Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 07 Aprile 2006 00:44

27. La preghiera personale

Non è possibile definire l’uomo senza ricorrere alla comprensione della preghiera. Ma egualmente non possiamo comprendere la vera natura e lo scopo della preghiera senza comprendere la vocazione totale dell’uomo. Chi è l’uomo che prega?

Vivere per servire: ecco un ideale davvero bello per un cristiano! Ogni autentico servizio, infatti, ha la sua radice nel mistero di Cristo che per salvarci "pur essendo di natura divina..., spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2, 6-7)

Venerdì, 07 Aprile 2006 00:15

Il cammino particolare (Martin Buber)

Rabbi Bär di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro, il Veggente (soprannome dato a Rabbi Giacobbe Isacco) di Lublino: "Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio!".

Mercoledì, 05 Aprile 2006 02:33

La Chiesa ortodossa (di Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
La Chiesa ortodossa
di Mervyn Duffy




I cristiani ortodossi si considerano parte di una sola chiesa nel senso che condividono la stessa fede e gli stessi sacramenti, come pure la liturgia bizantina la tradizione canonica e quella spirituale. Tutti gli ortodossi riconoscono i primi sette concili ecumenici come normativi per la dottrina e la vita della chiesa. Si ritiene che un certo numero di concilii successivi abbia espresso la stessa fede delle origini. Sebbene si faccia comunemente riferimento ad essa come alla Chiesa Ortodossa, questa comunione è anche frequentemente chiamata la Chiesa Ortodossa Orientale, per distinguerla dalle chiese ortodosse orientali descritte nella sezione precedente.

A livello di governo ecclesiale, l’Ortodossia è una comunione di chiese che, tutte, riconoscono il patriarca di Costantinopoli come primus inter pares, o “primo fra uguali”. Sebbene egli non abbia l’autorità di intervenire negli affari delle chiese locali al di fuori del suo patriarcato, è considerato primo in dignità e centro simbolico di tutte le chiese ortodosse. Così il Patriarcato di Costantinopoli (conosciuto anche come Patriarcato Ecumenico) gode di una certa priorità fra le varie chiese ortodosse. Questo status è considerato come un servizio per promuovere la conciliarità e la mutua responsabilità. Questo ruolo include il convocare le chiese e il coordinare la loro attività, e talvolta intervenire in situazioni per tentare di trovare soluzioni a specifici problemi.

Lo scisma tra quelle che ora sono conosciute come chiese ortodosse e chiese cattoliche è il risultato di un secolare processo di allontanamento. Eventi come le scomuniche nel 1054 fra il Patriarca di Costantinopoli e il legato papale furono soltanto momenti salienti di questo processo. Inoltre, ogni chiesa ortodossa ha una propria storia di contrasti con Roma. Non c’è mai stata, per esempio, una separazione formale tra Roma e il patriarcato di Antiochia, anche se Antiochia condivise la comune percezione bizantina dello scisma. Oggi è largamente condivisa l’opinione che non ci siano stati fattori teologici in gioco in questo graduale allontanamento fra oriente e occidente. Tra questi ci fu l’interruzione di una regolare comunicazione in seguito a sviluppi politici e all’incapacità di entrambe le chiese di comprendere rispettivamente il Greco e il Latino. Inoltre erano in gioco questioni dottrinali, che riguardavano soprattutto la natura della chiesa. Le più importanti di esse riguardavano l’eterna processione dello Spirito Santo (questo in merito all’aggiunta del filioque al credo della chiesa occidentale) ed il significato del ruolo del vescovo di Roma come primo vescovo nella chiesa.

Due notevoli tentativi di ristabilire la comunione tra i cattolici e gli ortodossi avvennero durante il secondo concilio di Lione nel 1274 e nel concilio di Firenze-Ferrara nel 1438-1439. Sebbene unioni formali fossero state proclamate in entrambi i casi, alla fine esse furono rifiutate dalla popolazione ortodossa. I molti secoli di mutuo isolamento hanno avuto fine soltanto in questo periodo a noi contemporaneo. Un dialogo internazionale ufficiale tra le due chiese ha avuto inizio soltanto dal 1980.

Da dove viene il mondo? Noi, da dove veniamo? Dove andiamo? Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?

È necessario un reale superamento dell'estremismo islamico, che non può essere fatto di semplici parole, ma prendendo in seria considerazione tutte le sue componenti, cominciando da una rilettura critica della storia islamica in vista di una prospettiva nuova.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti



Trentaquattresima parte

Lo spirito o spiritualità marista, come scaturisce dal carisma, si incarna in quattro atteggiamenti: l’interiorità, la povertà, la precarietà e la comunione. Ne delineiamo i contenuti.

        1. L’interiorità

La dimensione più profonda in cui vive lo spirito marista è la “vita vera interna”; essa – nella mente di P. Colin – “ Istituti caracter quasi proprius esse debet”. ( Constit., art. VIII, n. 37, p.14) .

Benché la Società di Maria sia un istituto dedicato primariamente all’azione e alla vita apostolica e non ordinato unicamente alla preghiera (“Parole di un fondatore” , op. cit., Doc. 132 , nn. 12-13), tuttavia il P. Fondatore ha pensato che fosse necessario che il Marista attingesse costantemente dall’esempio di Maria lo “spiritus intimae cum Deo unionis” (Constit., art. X, n.49, p. 18). Donde l’importanza per il Marista della complementarietà: “contemplazione-azione”.

Gli Entretiens ci rilevano il metodo che il P. Colin voleva applicato fin dai primi mesi della formazione in vista di stabilire questo fondamento dello spirito marista. Secondo il Fondatore, nei primi due o tre mesi si dovrebbe mirare solo ad unire i novizi a Dio, a portarli allo spirito di preghiera:

“Una volta che ci fosse l’unione con Dio, il resto andrebbe da solo . quando il buon Dio è nel cuore egli agisce in tutto; senza quello, tutto ciò che voi fate è del tutto inutile; avrete ben a piantare, ad affaticarvi, manca il principio vivificante. Ma quando un novizio ha gustato Dio una volta, tornerà a Lui continuamente; è come una risorsa che egli ha nella sua anima ed alla quale è necessariamente ricondotto come al centro; amerà intrattenersi con Lui”. (Parole di un fondatore, op. cit., doc. 63, n.2)

Questo testo è molto significativo sia per conoscere il metodo pedagogico del Fondatore, sia per la grande esperienza spirituale che denota in lui: l’unione a Dio e l’esperienza viva della sua presenza diventano come la chiave della vita spirituale.

I dieci comandamenti di Gesù
di Daniel Marguerat *



Si contrappone generalmente Gesù alla Legge. L’apostolo Paolo, che afferma «Cristo è la fine della Legge», non per nulla rientra in questa immagine. Gesù non è venuto a porre fine al regno di Mosè, e, con lui, al regno della Legge, di cui i Dieci comandamenti sono come la sintesi? Per comprendere la rilettura delle Dieci Parole da parte di Gesù, bisogna cominciare con il demolire questa immagine. Gesù non ha mai rinnegato la Torâ né sconfessato il Decalogo. Come ogni ebreo, egli lo considerava come il depositario della santa volontà di Dio. Il Vangelo di Matteo ne dà testimonianza: Gesù rimproverò anche ai suoi contemporanei di misconoscere la forza di queste parole (Mt 5, 21-48).


Di dove viene allora l'ambiguità? Cominciamo dal punto da cui è iniziata la polemica con i Farisei: la questione del sabato. La conoscenza più fine e sfumata che abbiamo del giudaismo nel I secolo ci permette oggi di dire che Gesù ha raramente violato la prescrizione del sabato. Quando guarisce un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6) o una donna inferma (Lc 13,10-17) o un idropico (14, 1-6), scegliere per questo un giorno di sabato è da parte di Gesù un gesto di deliberata provocazione. Ma salvare una vita faceva parte delle eccezioni alla regola del riposo sabbatico. E quando Gesù esprime questa idea profondamente ebraica che il sabato è fatto per il bene dell'uomo (Mc 2,27; Mekhilta Esodo 31,13), non può che incontrare l’approvazione dei suoi interlocutori. Tra le evidenti trasgressioni del riposo sabbatico, in compenso, figura il gesto dei discepoli che raccolgono qua e là delle spighe nel campo di grano (Mc 2,23-28).

Le scappatoie

I Farisei sapevano bene che la regola del riposo necessitava di eccezioni, che la vita aveva le sue emergenze, e il loro spirito pragmatico li induceva ad adottare delle astuzie. Un esempio: la regola sabbatica non autorizzava, secondo Ger 17,19-27, l'introduzione di pesi attraverso le porte. Ai Farisei non piaceva, perché impediva agli amici di mangiare insieme in giorno di sabato; essi stabilirono il principio dell'eruvin (fusione): un portale chiudeva la porta comune di più case vicine, cosicché ciascuna fosse considerata come parte di uno spazio unico; i pasti comuni diventavano allora leciti! La Torà ci tramanda che i Sadducei disapprovavano formalmente questo metodo, che, secondo loro, legalizzava la trasgressione premeditata e ripetuta del sabato (Eruvin 6, 2).

L'esempio dell'eruvin mostra che, al tempo di Gesù, era aperto un dibattito sul quarto comandamento. Non tutti i gruppi sostenevano lo stesso rigore. Gesù, a sua volta, propone la sua chiave d'interpretazione. Allora, perché ha suscitato scandalo? Si capisce così che la sua pratica più liberale non ha colpito che i più rigidi, o quelli più pii di lui. Ma, soprattutto, a differenza dei Farisei, l'uomo di Nazaret non regolamenta nulla. Egli afferma un dato di fatto: il sabato deve servire alla vita, prima di tutto. Ecco perché sceglie espressamente il sabato per guarire, non per eliminare la regola del riposo, ma per mostrare qual è la finalità di questo tempo che l'uomo deve «considerare come sacro».

La rivendicazione dell'uomo

Gesù ha reinterpretato il sesto comandamento [il quinto nella tradizione cattolica], quello dell'omicidio. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22).

L'approfondimento è impressionante: l'interdizione dettata all'individuo di farsi giustizia da solo (tale è il senso del sesto comandamento) non riguarda più soltanto la vita dell'altro, ma il suo onore. Nessuno ignora ormai che gli insulti, anche banali, portano in sé la morte. La mancanza di rispetto diventa omicidio. Dipende da ciascuno di noi, e dal suo linguaggio, che l'altro sia, o cessi di essere, un uomo.

Anche in questo caso, l'interpretazione proposta da Gesù non è inedita nel suo tempo. Si possono leggere, dalla parte dei rabbini, espressioni che testimoniano quella stessa interiorizzazione del comandamento: «Colui che odia il suo prossimo, ecco, appartiene agli omicidi» (Derek Eretz 10).

Gesù sviluppa dunque una potenzialità che non era estranea al giudaismo. Però bisogna vedere che egli procede con un radicalismo ed una profondità inediti. Gesù in realtà non codifica i casi nei quali si applica o non si applica la proibizione di attentare alla vita degli altri. Dio affida alla responsabilità di ciascuno l'umanità e la vita degli altri, senza limiti né condizioni. Qualunque idea di regolamentazione è del resto portata al ridicolo dalla proposta ironica delle sanzioni (meritare l'inferno per aver dato del pazzo a qualcuno!).

Il teologo ebreo Joseph Klausner, nella sua Vita di Gesù del 1933, rimprovererà all'uomo di Nazaret la sua intransigenza: egli l'oppone alla saggezza realistica del grande Hillel, un rabbi contemporaneo di Gesù. Klausner aveva colto bene ciò che costituisce l'originalità del suo Decalogo: Gesù vede l'uomo interamente esposto alla chiamata di Dio, interamente rivendicato dalla Legge. Tutto in lui è chiamato a rispondere. È questo il motivo per cui Gesù si scosta dal realismo di Hillel e dal realismo dei Farisei, che, attraverso una rete di precetti, procuravano al credente spazi di eccezione. L'amore per l'altro è completo, secondo Gesù, oppure non c'è per niente.

Gesù non si comporta diversamente nella questione del corban. L'evangelista Marco ci riporta questa diatriba del Maestro a proposito di questa pratica pia... e perversa (Mc 7,9-13). Essa consisteva nel fare donazione al Tempio, in altri termini a dichiarare corban, dei beni che avrebbero permesso ai figli di sovvenzionare i bisogni dei loro anziani genitori.

L'argomentazione di Gesù è interessante: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre». È quindi la quinta parola del Decalogo, nella sua pura forza, che il Nazareno invoca come istanza critica e che oppone alla pia tradizione del corban. Noi ritroviamo due assiomi già intravisti nell'interpretazione di Gesù. In primo luogo, la parola del precetto è accolta senza condizioni, senza limiti, senza riparo possibile, nemmeno nascosto sotto forma di pietà. In secondo luogo, il principio che conferisce al comando la sua radicalità e demolisce ogni compromesso è l'amore del prossimo. Il bisogno dell'altro è, agli occhi di Gesù, un'urgenza assoluta. La Legge mira a condurre all'amore dell'altro, oppure non è la Legge.

Una Legge ricostituita

I Dieci comandamenti sono dunque accolti da Gesù come la raccolta della volontà santa di Dio. Egli non li contraddirà mai, ma pone le condizioni di una corretta comprensione. La sua rilettura attesta una particolare attenzione a quella che viene chiamata la seconda tavola del Decalogo (i precetti sociali) come la regola del sabato. Ma giustamente: Dio non può essere onorato nel sabato se il prossimo è lasciato nelle sue ristrettezze. Onorare Dio consiste nel prendere cura dell'altro, e questa cura può (ed anche deve) giungere al punto di rompere il riposo sabbatico. Si vede emergere il legame indissociabile che, nella lettura del decalogo, Gesù tesse tra rispetto di Dio e rispetto del prossimo. L'uno non conta senza l'altro, cosa che sarà formalizzata nel riassunto della Torà come il doppio comandamento d’amore (Mt 22,37-40). Il Decalogo diventa così la leva che permette a Gesù di sollevare tutta la Legge: ciò che non è finalizzato al bene dell'altro può cadere. Non serve che ad aumentare l'immagine che il credente si fa di se stesso. Ecco perché Gesù, senza abolirla, manifesta una regale (e sbalorditiva) indifferenza verso la Legge rituale, che codificava la salvaguardia della purezza del singolo. La vera purezza personale, avrebbe potuto dire, è l'onore reso all'altro: la formula potrebbe in ogni caso servire di conclusione al capitolo 7 del vangelo di Marco, in cui egli dibatte con i Farisei sul concetto di ciò che è puro.

Lettere di fuoco

Il solo passo dei vangeli in cui sono citate parecchie parole del Decalogo, anche se non in ordine, è l'incontro con il giovane ricco (Mc 10,17-22). All'uomo che domanda che cosa bisogna fare per guadagnare la vita eterna, Gesù cita le ultime cinque parole. Come costui afferma che le ha osservate fu dalla giovinezza, Gesù lo ama e gli dice di vendere tutti i suoi beni e darli ai poveri: «e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Si vede indicare qui quello che è sempre stato il fulcro delle Dieci parole: un testo che organizza la libertà e che invita a vivere nell'alleanza. Gesù indica a quest'uomo lo spazio della libertà da conquistare: i suoi beni. Gli è indicato anche il luogo per vivere l'alleanza: seguire il nuovo Mosè che ha voluto restituire alle Dieci parole il loro fuoco.

* Professore di Nuovo Testamento, Facoltà di Teologia, Università di Losanna.

(da Il mondo della Bibbia, n. 51)

I cristiani dopo l'incendio del tempio
di Jean-Pierre Lémonon

L’incendio del Tempio conduce il giudaismo ad una nuova avventura. Deve ormai vivere senza Tempio. La comunità cristiana si trova allora di fronte a un ebraismo che ridefinisce la sua essenza e le sue caratteristiche. Per comprendere le ripercussioni degli avvenimenti del 70 e del 135 su questa comunità, è necessario ripercorrere la storia di una corrente cristiana che, a causa del suo profondo attaccamento alle pratiche ebraiche, scomparve a poco a poco. Questa sensibilità conobbe forme diverse poiché i Padri della Chiesa ricordano a questo proposito due gruppi: i nazirei e gli ebioniti.

Per essere in grado di precisare l' eco avvenimenti del 70 e del 135 comunità cristiana, che si tratti di nazirei-ebioniti o di altre denominazioni cristiane, dobbiamo ricordare in primo luogo le testimonianze di alcuni Padri a proposito di queste due comunità di fede. Poi, al fine di identificare le radici di questi gruppi, dovremo risalire ai primordi del cristianesimo.

Ricostituire la storia del pensiero dei nazirei e degli ebioniti è difficile, poiché non disponiamo di documentazione diretta su questa componente del cristianesimo primitivo. La nostra conoscenza proviene dai Padri della Chiesa che, combattendola vigorosamente, hanno conservato qualche frammento della loro produzione letteraria, come ad esempio il Vangelo secondo gli Ebrei. I Padri sono loro ostili, poiché questi credenti rappresentavano una forma di cristianesimo diversa da quella a cui essi aderivano.

Agli inizi del V secolo, Girolamo è uno degli ultimi testimoni dell' esistenza dei nazirei. Pur riconoscendo la rettitudine della loro confessione di fede, l' eremita di Betlemme rimprovera loro di voler «essere sia ebrei, sia cristiani, [quindi] non sono ne uno, ne l'altro». L'attaccamento alle pratiche ebraiche provoca la virulenta ostilità di alcuni Padri nei confronti degli ebioniti e dei nazirei. Verso il 375, l'infaticabile cacciatore di eresie Epifanio di Salamina scrive su di loro: «La loro origine [degli ebioniti] risale ai tempi che seguirono la presa di Gerusalemme. In effetti, come tutti quelli che avevano creduto in Cristo si erano insediati in quel tempo in Perea, per la maggior parte in una città chiamata Pella, [...] una volta che furono emigrati là e che vi soggiornarono, Ebione colse l'occasione [per insegnare la sua dottrina]. Cominciò con l'abitare Kokabe [...] nella Basanitide [...l. Fu là che cominciò il suo vizioso insegnamento; di lì, a quanto sembra, vennero pure i nazirei, di cui ho parlato sopra». Eusebio di Cesarea, nella Storia ecclesiastica, uno straordinario scrigno della memoria cristiana, conobbe diversi tipi di ebioniti; ma quali fossero le loro convinzioni religiose, le loro pratiche erano da biasimare, perchè sia gli uni che gli altri mettono «tutto il loro zelo a compiere con cura le prescrizioni carnali della Legge» (HE III, 27,3). Eusebio ironizza sul loro nome: «Essi hanno ricevuto il nome di ebioniti, il che mette in rilievo la povertà della loro intelligenza: perchè quello è il termine con cui gli Ebrei indicano i poveri» (HE III, 27,6). La storia della Chiesa antica ricorda il loro attaccamento al Vangelo secondo gli Ebrei e il loro rifiuto delle lettere di Paolo, il nemico per eccellenza di questi gruppi.

Secondo Epifanio ed Eusebio nessuno di questi gruppi si merita il nome di cristiano, perchè, nel migliore dei casi, pur riconoscendo la nascita del Cristo da una vergine, non ammettevano la sua preesistenza. Il loro giudizio era dunque diverso da quello di Girolamo. Di fatto la fedeltà di questi gruppi alle pratiche del giudaismo suscita il corruccio dei Padri. Quindi, se continuiamo a risalire verso i primi secoli cristiani, percepiamo che il rimprovero indirizzato a questi uomini e donne concerne le loro prati - che giudaiche; in compenso, la loro confessione di fede è conforme alla fede comune secondo Origene

(185 - dopo il 251) o Giustino (100 - 165). Effettivamente i Padri si scagliano contro gruppi che praticano i costumi ebraici, pur essendo, al meno in origine, profondamente attaccati a Gesù di Nazaret il Cristo di Dio, colui che nacque da una vergine, che giudicherà il mondo e che ha ricevuto la regalità eterna (secondo i termini di Giustino).

La comunità dei discepoli di Gesù

Come abbiamo letto prima, Epifanio collega la nascita degli ebioniti e dei nazirei alla caduta di Gerusalemme e alI'insediamento di gruppi di discepoli di Gesù a Pella, città della Decapoli. Egli si appoggia ad un' informazione di Eusebio; in effetti, secondo la storia della Chiesa, dagli inizi della guerra giudaica, grazie ad un ordine ricevuto attraverso «una profezia trasmessa per rivelazione ai notabili della zona», la comunità dei discepoli di Gerusalemme o, almeno una parte di questa, sarebbe fuggita da Gerusalemme verso questa città: «I fedeli di Cristo si spostarono a Pella, dopo essere usciti da Gerusalemme in modo che gli uomini santi abbandonassero completamente la metropoli reale degli Ebrei e tutta la regione della Giudea» (HE III, 5,3). L'abbandono fu meno radicale di quello preteso da Eusebio, almeno un ritorno a Gerusalemme avvenne negli anni che seguirono.

Alcune indicazioni del Nuovo Testamento confermano i legami intessuti tra i gruppi denunciati dai Padri e la comunità di Gerusalemme, o almeno la sua frazione più importante. Malgrado lo sforzo unitario che ha condotto a qualche semplificazione, il libro degli Atti non elimina completamente le tensioni che si manifestano dall'origine all'interno della comunità di Gerusalemme, dove si affrontano Ebrei ed Ellenisti (At 6,1). A Gerusalemme le autorità giudaiche perseguitano gli Ellenisti: questo porta alla loro dispersione e alla proclamazione del Vangelo alle nazioni (At 8, 5.26 – 40 ; 11,20). In compenso, a causa del loro attaccamento ai costumi giudaici, gli Ebrei poterono dimorare a Gerusalemme almeno fino alla guerra giudaica. Essi costituirono la matrice della Chiesa di Gerusalemme. Tra loro si trovavano gli avversari più accaniti delle concezioni paoline (At 15,1-2.5). Quindi, Paolo non esita a trattare da «falsi fratelli» (GaI 2,3) quelli che avrebbero voluto circoncidere i pagani e così chiudere la «porta della fede» alle nazioni.

Due racconti riecheggiano l' assemblea che, nel 51, seguì il ritorno di Paolo a Gerusalemme, in seguito alla sua missione in Macedonia e in Acaia. L'Apostolo ebbe la fortuna di vedervi riconosciuta la grazia che gli era stata fatta di annunciare il Vangelo presso le nazioni (GaI 2, 3 - 4). La versione degli Atti degli Apostoli (At 15, 5 - 21) differisce su numerosi punti da quella della lettera ai Galati, comunque i due racconti sono in pieno accordo sul risultato decisivo per l'avvenire della comunità cristiana: non vi era l' obbligo di imporre la circoncisione ai discepoli che venivano dalle nazioni.

Malgrado la vittoria di Paolo, i discepoli attaccati alle usanze ebraiche non disparvero per questo. Alcuni che, a torto, si misero sotto il patronato di Giacomo, il fratello del Signore, non si consideravano ancora battuti; saranno ancora fonte di numerose preoccupazioni per Paolo, come indica specialmente l' incidente di Antiochia (GaI 2, 11 - 14) e la situazione in Galazia. I Galati avevano accolto con gioia il Vangelo, ma alcune persone, che si richiamavano ovviamente a Giacomo, cercarono in seguito di imporre la circoncisione ai discepoli. Gli avversari di Paolo attribuivano un valore salvifico alle pratiche ebraiche. Questi discepoli di Gerusalemme condussero missioni nella Diaspora, in particolare in Mesopotamia e in Egitto. Pur confessando Gesù come Messia di Israele e Signore, essi predicavano la circoncisione e il complesso delle pratiche ebraiche. Per questa corrente l'incendio del Tempio ebbe conseguenze notevoli, perchè la distruzione contribuì a ridurre la sua influenza in seno al cristianesimo primitivo. Ormai questi discepoli di Gesù si trovavano in una situazione difficile. In effetti, non soltanto erano destabilizzati dalla fine di un ebraismo eterogeneo, ma si trovavano anche presi in mezzo tra un giudaismo che si stava unificando ed un cristianesimo che, pur abbeverandosi alle Scritture di Israele, fioriva rifiutando le pratiche tradizionali ebraiche.

È quindi sorprendente constatare che il canone neotestamentario taccia sull' evangelizzazione delle regioni della Diaspora, le cui località sono al massimo ricordate nella tavola delle nazioni, citata nel racconto della Pentecoste (At 2, 9 - 10).

Scegliere tra la sinagoga e la comunità cristiana

Nel 62, dopo il martirio di Giacomo, fratello del Signore, il nuovo responsabile della comunità è Simeone, figlio di Clopas, un parente del Signore (HE III, 11). La caduta di Gerusalemme non segna la fine di ogni insediamento dei discepoli di Gesù nella città. In effetti, secondo Eusebio, fino al 130, si scelse come vescovo di Gerusalemme un Ebreo di antico ceppo; la scelta non è per nulla sorprendente poiché «l' intera Chiesa di Gerusalemme era allora composta da Ebrei fedeli: fu così dagli apostoli fino all'assedio che subirono quelli che vivevano in quel tempo, durante il quale i Giudei si separarono di nuovo dai Romani e furono distrutti in guerre terribili» (HE IV, 5,2).

Verso la fine del I secolo, i «maestri della Sinagoga» proposero di applicare ai discepoli di Gesù la dodicesima benedizione che, dagli anni 150 a.C. era, con qualche variante, utilizzata per impedire agli eretici e a tutti quelli che si allontanavano dalla tradizione di Israele di partecipare alle riunioni comunitarie. Così le autorità della sinagoga rendevano impossibile la partecipazione dei discepoli di Gesù alle attività della comunità giudaica. Da parte sua, la tradizione giovannea è una buona testimonianza della polemica diretta contro i discepoli attaccati ai costumi ebraici.

Questi ultimi sono simboleggiati dai fratelli di Gesù che non credono in lui (Gv 7,5) e dagli Ebrei che avevano creduto, ma che comunque non ispiravano fiducia a Gesù (Gv 2,23-25; 8,31-59). In più il racconto giovanneo della guarigione del cieco nato intima a questi discepoli di scegliere il loro campo: essi sono rappresentati dai parenti del cieco che conoscono la verità, ma temono di essere esclusi dalla sinagoga (Gv 9,22).

In seguito alla rivolta di Bar Kokhba nel 135, l'imperatore vieta agli Ebrei «di avvicinarsi anche ai dintorni di Gerusalemme [...]. Così la città [di Gerusalemme] fu ridotta ad essere completamente abbandonata dal popolo giudaico e a perdere quelli che l' avevano un tempo abitata» (HE IV, 6,4). La decisione dell'imperatore ebbe conseguenze nefaste per i discepoli di Gerusalemme e i loro seguaci rimasti attaccati alla città e alle pratiche del giudaismo. Privati del legame con la terra di Israele, questi discepoli videro accentuarsi la loro marginalizzazione. Si indebolirono talmente che furono considerati come stranieri da quelli che, ormai, venivano chiamati «cristiani». Restare attaccati alla sinagoga e confessare Gesù come «Cristo e Signore, il Figlio», non era ormai più possibile, ne dal punto di vista dei cristiani, ne da quello degli Ebrei. Come gli Ebrei, non avevano più uno statuto

E quelli chiamati «cristiani»?

Per i cristiani che avevano accettato la rottura con le pratiche ebraiche la presa di Gerusalemme non fu di capitale importanza. Si rimane spesso sorpresi che la caduta di Gerusalemme non abbia avuto risonanza nei Vangeli. Nondimeno le tracce della presa della città si possono leggere in qualche racconto di Matteo e di Luca (M t 22,7; Lc 19,43; 21,21-24). La distruzione del Tempio è così acquisita quando Matteo redige la comparsa di Gesù davanti alle autorità deI suo popolo (M t 26,61; 27,40), così come quando Luca riporta, nel libro degli Atti, le accuse portate contro Stefano dai suoi avversari (At 6,14).

Lo scarso numero di menzioni non deve sorprendere; il Tempio non era più da molto tempo al centro deI pensiero cristiano. Ormai per le comunità di tradizione giovannea, il vero santuario è lo stesso Signore Gesù Cristo (Gv 2,21). Le comunità paoline, poi, si considerano come il santuario (I Cor 3,16-17; 2 Cor 6,16).

I primi secoli cristiani, da parte loro, interpretarono la caduta di Gerusalemme come conforme alle predizioni di Cristo e vi riconobbero la sanzione deI comportamento dei suoi abitanti: «Tale fu il castigo degli Ebrei a causa della loro iniquità e della loro empietà nei confronti deI Cristo di Dio» (HE III,7,1).

Questa interpretazione, come ognuno sa, contribuì, ahimé, ad una disistima deI giudaismo da parte dei cristiani.

(da Il mondo della bibbia)

Sabato, 01 Aprile 2006 22:03

Apocalisse (Claudio Doglio)

Apocalisse
di Claudio Doglio

La parola «Apocalisse» è la trascrizione italiana del sostantivo greco apokálypsis, che compare all'inizio dell'ultimo libro neotestamentario e ne è divenuto il titolo tradizionale. Questo sostantivo deriva dal verbo greco che significa «azione del togliere ciò che copre o nasconde», cioè «scoprire, svelare». La traduzione corrente con «rivelazione» esprime bene l'azione di chi rimuove il velo per mostrare ciò che era nascosto.

Nella lingua greca classica il sostantivo non compare; si usa il verbo corrispondente, ma sempre con valore esclusivamente umano. Nella versione dei LXX, dato l'uso linguistico greco, il vocabolo apokálypsis è rarissimo (4x).

Nel NT la parola «apocalisse», tradotta abitualmente con «rivelazione», ritorna 17 volte in contesti differenti e con sfumature di significato, che possiamo raccogliere in tre ambiti. Un primo gruppo di citazioni riflette un ambiente liturgico ed eucologico: apocalisse indica la manifestazione di una verità, la comunicazione di un messaggio illuminante che permette di conoscere il progetto eterno di Dio (Lc 2,32; Rom 16,25; 1Cor 14,6.26; Ef 1, 17). Nelle lettere di Paolo, però, lo stesso termine ritorna con una accezione diversa e viene ad indicare una esperienza straordinaria e mistica (Gal 1,12; 2,2; Ef 3,3; 2Cor 12,1.7). Infine, un terzo significato è quello che si è imposto nel tempo, assumendo il valore di manifestazione escatologica, sinonimo di parusia o di compimento finale del piano divino (Rom 2,5; 8,19; 1Cor 1,7; 2Ts 1,7; 1Pt 1,7.13; 4,13).

Nell'uso moderno «Apocalisse» è divenuto un termine tecnico, insieme all'aggettivo derivato «apocalittico», per indicare un particolare genere letterario, una mentalità religiosa e un vasto insieme di testi canonici e apocrifi. Ma nel linguaggio corrente, giornalistico o cinematografico, la parola apocalisse, con significato distorto ed erroneo, ha finito per indicare cataclisma, enorme disastro e fine del mondo.

(da Parole di vita, 1, 2000)

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