teologia accademica - il termine non mi piace molto perché sembra avere una sfumatura peggiorativa, mentre si tratta di un lavoro serio (nella mia vita io ho cercato di fare teologia accademica) - una cosa che risulta difficile è convincere molti teologi dell'emisfero nord che la povertà è una sfida alla fede. Per loro, infatti, si tratta solo di un problema sociale. Comprendono bene, questi teologi, che quello che viene dalla società moderna (la ragione critica, le libertà moderne, l'affermazione dell'individuo) è una sfida alla teologia. Ma la povertà no. In realtà la povertà, se è un fenomeno di civiltà, se è così tanto profonda, rappresenta una grande sfida all'annuncio della fede.
La domanda della teologia moderna potrebbe essere quella formulata dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: come parlare di Dio in un mondo adulto? Si tratta del mondo moderno, un mondo che non ha bisogno di Dio per spiegare, per esempio, i fatti naturali. Il "come" non significa che non se ne possa parlare: è una domanda. Allo stesso modo, possiamo dire che quello che mette in discussione l'annuncio del Vangelo è il mondo della povertà. Perché la povertà in ultima istanza significa morte: morte prematura e morte ingiusta. I primi missionari domenicani delle Indie, oggi America Latina, dicevano: gli indios muoiono prima del tempo. Ed è questo che succede ai poveri oggi. Malattie che l'umanità è già riuscita a debellare continuano ad uccidere persone nei Continenti poveri. Alcuni anni fa è apparso in Perù, e non se ne è più andato, il colera, che non esisteva più da molto tempo. E ha ucciso molti poveri, che non hanno possibilità di bere acqua pulita. Nei quartieri residenziali non è morto nessuno: anche il colera aveva fatto l'opzione preferenziale per i poveri. Questa è morte fisica, ma c'è anche la morte culturale. Gli antropologi dicono che la cultura è vita: quando io disprezzo una cultura, uccido culturalmente chi fa parte di questa cultura. Quando non si riconosce la pienezza dei diritti umani di una persona in qualche modo la si sta uccidendo. Questa è la povertà.

La povertà in ultima istanza è morte, ma noi cristiani dobbiamo essere testimoni della vittoria sulla morte, della risurrezione. Come essere testimoni della resurrezione, allora, in un pianeta, in un continente segnato dalla morte prematura e ingiusta? La resurrezione è la vittoria sulla morte, è l'affermazione che la vita e non la morte è l'ultima parola della storia. E per vita intendo sia quella spirituale che quella fisica. Questo mette in discussione l'annuncio del Vangelo.

Pensare la fede a partire dal povero non è l'unica maniera, è una maniera. La prospettiva del povero è sommamente importante, ma è una prospettiva. Il contenuto della Rivelazione è talmente ricco che non finiamo mai di comprenderlo. Ma credo che questa prospettiva ci aiuti. Da 25-30 anni parliamo della trasformazione della storia, della promozione della giustizia come di un elemento intrinseco all'evangelizzazione. Non è stato sempre così. Considerare la promozione della giustizia come qualcosa di intrinseco all'evangelizzazione è un fatto teologicamente nuovo. Quando ero studente si diceva che tutto quello che riguardava il sociale era previo all'evangelizzazione, ma non era evangelizzazione. Un po' come le dimostrazioni filosofiche dell'esistenza di Dio, che non sono ancora teologia, ma preambula fidei. Il lavoro di promozione della giustizia era ritenuto importante, ma non era considerato evangelizzazione. Oggi è visto come intrinseco. Giovanni Paolo II l'ha ripetuto fino alla stanchezza.

La terza dimensione della prospettiva dell'opzione per i poveri è quella della spiritualità, della sequela di Gesù. La parola spiritualità è recente nella Chiesa: viene da ambienti francesi del XVII secolo. Fino a quel momento si parlava piuttosto di sequela di Gesù. Spiritualità viene dallo Spirito, con la maiuscola, non dallo spirito come sinonimo di anima. Non è un comportamento in accordo con la parte più nobile dell'essere umano, ma è secondo lo Spirito Santo. L'opzione per il povero presenta anche questa dimensione. Optare in maniera preferenziale per i poveri è un cammino spirituale, una sequela di Gesù. E io direi che anzi questo è il livello più profondo dell'opzione preferenziale per il povero. Ho imparato da un mio grande maestro, Dominique Chenu, che non c'è da domandarsi quale teologia stia dietro a una spiritualità, bensì quale spiritualità stia dietro a una teologia. La sequela di Gesù è inseparabile dalla riflessione, e soprattutto è inseparabile dall'annuncio. Nessuno può seguire Gesù senza annunciare il Vangelo. E io direi che nessuno può seguire Gesù senza pensare alla fede. E l'essere umano che pensa la sua fede sta facendo teologia.

Allora, perché evangelizzare? Possiamo dare molte ragioni valide. Perché è un mandato del Signore, ed è una ragione di capitale importanza. Perché abbiamo sentito la vocazione. Ma credo che la ragione primaria del perché comunichiamo il Vangelo è perché vogliamo condividere la gioia che produce il sapere che siamo amati da Dio. La fonte di gioia di un cristiano è sapersi amato da Dio. E chi vive una gioia vuole comunicarla. Questa è l'evangelizzazione: un'esperienza spirituale di gioia. Non parlo di una gioia facile, ma di una gioia pasquale, che passa per la sofferenza e la morte, in senso metaforico, ma che alla fine è gioia.

3) L'evangelizzazione nel mondo di oggi

Voglio menzionare un testo del Vangelo che mi sembra molto bello, un testo che si trova in tutti e quattro i vangeli e che dunque bisogna prendere molto sul serio (Giovanni, si sa, è come un franco tiratore, va per suo conto): il testo dell'unzione di Betania. Ho l'impressione che questo testo sia un po' come la sintesi del Vangelo. Gesù sta mangiando in casa di Simone il lebbroso (che non era più tale, altrimenti non sarebbe stato in città) e viene una donna anonima che rovescia un profumo sulla testa di Gesù. Ricordate la reazione: "questo è uno spreco, si sarebbe potuto vendere il profumo per 300 denari" (un denaro era il salario di un giorno di un lavoratore). Ma Gesù prende le sue difese: questa donna ha fatto un'opera buona. La parola greca che traduciamo con buona è una parola che ha varie traduzioni: vuol dire tanto buona come bella. E Gesù dice: questa donna ha fatto un'opera buona, bella, nei miei confronti. L'obiezione che viene avanzata è a partire dal messaggio di Gesù: "meglio sarebbe stato distribuire il denaro tra i poveri". È un punto del messaggio di Gesù che viene usato contro la donna. Ma Gesù dice: i poveri saranno sempre con voi. Questo richiama il cap. 15 del Deuteronomio, dove troviamo tre affermazioni: 1 che non ci siano poveri tra di voi: è questo l'ideale, 2. se ci sono poveri, aprite la mano e il cuore, 3 sempre ci saranno, e perciò dovrete sempre aprire la mano e il cuore. Se l'affermazione di Gesù viene isolata dal contesto delle due precedenti affermazioni, ne perdiamo il senso: potrete sempre fare qualcosa per i poveri, ma questa donna ha fatto un'opera buona, un'opera gratuita. Gesù in questo momento è povero, indifeso ed è in certa maniera già condannato a morte. Questa donna non può impedirlo e può semplicemente augurargli vita: il profumo è questo, è l'idea antica dell'imbalsamazione. In questo caso la donna esprime un amore gratuito.

Una volta, preparando il Natale nella mia parrocchia a Lima, una signora molto anziana mi disse: "sa, padre, io sono di una famiglia molto povera (e continuava ad esserlo in realtà) e quando ero bambina a Natale ricevevamo riso, pane, zucchero". Ma un Natale un sacerdote le regalò una bambola, per la prima volta nella sua vita: "non ho più dimenticato il viso di quel sacerdote". La bambola era inutile, rispetto alle sue necessità di base: non si mangia una bambola, non serve a niente se non a giocare. Ma lei non se ne è più dimenticata. Il povero è una persona che ha dei bisogni fisici: tetto, salute, alimenti, ma che ha anche bisogno di amicizia, di tenerezza e di gratuità.

Da una parte c'è un linguaggio che in termini biblici potremmo chiamare profetico: è il linguaggio della giustizia, dell'incontro con Dio nel povero. Ma dall'altro c'è il linguaggio della gratuità, di quello che non è immediatamente utile. Nel mondo dei poveri il senso della gratuità è molto forte. Mi impressiona molto a Lima vedere gente che entra in chiesa e resta lì seduta, mezz'ora, un'ora, due ore. I poveri sono ricchi di tempo. Noi siamo persone di orologio e di agenda: se qualcuno voleva parlare con me tiravo fuori l'agenda e fissavo l'ora, e qualunque ora dicessi andava bene. Chi non ha lavoro di tempo ne ha d'avanzo. Poi mi resi conto che prendere l'agenda era come aggredire le persone. E lasciai l'agenda. Fissavo le visite e me le appuntavo a casa.

C'è un linguaggio profetico, della giustizia, e un linguaggio della gratuità che è contemplativo: senza contemplazione, preghiera, non c'è vita cristiana; senza impegno storico neppure. Unire questi due linguaggi è la maniera, credo, di comunicare il Vangelo. Con questo, abbiamo risposto alla domanda di come dire al povero che Dio lo ama? La domanda è molto più grande del nostro tentativo di risposta, troppo profonda è la sofferenza dell'innocente per pensare che possiamo rispondere una volta per tutte. Ma questa prospettiva cerca di dire qualcosa al riguardo.

(da Adista, n. 90, 13-12-2003. Il testo è tratto da una registrazione e non è stato rivisto dall'autore)

Martedì, 28 Marzo 2006 02:04

L’illuminatore (Giovanni Vannucci)

L’illuminatore
di Giovanni Vannucci


L’illuminazione del cieco nato ci rivela il drammatico cammino che la Luce vera - Cristo luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) - compie per aprire la vista interiore nella coscienza. La chiave per comprendere questo episodio, storico e metastorico insieme, è nell’identificare noi stessi col cieco nato, nel sentirci partecipi della vicenda esemplare della sua illuminazione, narrata dall’evangelista Giovanni (Gv 9, 1-41).

Consideriamo i punti salienti della narrazione. Gesù, dopo aver detto di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8, 12), incontra un cieco fin dalla nascita; ai discepoli che l’interrogano se quella sciagura fosse la conseguenza dei peccati del cieco o di quelli dei suoi genitori risponde: «No, quest’uomo è cieco perché sia illuminato, e la luce divina splendendo in lui riveli l’azione creatrice di Dio». Così, avvertiti i discepoli del significato di ciò che stava per compiere, della duplice luce fisica e spirituale che avrebbe dato al cieco, fa con la saliva e la polvere un po’ di fango e lo applica agli occhi del cieco; quindi lo invia a lavarsi in una vasca dal nome simbolico «l’Inviato da Dio». Il cieco va e, dopo essersi lavato gli occhi, comincia a vedere. Il miracolo è compiuto senza la minima partecipazione del soggetto, egli collabora con la semplice obbedienza.

La luce che si è accesa improvvisamente in quegli occhi si rivela luce che acceca gli altri, in particolare gli avversari di Cristo. I vicini di casa non sanno se egli sia o no lo stesso uomo che, seduto, domandava l’elemosina; egli afferma di esserlo: «Cosa è avvenuto che non ci vedevi e ora ci vedi?». Racconta il fatto nei suoi particolari; udito il nome di Gesù, i vicini lo conducono dai Farisei; il giorno in cui Gesù aveva ridato la vista a quegli occhi spenti era di Sabato, il racconto del cieco illuminato non può essere negato, i Farisei affermano che, essendo stato compiuto di Sabato, costituiva un’offesa dei comandamenti di Dio, chi l’aveva attuato non poteva che essere un riprovato da Dio. Il miracolato risponde: «Se egli sia reprobo o no, io non posso dirlo, una cosa è certa: prima ero cieco e ora vedo... Non si è mai sentito dire che alcuno abbia aperto gli occhi a un cieco; se non fosse amico di Dio, non avrebbe potuto far nulla». Risposero i Farisei: «Sei nato nei peccati e ci vuoi ammaestrare?». E lo cacciarono fuori. Essi, nella loro proterva chiusura, temono che la luce esteriore non si traduca in quella luce così temibile che è la luce di Dio accesa in lui, e lo cacciarono fuori dalla sinagoga, lo scomunicarono. Allora Gesù gli si rivolge: «Credi nel Figlio di Dio, nella luce di Dio in me incarnata?». Il miracolato, che aveva in sé sentita confusamente, nella luce fisica, quella spirituale, sperimenta ora l’apertura dell’occhio interiore, riconosce la presenza della luce divina in Gesù e gli s’inginocchia davanti.

Così si compie l’illuminazione del cieco: sperimenta che la luce fisica non è che simbolo e stimolo della luce spirituale. Gesù rivela il significato dell’illuminazione del cieco: la sua luce divina illumina chi a essa si offre in umiltà, acceca chi è chiuso nel proprio orgoglio di vedente. Acceca chi vede, chi non sa e crede di sapere; illumina chi è cieco, chi non sa e non riconosce la sua ignoranza; questa è la giustizia, il giudizio che compie la luce nell’uomo: «Son venuto nel mondo perché i vedenti non vedano, e i non vedenti vedano». I Farisei presenti a queste parole gli chiedono: «Forse anche noi siamo ciechi?». «Non lo sareste, risponde Gesù, se riusciste a vedere la vostra cecità. Non la vedete perché la scambiate per luce, per questo respingete la luce. La vostra cecità più si fa cieca, quanto più si crede luce».

Questo è il giudizio nel mondo della Luce divina: suscita e assume quella luce creata che a lei si arrende; rende più ottenebrata quella luce creata che stima se stessa assoluta e divina; respinge le tenebre nelle tenebre. Ognuno di noi nasce dalla luce, quando nasce sulla terra è l’estrema densificazione, nella carne, della luce iniziale, da sé nulla vede. La Luce divina ci è offerta e ognuno può scegliere: o accettarla fondendosi nel suo ritmo di ascesa; o rifiutarla ottenebrandosi in un proprio ritmo chiuso e incomunicabile. Nel primo caso si ha l’assunzione, nel secondo la distruzione dell’uomo.

Nell’alto, nel mondo di Dio, si ha la vibrazione massima della Luce divina, nel basso si ha la densificazione massima della stessa luce. La coscienza che diviene consapevole della densità della sua tenebra e comincia ad aspirare alla luce vera, inizia quel processo di ascesa che la farà incontrare con la sorgente della luce e della vita. Si libererà dall’esistenza, entrerà nel luminoso mondo dell’essenza, dell’Essere. Il punto della massima densificazione della luce ha una doppia possibilità, quella di accettare la densificazione come luce, quella di iniziare un movimento contrario di ascesa. Nell’ascesa sarà sorretto dalle forze fecondatrici della Parola eterna che discende e ascende, che aggrega la materia e la trasfigura nello spirito.

Queste affermazioni sottintendono l’inutilità di sapere solo intellettualmente che la Luce, la Parola creatrice sono in noi, e insieme la necessità di permettere alla Luce e alla Parola divine di compiere in noi la loro opera di vita e di trasfigurazione. I Farisei pensavano in termini di ideologia, di continuità di interpretazioni, di dogmi e di riti; il cieco illuminato, nel suo cedersi alla Luce vera, non poteva che essere oggetto di scandalo e di rifiuto. Per i primi la Rivelazione era una ripetizione di formule e di consuetudini, di credenze; per l’Illuminatore la Rivelazione è, ed è attiva e operosa in ogni istante, purché l’anima riconosca le sue tenebre, e sappia morire continuamente ad ogni idea, ad ogni definizione, ad ogni rapporto immaginario con un Dio di sua proiezione. La Luce non può illuminarci che nel silenzio di una mente profondamente seria.

in Giovanni Vannucci, «L’Illuminatore», 4° domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 54-56.

Martedì, 28 Marzo 2006 01:55

Introduzione

Introduzione alla storia della salvezza



1. Il posto del corso nel piano degli studi teologici

La teologia dogmatica dell’ultimo cinquantennio ha subìto un profondo mutamento: è passata dal sistema positivo-scolastico, saldamente sostenuto dalla filosofia aristotelico-tomista e basato sul concetto aristotelico di “scienza”, ad una considerazione più attenta della storia della salvezza come trama del sistema teologico. Per S. Tommaso l’oggetto formale della teologia è «Dio sotto l’aspetto della sua deità».

Viene celebrata nei Patriarcati di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia e nelle Chiese di: Cipro, Grecia, Polonia, Albania, Repubblica Ceca, Slovacchia, America, Monte Sinai, Finlandia, Giappone.

Con l’occhio del contemplativo
XX secolo e Cristo risorto
di dom Bernardo Olivera
abate generale OCSO


La storia del secolo da pochi anni terminato, può essere letta in diverse maniere: con il semplice sguardo dello storico, dell’analista o, se si vuole, del giornalista, oppure con quello del contemplativo. Il risultato di questa lettura sarà molto diverso, a seconda del punto di vista in cui ci si pone. L’abate generale dei cistercensi di stretta osservanza, dom Bernardo Olivera, si è posto nell’ottica del contemplativo e ha scritto, a partire da questo angolo di visuale, una lunga lettera all’Ordine per invitare tutti i membri della sua famiglia religiosa a fare altrettanto.

La luce entro cui egli considera il susseguirsi degli avvenimenti e il profilarsi di realtà nuove è quella di Cristo risorto, come di colui che, nonostante tutte le contraddizioni umane, dà un senso pieno e definitivo alla storia e l’apre verso nuovi orizzonti di attesa e di speranza.

La lettera è divisa in due parti: nella prima l’abate descrive a grandi linee gli avvenimenti che hanno caratterizzato questo secolo, cercando di riassumerli in alcune parole chiave; la seconda invece ne fa una rilettura che può essere raccolta in questa formula: Cristo risorto dà significato al passato, di cui egli è la pienezza; trasforma il presente in momento favorevole, dà senso al futuro, aprendolo alla speranza che vince la morte.

Abbiamo lasciato il “Millenovecento” e iniziato il “Duemila”. Dal 2001 possiamo dire di trovarci nel XXI secolo. In ogni caso, questo ha poca importanza, il nostro modo di misurare il tempo non è l’unico; esistono altri calendari in altre culture, diverse dalla nostra.

L’essere umano è un essere nel tempo, la sua vita è ritmata dalla successione: prima, ora, dopo. L’homo viator può crescere solo peregrinando nel tempo, lasciandosi plasmare dagli avvenimenti, essendo attore degli stessi e contribuendo allo sviluppo della storia. Ma questo non è tutto. Come cristiani, affermiamo che il tempo è giunto a una certa pienezza e compimento (cf. Gal 4,4) per il fatto stesso che Dio è entrato nella storia umana, e così il modo con cui l’eternità è entrata nel tempo.

In questo, l’anno 2000 ha avuto per noi un significato molto particolare. Al di là dell’esattezza dei calcoli cronologici, noi abbiamo celebrato i 2000 anni di nascita di Cristo. Questo è motivo di gioia e di giubileo speciale. Per santificare e celebrare meglio questo tempo, la Chiesa ci ha convocato al grande Giubileo dell’Anno 2000.

Il grande Giubileo è stato in relazione con le tre dimensioni del tempo e con la speranza nell’eternità. Ma questo implica anche tornare a guardare il fondamento permanente e basilare della nostra vita e della storia e aprirci nuovamente ad esso. Ciò significa dunque prendere un orientamento per il futuro e, allo stesso tempo, aprire la prigione del tempo e trovare l’accesso a ciò che permane per sempre: il Cristo morto e risorto per la nostra glorificazione.

Voglio cominciare questa lettera con due testi della Costituzione della Chiesa e il mondo contemporaneo, Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore (…) La Chiesa si sente quindi realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS 1; cf. 4).

“La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione, né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi. Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la chiesa afferma che in tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso, ieri, oggi e nei secoli” (GA 10).

Queste parole ci hanno invitato attraversare la soglia del millennio, insieme a tutta l’umanità per seguire Cristo risorto, Signore di tutti i tempi. Come Ordine cistercense della stretta osservanza, noi siamo coscienti di essere fratelli del XX secolo. Siano nati insieme, per questo le sue gioie e le sue tristezze, i suoi progressi e i suoi regressi e le sue vicissitudini sono stati anche i nostri. Nelle due lettere circolari precedenti abbiamo già contemplato insieme il contesto mondiale ed ecclesiale, ed anche il momento culturale attuale. Tutto ciò ci è servito da quadro per comprendere la nostra identità cistercense, intrinsecamente segnata dalla dimensione mistica della vita cristiana.

Vi invito ora a fare memoria per stare fermi al presente e proiettarci nel futuro. Contempliamo il XX secolo per scoprire la presenza di Cristo risorto dietro a tanti avvenimenti e persone. Rinnoviamo la nostra fede nel Signore della storia ieri, oggi e sempre, ed agiamo di conseguenza.

Il nostro XX secolo

Il “novecento” è stato un secolo in cui non sono mancate le contraddizioni. E’ stato, nello stesso tempo, un secolo di grandi stermini e di grande sviluppo economico, un secolo delle democrazie di massa e di dittature totalitarie, della mondializzazione e dei nazionalismi aggressivi,della tecnologia a servizio della vita e della morte, della pace atomica e di innumerevoli guerre.

Nel corso di questo secolo sono state coniate e sono risuonate alcune parole-chiave. Ciascuna di esse presenta in modo semplice una realtà complessa. Non tutti oggi le conosceranno. Ma vale la pena ricordarle: nazione, psicanalisi, liberalismo, protezionismo, socialismo0, comunismo, democrazia, totalitarismo, populismo, progresso, modernizzazione, radicalismo, sviluppo, secolarizzazione, nucleare, genocidio, pace, tecnologia, cibernetica, bioetica, globalizzazione … e l’elenco potrebbe continuare.

Fin dall’inizio degli anni ’60 si annunciava: “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo” (GS 4). Tale affermazione è ancora valida per gli anni che sono seguiti. Si può quindi affermare che fino ad ora la storia non ha mai conosciuto una accelerazione simile, e che i cambiamenti non sono stati così rapidi e profondi né con tanta varietà di protagonisti.

Alcune date sembrano aver segnato dei passaggi irreversibili: la guerra del 1914-1918, la rivoluzione bolscevica del 1917, la crisi economica e commerciale degli anni 3°, la grande guerra del 1939-1945, l’uscita dal colonialismo in Asia (1946-1948) e in Africa (1957-1967), il Concilio Vaticano II (1962-1965), la conquista della luna nel 1969, il crollo del comunismo e la caduta del muro di Berlino, la fine della “guerra fredda” nel 1989, il grande “boom” del commercio mondiale agli inizi degli anni ’90, il nuovo ordine mondiale dopo la “guerra del golfo” del 1991.

In relazione con quando detto, occorre ricordare anche il superamento di alcune frontiere e di certi sviluppi o progressi che, solo alcuni anni fa sembravano impossibili o impensabili: l’aver debellato alcune malattie millenarie, i viaggi interplanetari, la ricerca atomica, la manipolazione genetica, la comunicazione quasi istantanea su scala mondiale, la crescita demografica e l’aumento dell’età media, l’alfabetizzazione rapida della popolazione, le nuove megalopoli o città giganti….. Nonostante tutto questo, constatiamo un’altra realtà caratteristica del nostro XX secolo: le disuguaglianze di ieri esistono ancora oggi, tutte le trasformazioni non hanno potuto cambiare le gerarchie che esistevano all’inizio del secolo. Le nazioni più ricche restano l’America del nord e l’Europa occidentale, benché il Giappone e qualche paese dell’Asia orientale e del mondo arabo abbiano raggiunto un livello di prosperità mai conosciuto in passato. Le disuguaglianze che già esistevano ora sono quasi abissali: il quinto della popolazione ricca del mondo, controlla l’80% delle risorse, mentre il quinto più povero dispone appena dell’1%, e gli altrui tre quinti vivono con il 19%. Dal punto di vista del “genere”, le disuguaglianze segnano un contrasto ancora più grande. Le donne compiono il 63% del lavoro del mondo, ma non possiedono che l’1% delle terre coltivabili e ricevono solo il 10% del beneficio mondiale. Il 75% dei poveri del mondo è costituito da donne, come pure il 70% degli analfabeti…

La maggior parte degli analisti e degli storici concordano nel dire che il XX secolo è stato segnato, da una parte, dalla violenza e dalla guerra, mentre, dall’altra, nessuno nega i progressi considerevoli: a livello scientifico (sviluppo dell’informatica, delle comunicazioni, della medicina), a livello civile (diffusione della democrazia, nuovo ruolo sociale della donna, delle organizzazioni internazionali), e a livello ecologico (protezione dell’ambiente) che segnano come delle pietre miliari gli ultimi cento anni della nostra esistenza. Vi sono alcune parole del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che sintetizzano in maniera intuitiva il nostro secolo: “Il nostro mondo è drammatico e allo stesso tempo affascinante” (Redemptoris missio 38).

Numerose sono le caratteristiche che conferiscono un volto particolare e una precisa identità al nostro secolo. Forse fin troppe. Considerandole insieme, possiamo forse giungere a qualcosa di concreto. Se guardiamo al passato, prima di fermarci sul presente, constatiamo che il XX secolo è:

- Il secolo della libertà: non solo per la fine dell’imperialismo colonialista in Asia e in Africa, ma anche perché i sistemi democratici che hanno vinto i vari totalitarismi si sono affermati in più della metà della popolazione mondiale;

- Il secolo del capitalismo; la libertà politica di solito va di pari passo con la libertà; dopo aver trionfato sul sistema comunista, il capitalismo è diventato la struttura economica della maggior parte delle società del mondo;

- Il secolo dell’elettronica: se la stampa ha ridotto dall’1/1000 il costo della comunicazione, la radio a transistor l’ha ridotta dell’1/1.000.000. il risultato è stato il passaggio dall’era industriale all’era informatica e tecnologica;

 - Il secolo del mercato globale e di massa: tutto è fabbricato in grande quantità e per un numero maggiore possibile di consumatori;

- Il secolo dei genocidi: a cominciare dal dramma del genocidio degli Armeni, fatto passare sotto l’eufemismo di “necessaria evacuazione militare per motivi di guerra” (1915), attraverso l’”olocausto” degli ebrei, per giungere alle versioni più recenti di “pulizia etnica”, “crimini contro l’umanità” e “deportazione forzata”. Cambiano le parole, ma non la brutalità della realtà;

- Il secolo dei cosiddetti nuovi popoli barbari (del terzo mondo), che invadono pacificamente, con l’emigrazione i paesi del primo mondo tecnico-industriale, modificando così la composizione delle società e dando origine a reazioni razziste di carattere minoritario;

- Il secolo dell’imprevedibile: semplicemente perché sono accadute molte cose insperate che confermano il detto popolare: l’imprevisto orienta di nuovo la storia.

E possiamo aggiungere ancora questa altra caratteristica che definisce l’identità del nostro XX secolo: si tratta di un’epoca che si apre verso una nuova era rivoluzionaria:

- rivoluzione digitale: andiamo dal “riconoscimento della voce” alla “intelligenza artificiale”;

- rivoluzione biotecnologia che ci condurrà a fare dei miracoli o a creare dei nuovi mostri;

- rivoluzione contro il sistema democratico, sia sotto forma di trialismo (minoranze che diventano forti), sia di fondamentalismo (semplificazione manipolatrice della società) e di totalitarismo (rifiuto delle libertà individuali)…;

- rivoluzione contro il sistema capitalista patrocinata dall’ecologia (per difendere la “salute” del pianeta, minacciata dal “progresso”),a causa delle diverse forme di socialismo (poche persone vivono a spese di molte altre, e molti restano esclusi dal sistema che è in vigore dappertutto nel mondo) e del femminismo integrale (con la sua visione più globale dell’umano e il suo progetto di profonda trasformazione del sistema relazionale).

E’ possibile dare del XX secolo una interpretazione unitaria? Si può trovare una sola caratteristica che da sola possa rappresentare lo specifico del nostro secolo?... Varie solo le interpretazioni unitarie del XX secolo. Dal punto di vista nord-occidentale si è parlato di:

- Secolo “corto”: il significato unitario di questo secolo sta negli eventi accaduti tra la prima guerra mondiale e la fine dell’impero sovietico;

- Secolo della “grande illusione”: una illusione che consiste nel dire che la storia dell’umanità possiede una intrinseca necessità razionale che conduce al comunismo bolscevico;

- Secolo della “fine della storia”: con la fine del conflitto ideologico e la vittoria del capitalismo sul comunismo, la storia ha raggiunto il punto culminante e quindi il suo termine;

- Secolo della”paura”: paura della guerra, della fame, della rapina, del terrorismo, delle dittature;

- Secolo di “passioni civili”: dal voto concesso alle donne ai diritti dell’uomo, passando per l’indipendenza dei paesi coloniali;

- Secolo “nullo” perché alla fine si ritrovano gli stessi fantasmi dell’inizio: nazionalismo, razzismo, violenza, mancanza di rispetto per la persona umana;

- Secolo delle “guerre ideologiche”: tra il 1914 e il 1945 ha luogo il conflitto europeo e mondiale con due guerre sanguinose; tra i 1945 e il 1991 si sviluppano molti altri conflitti nazionali (Corea, Vietnam,Afghanistan ecc.);

- Secolo del “mondo bipolare” centrato su due grandi superpotenze, gli Stati Uniti e la Russia con le loro zone di influenza e i rispettivi paesi-satelliti.

Una tale diversificazione di risposte indica chiaramente che non è facile valutare in un’unica sintesi cento anni di storia umana. E che cosa accadrebbe se ci collocassimo in Orienta o al Sud del mondo?.

Condividere primato e responsabilità

Verso la metà del nostro secolo, e più precisamente nel 1945, le democrazie liberali e capitaliste dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti, insieme all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, hanno infranto la minaccia totalitaria e imperialista di Germania, Italia e Giappone. Dopo il conflitto, ha avuto inizio la guerra fredda, ma non meno reale, tra la Russia e gli Stati Uniti. Contemporaneamente, le potenze sconfitte sono state aiutate nella ricostruzione della democrazia e del benessere economico. Le nuove nazione asiatiche e africane, liberate dal giogo coloniale, non hanno creato nuove alternative sociali, politiche o economiche. Quasi tutte si sono allineate o al sistema comunista o a quello capitalista. La caduta del comunismo russo ha dimostrato la maggior efficacia dell’economia liberale capitalista e la maggior capacità di adattamento dei sistemi democratici.

Di conseguenza, dal punto di vista geopolitica e socio-economico, tutto sembra indicare che l’Occidente euro-americano è uscito vincitore da questo secolo così contrassegnato da conflitti. Per essere più precisi, constatiamo che oggi sono gli Stati Uniti d’America a esercitare il maggior influsso mondiale a livello economico, politico, sociale e culturale. La globalizzazione del capitalismo industriale e tecnologico deriva dalla loro indiscutibile supremazia. Nel “villaggio globale” che è il nostro mondo contemporaneo, la cultura nordamericana domina il linguaggio e le comunicazioni, così che, in un modo o nell’altro, tutte dipendono da questa.

Senza dubbio l’Occidente euro-americano non è stato il solo protagonista del secolo che sta per concludersi altri agenti hanno influito e forse influiranno più ancora. Il capitalismo globale di oggi è impensabile senza l’autodeterminazione dei paesi latino-americani, asiatici e africani. Ciò ha comportato una maggiore democrazia negli scambi internazionali. Analogamente, l’integrazione nel gioco democratico di soggetti in precedenza esclusi – ad esempio le donne, gli operai, i popoli di colore, le minoranze religiose - è stato possibile grazie alle loro rivendicazioni e alle loro lotte. Inoltre, realtà e fenomeni come la rinascita della Cina, la ricchezza tradizionale e tecnologica del Giappone, le riserve di valori umani e spirituali dell’India, la profonda sensibilità dell’africano indigeno, il capitalismo del sud-est asiatico e la crescita del mondo islamico… ci ricordano che il futuro del mondo non si trova soltanto nell’Occidente americano-europeo.

Siamo sempre più coscienti che il mondo “policentrico” del XXI secolo – anche se una sola superpotenza fa da “gendarme internazionale” – esige uno sforzo unitario in favore della pace e della concordia universale, tramite il dialogo, il riconoscimento della dignità dio tutti gli interlocutori e un rafforzamento delle istituzioni internazionali. E soprattutto, dobbiamo dire anche che la concordia universale può essere realizzata solo grazie a uno sforzo di riconciliazione e di perdono vicendevole. Ascoltiamo qualcuno che è stato compagno di strada di più di una generazione del secolo appena trascorso: qualcuno che si sente investito di una paternità universale, che abbraccia tutti gli uomini e le donne di questo tempo, senza distinzione alcuna:

Possiamo domandarci se questo secolo sia stato anche un “secolo di fraternità”. Non si può certamente dare una risposta priva di sfumature (…). Per questo a me sembra che il secolo che inizia dovrà essere un secolo di solidarietà. Oggi, lo sappiamo meglio di ieri, non saremo mai felici e in pace, se continuiamo a non fare affidamento sugli altri, e peggio ancora se saremo gli uni contro gli altri (…). Mai più gli uni contro gli altri! Mai più gli uni contro gli altri! Tutti insieme, solidali, sotto lo sguardo di Dio! Tutti siamo responsabili di tutti”. (Giovanni Paolo II, Discorso al Corpo Diplomatico,10.1.2000).

La Chiesa e i trappisti

Non è questo il momento di mostrare come i grandi eventi politici, sociali, economici e culturali del secolo hanno segnato e continuino a segnare la nostra storia monastica e cistercense. Non cercherò quindi di fare una cronaca della vita della Chiesa e dell’Ordine, in questo secolo. Tutto ciò andrebbe al di là di una semplice lettera, come questa. Sembra tuttavia opportuno ricordare che la nostra interpretazione della storia non può essere semplicemente secolare o sacrale. In quanto abitanti di frontiera, posti tra l’al di qua e l’al di là, dobbiamo leggere la storia come un luogo di grazia e di incontro salvifico tra Dio e gli uomini, e un luogo di conflitto tra la città di Dio e quella di Satana.

Possiamo dire perciò che la storia dell’umanità non è ciò che si vede e ciò che si legge tutti i giorni nei periodici e nei servizi di attualità. Né gli uni né gli altri tengono conto della mano della Provvidenza che guida il corso finale di ciò che accade. Noi non possiamo negare che “la compenetrazione tra città terrena e città celeste non può essere percepita se non con la fede; resta, anzi, il mistero della storia umana” (GS 40). Ciò che davvero orienta e dirige il cammino storico dell’umanità, è la ricerca radicale del regno di Dio e della sua giustizia, nella sequela del Risorto, nella fiducia che il resto sarà dato in soprappiù.

Con ancor maggior ragione si può dire che la storia della Chiesa è al tempo stesso una storia umana e una storia teologale: esiste nelle coordinate del tempo e dello spazio e vive del mistero rivelato e accettato nella fede. La storia dell’Ordine fa parte della storia della Chiesa, possiamo quindi dire che quanto è valido per essa in certo qual modo è valido anche per il nostro Ordine. La storia dell’Ordine è una storia umanamente contestualizzata, e al tempo stesso una storia divinamente assunta nel piano di salvezza di Dio-Amore. la nostra storia ha due grandi attori che insieme cooperano ed agiscono: lo Spirito Santo e ciascuno di noi. E’ facile riconoscere le tracce che abbiamo lasciato nel tempo e in diversi luoghi, ma è difficile scoprire le orme di Dio, perché sfuggano al “quando” e al “dove”. Nella storia della Chiesa, e ciò vale anche per l’Ordine, ogni Giubileo o anniversario è preparato dalla Provvidenza divina. Invito ciascuno di voi – secondo la sua grazia, e nel momento che gli sembrerà opportuno – a guardare con gli occhi della fede, alla storia della Chiesa e dell’Ordine, soprattutto durante gli ultimi cento anni, per rendere grazie e convertirsi, per assumere e lodare.

Rendere grazie e lodare, soprattutto per i segni di speranza che risplendono nel cielo ecclesiale alla fine del secondo millennio: l’accettazione dei carismi e la promozione ecclesiale del laicato; il riconoscimento del ruolo della donna nella Chiesa; la fioritura dei movimenti ecclesiali; la dedizione alla causa dell’unità dei cristiani; l’apertura al dialogo inter-religioso; il dialogo con la cultura moderna o contemporanea; cattolicità o universalità rispettosa delle diverse culture; appoggio incondizionato alla pace, alla giustizia, alla dignità e alla vita umana; l’emergere del “profilo mariano” della Chiesa.

Rendere grazie e lodare, perché non mancano sprazzi di risurrezione nell’oggi dell’Ordine, quale frutto di un passato vissuto nella fedeltà alla grazia: numerosi martiri hanno sigillato con il sangue l’offerta della loro vita; un insieme di documenti legislativi ispiranti, per il loro spirito e chiari nella loro normativa; fedeltà fino all’eroismo in situazioni estreme; inculturazione del patrimonio in nuovi contesti culturali; fondazioni nelle giovani Chiese; desiderio di radicalismo evangelico e monastico come contributo alla nuova evangelizzazione; crescente collaborazione tra monaci e monache nel servizio dell’autorità; apertura affettiva ed effettiva verso la Famiglia cistercense; partecipazione al carisma cistercense di gruppi laici....

Uno sguardo contemplativo sulla nostra storia ci ricorderà anche questa parola del nostro patriarca Benedetto: “se uno scorge in sé qualcosa di buono, lo riferisca a Dio, non a se stesso. Il male invece sia convinto d’averlo commesso lui e ne ritenga se stesso responsabile” (RB4, 42-43).

Gesù risorto

Apriamo ora gli occhi alla luce divina, a questa luce della vita che illumina i nostri passi e ci permette di correre in avanti, perché non ci sorprendano le tenebre della morte (RB, Prol 9-10. 13).

Gesù Cristo, pienezza del tempo, è il Signore dei secoli, e forse più ancora del nostro XX secolo. Egli dà alla storia il senso definitivo e la trasforma in storia di salvezza. Vale a dire successione di eventi divini e di risposte umane perché si compia il disegno di Dio. Quando Dio si incarna e risuscita dai morti, il divino irrompe, come mai prima di allora, nella storia umana. In tal modo Dio, fatto uomo e risorto dai morti per il potere dell’alto:

- dà senso al passato, di cui egli stesso è la pienezza;
- trasforma il presente in momento favorevole;- dà senso al futuro, aprendolo alla speranza che vince la morte.

Evento metastorico

I testimoni presentano la risurrezione come un evento limite: quanto la precede è incarnato nella storia, ma essa, e quanto segue, supera le frontiere di ciò che è storico. Il Risorto si trova in uno stato di vita che trascende le coordinate del tempo e dello spazio, e in tal senso è “metastorico”.

D’altra parte, i testimoni del Risorto e le testimonianze della resurrezione possono essere datate e localizzate. E si può dire la stessa cosa dell’impatto e delle conseguenze di questo evento lungo tutto il corso della storia umana. L’esistenza e la presenza secolare della Chiesa ne costituiscono la prova. Di qui il grande paradosso della fede cristiana: essa è fondata su un evento metastorico, con delle conseguenze storiche rivoluzionarie.

Dopo il Calvario tutto sarebbe finito se Gesù, risuscitato dal Padre, non avesse cominciato a lasciarsi vedere, mostrarsi, rivelarsi, apparire (Lc 24,34; At 7,2-30; 13,39; 1Cor 15,5-8). Si tratta di qualcosa che si impone dall’esterno, a differenza dell’esperienza oggettivamente verificabile della croce e della morte. Ciò significa che l’iniziativa appartiene a lui, Gesù; le discepole e i discepoli l’accolgono, la ricevono.

E’ qui che Gesù Cristo si lascia vedere o si mostra nella sua nuova condizione di gloria (At 22,11). Si tratta di una apocalisse (rivelazione) di Gesù Cristo (Gal 1,12.16). la gloria rivelata è un’anticipazione dell’evento escatologico, di ciò che è ultimo e definitivo.

L’esperienza dell’incontro con il Risorto è unica nel suo genere, e non offre alcun punto di contatto o di confronto con altre esperienze spirituali. Essa dà origine a una “conoscenza” che non è semplicemente oggettiva, esterna a colui che la sperimenta. Chi incontra il Risorto rimane totalmente coinvolto e posseduto dal Signore. Questa conoscenza non è indipendente dalla fede, ma non è una conseguenza della fede; è il Risorto che costituisce il fondamento della nostra fede: “Se il Cristo non è risorto, vana è la nostra fede” (1Cor 15,17).

La nostra fede nel Risorto poggia sulla testimonianza apostolica, non abbiamo dubbi in proposito. Ma non è tutto. La nostra testimonianza di Gesù risorto, per essere vera, non deve poggiare semplicemente su qualcosa che si è sentito dire: deve appoggiarsi anche sulla nostra “esperienza” personale del Risorto, per mezzo dello Spirito Santo, nel contesto della comunità ecclesiale dei credenti.

“Noi conosciamo Dio sia per fede sia per sentito dire: ma è attraverso l’amore contemplativo che si rivela a noi come per una manifestazione della sua presenza. Colui che si fece conoscere con la parola e l’ascolto, ora si scopre come se fosse realmente presente. Colui del quale si era solo sentito parlare e che non ci aveva manifestato la sua presenza, ci risultava prima uno sconosciuto” (Gregorio Magno, Commentario sul primo Libro dei Re, Sch 391).

E’ in questo modo che la Chiesa, in ogni momento della sua storia, “fa esperienza del Cristo in sé e si sente fiorire della pienezza di vita”. In tal modo essa può testimoniare con fiducia e audacia il messaggio della salvezza (Paolo VI, Ecclesiam suam 6).

L’esperienza è possibile solo quando la fede accetta Cristo “assiso alla destra del Padre, non più nella sua condizione di servo, ma nel suo corpo celestiale, identico al precedente, benché in forma diversa. Questa fede purifica il cuore e permette di fare esperienza del Risorto: con la mano della fede, con il dito del desiderio, con l’abbraccio dell’amore, con l’occhio dello spirito” (San Bernardo, SC 28,10).

La comunità, in quanto comunione fraterna di amore nello Spirito, è “uno spazio teologale dove si può fare esperienza della presenza mistica del Signore risorto” (VC 42; cf Mt 18,20). L’Abate di Chiaravalle ha qualcosa da dire in proposito. “Ti sbagli, Tommaso, ti sbagli quando pensi di poter vedere il Signore allontanandoti dal collegio apostolico. Alla verità non piacciono i cantucci e i nascondigli. Essa si trova al centro, cioè, ama l’osservanza, la vita comune e la volontà della maggioranza” (San Bernardo, Asc 6,13).

Queste esperienze non tolgono assolutamente nulla alla vita di fede; al contrario, la rendono possibile, con tutto ciò che essa comporta di spogliamento e di dimenticanza di sé, inerenti alla vita di fede e di amore. Chi ha toccato il Risorto con la mano della fede potrà affermare: “Mi basta che Gesù viva! Se egli vive, anch’io vivo, perché da lui dipende la mia anima. Più ancora, egli è la mia vita, egli solo mi basta. Cosa potrebbe quindi mancarmi, se Gesù vive? Mi manchino pure tutte le cose – non mi importa nulla, purché Gesù viva. Quindi, se a lui piace che io manchi a me stesso, a me basta che egli viva, anche se è solo per lui” (Guerrico, Sermone33,5).

Bisogna dire infine che la nostra esperienza è simile, ma non identica a quella dei primi testimoni: la nostra presuppone la loro. La loro poggia sugli anni vissuti con il Maestro. In ogni caso, se ci fosse soltanto la testimonianza dell’esperienza degli apostoli, il Risorto sarebbe un personaggio del passato, che non agisce nel presente e difficilmente potrebbe essere la causa della nostra speranza futura.

Ricordo che nella conferenza dei Capitoli generali del 1990 ho detto qualche parola sui miei “punti deboli e punti forti”. Tra questi ultimi, ho ricordato: “Poter testimoniare la presenza costante e attiva del Risorto e della Madre sua in seno alla Chiesa”. Posso affermare, oggi, dopo dieci anni, la stessa cosa? Grazie alla testimonianza evangelica dei 9 nostri sette fratelli dell’Atlas, rispondo con una convinzione e un’audacia più grandi di prima. Sì. Questa affermazione è un atto di fede, che pone ancora una volta la mia libertà e la mia coscienza sotto l’influsso della grazia divina. Tale affermazione sarà creduta e accettata se io la incarno in una vita docile e feconda nello Spirito Santo.

Avvenimento inesprimibile

Non è stato facile, per i nostri primi fratelli nella fede, trovare le parole appropriate per descrivere l’esperienza nuova che avevano vissuta. Fin dal primo annuncio, i testimoni utilizzano un vocabolario diversificato che si può riassumere in tre espressioni: risurrezione, esaltazione, vivificazione. I testi seguenti spiegano quello che ho appena detto:

- “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9);

- “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9);

- “Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito” (1Pt 3,18).

Come si può constatare, i primi testimoni hanno comunicato l’evento attraverso formule che divennero presto pubbliche e vincolanti. Tali formule derivano da contesti diversi: predicazione, catechesi, liturgia e missione. Ecco altri due testi, molto antichi, che l’apostolo Paolo ha ripreso più tardi nelle sue lettere:

- “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor 15,3-5);

- “Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-5).

Abbiamo infine i discorsi kerymatici di Pietro e di Paolo, compresi negli Atti degli Apostoli (At 2; 3; 4; 10 e 13). Al di là della narrazione di Luca, tali discorsi presentano un nucleo arcaico (cf. la presenza di semitimi) che fa parte dell’annuncio proclamato alla comunità primitiva. Troviamo in esse tre elementi tipici: l’opposizione tra il rifiuto da parte dei capi giudei e l’azione efficace di Dio che risuscita Gesù; la conversione dei discepoli, grazie alle apparizioni, in testimoni del vigore escatologico con cui Dio ha compiuto la salvezza; conferma dell’agire divino attraverso la testimonianza della Scrittura.

Tutti questi testi, al di là della varietà delle formule, ci trasmettono un unico messaggio di vitale importanza, perché su di esso poggia la nostra fede cristiana:

- Gesù è apparso dopo la sua morte ad alcuni discepoli;
- è’ stato annunciato come risorto dai morti;
- il Risorto è la stessa persona di colui che è stato crocifisso, ma non è piùil medesimo;
- il suo corpo fisico è ora un corpo spirituale e glorificato.

Non solo la nostra fede poggia su queste verità. Senza il Cristo glorificato, la nostra vita monastica, in quanto vita di fede, non avrebbe identità cristiana e sarebbe del tutto priva di significato. La nostra vita monastica è “una risurrezione progressiva nel Cristo Risorto!” (cf Guerrico, Sermone 35,5).

Un avvenimento pieno di senso

Tutti i testi del Nuovo Testamento sono una “rilettura” del fatto della risurrezione e della realtà del Risorto. Ciò significa che la risurrezione e il Risorto sintetizzano in sé tutta òa realtà. Questo nucleo fondamentale dell’evento e del messaggio cristiano è di una inesauribile ricchezza. Cerchiamo di penetrare in questo mistero e di coglierne il senso. La risurrezione di Gesù Cristo, considerata globalmente, può essere compresa come l’irruzione nella nostra storia umana della dimensione escatologica (ciò che è ultimo, insormontabile, definitivo). Vale a dire, è lo Spirito che fa irruzione nella carne mortale e la vita assorbe completamente la morte. Si tratta della rivoluzione definitiva nell’evoluzione cosmica, umana e storica.

Dal punto di vista del Padre e dello Spirito Santo, possiamo dire, benché sembri un’affermazione audace, che la Paternità divina, verginalmente feconda, raggiunge il vertice, in modo umanamente imprevedibile, nella risurrezione del Figlio unico. E’ l’opera suprema della creazione e della spiritualizzazione. La prima creazione venne dal nulla, la seconda dalla morte. La risurrezione rivela l’autodonazione amorosa del Padre e dello Spirito in risposta a una vita donata alla spogliazione totale sulla croce. Così si è compiuta la profezia del salmista: “non lascerà che il suo santo veda la corruzione e non abbandonerà la sua anima negli inferi, gli ho fatto conoscere le vie della vita e lo ha colmato di gioia, alla sua presenza”.

Per Gesù, la risurrezione è innanzi tutto la sua piena riabilitazione dopo una ignominiosa condanna. Il “Sì” luminoso di Dio contro il “No” tenebroso degli esseri umani. E’ infatti una testimonianza incontestabile che Gesù è il profeta ultimo e definitivo di Dio. Soffrendo l’abbandono e rimettendosi nelle mani del Padre, Gesù ha corso un rischio che non poteva non concludersi felicemente e per questo egli è beato e le sue beatitudini sono vere. Il peccato e la morte, assunti dal Cristo nella propria carne, sono in tal modo detronizzanti e vinti. Gesù ha sperimentato la sua risurrezione come:

- trasformazione in un corpo spirituale e spirito che dona la vita (1Cor 15,44-45);

- ri-creazione in un uomo nuovo, nuovo padre dell’umanità e primogenito dei risorti (Rm 5,7; 1Cor 15,20 ss);

- incarnazione piena, la pienezza della divinità risiede ora in lui corporalmente (Col 2,9);

- donazione dello Spirito che fa di lui il datore dello Spirito (Gv 20,22);

- novità e “rinascita” nella sua filiazione divina (Rm 1,3-4);

- ricevere il Nome che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2,9).

A partire dalla sua risurrezione, Gesù può identificarsi completamente con i perseguitati e i piccoli: egli gode della possibilità di una presenza sacramentale sotto le specie del pane e del vino per essere mangiato e bevuto dai credenti. In una parola, il Risorto è “la pienezza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1,23).

Gli Apostoli hanno sperimentato la risurrezione come trasformazione di Gesù di Nazaret in Gesù Cristo Signore e, da semplici discepoli, sono divenuti testimoni del Risorto. Hanno compreso in tal modo che Dio era già presente nel Crocifisso, il cui volto si mostra nella risurrezione.

Il Vangelo non ci parla di apparizioni del Risorto a sua Madre. Forse, perché la sua gioia raggiungesse il massimo credendo senza aver veduto (Gv 20,29); e per poter essere più ancora gradita a Dio (Eb 11,6). In ogni caso, in quanto madre, la risurrezione del figlio l’ha coinvolta fin nel più profondo dell’anima. Maria cominciò così, fin da quello stesso momento, l’esperienza della sua gloriosa assunzione, al seguito del primogenito tra i morti.

Se il Signore risorto sostiene e vivifica la nostra fede, la sua risurrezione spiega completamente la nostra vita in lui. Difatti, la risurrezione sta all’origine della Chiesa e della nostra
fede. Quando siamo stati battezzati nella sua Pasqua e abbiamo ricevuto
il suo Spirito, siamo stati trasformati nel corpo del Cristo glorioso.
La risurrezione è il motivo della nostra speranza e il pegno della
nostra futura risurrezione; ci assicura che il nostro lavoro e i nostri
sforzi per il Regno non sono infruttuosi. Ci permette di proclamare con
fede il Padre Nostro, di chiedere che il suo nome sia santificato e che venga il suo Regno, cioè, la risurrezione alla fine dei tempi. E perché non pensare che le donne hanno avuto il privilegio e il dono di essere le prime testimoni della risurrezione? Comunque, sia loro che noi sappiamo bene che credere nel Kyrios significa allo stesso tempo seguire il Crocifisso, ma con la forza e la grazia del Risorto. Grazie a Lui, viviamo senza paura di morire e moriamo senza perdere la vita.

Fratelli e sorelle, all’inizio di questa lettera vi ho invitati a contemplare il XX secolo; a scoprire nel suo cuore il Risorto. Il tempo è abitato da colui che è il Signore della storia. La nostra speranza dunque non muore; ogni momento di questa vita è un seme dio eternità. Tutto ciò che succederà fino alla fine del mondo, sarà una espansione e una esplicitazione di ciò che è accaduto il giorno della risurrezione. In quel giorno, il corpo del Crocifisso fu trasformato dalla forza dello Spirito e divenne a sua volta fonte dello Spirito per tutta l’umanità.

La domenica è il giorno in cui il Risorto dai morti si rende presente. Per lo stesso motivo, la domenica è il giorno che rivela il significato del tempo: germogliato dalla risurrezione, attraversa il tempo umano, i mesi, gli anni e i secoli, come una freccia che orienta tutto verso la seconda venuta di Cristo. La domenica è la prefigurazione del giorno finale, il giorno della parusia, già anticipata nell’evento della Risurrezione. Amen, marana tha, vieni Signore Gesù! Sì, vengo presto!

(da Testimoni)

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